VIOLENZE OFFESE MINACCE ALLA FIDANZATA REATO DI TORTURA APPLICATO AL COMPAGNO

IL GRAVE FATTO

 

Letta la requisitoria del Procuratore Generale/che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso. Svolgimento del processo 1. E’ impugnata la sentenza indicata in epigrafe, con la quale la Corte di appello di Napoli ha confermato quella emessa dal giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere con la quale il ricorrente è stato dichiarato colpevole dei reati a lui ascritti e, unificati gli stessi dal vincolo della continuazione, è stato condannato, con la riduzione per il rito, alla pena di anni sei e mesi otto di reclusione, oltre al risarcimento dei danni ed al pagamento di una provvisionale e spese di giudizio in favore della parte civile, alle pene accessorie e conseguente condanna al pagamento delle spese processuali e di custodia cautelare sofferta. Al ricorrente sono stati contestati: (A) il reato di cui all’art. 572 c.p., perchè maltrattava la fidanzata O.M. con una serie di atti lesivi della sua integrità fisica e morale, sottoponendola ad un regime di vita vessatorio e violento, così da rendere abitualmente dolorosa e mortificante la relazione. In particolare: – nel dicembre 2017, dopo aver scoperto sul cellulare della donna un messaggio ricevuto dal precedente compagno, si impossessava del telefono, rispondendo ai messaggi e, dopo aver saputo i dettagli della relazione, la offendeva dicendole “sei una escort e i tuoi figli devono saperlo perchè mangiano con il tuo lavoro” e la minacciava di inviare i predetti messaggi alla moglie dell’ex compagno e ai figli della vittima, trattenendo il cellulare per una settimana ed usandolo come arma di ricatto, così sottoponendola ad uno stato di stress, di paura e di vergogna; – costantemente la controllava, anche a distanza, mediante l’applicazione whatsapp, chiedendo spiegazioni su tutti e tutto, controllandole il telefonino, il profilo Facebook, così tenendola sempre in uno stato di ansia e di paura; – nel febbraio 2018, in un’occasione, a fronte di un messaggio ricevuto dalla vittima da un numero sconosciuto, le diceva in maniera oppressiva “te lo devi ricordare” e, nonostante la donna lo invitasse a richiamare per eliminare qualunque suo dubbio, si rifiutava e per rabbia con un taglierino si tagliava sul braccio, incidendosi le iniziali della donna e le diceva “per colpa tua vedi”, compiacendosi del gesto compiuto; – nonostante la donna cercasse di tenerlo calmo per prevenire scenate, mandandogli spesso messaggi, facendo tutto quello che lui desiderasse e mettendolo al centro delle sue attenzioni, aveva sempre da ridire, dubitando di qualunque cosa al punto da controllarle continuamente il cellulare, diventando sempre più opprimente e ossessivo; – in più occasioni la offendeva con espressioni del tipo “mò te ne vai a casa, chissà con chi ti incontri, ti vai a preparare e lo sono lo stronzo che sta qua”; – dall’aprile 2018 la costringeva, urlando e dicendole con prepotenza “me li devi prestare perchè mi servono, so che li tieni e me li devi dare”, a farsi consegnare diverse somme di denaro per un totale di 500 Euro; – nel maggio 2018, mentre la donna era alla guida della propria autovettura, la percuoteva colpendola con schiaffi e pugni alla testa e al volto perchè, a suo dire, gli aveva negato di aver guardato un uomo e, quando la vittima fermava l’auto per scendere, glielo impediva, trattenendola per un braccio, mettendosi sopra di lei, facendola sbattere con il viso contro lo sportello che cercava di chiudere, dicendole “sei una puttana di merda ti meriti tutto questo, se ti fa piacere ti porto lo a farla per me sul vialone di Caserta” per poi giungere nella stanza dell'”(OMISSIS)” di Castel Volturno e, nonostante la donna fosse dolorante e scoraggiata al punto da invocare la morte, con violenza la costringeva a compiere gli atti sessuali di cui al capo B), nonostante il suo espresso dissenso; – dopo l’episodio sopra descritto, vedendo le foto ritraenti i lividi sul volto della persona offesa, le diceva “sei molto brava a camuffarti, usa il trucco”, facendosi mandare di continuo foto e messaggi per controllare se la donna fosse in compagnia di qualcuno per poi dirle “stai attenta a quello che dici, non parlare con nessuno male di me, questo è solo l’inizio, vedrai cosa sono capace di fare”; – ripetutamente e per futili motivi la percuoteva colpendola al volto, cagionandole in più occasioni ferite al labbro e l’offendeva con frasi del tipo “sei una puttana di merda, sei una troia, non mi pensi proprio, con chi stai chattando, con chi sei”; – ripetutamente la costringeva a consumare rapporti sessuali a cui la vittima acconsentiva per paura di essere picchiata e per il timore di una sua reazione violenta in caso di rifiuto; – reiteratamente la percuoteva, colpendola con pugni, calci e schiaffi sia a mani libere che utilizzando un cucchiaio, puntandole un coltello alla gola e mettendole le mani alla gola al punto da farla svenire, impedendole di piangere e di chiedere aiuto; – più volte la minacciava di fare del male alla sua famiglia; – in più occasioni la costringeva a fare uso di sostanze stupefacenti; – le impediva di frequentare amici e di tenere contatti con la famiglia di origine; – per farla tacere, la minacciava di divulgare video ritraenti rapporti sessuali, registrati a sua insaputa; – sistematicamente la faceva oggetto di violenze fisiche e psicologiche al punto da farla dimagrire circa 10 Kg; – costantemente la teneva in uno stato di soggezione psicologica a causa dei suoi comportamenti minacciosi e violenti; – sistematicamente la faceva oggetto di atti di umiliazione e disprezzo idonei a cagionare durevoli sofferenze fisiche e morali

 

 

DECIDE LA CORTE

Non coincidenti, da un confronto in astratto, gli elementi strutturali del reato di tortura e di quello di maltrattamenti, diversi essendo anche i beni giuridici tutelati dalle rispettive incriminazioni, va sottolineato come, nel caso di specie, non vi sia neppure piena sovrapponibilità, in fatto, tra le condotte poste a fondamento del delitto di maltrattamenti e quelle integranti il reato di tortura, atteso che la diversa determinazione temporale del periodo consumativo dei rispettivi reati (dal dicembre 2017 a luglio 2018 il reato di maltrattamenti: da luglio a settembre 2018, il reato di tortura), la reiterazione di atti di violenza e minaccia non gravi, le continue e pesanti offese verbali, le imposizioni, le futili pretese, le costanti umiliazioni, le sofferenze e le privazioni inflitte alla donna, estranee al raggio dell’incriminazione del reato di tortura, hanno assunto i connotati tipici del delitto di maltrattamenti, in quanto fonte di uno stato di disagio continuo e incompatibile con le normali condizioni di vita della persona offesa, nei confronti della quale è stata lesa in maniera sistematica l’integrità fisica ed il patrimonio morale mediante il compimento di condotte che hanno posto la vittima in uno stato di incessante disagio e avvilimento, costringendola a sostenere drammatiche condizioni di vita per un rilevante arco temporale (la relazione era stata avviata nel luglio 2017 e le violenze erano iniziate nel dicembre 2017, con il tempo erano andate aumentando sino ai drammatici episodi del luglio – settembre 2018, data di consumazione del reato di tortura).

 

 

