REATO DI MALTRATTAMENTI LUOGO DI LAVORO - VIOLENZA PRIVATA

VIOLENZE OFFESE MINACCE ALLA FIDANZATA REATO DI TORTURA APPLICATO AL COMPAGNO

IL GRAVE FATTO

 

Letta la requisitoria del Procuratore Generale/che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso. Svolgimento del processo 1. E’ impugnata la sentenza indicata in epigrafe, con la quale la Corte di appello di Napoli ha confermato quella emessa dal giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere con la quale il ricorrente è stato dichiarato colpevole dei reati a lui ascritti e, unificati gli stessi dal vincolo della continuazione, è stato condannato, con la riduzione per il rito, alla pena di anni sei e mesi otto di reclusione, oltre al risarcimento dei danni ed al pagamento di una provvisionale e spese di giudizio in favore della parte civile, alle pene accessorie e conseguente condanna al pagamento delle spese processuali e di custodia cautelare sofferta. Al ricorrente sono stati contestati: (A) il reato di cui all’art. 572 c.p., perchè maltrattava la fidanzata O.M. con una serie di atti lesivi della sua integrità fisica e morale, sottoponendola ad un regime di vita vessatorio e violento, così da rendere abitualmente dolorosa e mortificante la relazione. In particolare: – nel dicembre 2017, dopo aver scoperto sul cellulare della donna un messaggio ricevuto dal precedente compagno, si impossessava del telefono, rispondendo ai messaggi e, dopo aver saputo i dettagli della relazione, la offendeva dicendole “sei una escort e i tuoi figli devono saperlo perchè mangiano con il tuo lavoro” e la minacciava di inviare i predetti messaggi alla moglie dell’ex compagno e ai figli della vittima, trattenendo il cellulare per una settimana ed usandolo come arma di ricatto, così sottoponendola ad uno stato di stress, di paura e di vergogna; – costantemente la controllava, anche a distanza, mediante l’applicazione whatsapp, chiedendo spiegazioni su tutti e tutto, controllandole il telefonino, il profilo Facebook, così tenendola sempre in uno stato di ansia e di paura; – nel febbraio 2018, in un’occasione, a fronte di un messaggio ricevuto dalla vittima da un numero sconosciuto, le diceva in maniera oppressiva “te lo devi ricordare” e, nonostante la donna lo invitasse a richiamare per eliminare qualunque suo dubbio, si rifiutava e per rabbia con un taglierino si tagliava sul braccio, incidendosi le iniziali della donna e le diceva “per colpa tua vedi”, compiacendosi del gesto compiuto; – nonostante la donna cercasse di tenerlo calmo per prevenire scenate, mandandogli spesso messaggi, facendo tutto quello che lui desiderasse e mettendolo al centro delle sue attenzioni, aveva sempre da ridire, dubitando di qualunque cosa al punto da controllarle continuamente il cellulare, diventando sempre più opprimente e ossessivo; – in più occasioni la offendeva con espressioni del tipo “mò te ne vai a casa, chissà con chi ti incontri, ti vai a preparare e lo sono lo stronzo che sta qua”; – dall’aprile 2018 la costringeva, urlando e dicendole con prepotenza “me li devi prestare perchè mi servono, so che li tieni e me li devi dare”, a farsi consegnare diverse somme di denaro per un totale di 500 Euro; – nel maggio 2018, mentre la donna era alla guida della propria autovettura, la percuoteva colpendola con schiaffi e pugni alla testa e al volto perchè, a suo dire, gli aveva negato di aver guardato un uomo e, quando la vittima fermava l’auto per scendere, glielo impediva, trattenendola per un braccio, mettendosi sopra di lei, facendola sbattere con il viso contro lo sportello che cercava di chiudere, dicendole “sei una puttana di merda ti meriti tutto questo, se ti fa piacere ti porto lo a farla per me sul vialone di Caserta” per poi giungere nella stanza dell'”(OMISSIS)” di Castel Volturno e, nonostante la donna fosse dolorante e scoraggiata al punto da invocare la morte, con violenza la costringeva a compiere gli atti sessuali di cui al capo B), nonostante il suo espresso dissenso; – dopo l’episodio sopra descritto, vedendo le foto ritraenti i lividi sul volto della persona offesa, le diceva “sei molto brava a camuffarti, usa il trucco”, facendosi mandare di continuo foto e messaggi per controllare se la donna fosse in compagnia di qualcuno per poi dirle “stai attenta a quello che dici, non parlare con nessuno male di me, questo è solo l’inizio, vedrai cosa sono capace di fare”; – ripetutamente e per futili motivi la percuoteva colpendola al volto, cagionandole in più occasioni ferite al labbro e l’offendeva con frasi del tipo “sei una puttana di merda, sei una troia, non mi pensi proprio, con chi stai chattando, con chi sei”; – ripetutamente la costringeva a consumare rapporti sessuali a cui la vittima acconsentiva per paura di essere picchiata e per il timore di una sua reazione violenta in caso di rifiuto; – reiteratamente la percuoteva, colpendola con pugni, calci e schiaffi sia a mani libere che utilizzando un cucchiaio, puntandole un coltello alla gola e mettendole le mani alla gola al punto da farla svenire, impedendole di piangere e di chiedere aiuto; – più volte la minacciava di fare del male alla sua famiglia; – in più occasioni la costringeva a fare uso di sostanze stupefacenti; – le impediva di frequentare amici e di tenere contatti con la famiglia di origine; – per farla tacere, la minacciava di divulgare video ritraenti rapporti sessuali, registrati a sua insaputa; – sistematicamente la faceva oggetto di violenze fisiche e psicologiche al punto da farla dimagrire circa 10 Kg; – costantemente la teneva in uno stato di soggezione psicologica a causa dei suoi comportamenti minacciosi e violenti; – sistematicamente la faceva oggetto di atti di umiliazione e disprezzo idonei a cagionare durevoli sofferenze fisiche e morali

 

 

DECIDE LA CORTE

Non coincidenti, da un confronto in astratto, gli elementi strutturali del reato di tortura e di quello di maltrattamenti, diversi essendo anche i beni giuridici tutelati dalle rispettive incriminazioni, va sottolineato come, nel caso di specie, non vi sia neppure piena sovrapponibilità, in fatto, tra le condotte poste a fondamento del delitto di maltrattamenti e quelle integranti il reato di tortura, atteso che la diversa determinazione temporale del periodo consumativo dei rispettivi reati (dal dicembre 2017 a luglio 2018 il reato di maltrattamenti: da luglio a settembre 2018, il reato di tortura), la reiterazione di atti di violenza e minaccia non gravi, le continue e pesanti offese verbali, le imposizioni, le futili pretese, le costanti umiliazioni, le sofferenze e le privazioni inflitte alla donna, estranee al raggio dell’incriminazione del reato di tortura, hanno assunto i connotati tipici del delitto di maltrattamenti, in quanto fonte di uno stato di disagio continuo e incompatibile con le normali condizioni di vita della persona offesa, nei confronti della quale è stata lesa in maniera sistematica l’integrità fisica ed il patrimonio morale mediante il compimento di condotte che hanno posto la vittima in uno stato di incessante disagio e avvilimento, costringendola a sostenere drammatiche condizioni di vita per un rilevante arco temporale (la relazione era stata avviata nel luglio 2017 e le violenze erano iniziate nel dicembre 2017, con il tempo erano andate aumentando sino ai drammatici episodi del luglio – settembre 2018, data di consumazione del reato di tortura).