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Sentenza 31 agosto 2021, n. 32380 Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. MARINI Luigi – Presidente – Dott. DI NICOLA Vito – rel. Consigliere – Dott. SOCCI Angelo Matteo – Consigliere – Dott. CERRONI Claudio – Consigliere – Dott. NOVIELLO Giuseppe – Consigliere – ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: R.C.C., nato in (OMISSIS); avverso la sentenza del 04-06-2020 della Corte di appello di Napoli; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso trattato ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8; udita la relazione del Consigliere Di Nicola Vito; Letta la requisitoria del Procuratore Generale/che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso. Svolgimento del processo 1. E’ impugnata la sentenza indicata in epigrafe, con la quale la Corte di appello di Napoli ha confermato quella emessa dal giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere con la quale il ricorrente è stato dichiarato colpevole dei reati a lui ascritti e, unificati gli stessi dal vincolo della continuazione, è stato condannato, con la riduzione per il rito, alla pena di anni sei e mesi otto di reclusione, oltre al risarcimento dei danni ed al pagamento di una provvisionale e spese di giudizio in favore della parte civile, alle pene accessorie e conseguente condanna al pagamento delle spese processuali e di custodia cautelare sofferta. Al ricorrente sono stati contestati: (A) il reato di cui all’art. 572 c.p., perchè maltrattava la fidanzata O.M. con una serie di atti lesivi della sua integrità fisica e morale, sottoponendola ad un regime di vita vessatorio e violento, così da rendere abitualmente dolorosa e mortificante la relazione. In particolare: – nel dicembre 2017, dopo aver scoperto sul cellulare della donna un messaggio ricevuto dal precedente compagno, si impossessava del telefono, rispondendo ai messaggi e, dopo aver saputo i dettagli della relazione, la offendeva dicendole “sei una escort e i tuoi figli devono saperlo perchè mangiano con il tuo lavoro” e la minacciava di inviare i predetti messaggi alla moglie dell’ex compagno e ai figli della vittima, trattenendo il cellulare per una settimana ed usandolo come arma di ricatto, così sottoponendola ad uno stato di stress, di paura e di vergogna; – costantemente la controllava, anche a distanza, mediante l’applicazione whatsapp, chiedendo spiegazioni su tutti e tutto, controllandole il telefonino, il profilo Facebook, così tenendola sempre in uno stato di ansia e di paura; – nel febbraio 2018, in un’occasione, a fronte di un messaggio ricevuto dalla vittima da un numero sconosciuto, le diceva in maniera oppressiva “te lo devi ricordare” e, nonostante la donna lo invitasse a richiamare per eliminare qualunque suo dubbio, si rifiutava e per rabbia con un taglierino si tagliava sul braccio, incidendosi le iniziali della donna e le diceva “per colpa tua vedi”, compiacendosi del gesto compiuto; – nonostante la donna cercasse di tenerlo calmo per prevenire scenate, mandandogli spesso messaggi, facendo tutto quello che lui desiderasse e mettendolo al centro delle sue attenzioni, aveva sempre da ridire, dubitando di qualunque cosa al punto da controllarle continuamente il cellulare, diventando sempre più opprimente e ossessivo; – in più occasioni la offendeva con espressioni del tipo “mò te ne vai a casa, chissà con chi ti incontri, ti vai a preparare e lo sono lo stronzo che sta qua”; – dall’aprile 2018 la costringeva, urlando e dicendole con prepotenza “me li devi prestare perchè mi servono, so che li tieni e me li devi dare”, a farsi consegnare diverse somme di denaro per un totale di 500 Euro; – nel maggio 2018, mentre la donna era alla guida della propria autovettura, la percuoteva colpendola con schiaffi e pugni alla testa e al volto perchè, a suo dire, gli aveva negato di aver guardato un uomo e, quando la vittima fermava l’auto per scendere, glielo impediva, trattenendola per un braccio, mettendosi sopra di lei, facendola sbattere con il viso contro lo sportello che cercava di chiudere, dicendole “sei una puttana di merda ti meriti tutto questo, se ti fa piacere ti porto lo a farla per me sul vialone di Caserta” per poi giungere nella stanza dell'”(OMISSIS)” di Castel Volturno e, nonostante la donna fosse dolorante e scoraggiata al punto da invocare la morte, con violenza la costringeva a compiere gli atti sessuali di cui al capo B), nonostante il suo espresso dissenso; – dopo l’episodio sopra descritto, vedendo le foto ritraenti i lividi sul volto della persona offesa, le diceva “sei molto brava a camuffarti, usa il trucco”, facendosi mandare di continuo foto e messaggi per controllare se la donna fosse in compagnia di qualcuno per poi dirle “stai attenta a quello che dici, non parlare con nessuno male di me, questo è solo l’inizio, vedrai cosa sono capace di fare”; – ripetutamente e per futili motivi la percuoteva colpendola al volto, cagionandole in più occasioni ferite al labbro e l’offendeva con frasi del tipo “sei una puttana di merda, sei una troia, non mi pensi proprio, con chi stai chattando, con chi sei”; – ripetutamente la costringeva a consumare rapporti sessuali a cui la vittima acconsentiva per paura di essere picchiata e per il timore di una sua reazione violenta in caso di rifiuto; – reiteratamente la percuoteva, colpendola con pugni, calci e schiaffi sia a mani libere che utilizzando un cucchiaio, puntandole un coltello alla gola e mettendole le mani alla gola al punto da farla svenire, impedendole di piangere e di chiedere aiuto; – più volte la minacciava di fare del male alla sua famiglia; – in più occasioni la costringeva a fare uso di sostanze stupefacenti; – le impediva di frequentare amici e di tenere contatti con la famiglia di origine; – per farla tacere, la minacciava di divulgare video ritraenti rapporti sessuali, registrati a sua insaputa; – sistematicamente la faceva oggetto di violenze fisiche e psicologiche al punto da farla dimagrire circa 10 Kg; – costantemente la teneva in uno stato di soggezione psicologica a causa dei suoi comportamenti minacciosi e violenti; – sistematicamente la faceva oggetto di atti di umiliazione e disprezzo idonei a cagionare durevoli sofferenze fisiche e morali. Con la circostanza aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 1 per aver agito per motivi futili. Con la circostanza aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 4, per aver agito con crudeltà verso la persona offesa. In (OMISSIS); (B) il reato di cui agli artt. 81 cpv. e 609-bis c.p.p., art. 609-ter c.p.p., n. 5-quater, perchè, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, anche in tempi diversi, con violenza consistita nel colpire la persona offesa con schiaffi e pugni al volto e alla testa, nello sbatterla con la testa contro il muro al punto da provocarle una fuoriuscita di sangue, nello stringerle le mani alla gola, dicendole “sei una puttana di merda ti piace fare questo e adesso lo fai per me, chiamo qualcuno se non ti basto”, la costringeva a compiere atti sessuali, consistiti in un rapporto orale, nonostante il suo espresso dissenso (episodio del maggio 2018) e, in più occasioni, nonostante il dissenso espresso della donna, la costringeva a subire e a compiere atti sessuali a cui la vittima non riusciva ad opporsi a causa delle continue e reiterate violenze fisiche subite, della sua possenza fisica, della paura di essere picchiata, del timore che facesse del male anche ai figli, perchè era ormai sfinita e senza forze ed avendo perso ogni speranza di porre termine alle torture di cui era vittima. Con la circostanza aggravante dell’aver commesso il fatto nei confronti di persona alla quale il colpevole è o è stato legato da relazione affettiva. In (OMISSIS); (C) il reato di cui all’art. 613-bis c.p., commi 1 e 4, perchè, con violenze e minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagionava alla persona offesa, privata della libertà personale, in quanto la chiudeva a chiave in casa, portando con sè le chiavi, acute sofferenze fisiche, un verificabile trauma psichico ed una lesione personale dalla quale derivava una malattia nel corpo (ecchimosi diffuse, arto superiore, fronte, gamba sx; escoriazioni diffuse, ustione di primo grado fianco sx, frattura VII e IX costa di destra, giudicata guaribile in 21 giorni), mediante più condotte di seguito indicate. Ed in particolare: – nel luglio 2018 si recava a casa della donna, la colpiva con schiaffi, pugni e calci in tutte le parti del corpo, la prendeva per i capelli, la sbatteva contro i mobili ed il muro, le stringeva le mani al collo, soffocandola fino allo sfinimento, impedendole di urlare e le diceva “sei una puttana, meriti tutto questo guarda cosa mi hai fatto diventare non ti permettere di urlare che ti ammazzo, questa è la volta buona”, costringendola a non parlare con alcuna persona e minacciandola che diversamente l’avrebbe picchiata; – tra il luglio e l’agosto 2018 la colpiva con schiaffi al volto, spaccandole il labbro e la colpiva con un pugno allo zigomo; le controllava il telefono anche di notte; cancellava i messaggi in cui la minacciava ed in cui la donna cercava di convincerlo a lasciarla, dicendole che l’avrebbe lasciata quando l’avrebbe deciso lui; la costringeva ad avere rapporti sessuali a cui la donna acconsentiva per evitare ulteriori violenze, perchè se provava a negarsi diventava una bestia e per il timore che facesse del male ai suoi figli; aveva sempre il controllo della persona offesa, creandole ansia e paura; la minacciava di fare del male anche ai suoi figli con frasi del tipo “fai venire a S., lo so dove abiti e non ho niente da perdere”; le chiedeva ripetutamente somme di denaro, costringendola a consegnargli la postepay con il pin da cui prelevava la somma di 350 Euro; – la notte tra il (OMISSIS), a fronte del rifiuto opposto dalla donna ad avere un rapporto sessuale, andava in escandescenza, accusandola di tradirlo, frugava nella sua borsa e, dopo aver trovato la somma di 15 Euro ed un pacchetto di sigarette, la picchiava, colpendola con calci, pugni e schiaffi al volto, dicendole “zoccola, puttana, se ti piace fare la puttana adesso la fai per me, ti porto a Caserta sul vialone”, “ti sei venduta per 20 Euro a (OMISSIS)” e, nonostante la vittima gli dicesse di aver ottenuto il denaro dalla sorella, continuava a percuoterla e, tenendola ferma per un braccio, riscaldava sul fornello una forchetta e ferocemente gliela imprimeva sul fianco sinistro, dicendo con aria soddisfatta “ti ho fatto proprio un bel marchio”, così cagionandole un’ustione di primo grado, poi, guardandola con sguardo minaccioso e a denti stretti, le diceva di non urlare, la metteva a corpo nudo per più di un’ora sotto la doccia fredda, impedendole di uscire, la percuoteva con le mani e con un cucchiaio di acciaio, le sferrava calci su tutto il corpo e pugni alla testa; alle quattro di mattina, la costringeva a vestirsi e a prendere l’auto per recarsi a casa della donna e, durante il tragitto, la offriva ad ogni uomo di colore incontrato; giunti a casa, la costringeva a prendere i vestiti più sexy e le scarpe alte per indossarli il giorno dopo sul vialone di Caserta, minacciandola di non tornare a casa prima di una settimana per poi ritornare a casa sua dove la costringeva a subire un altro rapporto sessuale, a cucinare, a pulire casa, impedendole di andare a lavoro ed impedendole di allontanarsi dall’abitazione per tutta la giornata del (OMISSIS), avendo chiuso il cancello a chiave, continuando a costringerla ad avere rapporti sessuali noncurante dei lamenti della donna che, avendo ormai perso ogni speranza di porre termine alle torture di cui era vittima si limitava a dire “fai piano che sento dolore dappertutto” per poi liberarla il (OMISSIS) continuando a telefonarle finchè il figlio non bloccava il contatto. In (OMISSIS). 2. Il ricorrente, tramite il difensore di fiducia, impugna la citata sentenza con tre motivi, di seguito riassunti ai sensi dell’art. 173 disp. att. c.p.p.. 2.1. Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione di legge e difetto di motivazione in relazione all’art. 192 c.p.p. per travisamento del fatto (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e)). Assume che sarebbe difettosa la ricostruzione delle motivazioni contenute nella sentenza impugnata sulla attendibilità-credibilità della persona offesa, essendosi la Corte territoriale limitata, per altro, ad ancorarsi pedissequamente a quanto statuito con la sentenza di primo grado, finendo per determinare la violazione di legge ed il difetto di motivazione denunciato. Il ricorrente osserva che la Corte di appello avrebbe confermato la ricostruzione fornita dalla persona offesa, nonostante non vi fossero altri elementi probatori attestanti la veridicità di tali dichiarazioni, nè effettuando un controllo analitico delle dichiarazioni suindicate. Il ricorrente si mostra consapevole che le regole dettate dall’art. 192 c.p.p., comma 3, non si applicano alle dichiarazioni dell’offeso, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di responsabilità, ma obietta che deve pure esserci una previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto. Ricorda che tale verifica deve essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. Inoltre, qualora la persona offesa si sia costituita parte civile, può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi. Nel caso in esame, risulta, ad avviso del ricorrente, del tutto manchevole una valutazione analitica e rigorosa del narrato della persona offesa, laddove si pensi che la vittima ben avrebbe potuto mentire perchè risentita del rapporto sentimentale non andato a buon fine, tanto da comportare, appunto, la nascita del presente procedimento penale. A riprova di ciò, sottolinea come sia del tutto inverosimile che la persona offesa non si fosse mai recata in caserma per sporgere formale denuncia- querela, laddove si pensi che solo il (OMISSIS), ovvero dopo circa cinque mesi, venne allertato il Commissariato di Polizia dal personale del pronto soccorso. In altri termini, la Corte di appello avrebbe errato laddove in sentenza, e segnatamente a folio 10 delle motivazioni, asserisce che “la circostanza che la vittima abbia continuato ad avere rapporti con l’imputato, mediante l’invio di messaggi telefonici, anche in epoca successiva alla denuncia, è inoltre sintomatica della condizione di totale sottomissione e di paura nella quale ella viveva”, ritenendo ciò senza spendere alcuna motivazione circa l’iter logico-deduttivo posto a fondamento di una tale affermazione. Nulla direbbe la Corte di appello in ordine ai canoni ermeneutici sottesi alla ricostruzione della attendibilità intrinseca della persona offesa. Alcuna parola sarebbe stata spesa sulla verifica degli SMS intercorsi nei giorni successivi alla denuncia che attestavano la prosecuzione della relazione tra l’imputato e la persona offesa. Analogamente, la Corte di appello, allorquando ha analizzato la presenza di conversazioni avvenute tramite whatsapp, avrebbe omesso di verificare che vi erano state conversazioni intercorse tra l’imputato e la persona offesa (sms e messaggi whatsapp), sino al 7 settembre 2018, ovvero fino al momento del fermo del ricorrente. La motivazione della Corte di appello sarebbe poi totalmente assente in relazione alla abitualità della condotta che deve necessariamente integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia. 2.2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta violazione di legge difetto di motivazione in relazione all’art. 613-bisc.p. (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e)). Sostiene che il delitto di cui all’art. 613-bis c.p., presuppone l’esistenza di un rapporto qualificato tra l’autore e la vittima, richiedendo che quest’ultima sia “una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa”. Ne consegue che la Corte partenopea avrebbe errato laddove non ha effettuato alcun accertamento circa la sussistenza di un rapporto caratterizzato da una condizione di affidamento al reo della persona offesa, ovvero di privazione della libertà personale di quest’ultima o di minorata difesa, che deve preesistere alla realizzazione della condotta. Sarebbe pertanto erroneo il principio di diritto affermato dalla Corte d’appello secondo il quale, ai fini della configurabilità del delitto di tortura, non occorre che la condizione di privazione della libertà personale sia preesistente alla commissione della condotta, atteso che la norma non conterrebbe alcun riferimento ad eventuali provvedimenti restrittivi di natura giurisdizionale. Obietta il ricorrente che, tuttavia, nel gravame proposto non vi era alcun cenno circa la presenza di provvedimenti di restrizione di natura giurisdizionale in capo alla vittima, quanto piuttosto era richiesta, per l’integrazione della fattispecie incriminatrice, la presenza di una condizione di privazione della libertà personale o di minorata difesa che doveva preesistere alla condotta incriminata, quale elemento implicito di fattispecie. Tale condizione, quindi, non poteva e non doveva ravvisarsi nell’ambito di una relazione affettiva, in quanto il riferimento a chi è affidato alla custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza di altri postula un rapporto intrinsecamente connotato da più pregnanti obblighi di tutela a carico del reo nei confronti della persona offesa, di natura diversa da quelli di carattere solidale che nascono all’interno di un consorzio familiare o affettivo e la cui violazione sarebbe già sanzionata dalla norma di cui all’art. 572 c.p.. Quanto, perciò, alla privazione della libertà personale e alla minorata difesa deve ritenersi, ad avviso del ricorrente, che le stesse non debbano essere cagionate dal reo in esecuzione della condotta di tortura, ma preesistere quali elementi impliciti della fattispecie: tali conclusioni il ricorrente trae, a suo dire, da un interpretazione letterale della norma in esame, in cui la condotta tipica è data dal cagionare acute sofferenze fisiche ovvero un verificabile trauma psichico, non già dalla privazione della libertà personale o dal porre il soggetto in una condizione di minorata difesa. 2.3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione di legge e difetto di motivazione in relazione agli artt. 62-bis e 133 c.p. (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e)). Sostiene che la Corte partenopea ha confermato la severa pena applicata all’esito del primo giudizio, negando al ricorrente la concessione delle attenuanti generiche, ma senza considerare che la finalità precipua delle invocate attenuanti è quella di permettere un più congruo adeguamento della pena in concreto, considerata la globalità degli elementi soggettivi e oggettivi declinati dall’art. 133 c.p.. Ricorda che la concessione delle attenuanti generiche non implica necessariamente un giudizio di non gravità del fatto reato. Sul punto, la stringata motivazione della Corte di appello sarebbe, allora, del tutto difettosa, in quanto il riconoscimento delle invocate circostanze attenuanti sarebbe stato negato ricorrendo a frasi di stile e senza, quindi, alcuna idonea motivazione in proposito. 3. Il Procuratore generale ha concluso per l’inammissibilità del ricorso. Quanto al primo motivo, ha sottolineato la sua aspecificità, avendo la Corte territoriale sostenuto il giudizio confermativo della colpevolezza del ricorrete non soltanto sulla base delle dichiarazioni della persona offesa ma anche sulla base dei documenti acquisiti al processo (fotografie e referti medici). Quanto al reato di “tortura”, il ricorso appare, ad avviso del Procuratore generale, destituito di fondamento, dolendosi il ricorrente dell’assenza dell’accertamento di uno dei presupposti del reato: condizione di affidamento al reo della persona offesa, privazione della libertà personale di quest’ultima ovvero minorata difesa (seconda pagina del motivo n. 2), senza considerare però che il capo d’imputazione indica con chiarezza che, di questi, il presupposto valorizzato è quello della “privazione della libertà personalè in quanto “la chiudeva a chiave in casa, portando con sè la chiave…”, presupposto del cui accertamento la motivazione dà conto in modo congruo. D’altra parte, il Procuratore generale rileva che dal contesto della motivazione stessa appare evidente la sussistenza anche del presupposto della “minorata difesa” per come pacificamente configurata dalla più recente giurisprudenza della Corte, riportata nelle conclusioni scritte. Motivi della decisione 1. Il ricorso è infondato. 2. Il primo motivo è inammissibile per manifesta infondatezza, avendo la Corte d’appello correttamente applicato i principi di diritto affermati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di valutazione delle dichiarazioni rese dalla persona offesa. Inoltre, la doglianza, così come sollevata, non è consentita perchè – in presenza di un’adeguata motivazione, priva di vizi di manifesta illogicità – i rilievi, in ordine al formulato giudizio di attendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa, si risolvono in censure tipicamente fattuali che, riguardando il merito della regiudicanda, si sottraggono al controllo in sede di giudizio di legittimità. Per dare conto di ciò – anche al fine di delineare con precisione i fatti accertati nel corso del giudizio di merito, risultando la ricostruzione utile per lo scrutinio del secondo motivo di gravame,con il quale il ricorrente contesta la configurabilità del delitto di tortura “comune”, cosiddetta “orizzontale” o tra “privati” – è sufficiente ricordare come i giudici di merito, con doppia e conforme motivazione, abbiano ritenuto pienamente attendibili le dichiarazioni della persona offesa per avere la dichiarante collocato nella giusta dimensione spaziale e temporale gli episodi narrati. 2.1. Nel pervenire a tale conclusione, la Corte d’appello ha chiarito che le propalazioni accusatorie della vittima hanno anche trovato pieno riscontro probatorio sia nel referto medico in atti, attestante la riscontrata presenza di lesioni compatibili con il narrato della donna, sia nelle fotografie versate in atti e relative alle violenze fisiche subite nell’aprile 2018 nonchè in data 2 settembre dello stesso anno e sia nel testo dei messaggi estrapolati dal telefono cellulare della vittima. Con accertamento di fatto, adeguatamente e logicamente motivato, insuscettibile pertanto di sindacato in sede di giudizio di legittimità, la Corte d’appello ha correttamente ritenuto irrilevante, ai fini del giudizio sull’attendibilità della persona offesa, la circostanza secondo la quale la vittima, prima del settembre 2018, non si fosse mai recata in ospedale a seguito delle percosse patite e che non si fosse mai confidata con i familiari per raccontare ciò che le stava accadendo. La Corte di merito, a questo proposito, ha ricordato come la vittima avesse precisato di non avere, prima di allora, mai sporto denuncia nei confronti dell’uomo, e di non essersi confidata con i suoi familiari, poichè temeva le ritorsioni dell’imputato, nei confronti suoi e dei suoi tre figli. La circostanza che la vittima abbia continuato ad avere rapporti con il ricorrente, mediante l’invio di messaggi telefonici, anche in epoca successiva alla denuncia, è stata logicamente ritenuta, sulla base dei reiterati comportamenti violenti dell’uomo, sintomatica della condizione di totale sottomissione e di paura nella quale costei viveva. Quanto alla genuinità del racconto della persona offesa, si evince, dal testo del provvedimento impugnato, come le modalità di emersione dei fatti abbiano consentito di escludere che le accuse potessero essere riconducibili a intenti calunniatori. In particolare, è stato accertato che, in data (OMISSIS), la vittima venne ricoverata presso il Pronto Soccorso dell’Ospedale di Sessa Aurunca, presentando sul corpo ecchimosi diffuse all’arto superiore destro, alla fronte e alla gamba sinistra, escoriazioni diffuse, una ustione di primo grado al fianco sinistro, la frattura di due costole, con prognosi di ventuno giorni. Solo a seguito del ricovero ospedaliero, la vittima sporse denuncia nei confronti dell’imputato, raccontando agli investigatori le continue umiliazioni, le minacce, le violenze fisiche e