 

 

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Sentenza 31 agosto 2021, n. 32380 Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. MARINI Luigi – Presidente – Dott. DI NICOLA Vito – rel. Consigliere – Dott. SOCCI Angelo Matteo – Consigliere – Dott. CERRONI Claudio – Consigliere – Dott. NOVIELLO Giuseppe – Consigliere – ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: R.C.C., nato in (OMISSIS); avverso la sentenza del 04-06-2020 della Corte di appello di Napoli; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso trattato ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8; udita la relazione del Consigliere Di Nicola Vito; Letta la requisitoria del Procuratore Generale/che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso. Svolgimento del processo 1. E’ impugnata la sentenza indicata in epigrafe, con la quale la Corte di appello di Napoli ha confermato quella emessa dal giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere con la quale il ricorrente è stato dichiarato colpevole dei reati a lui ascritti e, unificati gli stessi dal vincolo della continuazione, è stato condannato, con la riduzione per il rito, alla pena di anni sei e mesi otto di reclusione, oltre al risarcimento dei danni ed al pagamento di una provvisionale e spese di giudizio in favore della parte civile, alle pene accessorie e conseguente condanna al pagamento delle spese processuali e di custodia cautelare sofferta. Al ricorrente sono stati contestati: (A) il reato di cui all’art. 572 c.p., perchè maltrattava la fidanzata O.M. con una serie di atti lesivi della sua integrità fisica e morale, sottoponendola ad un regime di vita vessatorio e violento, così da rendere abitualmente dolorosa e mortificante la relazione. In particolare: – nel dicembre 2017, dopo aver scoperto sul cellulare della donna un messaggio ricevuto dal precedente compagno, si impossessava del telefono, rispondendo ai messaggi e, dopo aver saputo i dettagli della relazione, la offendeva dicendole “sei una escort e i tuoi figli devono saperlo perchè mangiano con il tuo lavoro” e la minacciava di inviare i predetti messaggi alla moglie dell’ex compagno e ai figli della vittima, trattenendo il cellulare per una settimana ed usandolo come arma di ricatto, così sottoponendola ad uno stato di stress, di paura e di vergogna; – costantemente la controllava, anche a distanza, mediante l’applicazione whatsapp, chiedendo spiegazioni su tutti e tutto, controllandole il telefonino, il profilo Facebook, così tenendola sempre in uno stato di ansia e di paura; – nel febbraio 2018, in un’occasione, a fronte di un messaggio ricevuto dalla vittima da un numero sconosciuto, le diceva in maniera oppressiva “te lo devi ricordare” e, nonostante la donna lo invitasse a richiamare per eliminare qualunque suo dubbio, si rifiutava e per rabbia con un taglierino si tagliava sul braccio, incidendosi le iniziali della donna e le diceva “per colpa tua vedi”, compiacendosi del gesto compiuto; – nonostante la donna cercasse di tenerlo calmo per prevenire scenate, mandandogli spesso messaggi, facendo tutto quello che lui desiderasse e mettendolo al centro delle sue attenzioni, aveva sempre da ridire, dubitando di qualunque cosa al punto da controllarle continuamente il cellulare, diventando sempre più opprimente e ossessivo; – in più occasioni la offendeva con espressioni del tipo “mò te ne vai a casa, chissà con chi ti incontri, ti vai a preparare e lo sono lo stronzo che sta qua”; – dall’aprile 2018 la costringeva, urlando e dicendole con prepotenza “me li devi prestare perchè mi servono, so che li tieni e me li devi dare”, a farsi consegnare diverse somme di denaro per un totale di 500 Euro; – nel maggio 2018, mentre la donna era alla guida della propria autovettura, la percuoteva colpendola con schiaffi e pugni alla testa e al volto perchè, a suo dire, gli aveva negato di aver guardato un uomo e, quando la vittima fermava l’auto per scendere, glielo impediva, trattenendola per un braccio, mettendosi sopra di lei, facendola sbattere con il viso contro lo sportello che cercava di chiudere, dicendole “sei una puttana di merda ti meriti tutto questo, se ti fa piacere ti porto lo a farla per me sul vialone di Caserta” per poi giungere nella stanza dell'”(OMISSIS)” di Castel Volturno e, nonostante la donna fosse dolorante e scoraggiata al punto da invocare la morte, con violenza la costringeva a compiere gli atti sessuali di cui al capo B), nonostante il suo espresso dissenso; – dopo l’episodio sopra descritto, vedendo le foto ritraenti i lividi sul volto della persona offesa, le diceva “sei molto brava a camuffarti, usa il trucco”, facendosi mandare di continuo foto e messaggi per controllare se la donna fosse in compagnia di qualcuno per poi dirle “stai attenta a quello che dici, non parlare con nessuno male di me, questo è solo l’inizio, vedrai cosa sono capace di fare”; – ripetutamente e per futili motivi la percuoteva colpendola al volto, cagionandole in più occasioni ferite al labbro e l’offendeva con frasi del tipo “sei una puttana di merda, sei una troia, non mi pensi proprio, con chi stai chattando, con chi sei”; – ripetutamente la costringeva a consumare rapporti sessuali a cui la vittima acconsentiva per paura di essere picchiata e per il timore di una sua reazione violenta in caso di rifiuto; – reiteratamente la percuoteva, colpendola con pugni, calci e schiaffi sia a mani libere che utilizzando un cucchiaio, puntandole un coltello alla gola e mettendole le mani alla gola al punto da farla svenire, impedendole di piangere e di chiedere aiuto; – più volte la minacciava di fare del male alla sua famiglia; – in più occasioni la costringeva a fare uso di sostanze stupefacenti; – le impediva di frequentare amici e di tenere contatti con la famiglia di origine; – per farla tacere, la minacciava di divulgare video ritraenti rapporti sessuali, registrati a sua insaputa; – sistematicamente la faceva oggetto di violenze fisiche e psicologiche al punto da farla dimagrire circa 10 Kg; – costantemente la teneva in uno stato di soggezione psicologica a causa dei suoi comportamenti minacciosi e violenti; – sistematicamente la faceva oggetto di atti di umiliazione e disprezzo idonei a cagionare durevoli sofferenze fisiche e morali. Con la circostanza aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 1 per aver agito per motivi futili. Con la circostanza aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 4, per aver agito con crudeltà verso la persona offesa. In (OMISSIS); (B) il reato di cui agli artt. 81 cpv. e 609-bis c.p.p., art. 609-ter c.p.p., n. 5-quater, perchè, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, anche in tempi diversi, con violenza consistita nel colpire la persona offesa con schiaffi e pugni al volto e alla testa, nello sbatterla con la testa contro il muro al punto da provocarle una fuoriuscita di sangue, nello stringerle le mani alla gola, dicendole “sei una puttana di merda ti piace fare questo e adesso lo fai per me, chiamo qualcuno se non ti basto”, la costringeva a compiere atti sessuali, consistiti in un rapporto orale, nonostante il suo espresso dissenso (episodio del maggio 2018) e, in più occasioni, nonostante il dissenso espresso della donna, la costringeva a subire e a compiere atti sessuali a cui la vittima non riusciva ad opporsi a causa delle continue e reiterate violenze fisiche subite, della sua possenza fisica, della paura di essere picchiata, del timore che facesse del male anche ai figli, perchè era ormai sfinita e senza forze ed avendo perso ogni speranza di porre termine alle torture di cui era vittima. Con la circostanza aggravante dell’aver commesso il fatto nei confronti di persona alla quale il colpevole è o è stato legato da relazione affettiva. In (OMISSIS); (C) il reato di cui all’art. 613-bis c.p., commi 1 e 4, perchè, con violenze e minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagionava alla persona offesa, privata della libertà personale, in quanto la chiudeva a chiave in casa, portando con sè le chiavi, acute sofferenze fisiche, un verificabile trauma psichico ed una lesione personale dalla quale derivava una malattia nel corpo (ecchimosi diffuse, arto superiore, fronte, gamba sx; escoriazioni diffuse, ustione di primo grado fianco sx, frattura VII e IX costa di destra, giudicata guaribile in 21 giorni), mediante più condotte di seguito indicate. Ed in particolare: – nel luglio 2018 si recava a casa della donna, la colpiva con schiaffi, pugni e calci in tutte le parti del corpo, la prendeva per i capelli, la sbatteva contro i mobili ed il muro, le stringeva le mani al collo, soffocandola fino allo sfinimento, impedendole di urlare e le diceva “sei una puttana, meriti tutto questo guarda cosa mi hai fatto diventare non ti permettere di urlare che ti ammazzo, questa è la volta buona”, costringendola a non parlare con alcuna persona e minacciandola che diversamente l’avrebbe picchiata; – tra il luglio e l’agosto 2018 la colpiva con schiaffi al volto, spaccandole il labbro e la colpiva con un pugno allo zigomo; le controllava il telefono anche di notte; cancellava i messaggi in cui la minacciava ed in cui la donna cercava di convincerlo a lasciarla, dicendole che l’avrebbe lasciata quando l’avrebbe deciso lui; la costringeva ad avere rapporti sessuali a cui la donna acconsentiva per evitare ulteriori violenze, perchè se provava a negarsi diventava una bestia e per il timore che facesse del male ai suoi figli; aveva sempre il controllo della persona offesa, creandole ansia e paura; la minacciava di fare del male anche ai suoi figli con frasi del tipo “fai venire a S., lo so dove abiti e non ho niente da perdere”; le chiedeva ripetutamente somme di denaro, costringendola a consegnargli la postepay con il pin da cui prelevava la somma di 350 Euro; – la notte tra il (OMISSIS), a fronte del rifiuto opposto dalla donna ad avere un rapporto sessuale, andava in escandescenza, accusandola di tradirlo, frugava nella sua borsa e, dopo aver trovato la somma di 15 Euro ed un pacchetto di sigarette, la picchiava, colpendola con calci, pugni e schiaffi al volto, dicendole “zoccola, puttana, se ti piace fare la puttana adesso la fai per me, ti porto a Caserta sul vialone”, “ti sei venduta per 20 Euro a (OMISSIS)” e, nonostante la vittima gli dicesse di aver ottenuto il denaro dalla sorella, continuava a percuoterla e, tenendola ferma per un braccio, riscaldava sul fornello una forchetta e ferocemente gliela imprimeva sul fianco sinistro, dicendo con aria soddisfatta “ti ho fatto proprio un bel marchio”, così cagionandole un’ustione di primo grado, poi, guardandola con sguardo minaccioso e a denti stretti, le diceva di non urlare, la metteva a corpo nudo per più di un’ora sotto la doccia fredda, impedendole di uscire, la percuoteva con le mani e con un cucchiaio di acciaio, le sferrava calci su tutto il corpo e pugni alla testa; alle quattro di mattina, la costringeva a vestirsi e a prendere l’auto per recarsi a casa della donna e, durante il tragitto, la offriva ad ogni uomo di colore incontrato; giunti a casa, la costringeva a prendere i vestiti più sexy e le scarpe alte per indossarli il giorno dopo sul vialone di Caserta, minacciandola di non tornare a casa prima di una settimana per poi ritornare a casa sua dove la costringeva a subire un altro rapporto sessuale, a cucinare, a pulire casa, impedendole di andare a lavoro ed impedendole di allontanarsi dall’abitazione per tutta la giornata del (OMISSIS), avendo chiuso il cancello a chiave, continuando a costringerla ad avere rapporti sessuali noncurante dei lamenti della donna che, avendo ormai perso ogni speranza di porre termine alle torture di cui era vittima si limitava a dire “fai piano che sento dolore dappertutto” per poi liberarla il (OMISSIS) continuando a telefonarle finchè il figlio non bloccava il contatto. In (OMISSIS). 2. Il ricorrente, tramite il difensore di fiducia, impugna la citata sentenza con tre motivi, di seguito riassunti ai sensi dell’art. 173 disp. att. c.p.p.. 2.1. Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione di legge e difetto di motivazione in relazione all’art. 192 c.p.p. per travisamento del fatto (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e)). Assume che sarebbe difettosa la ricostruzione delle motivazioni contenute nella sentenza impugnata sulla attendibilità-credibilità della persona offesa, essendosi la Corte territoriale limitata, per altro, ad ancorarsi pedissequamente a quanto statuito con la sentenza di primo grado, finendo per determinare la violazione di legge ed il difetto di motivazione denunciato. Il ricorrente osserva che la Corte di appello avrebbe confermato la ricostruzione fornita dalla persona offesa, nonostante non vi fossero altri elementi probatori attestanti la veridicità di tali dichiarazioni, nè effettuando un controllo analitico delle dichiarazioni suindicate. Il ricorrente si mostra consapevole che le regole dettate dall’art. 192 c.p.p., comma 3, non si applicano alle dichiarazioni dell’offeso, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di responsabilità, ma obietta che deve pure esserci una previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto. Ricorda che tale verifica deve essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. Inoltre, qualora la persona offesa si sia costituita parte civile, può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi. Nel caso in esame, risulta, ad avviso del ricorrente, del tutto manchevole una valutazione analitica e rigorosa del narrato della persona offesa, laddove si pensi che la vittima ben avrebbe potuto mentire perchè risentita del rapporto sentimentale non andato a buon fine, tanto da comportare, appunto, la nascita del presente procedimento penale. A riprova di ciò, sottolinea come sia del tutto inverosimile che la persona offesa non si fosse mai recata in caserma per sporgere formale denuncia- querela, laddove si pensi che solo il (OMISSIS), ovvero dopo circa cinque mesi, venne allertato il Commissariato di Polizia dal personale del pronto soccorso. In altri termini, la Corte di appello avrebbe errato laddove in sentenza, e segnatamente a folio 10 delle motivazioni, asserisce che “la circostanza che la vittima abbia continuato ad avere rapporti con l’imputato, mediante l’invio di messaggi telefonici, anche in epoca successiva alla denuncia, è inoltre sintomatica della condizione di totale sottomissione e di paura nella quale ella viveva”, ritenendo ciò senza spendere alcuna motivazione circa l’iter logico-deduttivo posto a fondamento di una tale affermazione. Nulla direbbe la Corte di appello in ordine ai canoni ermeneutici sottesi alla ricostruzione della attendibilità intrinseca della persona offesa. Alcuna parola sarebbe stata spesa sulla verifica degli SMS intercorsi nei giorni successivi alla denuncia che attestavano la prosecuzione della relazione tra l’imputato e la persona offesa. Analogamente, la Corte di appello, allorquando ha analizzato la presenza di conversazioni avvenute tramite whatsapp, avrebbe omesso di verificare che vi erano state conversazioni intercorse tra l’imputato e la persona offesa (sms e messaggi whatsapp), sino al 7 settembre 2018, ovvero fino al momento del fermo del ricorrente. La motivazione della Corte di appello sarebbe poi totalmente assente in relazione alla abitualità della condotta che deve necessariamente integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia. 2.2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta violazione di legge difetto di motivazione in relazione all’art. 613-bisc.p. (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e)). Sostiene che il delitto di cui all’art. 613-bis c.p., presuppone l’esistenza di un rapporto qualificato tra l’autore e la vittima, richiedendo che quest’ultima sia “una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa”. Ne consegue che la Corte partenopea avrebbe errato laddove non ha effettuato alcun accertamento circa la sussistenza di un rapporto caratterizzato da una condizione di affidamento al reo della persona offesa, ovvero di privazione della libertà personale di quest’ultima o di minorata difesa, che deve preesistere alla realizzazione della condotta. Sarebbe pertanto erroneo il principio di diritto affermato dalla Corte d’appello secondo il quale, ai fini della configurabilità del delitto di tortura, non occorre che la condizione di privazione della libertà personale sia preesistente alla commissione della condotta, atteso che la norma non conterrebbe alcun riferimento ad eventuali provvedimenti restrittivi di natura giurisdizionale. Obietta il ricorrente che, tuttavia, nel gravame proposto non vi era alcun cenno circa la presenza di provvedimenti di restrizione di natura giurisdizionale in capo alla vittima, quanto piuttosto era richiesta, per l’integrazione della fattispecie incriminatrice, la presenza di una condizione di privazione della libertà personale o di minorata difesa che doveva preesistere alla condotta incriminata, quale elemento implicito di fattispecie. Tale condizione, quindi, non poteva e non doveva ravvisarsi nell’ambito di una relazione affettiva, in quanto il riferimento a chi è affidato alla custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza di altri postula un rapporto intrinsecamente connotato da più pregnanti obblighi di tutela a carico del reo nei confronti della persona offesa, di natura diversa da quelli di carattere solidale che nascono all’interno di un consorzio familiare o affettivo e la cui violazione sarebbe già sanzionata dalla norma di cui all’art. 572 c.p.. Quanto, perciò, alla privazione della libertà personale e alla minorata difesa deve ritenersi, ad avviso del ricorrente, che le stesse non debbano essere cagionate dal reo in esecuzione della condotta di tortura, ma preesistere quali elementi impliciti della fattispecie: tali conclusioni il ricorrente trae, a suo dire, da un interpretazione letterale della norma in esame, in cui la condotta tipica è data dal cagionare acute sofferenze fisiche ovvero un verificabile trauma psichico, non già dalla privazione della libertà personale o dal porre il soggetto in una condizione di minorata difesa. 