morali patite nel corso della relazione sentimentale da parte del “compagno”, al quale costei era legata sentimentalmente dal luglio 2017, uomo violento ed aggressivo, geloso in modo ossessivo della donna. L’imputato, secondo il racconto della vittima, aveva colpito la persona offesa con calci, schiaffi e pugni in tutte le parti del corpo, l’aveva afferrata per i capelli, aveva sbattuto la testa della vittima contro il muro, le aveva stretto le mani intorno al collo facendole quasi perdere i sensi, l’aveva pesantemente offesa, chiamandola “puttana”, e aveva minacciato di ucciderla. La donna riferì, in particolare, di specifici episodi di violenza. Nel maggio 2018, mentre erano in macchina, l’imputato l’accusò di avere guardato un altro uomo, iniziando a picchiarla con schiaffi e pugni in testa e al volto, impedendole con la forza di uscire dall’abitacolo dell’auto, chiamandola “puttana” e minacciando di portarla sul vialone di Caserta per farla prostituire. Subito dopo l’imputato e la vittima si recarono presso l’abitazione dell’uomo, il quale, nell’occasione, la costrinse a praticargli un rapporto orale, nonostante lo stato di sofferenza fisica patito dalla donna a causa delle percosse subite, dicendole “sei una puttana di merda, ti piace fare questo e adesso lo fai per me, chiamo qualcuno se lo non ti basto”. Durante l’atto sessuale, l’imputato colpì la donna con schiaffi e pugni al volto e alla testa, sbattendola contro il muro, stringendole le mani intorno al collo, quasi a soffocarla. L’imputato poi la costrinse a pernottare presso la sua abitazione, chiudendo la porta della casa e nascondendo le chiavi. Dopo essersi impossessato anche delle chiavi dell’auto della vittima, durante la notte, costrinse la donna ad avere altri rapporti sessuali, che la vittima subì non avendo la forza di opporsi a cagione delle percosse patite, e temendo di essere nuovamente picchiata dall’uomo. Durante gli amplessi, lei lo pregò di fermarsi ma era terrorizzata per la propria vita, e dunque si sottomise al volere dell’uomo. Nei giorni successivi a tale episodio, l’imputato la minacciò per impedirle di raccontare gli abusi subiti dicendole “stai attenta a quello che dici, non parlare con nessuno male di me, questo è solo l’inizio, vedrai cosa sono capace di fare”. Le violenze e le minacce proseguirono anche nel periodo successivo. Nel mese di luglio 2018, durante una scenata di gelosia, l’imputato picchiò nuovamente la vittima, con schiaffi, pugni e calci in tutte le parti del corpo, afferrandola per i capelli, sbattendola contro il muro ed il mobilio, minacciandola di morte. In quello stesso mese, la vittima si intrattenne, per diverse notti, a dormire nella nuova casa dell’imputato. Quando usciva, il ricorrente chiudeva la vittima in casa, portava con sè le chiavi e le intimava di non parlare con i vicini altrimenti al suo ritorno l’avrebbe picchiata. Durante questo periodo di convivenza – nei mesi di luglio ed agosto – la vittima subì altri rapporti sessuali per timore che il suo rifiuto avrebbe scatenato l’ira violenta dell’imputato, il quale aveva anche iniziato ad avanzare nei suoi confronti continue richieste di denaro, che la donna assecondò per timore di ritorsioni, e temendo anche per l’incolumità dei propri figli nei confronti dei quali il ricorrente aveva iniziato ad avanzare minacce. I segni delle percosse erano così evidenti che spesso la vittima era costretta a restare in casa e solo quando non si notavano eccessivamente poteva mascherarli con il trucco e uscire. L’uomo aveva poi fatto in modo che la vittima rimanesse isolata da tutti i suoi affetti, la controllava in tutti i suoi movimenti, arrivando a leggere i messaggi sul suo cellulare. La situazione peggiorò nel mese di settembre 2018. La sera del primo settembre la vittima si recò a casa e la sorella le prestò dei soldi, perchè l’imputato aveva prelevato tutto il denaro sulla carta prepagata intestata alla vittima. Rientrata a casa dell’imputato, la persona offesa si rifiutò di consumare con l’uomo un rapporto sessuale. Il ricorrente iniziò allora a frugare nella borsa della donna e, avendo rinvenuto il denaro che costei aveva ricevuto poco prima dalla sorella, iniziò a picchiarla con pugni e schiaffi al volto, accusandola di essersi venduta per 20,00 Euro a (OMISSIS). Poi a bloccò con il braccio e, dopo avere riscaldato una forchetta sul fuoco, le impresse l’utensile sul fianco sinistro dicendole “ti ho fatto proprio un bel marchio”; quindi la tenne con la forza sotto la doccia di acqua fredda per circa un’ora, impedendole di allontanarsi e continuando a picchiarla con calci sul corpo e pugni in testa, utilizzando per colpirla sia le mani che un cucchiaio di acciaio. Intorno alle 04.00 del mattino, l’imputato accompagnò la vittima nella sua casa di (OMISSIS) per farle prelevare degli abiti succinti, dicendole che il giorno successivo l’avrebbe accompagnata sul vialone di Caserta per farla prostituire e, durante il tragitto, offrì la donna ai passanti. Il giorno successivo, pretese nuovamente di avere rapporti sessuali con la compagna, nonostante costei fosse dolorante per le percosse subite e la costrinse a pulire l’abitazione e a cucinare per lui. L’imputato aveva inoltre impedito alla donna di allontanarsi da casa per andare al lavoro, nascondendo le chiavi del cancello dell’abitazione. Solo il giorno 3 settembre uscirono da casa e la vittima, dopo avere accompagnato l’imputato al lavoro, si recò presso l’abitazione dei suoi genitori. Il 4 settembre la donna si portò in ospedale accompagnata dai familiari. Alla luce di tali risultanze, correttamente i Giudici di merito hanno concordemente concluso per l’affermazione della responsabilità penale dell’imputato per tutti i reati a lui ascritti. 2.2. Pertanto, la sentenza impugnata ha espresso ragionevoli elementi di giudizio, fornendo una corretta e completa disamina di tutte le risultanze processuali, nel contesto di una valutazione complessiva e critica dei fatti narrati dalla persona offesa, della cui attendibilità, a torto, il ricorrente dubita. A questo proposito, quanto cioè alla valutazione della prova dichiarativa relativa alla narrazione testimoniale della vittima del reato, in ispecie se costituita parte civile, la giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che le regole dettate dall’art. 192 c.p.p., comma 3, non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte, Rv. 253214). E’ pur vero che il Giudice deve valutare l’opportunità di procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi ma la Corte di merito non si è sottratta a tale non necessaria incombenza, posto che i riscontri esterni sono stati enunciati nella sentenza impugnata e le obiezioni difensive tutte dettagliatamente disattese. Sul punto, è il caso di precisare come la Corte di legittimità abbia, in diverse occasioni, sottolineato che i riscontri esterni, i quali non sono predeterminati nella specie e nella qualità, possono essere di qualsiasi tipo e natura e possono essere tratti sia da dati obiettivi, quali fatti e documenti, sia da dichiarazioni di altri soggetti, purchè siano idonei a convalidare “aliunde” l’attendibilità dell’accusa, tenuto anche presente che essi devono essere ricercati e valutati, con specifico riferimento alle dichiarazioni della persona offesa, nella prospettiva della verifica del grado di affidabilità della dichiarazione e non ai fini specifici previsti dall’art. 192 c.p.p., comma 3, disposizione che non si applica alle dichiarazioni della vittima del reato (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte, cit.); con la conseguenza che, per fondare il ragionevole convincimento che il dichiarante non abbia mentito, è sufficiente che i riscontri siano idonei a confermare, anche dal punto di vista logico, la credibilità della dichiarazione nel suo complesso e non rispetto a ciascuno dei particolari riferiti dal dichiarante e che neppure è necessario che i riscontri attengano alla posizione soggettiva della persona attinta dalle dichiarazioni, perchè le narrazioni della persona offesa, anche se costituita parte civile, non possono mai essere equiparate alla chiamata in reità o in correità (Sez. 3, n. 33589 del 24/04/2015, T., non mass.). La sentenza impugnata è perciò immune da vizi logici, essendosi la motivazione sviluppata su una solida base argomentativa poggiante su tutte le risultanze processuali emerse: sulle dichiarazioni della persona offesa nonchè sui riscontri oggettivi che sono stati acquisiti con riferimento al narrato della vittima e costituiti dalle relazioni mediche, dai referti dei sanitari, comprovanti la circostanza decisiva secondo cui le lesioni subite dalla vittima fossero del tutto compatibili con il narrato della donna, dalle fotografie versate in atti, comprovanti le violenze fisiche subite nell’aprile e nel settembre 2018, dal testo dei messaggi estrapolati dal telefono cellulare della persona offesa. Pertanto, in presenza di una ampia e positiva verifica, corredata da adeguata motivazione priva di vizi di manifesta illogicità, in ordine alla credibilità soggettiva della persona offesa e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, anche ampiamente riscontrato su tutti i punti centrali della narrazione, per i quali è stata comunque fornita, nella sentenza impugnata, una congrua giustificazione, la Corte d’appello non è incorsa in alcun vizio nella valutazione della prova, cosicchè, sotto tale specifico aspetto, il motivo di ricorso si connota anche per la sua manifesta infondatezza. Sotto altro e convergente aspetto, occorre precisare che, in sede di giudizio di legittimità, l’attendibilità della persona offesa non può essere seriamente messa in discussione quando non emergono disarmonie e incongruenze considerevoli tra la dichiarazione della vittima e le altre prove. Peraltro, va ricordato che, in tema di reati sessuali, poichè la testimonianza della persona offesa è spesso unica fonte del convincimento del giudice, è essenziale la valutazione circa l’attendibilità del teste; tale giudizio, essendo di tipo fattuale, ossia di merito, può essere effettuato solo attraverso la dialettica dibattimentale, mentre è precluso in sede di legittimità, specialmente quando il giudice del merito abbia fornito, come nella specie, una spiegazione plausibile della sua analisi probatoria (Sez. 3, n. 41282 del 05/10/2006, Agnelli, Rv. 235578 – 01). La valutazione prettamente fattuale, ovvero di merito, del giudizio di attendibilità è, infatti, una diretta conseguenza dei principi di oralità e di immediatezza che governano il processo penale, perchè solo attraverso l’esame delle parti – che ordinariamente trova la propria sede naturale nella dialettica dibattimentale e, dunque, solo dal contatto immediato con la fonte di prova – il giudice può desumere elementi diretti per percepire la veridicità del teste, la spontaneità e genuinità delle sue dichiarazioni oppure le incoerenze del narrato, le anomalie, le stranezze e tutti i segnali che possano contaminare la dichiarazione. Tutto ciò è, all’evidenza, precluso in sede di giudizio /C di legittimità, dove non è consentito, in presenza di una logica e adeguata motivazione, contestare l’attendibilità della persona offesa quando, dal testo del provvedimento impugnato o da altri atti del processo specificamente indicati con il motivo di gravame, non emergono, come nel caso in esame, disarmonie e incongruenze considerevoli tra le dichiarazioni della persona offesa e le altre prove. Il motivo è pertanto inammissibile. 3. Il secondo motivo di gravame è invece infondato. 3.1. Il ricorrente, sotto diversi profili, lamenta l’inconfigurabilità, nel caso di specie, del ritenuto delitto di tortura per la supposta mancanza degli elementi costitutivi necessari per l’integrazione della fattispecie incriminatrice. Per dare conto dell’infondatezza della doglianza, sono necessarie alcune premesse, alle quali debbono seguire brevi cenni sulla struttura del reato di tortura nei limiti indispensabili per fornire adeguata risposta ai rilievi formulati dal ricorrente con il motivo di ricorso. 