2.3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione di legge e difetto di motivazione in relazione agli artt. 62-bis e 133 c.p. (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e)). Sostiene che la Corte partenopea ha confermato la severa pena applicata all’esito del primo giudizio, negando al ricorrente la concessione delle attenuanti generiche, ma senza considerare che la finalità precipua delle invocate attenuanti è quella di permettere un più congruo adeguamento della pena in concreto, considerata la globalità degli elementi soggettivi e oggettivi declinati dall’art. 133 c.p.. Ricorda che la concessione delle attenuanti generiche non implica necessariamente un giudizio di non gravità del fatto reato. Sul punto, la stringata motivazione della Corte di appello sarebbe, allora, del tutto difettosa, in quanto il riconoscimento delle invocate circostanze attenuanti sarebbe stato negato ricorrendo a frasi di stile e senza, quindi, alcuna idonea motivazione in proposito. 3. Il Procuratore generale ha concluso per l’inammissibilità del ricorso. Quanto al primo motivo, ha sottolineato la sua aspecificità, avendo la Corte territoriale sostenuto il giudizio confermativo della colpevolezza del ricorrete non soltanto sulla base delle dichiarazioni della persona offesa ma anche sulla base dei documenti acquisiti al processo (fotografie e referti medici). Quanto al reato di “tortura”, il ricorso appare, ad avviso del Procuratore generale, destituito di fondamento, dolendosi il ricorrente dell’assenza dell’accertamento di uno dei presupposti del reato: condizione di affidamento al reo della persona offesa, privazione della libertà personale di quest’ultima ovvero minorata difesa (seconda pagina del motivo n. 2), senza considerare però che il capo d’imputazione indica con chiarezza che, di questi, il presupposto valorizzato è quello della “privazione della libertà personalè in quanto “la chiudeva a chiave in casa, portando con sè la chiave…”, presupposto del cui accertamento la motivazione dà conto in modo congruo. D’altra parte, il Procuratore generale rileva che dal contesto della motivazione stessa appare evidente la sussistenza anche del presupposto della “minorata difesa” per come pacificamente configurata dalla più recente giurisprudenza della Corte, riportata nelle conclusioni scritte. Motivi della decisione 1. Il ricorso è infondato. 2. Il primo motivo è inammissibile per manifesta infondatezza, avendo la Corte d’appello correttamente applicato i principi di diritto affermati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di valutazione delle dichiarazioni rese dalla persona offesa. Inoltre, la doglianza, così come sollevata, non è consentita perchè – in presenza di un’adeguata motivazione, priva di vizi di manifesta illogicità – i rilievi, in ordine al formulato giudizio di attendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa, si risolvono in censure tipicamente fattuali che, riguardando il merito della regiudicanda, si sottraggono al controllo in sede di giudizio di legittimità. Per dare conto di ciò – anche al fine di delineare con precisione i fatti accertati nel corso del giudizio di merito, risultando la ricostruzione utile per lo scrutinio del secondo motivo di gravame,con il quale il ricorrente contesta la configurabilità del delitto di tortura “comune”, cosiddetta “orizzontale” o tra “privati” – è sufficiente ricordare come i giudici di merito, con doppia e conforme motivazione, abbiano ritenuto pienamente attendibili le dichiarazioni della persona offesa per avere la dichiarante collocato nella giusta dimensione spaziale e temporale gli episodi narrati. 2.1. Nel pervenire a tale conclusione, la Corte d’appello ha chiarito che le propalazioni accusatorie della vittima hanno anche trovato pieno riscontro probatorio sia nel referto medico in atti, attestante la riscontrata presenza di lesioni compatibili con il narrato della donna, sia nelle fotografie versate in atti e relative alle violenze fisiche subite nell’aprile 2018 nonchè in data 2 settembre dello stesso anno e sia nel testo dei messaggi estrapolati dal telefono cellulare della vittima. Con accertamento di fatto, adeguatamente e logicamente motivato, insuscettibile pertanto di sindacato in sede di giudizio di legittimità, la Corte d’appello ha correttamente ritenuto irrilevante, ai fini del giudizio sull’attendibilità della persona offesa, la circostanza secondo la quale la vittima, prima del settembre 2018, non si fosse mai recata in ospedale a seguito delle percosse patite e che non si fosse mai confidata con i familiari per raccontare ciò che le stava accadendo. La Corte di merito, a questo proposito, ha ricordato come la vittima avesse precisato di non avere, prima di allora, mai sporto denuncia nei confronti dell’uomo, e di non essersi confidata con i suoi familiari, poichè temeva le ritorsioni dell’imputato, nei confronti suoi e dei suoi tre figli. La circostanza che la vittima abbia continuato ad avere rapporti con il ricorrente, mediante l’invio di messaggi telefonici, anche in epoca successiva alla denuncia, è stata logicamente ritenuta, sulla base dei reiterati comportamenti violenti dell’uomo, sintomatica della condizione di totale sottomissione e di paura nella quale costei viveva. Quanto alla genuinità del racconto della persona offesa, si evince, dal testo del provvedimento impugnato, come le modalità di emersione dei fatti abbiano consentito di escludere che le accuse potessero essere riconducibili a intenti calunniatori. In particolare, è stato accertato che, in data (OMISSIS), la vittima venne ricoverata presso il Pronto Soccorso dell’Ospedale di Sessa Aurunca, presentando sul corpo ecchimosi diffuse all’arto superiore destro, alla fronte e alla gamba sinistra, escoriazioni diffuse, una ustione di primo grado al fianco sinistro, la frattura di due costole, con prognosi di ventuno giorni. Solo a seguito del ricovero ospedaliero, la vittima sporse denuncia nei confronti dell’imputato, raccontando agli investigatori le continue umiliazioni, le minacce, le violenze fisiche e morali patite nel corso della relazione sentimentale da parte del “compagno”, al quale costei era legata sentimentalmente dal luglio 2017, uomo violento ed aggressivo, geloso in modo ossessivo della donna. L’imputato, secondo il racconto della vittima, aveva colpito la persona offesa con calci, schiaffi e pugni in tutte le parti del corpo, l’aveva afferrata per i capelli, aveva sbattuto la testa della vittima contro il muro, le aveva stretto le mani intorno al collo facendole quasi perdere i sensi, l’aveva pesantemente offesa, chiamandola “puttana”, e aveva minacciato di ucciderla. La donna riferì, in particolare, di specifici episodi di violenza. Nel maggio 2018, mentre erano in macchina, l’imputato l’accusò di avere guardato un altro uomo, iniziando a picchiarla con schiaffi e pugni in testa e al volto, impedendole con la forza di uscire dall’abitacolo dell’auto, chiamandola “puttana” e minacciando di portarla sul vialone di Caserta per farla prostituire. Subito dopo l’imputato e la vittima si recarono presso l’abitazione dell’uomo, il quale, nell’occasione, la costrinse a praticargli un rapporto orale, nonostante lo stato di sofferenza fisica patito dalla donna a causa delle percosse subite, dicendole “sei una puttana di merda, ti piace fare questo e adesso lo fai per me, chiamo qualcuno se lo non ti basto”. Durante l’atto sessuale, l’imputato colpì la donna con schiaffi e pugni al volto e alla testa, sbattendola contro il muro, stringendole le mani intorno al collo, quasi a soffocarla. L’imputato poi la costrinse a pernottare presso la sua abitazione, chiudendo la porta della casa e nascondendo le chiavi. Dopo essersi impossessato anche delle chiavi dell’auto della vittima, durante la notte, costrinse la donna ad avere altri rapporti sessuali, che la vittima subì non avendo la forza di opporsi a cagione delle percosse patite, e temendo di essere nuovamente picchiata dall’uomo. Durante gli amplessi, lei lo pregò di fermarsi ma era terrorizzata per la propria vita, e dunque si sottomise al volere dell’uomo. Nei giorni successivi a tale episodio, l’imputato la minacciò per impedirle di raccontare gli abusi subiti dicendole “stai attenta a quello che dici, non parlare con nessuno male di me, questo è solo l’inizio, vedrai cosa sono capace di fare”. Le violenze e le minacce proseguirono anche nel periodo successivo. Nel mese di luglio 2018, durante una scenata di gelosia, l’imputato picchiò nuovamente la vittima, con schiaffi, pugni e calci in tutte le parti del corpo, afferrandola per i capelli, sbattendola contro il muro ed il mobilio, minacciandola di morte. In quello stesso mese, la vittima si intrattenne, per diverse notti, a dormire nella nuova casa dell’imputato. Quando usciva, il ricorrente chiudeva la vittima in casa, portava con sè le chiavi e le intimava di non parlare con i vicini altrimenti al suo ritorno l’avrebbe picchiata. Durante questo periodo di convivenza – nei mesi di luglio ed agosto – la vittima subì altri rapporti sessuali per timore che il suo rifiuto avrebbe scatenato l’ira violenta dell’imputato, il quale aveva anche iniziato ad avanzare nei suoi confronti continue richieste di denaro, che la donna assecondò per timore di ritorsioni, e temendo anche per l’incolumità dei propri figli nei confronti dei quali il ricorrente aveva iniziato ad avanzare minacce. I segni delle percosse erano così evidenti che spesso la vittima era costretta a restare in casa e solo quando non si notavano eccessivamente poteva mascherarli con il trucco e uscire. L’uomo aveva poi fatto in modo che la vittima rimanesse isolata da tutti i suoi affetti, la controllava in tutti i suoi movimenti, arrivando a leggere i messaggi sul suo cellulare. La situazione peggiorò nel mese di settembre 2018. La sera del primo settembre la vittima si recò a casa e la sorella le prestò dei soldi, perchè l’imputato aveva prelevato tutto il denaro sulla carta prepagata intestata alla vittima. Rientrata a casa dell’imputato, la persona offesa si rifiutò di consumare con l’uomo un rapporto sessuale. Il ricorrente iniziò allora a frugare nella borsa della donna e, avendo rinvenuto il denaro che costei aveva ricevuto poco prima dalla sorella, iniziò a picchiarla con pugni e schiaffi al volto, accusandola di essersi venduta per 20,00 Euro a (OMISSIS). Poi a bloccò con il braccio e, dopo avere riscaldato una forchetta sul fuoco, le impresse l’utensile sul fianco sinistro dicendole “ti ho fatto proprio un bel marchio”; quindi la tenne con la forza sotto la doccia di acqua fredda per circa un’ora, impedendole di allontanarsi e continuando a picchiarla con calci sul corpo e pugni in testa, utilizzando per colpirla sia le mani che un cucchiaio di acciaio. Intorno alle 04.00 del mattino, l’imputato accompagnò la vittima nella sua casa di (OMISSIS) per farle prelevare degli abiti succinti, dicendole che il giorno successivo l’avrebbe accompagnata sul vialone di Caserta per farla prostituire e, durante il tragitto, offrì la donna ai passanti. Il giorno successivo, pretese nuovamente di avere rapporti sessuali con la compagna, nonostante costei fosse dolorante per le percosse subite e la costrinse a pulire l’abitazione e a cucinare per lui. L’imputato aveva inoltre impedito alla donna di allontanarsi da casa per andare al lavoro, nascondendo le chiavi del cancello dell’abitazione. Solo il giorno 3 settembre uscirono da casa e la vittima, dopo avere accompagnato l’imputato al lavoro, si recò presso l’abitazione dei suoi genitori. Il 4 settembre la donna si portò in ospedale accompagnata dai familiari. Alla luce di tali risultanze, correttamente i Giudici di merito hanno concordemente concluso per l’affermazione della responsabilità penale dell’imputato per tutti i reati a lui ascritti. 2.2. Pertanto, la sentenza impugnata ha espresso ragionevoli elementi di giudizio, fornendo una corretta e completa disamina di tutte le risultanze processuali, nel contesto di una valutazione complessiva e critica dei fatti narrati dalla persona offesa, della cui attendibilità, a torto, il ricorrente dubita. A questo proposito, quanto cioè alla valutazione della prova dichiarativa relativa alla narrazione testimoniale della vittima del reato, in ispecie se costituita parte civile, la giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che le regole dettate dall’art. 192 c.p.p., comma 3, non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte, Rv. 253214). E’ pur vero che il Giudice deve valutare l’opportunità di procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi ma la Corte di merito non si è sottratta a tale non necessaria incombenza, posto che i riscontri esterni sono stati enunciati nella sentenza impugnata e le obiezioni difensive tutte dettagliatamente disattese. Sul punto, è il caso di precisare come la Corte di legittimità abbia, in diverse occasioni, sottolineato che i riscontri esterni, i quali non sono predeterminati nella specie e nella qualità, possono essere di qualsiasi tipo e natura e possono essere tratti sia da dati obiettivi, quali fatti e documenti, sia da dichiarazioni di altri soggetti, purchè siano idonei a convalidare “aliunde” l’attendibilità dell’accusa, tenuto anche presente che essi devono essere ricercati e valutati, con specifico riferimento alle dichiarazioni della persona offesa, nella prospettiva della verifica del grado di affidabilità della dichiarazione e non ai fini specifici previsti dall’art. 192 c.p.p., comma 3, disposizione che non si applica alle dichiarazioni della vittima del reato (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte, cit.); con la conseguenza che, per fondare il ragionevole convincimento che il dichiarante non abbia mentito, è sufficiente che i riscontri siano idonei a confermare, anche dal punto di vista logico, la credibilità della dichiarazione nel suo complesso e non rispetto a ciascuno dei particolari riferiti dal dichiarante e che neppure è necessario che i riscontri attengano alla posizione soggettiva della persona attinta dalle dichiarazioni, perchè le narrazioni della persona offesa, anche se costituita parte civile, non possono mai essere equiparate alla chiamata in reità o in correità (Sez. 3, n. 33589 del 24/04/2015, T., non mass.). La sentenza impugnata è perciò immune da vizi logici, essendosi la motivazione sviluppata su una solida base argomentativa poggiante su tutte le risultanze processuali emerse: sulle dichiarazioni della persona offesa nonchè sui riscontri oggettivi che sono stati acquisiti con riferimento al narrato della vittima e costituiti dalle relazioni mediche, dai referti dei sanitari, comprovanti la circostanza decisiva secondo cui le lesioni subite dalla vittima fossero del tutto compatibili con il narrato della donna, dalle fotografie versate in atti, comprovanti le violenze fisiche subite nell’aprile e nel settembre 2018, dal testo dei messaggi estrapolati dal telefono cellulare della persona offesa. Pertanto, in presenza di una ampia e positiva verifica, corredata da adeguata motivazione priva di vizi di manifesta illogicità, in ordine alla credibilità soggettiva della persona offesa e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, anche ampiamente riscontrato su tutti i punti centrali della narrazione, per i quali è stata comunque fornita, nella sentenza impugnata, una congrua giustificazione, la Corte d’appello non è incorsa in alcun vizio nella valutazione della prova, cosicchè, sotto tale specifico aspetto, il motivo di ricorso si connota anche per la sua manifesta infondatezza. Sotto altro e convergente aspetto, occorre precisare che, in sede di giudizio di legittimità, l’attendibilità della persona offesa non può essere seriamente messa in discussione quando non emergono disarmonie e incongruenze considerevoli tra la dichiarazione della vittima e le altre prove. Peraltro, va ricordato che, in tema di reati sessuali, poichè la testimonianza della persona offesa è spesso unica fonte del convincimento del giudice, è essenziale la valutazione circa l’attendibilità del teste; tale giudizio, essendo di tipo fattuale, ossia di merito, può essere effettuato solo attraverso la dialettica dibattimentale, mentre è precluso in sede di legittimità, specialmente quando il giudice del merito abbia fornito, come nella specie, una spiegazione plausibile della sua analisi probatoria (Sez. 3, n. 41282 del 05/10/2006, Agnelli, Rv. 235578 – 01). La valutazione prettamente fattuale, ovvero di merito, del giudizio di attendibilità è, infatti, una diretta conseguenza dei principi di oralità e di immediatezza che governano il processo penale, perchè solo attraverso l’esame delle parti – che ordinariamente trova la propria sede naturale nella dialettica dibattimentale e, dunque, solo dal contatto immediato con la fonte di prova – il giudice può desumere elementi diretti per percepire la veridicità del teste, la spontaneità e genuinità delle sue dichiarazioni oppure le incoerenze del narrato, le anomalie, le stranezze e tutti i segnali che possano contaminare la dichiarazione. Tutto ciò è, all’evidenza, precluso in sede di giudizio /C di legittimità, dove non è consentito, in presenza di una logica e adeguata motivazione, contestare l’attendibilità della persona offesa quando, dal testo del provvedimento impugnato o da altri atti del processo specificamente indicati con il motivo di gravame, non emergono, come nel caso in esame, disarmonie e incongruenze considerevoli tra le dichiarazioni della persona offesa e le altre prove. Il motivo è pertanto inammissibile. 