3.2. Nelle carte internazionali, il divieto di tortura è previsto dall’art. 3 della Convenzione EDU e dall’art. 7 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, patto dal quale è scaturita la Dichiarazione ONU sulla protezione di tutte le persone sottoposte a forme di tortura e altre pene o trattamenti inumani, crudeli o degradanti, adottata dall’Assemblea generale il 9 dicembre 1975. Il 10 dicembre 1984 è stata approvata dall’Assemblea generale dell’ONU la Convenzione contro la tortura, ratificata dall’Italia con la L. 3 novembre 1988, n. 498. Va anche ricordata l’adozione della Convenzione Europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti del 26 novembre 1987, ratificata dall’Italia con la L. 2 gennaio 1989, n. 7 (entrata in vigore in data 1 aprile 1989) e le sue integrazioni. La citata Convenzione ONU del 1984 contro la tortura ed altri trattamenti e pene crudeli, inumane e degradanti (la c.d. CAT), prevede l’obbligo per gli Stati di legiferare affinchè qualsiasi atto di tortura sia espressamente e immediatamente previsto come reato nel diritto penale interno. Vale la pena ricordare, non essendo possibile soffermarsi sul contenuto delle carte internazionali, che la Convenzione del 1984, per quanto qui interessa, ha fissato una soglia minima di punibilità della tortura, privilegiando quelle forme in cui la struttura del reato richiede il dolo specifico (dove cioè l’elemento finalistico è caratterizzato dal fatto che la condotta debba tendere al conseguimento di tre scopi alternativi: ossia 1) ottenere informazioni o confessioni, 2) punire, intimidire o fare pressioni e 3) discriminare) e in cui vi sia il coinvolgimento necessario di funzionari pubblici. La Convenzione, tuttavia, consente agli Stati di prevedere una fattispecie di più ampio raggio e perciò maggiormente comprensiva, purchè nel rispetto della soglia minima fissata dagli standard definitori del trattato. In buona sostanza, il modello legale di reato configurato negli ordinamenti giuridici nazionali non può restringere l’area di punibilità minima fissata dal trattato, con la conseguenza che non può scalfire, limitandone la portata, gli elementi costitutivi della tortura di Stato fissati nella Convenzione. Gli obblighi di incriminazione, che non discendono soltanto dalle richiamate disposizioni di diritto internazionale, sono stati ottemperati dall’Italia con la L. 14 luglio 2017, n. 110 che ha introdotto, per quanto qui interessa, nel codice penale gli artt. 613-bis e 613-ter. In particolare, con l’art. 613-bis c.p., è stato tipizzato il reato di tortura, strutturato come delitto “a geometria variabile”, potendo l’ambito di operatività della norma penale ricomprendere sia la tortura privata (cosiddetta comune o orizzontale o impropria: art. 613-bis, comma 1) e sia la tortura pubblica (cosiddetta di Stato o verticale o propria: art. 613-bis, comma 2). Ne deriva che, con la legge citata, sono stati configurati due autonomi titoli di reato e, quindi, due diverse e autonome fattispecie incriminatrici, a disvalore progressivo, secondo la qualifica del soggetto attivo del reato: la tortura pubblica (reato proprio) se il soggetto attivo sia un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio che commetta il fatto tipico descritto nell’art. 613-bis c.p., comma 1, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio; tortura privata (reato comune) negli altri casi. La norma penale è stata collocata in seno ai delitti contro la persona, tra i delitti contro la libertà individuale e, in particolare, alla fine della sezione relativa ai delitti contro la libertà morale. La collocazione individuata dal legislatore, sebbene criticata, induce a ritenere che l’oggettività giuridica criminosa “generica” debba identificarsi nella tutela della c.d. libertà morale o psichica della persona, intesa come diritto dell’individuo di autodeterminarsi liberamente, in assenza di coercizioni fisiche e psichiche che ne limitino la libertà di movimento (personale), libertà pesantemente pregiudicata da condotte costrittive (violenze o minacce gravi oppure da una condotta commessa con crudeltà) che cagionano acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a persona privata della libertà personale o affidata alla custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza dell’agente oppure che versi in una situazione di assoluta vulnerabilità (minorata difesa), con la conseguenza che la forza di resistenza del soggetto passivo risulta, in quest’ultimo caso, ostacolata da particolari condizioni personali e ambientali che facilitano l’azione criminale del colpevole e che rendono effettiva la signoria o il controllo dell’agente sulla vittima, agevolando il depotenziamento se non l’annullamento delle capacità di reazione di quest’ultima (Sez. 5, n. 50208 del 11/10/2019, S., Rv. 277841 – 04; Sez. 5, n. 47079 del 08/07/2019, R., Rv. 277544 – 03), e tutto ciò quando il fatto di reato sia commesso con più condotte o, in mancanza di condotte plurime, comporti un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona. L’asse della lesività del delitto è, pertanto, calibrato sulla natura della condotta nella tortura privata, dove non rileva affatto la qualifica giuridica soggettiva dell’agente se non limitatamente ad un elemento costitutivo di fattispecie rappresentato dai rapporti di affidamento, affrancati però completamente dalla componente pubblicistica, mentre il fulcro dell’offesa, nel reato di tortura pubblica, è spostato sull’esercizio illegale del potere o del servizio pubblico, cosicchè la medesima condotta acquista un maggiore disvalore, risultando perciò il fatto di reato più gravemente (e autonomamente) punito, in considerazione, come è stato opportunamente osservato, della perversione del potere coercitivo affidato al funzionario pubblico, il quale tradisce il senso e sormonta i limiti per il quale il potere è stato conferito, vulnerando nel suo significato più sostanziale il principio di legalità, perno di qualsiasi Stato di diritto e la cui osservanza è, in primis, imposta gli organi pubblici. Tuttavia, l’oggettività giuridica criminosa “specifica”, ossia il bene giuridico tutelato dall’incriminazione, ha un contenuto più pregnante. Consistendo la tortura nell’inflizione brutale di sofferenze corporali, essa determina un grave e prolungato patimento fisico e morale dell’essere umano che la patisce, cosicchè la sua particolarità risiede nella conclamata e terribile attitudine che la stessa possiede e cioè quella di assoggettare completamente la persona la quale, in balia dell’arbitrio altrui, è trasformata da essere umano in cosa, ossia in una “res” oggetto di accanimento. La sofferenza corporale, fisica e/o psichica, inflitta a una persona umana è tuttavia solo una componente della fattispecie incriminatrice,ma il contenuto preciso dell’offesa penalmente rilevante sta nella lesione della “dignità umana”, che costituisce la cifra comune della lesività specifica, tanto del reato di tortura privata quanto del reato di tortura pubblica, e che si traduce nell’asservimento della persona umana e, di conseguenza, nell’arbitraria negazione dei suoi diritti fondamentali inviolabili. Trattandosi di un concetto relazionale, l’offesa penalmente rilevante può riguardare differenti fenomeni di compressione del bene giuridico (dignità umana o della persona), cosicchè le forme di tutela possono essere diversamente modulate dal legislatore attraverso la previsione di modelli legali di reato calibrati sul tipo di incriminazione (schiavitù, tratta, tortura, ecc.). Nel caso di specie, con la previsione del modello legale descritto nell’art. 613-bis c.p., si è voluto ampliare il raggio dell’incriminazione rispetto alla soglia minima richiesta, come ius cogens, dal diritto internazionale, riconoscendo la configurabilità del reato anche nelle relazioni private, fermo restando che la tortura pubblica non può assumere la forma circostanziale rispetto a quella privata, ma costituisce un reato autonomo sia per la natura del soggetto attivo, sia per l’indipendenza del trattamento sanzionatorio rispetto alla tortura privata e sia per la necessità di un obbligo di incriminazione specifico di quest’ultima fattispecie, non anche dell’altra, obbligo che sarebbe da considerare disatteso, con diretta collisione del diritto interno con quello internazionale, nel caso in cui si considerasse l’art. 613-bis c.p., comma 2, una circostanza di un altro reato, e cioè della tortura privata, il cui obbligo di incriminazione non era vietato ma neppure imposto, diversamente dalla tortura di Stato, dalle carte internazionali. 3.3. Quanto alla struttura dell’incriminazione, il delitto di cui all’art. 613-bis c.p., comma 1, è un reato comune (potendo essere realizzato da chiunque); è reato a forma vincolata (essendo richiesto, come è stato anticipato, un requisito modale della condotta e potendo il reato essere commesso solo mediante violenze o minacce gravi oppure agendo con crudeltà); è un reato di evento (dovendo essere cagionate acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico); è un reato eventualmente abituale improprio (soltanto per talune modalità della condotta – ossia per le violenze o le minacce gravi, che perciò costituiscono di per sè reato e che devono necessariamente estrinsecarsi in condotte plurime – è richiesta la reiterazione della condotta, requisito non previsto per altre modalità di realizzazione della fattispecie incriminatrice ovvero qualora si agisca con crudeltà); è un reato a dolo generico (non avendo il legislatore recepito la tripartizione in tortura giudiziaria, punitiva e discriminatoria fatta propria dall’art. 1 della Convenzione ONU del 1984), che ammette la forma del dolo eventuale (potendo le acute sofferenze fisiche o il verificabile trauma psichico costituire eventi semplicemente accettati e voluti dal soggetto attivo, secondo il modello proprio del dolo eventuale); la limitazione della libertà personale, la relazione di affidamento e la condizione di minorata difesa sono presupposti della condotta (comunque rientrando nel fuoco del dolo); il fatto di reato, infine, deve essere commesso mediante più condotte (nel senso che la reiterazione non deve esaurirsi in un ristretto ambito temporale ma deve essere cronologicamente consistente) oppure, quando è richiesta per l’integrazione della fattispecie la commissione di un’unica condotta, deve conseguire da essa, oltre agli eventi tipici (acute sofferenze fisiche o verificabile trauma psichico), anche un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona. Si tratta di ulteriori elementi costitutivi del reato, e non condizioni obiettive di punibilità, i quali afferiscono, rispettivamente, alla condotta o all’evento. Ai fini che qui interessano, è utile infine ricordare che la fattispecie incriminatrice ex art. 613-bis c.p., non richiede espressamente che la privazione della libertà personale consegua ad un provvedimento giurisdizionale, con la conseguenza che la norma trova applicazione anche nel caso in cui la vittima del reato sia stata illegittimamente privata della libertà personale dall’autore del reato. La privazione della libertà personale non deve consistere necessariamente in una forma di detenzione, potendo, in conformità all’interesse giuridicamente tutelato dall’incriminazione, risolversi in una limitazione della libertà di movimento, in linea con il dettato di cui all’art. 13 Cost., nella parte in cui la disposizione si riferisce, oltre alla detenzione, a qualsiasi altra restrizione della libertà personale, dovendosi invece escludere che ogni forma di limitazione della libertà in senso lato (di fare o di non fare) rientri nell’oggettività giuridica criminosa della fattispecie in esame. Gli eventi tipici del reato, tra di loro alternativi, ossia le “acute sofferenze fisiche” o l’insorgenza di “un verificabile trauma psichico” non debbono necessariamente sfociare in lesioni personali, essendo prevista una specifica aggravante in proposito. Neppure è previsto che il trauma psichico sia durevole, sicchè nella nozione vi rientrano anche quelli a carattere transeunte, ma deve essere “verificabile”, nel senso che deve essere provato nel corso del giudizio e non necessariamente attraverso perizia o altro accertamento tecnico. Allo stesso modo del “grave e perdurante stato di ansia e di paura”, di cui al reato di atti persecutori, l’accertamento può essere ancorato ad elementi sintomatici del turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente ed anche da quest’ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l’evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata (Sez. 5, n. 17795 del 02/03/2017, S., Rv. 269621 – 01). Nel presente procedimento, il reato di tortura è stato contestato e ritenuto in concorso con quelli di violenza sessuale e di maltrattamenti. Va perciò sottolineato come, secondo l’orientamento più volte espresso dalla Corte Europea (Aydin c. Turchia, 25 settembre 1997, ric. n. 23178/94), anche la violenza sessuale può assurgere a tortura, con la conseguenza che essa può integrare, a condizioni esatte, una condotta rilevante ai sensi dell’art. 613-bis c.p.. Più delicati sono i rapporti tra il delitto di tortura e quello di maltrattamenti, rientrando entrambi nello schema dei reati di durata: eventualmente abituale, il reato di tortura; necessariamente abituale quello di maltrattamenti. Avuto riguardo ai principi che regolano il concorso di reati, va ricordato che, ai fini della individuazione della disposizione prevalente, il presupposto della convergenza di norme può ritenersi integrato solo in presenza di un rapporto di continenza tra le norme stesse, alla cui verifica deve procedersi mediante il confronto strutturale tra le fattispecie astratte configurate e la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definirle (Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano, Rv. 248864 – 01), cosicchè il confronto strutturale delle fattispecie depone, nel caso in esame, per la configurabilità del concorso materiale di reati posto che, in linea astratta, per l’integrazione dell’art. 572 c.p. possono assumere rilievo anche fatti non penalmente rilevanti, o comunque non gravi, mentre ai fini della configurabilità dell’art. 613-bis c.p., dovranno invece necessariamente considerarsi solo fatti che costituiscano di per sè reato (a seconda dei casi, minaccia, percosse, lesioni, violenza privata), e che si caratterizzino per la loro gravità e per la loro idoneità a produrre acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico, con la conseguenza che ciascuno dei singoli atti che concorrono ad integrare la fattispecie di tortura deve necessariamente superare una soglia minima di gravità che non è richiesta, invece, per i maltrattamenti. 3.4. Alla stregua delle precedenti considerazioni, deve ritenersi perciò sussistente il reato di tortura privata. Come risulta dal testo della sentenza impugnata, la vittima è stata costretta, in più occasioni, a subire atti sessuali con inaudita violenza e persino subito dopo che era stata sensibilmente debilitata dalle reiterate percosse dell’imputato sfociate in lesioni corporali che avevano provocato nella donna forti dolori, come quando l’imputato, in una delle tante dolorose circostanze, l’aveva costretta a praticargli un rapporto orale, nonostante lo stato di sofferenza fisica della donna per le percosse precedentemente subite, dicendole “sei una puttana di merda, ti piace fare questo e adesso lo fai per me, chiamo qualcuno se lo non ti basto”. Durante l’atto sessuale, l’imputato colpiva la donna con schiaffi e pugni al volto e alla testa, facendole sbattere la testa contro il muro, e le stringeva le mani intorno al collo quasi a soffocarla. In alcune occasioni, inoltre, la vittima aveva subito senza reagire i rapporti sessuali imposti dall’imputato, perchè esausta e senza forze a causa le percosse subite, temendo di essere nuovamente picchiata dal compagno. Pertanto – alla luce della ricostruzione dei fatti operata dalle concordi valutazioni dei Giudici di merito e sulla base delle dettagliate, coerenti e precise dichiarazioni della persona offesa, della documentazione sanitaria e dei riscontri emergenti ex actis (testo dei messaggi pervenuti sul cellulare della vittima, fotografie) – può ritenersi ampiamente provato che l’imputato: ha minacciato ripetutamente la vittima, rivolgendole gravi minacce, anche di morte, spesso indirizzate ai figli della donna; ha usato violenze ripetute nei confronti della persona offesa, cagionandole acute sofferenze fisiche mentre la stessa era privata della sua libertà di movimento dall’imputato; ha costretto la donna contro la sua” volontà a subire rapporti sessuali immediatamente dopo che la vittima era stata violentemente percossa. Tutto ciò è stato compiuto attraverso gravi minacce e altrettanto gravi e inaudite violenze, ponendo la vittima in una condizione di completo assoggettamento e sconforto, realizzando atti tipici di inflizione della sofferenza corporale attraverso una pluralità di condotte reiterate e cronologicamente consistenti in quanto non limitate e non contenute ed esaurite in un unico contesto spazio-temporale, mostrando particolare efferatezza, insensibilità, gratuità e ponendo in essere comportamenti, oltre che di grande sofferenza fisica, anche umilianti: la donna venne marchiata sul fianco con una forchetta rovente e, in altra occasione, venne costretta a rimanere nuda sotto la doccia fredda per circa un’ora mentre l’imputato continuava a percuoterla con calci e corpi contundenti. Tali condotte hanno provocato alla vittima acute sofferenze fisiche (la donna è stata marchiata sul fianco nonchè ripetutamente colpita con pugni, calci, schiaffi, sul corpo, al volto e alla testa, a volte anche con corpi contundenti), riportando lesioni a causa delle percosse subite, come ampiamente dimostrato dalla documentazione sanitaria in atti e dalle fotografie. Le plurime condotte violente e minacciose hanno inoltre cagionato alla vittima un trauma psichico: dalla relazione sanitaria del 17 dicembre 2018 della Psicologa del Pronto Soccorso Rosa del Presidio Ospedaliero San Rocco di Sessa Aurunca emerge che, dai test somministrati alla persona offesa, è stato riscontrato nella vittima un disagio psicologico significativo, che è perdurato dopo il primo mese di post-trauma. E’ stato anche accertato come tale disagio non fosse dovuto agli effetti di una sostanza o di una condizione medica generale, nè ad altro disturbo psicologico, ma fosse l’effetto, fortemente dannoso, della violenza subita, avendo la vittima, nel corso dell’esame psicologico, riferito di rivivere nella memoria continuamente l’evento, pur cercando di evitare il più possibile la rievocazione. E’ stato inoltre accertato che i sintomi della riesperienza, dell’evitamento e dell’aumentata vigilanza sono stati presenti per più di un mese dall’evento violento e che il sonno è stato fortemente turbato, con la presenza di incubi ed interruzioni notturne. Le condotte tipiche sono state commesse e gli eventi del reato si sono verificati quando la vittima versava in uno stato di privazione della libertà personale, posto che alla persona offesa era stato impedito di allontanarsi dall’abitazione dell’imputato e che costui aveva nascosto le chiavi del cancello di ingresso alla casa e le chiavi della macchina per impedire alla donna di muoversi liberamente, restrizioni che la vittima ha ripetutamente subito. Non coincidenti, da un confronto in astratto, gli elementi strutturali del reato di tortura e di quello di maltrattamenti, diversi essendo anche i beni giuridici tutelati dalle rispettive incriminazioni, va sottolineato come, nel caso di specie, non vi sia neppure piena sovrapponibilità, in fatto, tra le condotte poste a fondamento del delitto di maltrattamenti e quelle integranti il reato di tortura, atteso che la diversa determinazione temporale del periodo consumativo dei rispettivi reati (dal dicembre 2017 a luglio 2018 il reato di maltrattamenti: da luglio a settembre 2018, il reato di tortura), la reiterazione di atti di violenza e minaccia non gravi, le continue e pesanti offese verbali, le imposizioni, le futili pretese, le costanti umiliazioni, le sofferenze e le privazioni inflitte alla donna, estranee al raggio dell’incriminazione del reato di tortura, hanno assunto i connotati tipici del delitto di maltrattamenti, in quanto fonte di uno stato di disagio continuo e incompatibile con le normali condizioni di vita della persona offesa, nei confronti della quale è stata lesa in maniera sistematica l’integrità fisica ed il patrimonio morale mediante il compimento di condotte che hanno posto la vittima in uno stato di incessante disagio e avvilimento, costringendola a sostenere drammatiche condizioni di vita per un rilevante arco temporale (la relazione era stata avviata nel luglio 2017 e le violenze erano iniziate nel dicembre 2017, con il tempo erano andate aumentando sino ai drammatici episodi del luglio – settembre 2018, data di consumazione del reato di tortura). Del resto, la giurisprudenza di legittimità è compatta nel ritenere che, in tema di maltrattamenti in famiglia, l’art. 572 c.p., è applicabile non solo ai nuclei familiari fondati sul matrimonio, ma a qualunque relazione sentimentale che, per la consuetudine dei rapporti creati, implichi l’insorgenza di vincoli affettivi e aspettative di assistenza assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale (Sez. 6, n. 31121 del 18/03/2014, C., Rv. 261472 – 01). Nel caso in esame, è risultato che la relazione tra l’imputato e la vittima era iniziata nel luglio 2017, e dal mese di luglio 2018, la vittima aveva iniziato anche a dormire nella abitazione del prevenuto tre notti a settimana. Sulla base delle dichiarazioni lineari, precise e costanti nel tempo rese dalla persona offesa, deve ritenersi provato anche il delitto di violenza sessuale ascritto al ricorrente. 4. Inammissibile è anche il terzo motivo di gravame. Con adeguata e logica motivazione la Corte territoriale ha negato la concessione delle attenuanti generiche ed ha ritenuto congruo il trattamento sanzionatorio. La Corte di merito ha premesso come la pena inflitta sia apparsa perfettamente adeguata ai parametri di cui agli artt. 132 e 133 c.p., e, come tale, non suscettibile di ridimensionamento. A proposito del diniego delle circostanze attenuanti generiche, la Corte distrettuale ha stigmatizzato il comportamento dell’imputato che non ha manifestato alcuna forma di resipiscenza, sottolineando la particolare odiosità della condotta e la reiterazione nel tempo delle violenze consumate ai danni della persona. Nel pervenire a tali conclusioni, la Corte partenopea si è attenuta ai principi di diritto reiteratamente affermati dalla giurisprudenza di legittimità in forza dei quali, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche, non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione (ex multis, Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Lule, Rv. 259899 – 01). L’irrogazione di una pena base in misura superiore alla media edittale, neppure censurata dal ricorrente, è stata poi oggetto di una specifica motivazione in ordine ai criteri soggettivi e oggettivi elencati dall’art. 133 c.p., avendo la Corte distrettuale chiarito che la scelta operata dal primo Giudice di applicare all’imputato una pena superiore al minimo edittale per il reato di tortura è stata giustificata sulla base della gravità dei fatti, desunta dalla particolare efferatezza della condotta e dal grado di pressione psicologica sulla vittima nonchè dalla ripetizione nel tempo delle condotte di minaccia e violenza. Il motivo è pertanto manifestamente infondato. 5. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene che il ricorso debba essere rigettato con conseguente condanna dell’imputato, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese del grado sostenute dalla parte civile ammessa al gratuito patrocinio. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre, l’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte di appello di Napoli con separato decreto di pagamento ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, disponendo il pagamento in favore dello Stato. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge. Così deciso in Roma, il 25 maggio 2021. Depositato in Cancelleria il 31 agosto 202