3. Il secondo motivo di gravame è invece infondato. 3.1. Il ricorrente, sotto diversi profili, lamenta l’inconfigurabilità, nel caso di specie, del ritenuto delitto di tortura per la supposta mancanza degli elementi costitutivi necessari per l’integrazione della fattispecie incriminatrice. Per dare conto dell’infondatezza della doglianza, sono necessarie alcune premesse, alle quali debbono seguire brevi cenni sulla struttura del reato di tortura nei limiti indispensabili per fornire adeguata risposta ai rilievi formulati dal ricorrente con il motivo di ricorso. 3.2. Nelle carte internazionali, il divieto di tortura è previsto dall’art. 3 della Convenzione EDU e dall’art. 7 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, patto dal quale è scaturita la Dichiarazione ONU sulla protezione di tutte le persone sottoposte a forme di tortura e altre pene o trattamenti inumani, crudeli o degradanti, adottata dall’Assemblea generale il 9 dicembre 1975. Il 10 dicembre 1984 è stata approvata dall’Assemblea generale dell’ONU la Convenzione contro la tortura, ratificata dall’Italia con la L. 3 novembre 1988, n. 498. Va anche ricordata l’adozione della Convenzione Europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti del 26 novembre 1987, ratificata dall’Italia con la L. 2 gennaio 1989, n. 7 (entrata in vigore in data 1 aprile 1989) e le sue integrazioni. La citata Convenzione ONU del 1984 contro la tortura ed altri trattamenti e pene crudeli, inumane e degradanti (la c.d. CAT), prevede l’obbligo per gli Stati di legiferare affinchè qualsiasi atto di tortura sia espressamente e immediatamente previsto come reato nel diritto penale interno. Vale la pena ricordare, non essendo possibile soffermarsi sul contenuto delle carte internazionali, che la Convenzione del 1984, per quanto qui interessa, ha fissato una soglia minima di punibilità della tortura, privilegiando quelle forme in cui la struttura del reato richiede il dolo specifico (dove cioè l’elemento finalistico è caratterizzato dal fatto che la condotta debba tendere al conseguimento di tre scopi alternativi: ossia 1) ottenere informazioni o confessioni, 2) punire, intimidire o fare pressioni e 3) discriminare) e in cui vi sia il coinvolgimento necessario di funzionari pubblici. La Convenzione, tuttavia, consente agli Stati di prevedere una fattispecie di più ampio raggio e perciò maggiormente comprensiva, purchè nel rispetto della soglia minima fissata dagli standard definitori del trattato. In buona sostanza, il modello legale di reato configurato negli ordinamenti giuridici nazionali non può restringere l’area di punibilità minima fissata dal trattato, con la conseguenza che non può scalfire, limitandone la portata, gli elementi costitutivi della tortura di Stato fissati nella Convenzione. Gli obblighi di incriminazione, che non discendono soltanto dalle richiamate disposizioni di diritto internazionale, sono stati ottemperati dall’Italia con la L. 14 luglio 2017, n. 110 che ha introdotto, per quanto qui interessa, nel codice penale gli artt. 613-bis e 613-ter. In particolare, con l’art. 613-bis c.p., è stato tipizzato il reato di tortura, strutturato come delitto “a geometria variabile”, potendo l’ambito di operatività della norma penale ricomprendere sia la tortura privata (cosiddetta comune o orizzontale o impropria: art. 613-bis, comma 1) e sia la tortura pubblica (cosiddetta di Stato o verticale o propria: art. 613-bis, comma 2). Ne deriva che, con la legge citata, sono stati configurati due autonomi titoli di reato e, quindi, due diverse e autonome fattispecie incriminatrici, a disvalore progressivo, secondo la qualifica del soggetto attivo del reato: la tortura pubblica (reato proprio) se il soggetto attivo sia un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio che commetta il fatto tipico descritto nell’art. 613-bis c.p., comma 1, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio; tortura privata (reato comune) negli altri casi. La norma penale è stata collocata in seno ai delitti contro la persona, tra i delitti contro la libertà individuale e, in particolare, alla fine della sezione relativa ai delitti contro la libertà morale. La collocazione individuata dal legislatore, sebbene criticata, induce a ritenere che l’oggettività giuridica criminosa “generica” debba identificarsi nella tutela della c.d. libertà morale o psichica della persona, intesa come diritto dell’individuo di autodeterminarsi liberamente, in assenza di coercizioni fisiche e psichiche che ne limitino la libertà di movimento (personale), libertà pesantemente pregiudicata da condotte costrittive (violenze o minacce gravi oppure da una condotta commessa con crudeltà) che cagionano acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a persona privata della libertà personale o affidata alla custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza dell’agente oppure che versi in una situazione di assoluta vulnerabilità (minorata difesa), con la conseguenza che la forza di resistenza del soggetto passivo risulta, in quest’ultimo caso, ostacolata da particolari condizioni personali e ambientali che facilitano l’azione criminale del colpevole e che rendono effettiva la signoria o il controllo dell’agente sulla vittima, agevolando il depotenziamento se non l’annullamento delle capacità di reazione di quest’ultima (Sez. 5, n. 50208 del 11/10/2019, S., Rv. 277841 – 04; Sez. 5, n. 47079 del 08/07/2019, R., Rv. 277544 – 03), e tutto ciò quando il fatto di reato sia commesso con più condotte o, in mancanza di condotte plurime, comporti un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona. L’asse della lesività del delitto è, pertanto, calibrato sulla natura della condotta nella tortura privata, dove non rileva affatto la qualifica giuridica soggettiva dell’agente se non limitatamente ad un elemento costitutivo di fattispecie rappresentato dai rapporti di affidamento, affrancati però completamente dalla componente pubblicistica, mentre il fulcro dell’offesa, nel reato di tortura pubblica, è spostato sull’esercizio illegale del potere o del servizio pubblico, cosicchè la medesima condotta acquista un maggiore disvalore, risultando perciò il fatto di reato più gravemente (e autonomamente) punito, in considerazione, come è stato opportunamente osservato, della perversione del potere coercitivo affidato al funzionario pubblico, il quale tradisce il senso e sormonta i limiti per il quale il potere è stato conferito, vulnerando nel suo significato più sostanziale il principio di legalità, perno di qualsiasi Stato di diritto e la cui osservanza è, in primis, imposta gli organi pubblici. Tuttavia, l’oggettività giuridica criminosa “specifica”, ossia il bene giuridico tutelato dall’incriminazione, ha un contenuto più pregnante. Consistendo la tortura nell’inflizione brutale di sofferenze corporali, essa determina un grave e prolungato patimento fisico e morale dell’essere umano che la patisce, cosicchè la sua particolarità risiede nella conclamata e terribile attitudine che la stessa possiede e cioè quella di assoggettare completamente la persona la quale, in balia dell’arbitrio altrui, è trasformata da essere umano in cosa, ossia in una “res” oggetto di accanimento. La sofferenza corporale, fisica e/o psichica, inflitta a una persona umana è tuttavia solo una componente della fattispecie incriminatrice,ma il contenuto preciso dell’offesa penalmente rilevante sta nella lesione della “dignità umana”, che costituisce la cifra comune della lesività specifica, tanto del reato di tortura privata quanto del reato di tortura pubblica, e che si traduce