 

Originally posted 2021-09-13 18:47:04.

AREZZO FIRENZE INCIDENTE MORTALE DANNO PARENTI MINISTERO Morte del congiunto – Danno non patrimoniale – Liquidazione – In via equitativa – Sussiste

Tanto accertato in merito alla sussistenza della responsabilità del Ministero degli Interni, relativamente alla tipologia di danni risarcibili occorre innanzitutto fare riferimento al danno da perdita del rapporto parentale subito sia dalla madre, che dal fratello di Si.Ma..

Il Ministero degli Interni, pertanto, avrebbe utilizzato un mezzo privo dei requisiti imposti ex lege, in grado di provocare danni a chi lo utilizza. Così facendo sarebbe venuto meno all’obbligo sancito dall’art. 35 Dlgs 626/1994, come modificato dal Dlgs 359/1999 di porre a disposizione dei lavoratori strumenti ed attrezzature idonei ai fini della sicurezza. Secondo le argomentazioni di parte attrice, eventuali concorrenti profili colposi addebitabili al fabbricante o al fornitore dei macchinari messi a disposizione dei lavoratori, non eliderebbero il nesso causale tra la condotta del datore di lavoro e l’evento lesivo in danno del lavoratore. Inoltre non assumerebbe alcun rilievo la circostanza che nel corso del procedimento penale sia stato accertato che né le verifiche interne programmate, né le revisioni periodiche eseguite dalla USL sarebbero comunque state inidonee a rilevare il malfunzionamento che ha causato il sinistro, proprio perché queste non esaurivano le iniziative che il datore di lavoro avrebbe dovuto intraprendere prima di rendere disponibile l’autogrù ai propri dipendenti. A tal riguardo parte attrice ha rappresentato che, nonostante detto mezzo fosse stato in dotazione al Comando Provinciale di Arezzo fin dal 1982, da allora non erano mai state effettuate verifiche complete sullo stesso, volte ad individuare eventuali carenze occulte del mezzo, non rilevabili a vista o nell’uso quotidiano

Per tale si intende infatti il danno di natura non patrimoniale che un soggetto subisce per la morte di una persona cara, a cui era legata da un rapporto di natura familiare o affettiva. Anche recentemente la Corte di Cassazione ha affermato che tale danno si concretizza “nel vuoto costituito dal non potere più godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno e perciò nell’irrimediabile distruzione di un sistema di vita basato sull’affettività, sulla condivisione, sulla rassicurante quotidianità dei rapporti tra moglie e marito, tra madre e figlio, tra fratello e fratello, nel non poter più fare ciò che per anni si è fatto, nonché nell’alterazione che una scomparsa del genere inevitabilmente produce anche nelle relazioni tra i superstiti’ (Cass. n. 9196/2018).

La liquidazione di detto danno non può che essere compiuta in via equitativa, tenendo conto di vari fattori quali l’intensità del vincolo familiare, la presenza o meno di una situazione di convivenza e ogni altra circostanza utile quali la consistenza più o meno ampia del nucleo familiare, le abitudini di vita, l’età della vittima e dei superstiti.

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Per quanto riguarda il fratello della vittima, Lu.Ma., questi all’epoca del sinistro aveva 27 anni e pur non convivendo con Si.Ma., all’epoca ventinovenne, è sicuramente presumibile il forte legame che lega due fratelli di età molto ravvicinata. I due inoltre risiedevano comunque all’interno del medesimo Comune e, come emerso dalla consulenza tecnica svolta in corso di causa, frequentemente Si.Ma. si recava nella casa in cui vivevano la madre ed il fratello, avendo uno stabile legame affettivo con entrambi.

Pertanto, tenuto conto del grado di parentela, dell’età della vittima e del congiunto, della non convivenza dei due e degli ulteriori elementi sopra indicati, sulla base delle tabelle elaborate dal Tribunale di Milano e dal Tribunale di Roma ed attualmente vigenti, si ritiene che il danno da perdita del rapporto parentale subito da Lu.Ma. debba essere quantificato in Euro 73.550,25 in moneta attuale.

 

 

Con atto di citazione ritualmente notificato Se.Si. e Ma.Lu. hanno chiesto il risarcimento dei danni subiti iure proprio in qualità rispettivamente di madre e fratello di Ma.Si. in ordine all’infortunio mortale in cui questi era rimasto coinvolto il 28.1.2003.

In particolare parte attrice ha rappresentato che in tale data un autoarticolato, condotto da tale Al.Br., composto da un trattore e da un semirimorchio-cisterna contenente un carico di gas propano, era uscito di strada ad Arezzo, lungo la Strada Statale n. 73, finendo nove metri al di sotto del livello stradale, sul greto del torrente Ce.. Sul posto era giunta pertanto una squadra di uomini e mezzi dei Vigili del Fuoco del Comando Provinciale di Arezzo, oltre ad un’ambulanza con medico a bordo e una pattuglia dei Carabinieri della Stazione di Palazzo del Pero. Il conducente del TIR, Al.Br., era stato sbalzato dal veicolo ed il medico dell’ambulanza intervenuta, dott. Gi.Sg., aveva diagnosticato un trauma alla colonna vertebrale, per cui aveva consigliato che lo stesso venisse trasportato in modo da rimanere il più possibile in posizione orizzontale. Il caposquadra dei Vigili del Fuoco, Ca.Si., aveva così deciso di calare, con il braccio telescopico dell’autogru giunta sul posto, il vigile Si.Ma., assegnandogli il ruolo di portare con sé una barella di tipo toboga, di imbracare il ferito e proteggerlo nella risalita. Una volta che Si.Ma. era stato calato nel vuoto, tuttavia, il cavo dell’autogru, cui lo stesso era agganciato, si era spezzato ed il bozzello che lo sovrastava lo aveva raggiunto colpendolo violentemente sulla testa e causandone la morte immediata. Gli altri Vigili del Fuoco a quel punto avevano imbracato Si.Ma. nella stessa barella destinata all’autista del TIR e lo avevano trasportato a braccia sulla strada, risalendo a piedi la scarpata. Anche il conducente dell’autoarticolato, infine, era stato portato a braccia dai Vigili del Fuoco seguendo il percorso del fiume, ossia la stradella bianca che si ricongiungeva alla sede stradale.

In diritto parte attrice ha innanzitutto rilevato che al Ministero convenuto deve essere attribuita la responsabilità di quanto accaduto ai sensi dell’art. 2087 c.c. in virtù del quale il datore di lavoro ha l’onere di adottare le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica dei propri dipendenti. In particolare parte attrice ha dedotto che all’epoca dei fatti, in tema di tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori, vigeva il Dlgs n. 626/1994, il cui art. 1 comma 2 prevedeva che, nei riguardi delle forze armate e di polizia, dei servizi di protezione civile, ecc., la disciplina normativa era da applicare tenendo conto delle particolari esigenze connesse al servizio espletato, individuate con decreto del Ministro dell’Interno n. 450 del 14.6.1999.

Alla luce di tale normativa, parte attrice ha individuato un primo profilo di responsabilità nelle condizioni dell’autogru utilizzata per l’intervento.

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Tribunale|Firenze|Sezione 2|Civile|Sentenza|30 luglio 2020| n. 1787

Morte del congiunto – Danno non patrimoniale – Liquidazione – In via equitativa – Sussiste

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO DI FIRENZE

SECONDA SEZIONE CIVILE

Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Maria Novella Legnaioli ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 8299/2017 promossa da:

SE.SI. (C.F. (…)) e MA.LU. (C.F. (…)), con il patrocinio degli avv. SI.DE., RO.DE. e GI.CA., elettivamente domiciliati in VIA (…), FIRENZE presso il difensore avv. GI.CA.

ATTORI

contro

MINISTERO DEGLI INTERNI (C.F. (…)), in persona del Ministro pro tempore, con il patrocinio ex lege dell’Avvocatura Distrettuale dello Stato, legalmente domiciliato in VIA (…), FIRENZE presso l’AVVOCATURA DISTRETTUALE DI FIRENZE

CONVENUTO

CONCISA ESPOSIZIONE DELLE RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE

Con atto di citazione ritualmente notificato Se.Si. e Ma.Lu. hanno chiesto il risarcimento dei danni subiti iure proprio in qualità rispettivamente di madre e fratello di Ma.Si. in ordine all’infortunio mortale in cui questi era rimasto coinvolto il 28.1.2003.