nell’asservimento della persona umana e, di conseguenza, nell’arbitraria negazione dei suoi diritti fondamentali inviolabili. Trattandosi di un concetto relazionale, l’offesa penalmente rilevante può riguardare differenti fenomeni di compressione del bene giuridico (dignità umana o della persona), cosicchè le forme di tutela possono essere diversamente modulate dal legislatore attraverso la previsione di modelli legali di reato calibrati sul tipo di incriminazione (schiavitù, tratta, tortura, ecc.). Nel caso di specie, con la previsione del modello legale descritto nell’art. 613-bis c.p., si è voluto ampliare il raggio dell’incriminazione rispetto alla soglia minima richiesta, come ius cogens, dal diritto internazionale, riconoscendo la configurabilità del reato anche nelle relazioni private, fermo restando che la tortura pubblica non può assumere la forma circostanziale rispetto a quella privata, ma costituisce un reato autonomo sia per la natura del soggetto attivo, sia per l’indipendenza del trattamento sanzionatorio rispetto alla tortura privata e sia per la necessità di un obbligo di incriminazione specifico di quest’ultima fattispecie, non anche dell’altra, obbligo che sarebbe da considerare disatteso, con diretta collisione del diritto interno con quello internazionale, nel caso in cui si considerasse l’art. 613-bis c.p., comma 2, una circostanza di un altro reato, e cioè della tortura privata, il cui obbligo di incriminazione non era vietato ma neppure imposto, diversamente dalla tortura di Stato, dalle carte internazionali. 3.3. Quanto alla struttura dell’incriminazione, il delitto di cui all’art. 613-bis c.p., comma 1, è un reato comune (potendo essere realizzato da chiunque); è reato a forma vincolata (essendo richiesto, come è stato anticipato, un requisito modale della condotta e potendo il reato essere commesso solo mediante violenze o minacce gravi oppure agendo con crudeltà); è un reato di evento (dovendo essere cagionate acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico); è un reato eventualmente abituale improprio (soltanto per talune modalità della condotta – ossia per le violenze o le minacce gravi, che perciò costituiscono di per sè reato e che devono necessariamente estrinsecarsi in condotte plurime – è richiesta la reiterazione della condotta, requisito non previsto per altre modalità di realizzazione della fattispecie incriminatrice ovvero qualora si agisca con crudeltà); è un reato a dolo generico (non avendo il legislatore recepito la tripartizione in tortura giudiziaria, punitiva e discriminatoria fatta propria dall’art. 1 della Convenzione ONU del 1984), che ammette la forma del dolo eventuale (potendo le acute sofferenze fisiche o il verificabile trauma psichico costituire eventi semplicemente accettati e voluti dal soggetto attivo, secondo il modello proprio del dolo eventuale); la limitazione della libertà personale, la relazione di affidamento e la condizione di minorata difesa sono presupposti della condotta (comunque rientrando nel fuoco del dolo); il fatto di reato, infine, deve essere commesso mediante più condotte (nel senso che la reiterazione non deve esaurirsi in un ristretto ambito temporale ma deve essere cronologicamente consistente) oppure, quando è richiesta per l’integrazione della fattispecie la commissione di un’unica condotta, deve conseguire da essa, oltre agli eventi tipici (acute sofferenze fisiche o verificabile trauma psichico), anche un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona. Si tratta di ulteriori elementi costitutivi del reato, e non condizioni obiettive di punibilità, i quali afferiscono, rispettivamente, alla condotta o all’evento. Ai fini che qui interessano, è utile infine ricordare che la fattispecie incriminatrice ex art. 613-bis c.p., non richiede espressamente che la privazione della libertà personale consegua ad un provvedimento giurisdizionale, con la conseguenza che la norma trova applicazione anche nel caso in cui la vittima del reato sia stata illegittimamente privata della libertà personale dall’autore del reato. La privazione della libertà personale non deve consistere necessariamente in una forma di detenzione, potendo, in conformità all’interesse giuridicamente tutelato dall’incriminazione, risolversi in una limitazione della libertà di movimento, in linea con il dettato di cui all’art. 13 Cost., nella parte in cui la disposizione si riferisce, oltre alla detenzione, a qualsiasi altra restrizione della libertà personale, dovendosi invece escludere che ogni forma di limitazione della libertà in senso lato (di fare o di non fare) rientri nell’oggettività giuridica criminosa della fattispecie in esame. Gli eventi tipici del reato, tra di loro alternativi, ossia le “acute sofferenze fisiche” o l’insorgenza di “un verificabile trauma psichico” non debbono necessariamente sfociare in lesioni personali, essendo prevista una specifica aggravante in proposito. Neppure è previsto che il trauma psichico sia durevole, sicchè nella nozione vi rientrano anche quelli a carattere transeunte, ma deve essere “verificabile”, nel senso che deve essere provato nel corso del giudizio e non necessariamente attraverso perizia o altro accertamento tecnico. Allo stesso modo del “grave e perdurante stato di ansia e di paura”, di cui al reato di atti persecutori, l’accertamento può essere ancorato ad elementi sintomatici del turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente ed anche da quest’ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l’evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata (Sez. 5, n. 17795 del 02/03/2017, S., Rv. 269621 – 01). Nel presente procedimento, il reato di tortura è stato contestato e ritenuto in concorso con quelli di violenza sessuale e di maltrattamenti. Va perciò sottolineato come, secondo l’orientamento più volte espresso dalla Corte Europea (Aydin c. Turchia, 25 settembre 1997, ric. n. 23178/94), anche la violenza sessuale può assurgere a tortura, con la conseguenza che essa può integrare, a condizioni esatte, una condotta rilevante ai sensi dell’art. 613-bis c.p.. Più delicati sono i rapporti tra il delitto di tortura e quello di maltrattamenti, rientrando entrambi nello schema dei reati di durata: eventualmente abituale, il reato di tortura; necessariamente abituale quello di maltrattamenti. Avuto riguardo ai principi che regolano il concorso di reati, va ricordato che, ai fini della individuazione della disposizione prevalente, il presupposto della convergenza di norme può ritenersi integrato solo in presenza di un rapporto di continenza tra le norme stesse, alla cui verifica deve procedersi mediante il confronto strutturale tra le fattispecie astratte configurate e la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definirle (Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano, Rv. 248864 – 01), cosicchè il confronto strutturale delle fattispecie depone, nel caso in esame, per la configurabilità del concorso materiale di reati posto che, in linea astratta, per l’integrazione dell’art. 572 c.p. possono assumere rilievo anche fatti non penalmente rilevanti, o comunque non gravi, mentre ai fini della configurabilità dell’art. 613-bis c.p., dovranno invece necessariamente considerarsi solo fatti che costituiscano di per sè reato (a seconda dei casi, minaccia, percosse, lesioni, violenza privata), e che si caratterizzino per la loro gravità e per la loro idoneità a produrre acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico, con la conseguenza che ciascuno dei singoli atti che concorrono ad integrare la fattispecie di tortura deve necessariamente superare una soglia minima di gravità che non è richiesta, invece, per i maltrattamenti. 3.4. Alla stregua delle precedenti considerazioni, deve ritenersi perciò sussistente il reato di tortura privata. Come risulta dal testo della sentenza impugnata, la vittima è stata costretta, in più occasioni, a subire atti sessuali con inaudita violenza e persino subito dopo che era stata sensibilmente debilitata dalle reiterate percosse dell’imputato sfociate in lesioni corporali che avevano provocato nella donna forti dolori, come quando l’imputato, in una delle tante dolorose circostanze, l’aveva costretta a praticargli un rapporto orale, nonostante lo stato di sofferenza fisica della donna per le percosse precedentemente subite, dicendole “sei una puttana di merda, ti piace fare questo e adesso lo fai per me, chiamo qualcuno se lo non ti basto”. Durante l’atto sessuale, l’imputato colpiva la donna con schiaffi e pugni al volto e alla testa, facendole sbattere la testa contro il muro, e le stringeva le mani intorno al collo quasi a soffocarla. In alcune occasioni, inoltre, la vittima aveva subito senza reagire i rapporti sessuali imposti dall’imputato, perchè esausta e senza forze a causa le percosse subite, temendo di essere nuovamente picchiata dal compagno. Pertanto – alla luce della ricostruzione dei fatti operata dalle concordi valutazioni dei Giudici di merito e sulla base delle dettagliate, coerenti e precise dichiarazioni della persona offesa, della documentazione sanitaria e dei riscontri emergenti ex actis (testo dei messaggi pervenuti sul cellulare della vittima, fotografie) – può ritenersi ampiamente provato che l’imputato: ha minacciato ripetutamente la vittima, rivolgendole gravi minacce, anche di morte, spesso indirizzate ai figli della donna; ha usato violenze ripetute nei confronti della persona offesa, cagionandole acute sofferenze fisiche mentre la stessa era privata della sua libertà di movimento dall’imputato; ha costretto la donna contro la sua” volontà a subire rapporti sessuali immediatamente dopo che la vittima era stata violentemente percossa. Tutto ciò è stato compiuto attraverso gravi minacce e altrettanto gravi e inaudite violenze, ponendo la vittima in una condizione di completo assoggettamento e sconforto, realizzando atti tipici di inflizione della sofferenza corporale attraverso una pluralità di condotte reiterate e cronologicamente consistenti in quanto non limitate e non contenute ed esaurite in un unico contesto spazio-temporale, mostrando particolare efferatezza, insensibilità, gratuità e ponendo in essere comportamenti, oltre che di grande sofferenza fisica, anche umilianti: la donna venne marchiata sul fianco con una forchetta rovente e, in altra occasione, venne costretta a rimanere nuda sotto la doccia fredda per circa un’ora mentre l’imputato continuava a percuoterla con calci e corpi contundenti. Tali condotte hanno provocato alla vittima acute sofferenze fisiche (la donna è stata marchiata sul fianco nonchè ripetutamente colpita con pugni, calci, schiaffi, sul corpo, al volto e alla testa, a volte anche con corpi contundenti), riportando lesioni a causa delle percosse subite, come ampiamente dimostrato dalla documentazione sanitaria in atti e dalle fotografie. Le plurime condotte violente e minacciose hanno inoltre cagionato alla vittima un trauma psichico: dalla relazione sanitaria del 17 dicembre 2018 della Psicologa del Pronto Soccorso Rosa del Presidio Ospedaliero San Rocco di Sessa Aurunca emerge che, dai test somministrati alla persona offesa, è stato riscontrato nella vittima un disagio psicologico significativo, che è perdurato dopo il primo mese di post-trauma. E’ stato anche accertato come tale disagio non fosse dovuto agli effetti di una sostanza o di una condizione medica generale, nè ad altro disturbo psicologico, ma fosse l’effetto, fortemente dannoso, della violenza subita, avendo la vittima, nel corso dell’esame psicologico, riferito di rivivere nella memoria continuamente l’evento, pur cercando di evitare il più possibile la rievocazione. E’ stato inoltre accertato che i sintomi della riesperienza, dell’evitamento e dell’aumentata vigilanza sono stati presenti per più di un mese dall’evento violento e che il sonno è stato fortemente turbato, con la presenza di incubi ed interruzioni notturne. Le condotte tipiche sono state commesse e gli eventi del reato si sono verificati quando la vittima versava in uno stato di privazione della libertà personale, posto che alla persona offesa era stato impedito di allontanarsi dall’abitazione dell’imputato e che costui aveva nascosto le chiavi del cancello di ingresso alla casa e le chiavi della macchina per impedire alla donna di muoversi liberamente, restrizioni che la vittima ha ripetutamente subito. Non coincidenti, da un confronto in astratto, gli elementi strutturali del reato di tortura e di quello di maltrattamenti, diversi essendo anche i beni giuridici tutelati dalle rispettive incriminazioni, va sottolineato come, nel caso di specie, non vi sia neppure piena sovrapponibilità, in fatto, tra le condotte poste a fondamento del delitto di maltrattamenti e quelle integranti il reato di tortura, atteso che la diversa determinazione temporale del periodo consumativo dei rispettivi reati (dal dicembre 2017 a luglio 2018 il reato di maltrattamenti: da luglio a settembre 2018, il reato di tortura), la reiterazione di atti di violenza e minaccia non gravi, le continue e pesanti offese verbali, le imposizioni, le futili pretese, le costanti umiliazioni, le sofferenze e le privazioni inflitte alla donna, estranee al raggio dell’incriminazione del reato di tortura, hanno assunto i connotati tipici del delitto di maltrattamenti, in quanto fonte di uno stato di disagio continuo e incompatibile con le normali condizioni di vita della persona offesa, nei confronti della quale è stata lesa in maniera sistematica l’integrità fisica ed il patrimonio morale mediante il compimento di condotte che hanno posto la vittima in uno stato di incessante disagio e avvilimento, costringendola a sostenere drammatiche condizioni di vita per un rilevante arco temporale (la relazione era stata avviata nel luglio 2017 e le violenze erano iniziate nel dicembre 2017, con il tempo erano andate aumentando sino ai drammatici episodi del luglio – settembre 2018, data di consumazione del reato di tortura). Del resto, la giurisprudenza di legittimità è compatta nel ritenere che, in tema di maltrattamenti in famiglia, l’art. 572 c.p., è applicabile non solo ai nuclei familiari fondati sul matrimonio, ma a qualunque relazione sentimentale che, per la consuetudine dei rapporti creati, implichi l’insorgenza di vincoli affettivi e aspettative di assistenza assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale (Sez. 6, n. 31121 del 18/03/2014, C., Rv. 261472 – 01). Nel caso in esame, è risultato che la relazione tra l’imputato e la vittima era iniziata nel luglio 2017, e dal mese di luglio 2018, la vittima aveva iniziato anche a dormire nella abitazione del prevenuto tre notti a settimana. Sulla base delle dichiarazioni lineari, precise e costanti nel tempo rese dalla persona offesa, deve ritenersi provato anche il delitto di violenza sessuale ascritto al ricorrente. 4. Inammissibile è anche il terzo motivo di gravame. Con adeguata e logica motivazione la Corte territoriale ha negato la concessione delle attenuanti generiche ed ha ritenuto congruo il trattamento sanzionatorio. La Corte di merito ha premesso come la pena inflitta sia apparsa perfettamente adeguata ai parametri di cui agli artt. 132 e 133 c.p., e, come tale, non suscettibile di ridimensionamento. A proposito del diniego delle circostanze attenuanti generiche, la Corte distrettuale ha stigmatizzato il comportamento dell’imputato che non ha manifestato alcuna forma di resipiscenza, sottolineando la particolare odiosità della condotta e la reiterazione nel tempo delle violenze consumate ai danni della persona. Nel pervenire a tali conclusioni, la Corte partenopea si è attenuta ai principi di diritto reiteratamente affermati dalla giurisprudenza di legittimità in forza dei quali, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche, non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione (ex multis, Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Lule, Rv. 259899 – 01). L’irrogazione di una pena base in misura superiore alla media edittale, neppure censurata dal ricorrente, è stata poi oggetto di una specifica motivazione in ordine ai criteri soggettivi e oggettivi elencati dall’art. 133 c.p., avendo la Corte distrettuale chiarito che la scelta operata dal primo Giudice di applicare all’imputato una pena superiore al minimo edittale per il reato di tortura è stata giustificata sulla base della gravità dei fatti, desunta dalla particolare efferatezza della condotta e dal grado di pressione psicologica sulla vittima nonchè dalla ripetizione nel tempo delle condotte di minaccia e violenza. Il motivo è pertanto manifestamente infondato. 5. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene che il ricorso debba essere rigettato con conseguente condanna dell’imputato, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese del grado sostenute dalla parte civile ammessa al gratuito patrocinio. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre, l’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte di appello di Napoli con separato decreto di pagamento ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, disponendo il pagamento in favore dello Stato. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge. Così deciso in Roma, il 25 maggio 2021. Depositato in Cancelleria il 31 agosto 202

 

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