In particolare parte attrice ha rappresentato che in tale data un autoarticolato, condotto da tale Al.Br., composto da un trattore e da un semirimorchio-cisterna contenente un carico di gas propano, era uscito di strada ad Arezzo, lungo la Strada Statale n. 73, finendo nove metri al di sotto del livello stradale, sul greto del torrente Ce.. Sul posto era giunta pertanto una squadra di uomini e mezzi dei Vigili del Fuoco del Comando Provinciale di Arezzo, oltre ad un’ambulanza con medico a bordo e una pattuglia dei Carabinieri della Stazione di Palazzo del Pero. Il conducente del TIR, Al.Br., era stato sbalzato dal veicolo ed il medico dell’ambulanza intervenuta, dott. Gi.Sg., aveva diagnosticato un trauma alla colonna vertebrale, per cui aveva consigliato che lo stesso venisse trasportato in modo da rimanere il più possibile in posizione orizzontale. Il caposquadra dei Vigili del Fuoco, Ca.Si., aveva così deciso di calare, con il braccio telescopico dell’autogru giunta sul posto, il vigile Si.Ma., assegnandogli il ruolo di portare con sé una barella di tipo toboga, di imbracare il ferito e proteggerlo nella risalita. Una volta che Si.Ma. era stato calato nel vuoto, tuttavia, il cavo dell’autogru, cui lo stesso era agganciato, si era spezzato ed il bozzello che lo sovrastava lo aveva raggiunto colpendolo violentemente sulla testa e causandone la morte immediata. Gli altri Vigili del Fuoco a quel punto avevano imbracato Si.Ma. nella stessa barella destinata all’autista del TIR e lo avevano trasportato a braccia sulla strada, risalendo a piedi la scarpata. Anche il conducente dell’autoarticolato, infine, era stato portato a braccia dai Vigili del Fuoco seguendo il percorso del fiume, ossia la stradella bianca che si ricongiungeva alla sede stradale.

In diritto parte attrice ha innanzitutto rilevato che al Ministero convenuto deve essere attribuita la responsabilità di quanto accaduto ai sensi dell’art. 2087 c.c. in virtù del quale il datore di lavoro ha l’onere di adottare le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica dei propri dipendenti. In particolare parte attrice ha dedotto che all’epoca dei fatti, in tema di tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori, vigeva il Dlgs n. 626/1994, il cui art. 1 comma 2 prevedeva che, nei riguardi delle forze armate e di polizia, dei servizi di protezione civile, ecc., la disciplina normativa era da applicare tenendo conto delle particolari esigenze connesse al servizio espletato, individuate con decreto del Ministro dell’Interno n. 450 del 14.6.1999.

Alla luce di tale normativa, parte attrice ha individuato un primo profilo di responsabilità nelle condizioni dell’autogru utilizzata per l’intervento.

Nell’ambito del procedimento penale svoltosi davanti al Tribunale di Arezzo, le relazioni peritali del consulente del gip e del gup, Ing. Fa.Ca., e del consulente nominato in sede dibattimentale, Ing. St.Ce., avrebbero infatti attestato la pericolosità intrinseca del mezzo, in virtù dell’inefficienza del dispositivo di fine corsa di sollevamento del bozzello. Il Ministero degli Interni, pertanto, avrebbe utilizzato un mezzo privo dei requisiti imposti ex lege, in grado di provocare danni a chi lo utilizza. Così facendo sarebbe venuto meno all’obbligo sancito dall’art. 35 Dlgs 626/1994, come modificato dal Dlgs 359/1999 di porre a disposizione dei lavoratori strumenti ed attrezzature idonei ai fini della sicurezza. Secondo le argomentazioni di parte attrice, eventuali concorrenti profili colposi addebitabili al fabbricante o al fornitore dei macchinari messi a disposizione dei lavoratori, non eliderebbero il nesso causale tra la condotta del datore di lavoro e l’evento lesivo in danno del lavoratore. Inoltre non assumerebbe alcun rilievo la circostanza che nel corso del procedimento penale sia stato accertato che né le verifiche interne programmate, né le revisioni periodiche eseguite dalla USL sarebbero comunque state inidonee a rilevare il malfunzionamento che ha causato il sinistro, proprio perché queste non esaurivano le iniziative che il datore di lavoro avrebbe dovuto intraprendere prima di rendere disponibile l’autogrù ai propri dipendenti. A tal riguardo parte attrice ha rappresentato che, nonostante detto mezzo fosse stato in dotazione al Comando Provinciale di Arezzo fin dal 1982, da allora non erano mai state effettuate verifiche complete sullo stesso, volte ad individuare eventuali carenze occulte del mezzo, non rilevabili a vista o nell’uso quotidiano.

Parte attrice ha poi rappresentato che il manuale d’uso della macchina non prevedeva l’utilizzo della stessa per movimentare le persone e, ai sensi dell’art. 184 D.P.R. n. 547/1955, il sollevamento delle persone poteva essere effettuato solo in casi eccezionali e purché fossero prese adeguate misure in materia di sicurezza, con il controllo appropriato dei mezzi impiegati e la registrazione di tale controllo.

Oltre a tali profili di responsabilità secondo la difesa di parte attrice, la colpa del datore di lavoro sarebbe riscontrabile anche nella tipologia di intervento prescelto.

L’ordine impartito a Si.Ma. di calarsi dal braccio dell’autogru per recuperare il ferito avrebbe rappresentato una procedura scellerata, non regolamentata in alcun protocollo, né come tecnica speleo alpino fluviale, né come procedura operativa standard. Inoltre tale scelta, secondo parte attrice, non sarebbe stata legittimata neppure dall’urgenza, in quanto non vi sarebbe stata alcuna fretta di intervenire visto che l’autobotte era stata messa in sicurezza e la persona da soccorrere non era in pericolo di vita. In realtà vi sarebbero stati quantomeno due percorsi alternativi, ossia quello di risalire a piedi la scarpata utilizzando il camminatoio creato dalla fuoriuscita dell’autoarticolato dalla sede stradale, oppure quello di percorrere a piedi la stradella bianca che scendeva lungo l’argine del fiume Ce., poi di fatto utilizzata per trasportare il conducente del TIR. L’ordine impartito dal Caposquadra Ca. sarebbe stato dunque errato e su costui doveva gravare la conseguente responsabilità.

In merito alla tipologia di danni risarcibili, parte attrice ha chiesto innanzitutto la liquidazione del danno da perdita del vincolo parentale subito sia dalla madre, che dal fratello di Si.Ma., rappresentando che la morte del loro congiunto avrebbe determinato un’alterazione anche nelle relazioni tra i superstiti e di questi ultimi nei confronti della comunità. Inoltre esclusivamente in relazione a Se.Si. è stata chiesta la liquidazione anche del danno biologico subito a causa di tale evento traumatico. La donna, infatti, a causa di tale incidente, aveva dovuto porsi in cura presso uno specialista in psichiatria nonché psicoterapeuta e, a seguito di varie visite, le era stato diagnosticato un disturbo post traumatico da stress ad andamento cronico che aveva profondamente invalidato la sua qualità di vita.

Il Ministero dell’Interno si è costituito in giudizio eccependo innanzitutto l’inammissibilità della domanda di parte attrice alla luce dell’art. 652 cpp, rilevando come in merito alla medesima vicenda fosse già intervenuta una sentenza irrevocabile di assoluzione nei confronti del Comandante dei Vigili del Fuoco di Arezzo Fr.Si., dell’autista e manovratore dell’autogru Vi.Le. e del responsabile della manutenzione ordinaria degli automezzi Ma.Co.. Stante la costituzione di parte civile di Se.Si. e Ma.Lu. all’interno di detto processo penale, svoltosi davanti al Tribunale di Arezzo, secondo parte convenuta nel caso di specie opererebbe la preclusione al giudizio civile a favore del datore di lavoro che non ha preso parte al giudizio penale per non essere stato citato o per non essere intervenuto.

Nel merito, riguardo alla pericolosità intrinseca del mezzo utilizzato, quale profilo di inadempimento rispetto a quanto previsto dall’art. 2087 cc, parte convenuta ha rilevato che l’obbligo di mantenere in sicurezza i sistemi di funzionamento della autogrù deve essere valutato in concreto ed esiste nel momento in cui il fattore di rischio che caratterizza le attrezzature di lavoro sia riconoscibile e prevenibile con le conoscenze tecniche di cui dispone il datore di lavoro. Nel caso di specie, anche sulla base di quanto accertato nel corso del procedimento penale, invece, il rischio derivante dal malfunzionamento del dispositivo di fine corsa non sarebbe stato prevedibile, in quanto tale dispositivo era protetto da un carter di alloggiamento che non poteva essere rimosso perché la sua rimozione ed il controllo all’interno del dispositivo non erano previsti né dalla legge, né dal manuale tecnico di utilizzo della gru. Anzi tale attività sarebbe stata addirittura non dovuta e vietata per il personale non autorizzato e non dotato della necessaria competenza tecnica.

Su tale punto la sentenza n. 170/2007 del GUP presso il Tribunale di Arezzo di non luogo a procedere nei confronti di Co.Ma., quale addetto alla manutenzione ordinaria del mezzo, avrebbe riconosciuto che egli non doveva occuparsi dei controlli inerenti al dispositivo di bloccaggio.

Relativamente all’altro imputato Si.Fr., nella sentenza n. 367/2009 del Tribunale di Arezzo era stato affermato che le condizioni del meccanismo di fine corsa che aveva mal funzionato non sarebbero state normalmente ispezionabili se non previa rimozione del carterino di protezione ed il perito aveva affermato che non vi sarebbe stato modo per Si.Fr. di avvedersi del malfunzionamento.

A conferma che la pericolosità del mezzo non era conosciuta, parte convenuta ha poi affermato che tale autogru era stata utilizzata fin dal 1982 senza mai far sorgere dubbi sul corretto funzionamento del meccanismo di arresto automatico di salita del bozzello, che nel mese di gennaio del 2003 quel mezzo era già stato utilizzato sette volte, che nell’ultima settimana lo stesso era stato utilizzato per il recupero di un’autovettura e di una trattrice con rimorchio, ossia carichi sicuramente maggiori rispetto al peso di Si.Ma., e che in tali operazioni il dispositivo di sicurezza aveva correttamente funzionato.

Secondo le argomentazione del Ministero dell’Interno, inoltre, il vasto utilizzo su tutto il territorio nazionale di automezzi analoghi a quello in questione testimoniava l’alta fiducia riposta d agli operatori del mestiere sull’efficienza e sulla sicurezza del mezzo. Pertanto il Ministero non sarebbe stato in grado, al momento della scelta del mezzo, né successivamente, di individuare e di risolvere il problema del malfunzionamento del dispositivo di fine corsa, perché caratterizzato da una sostanziale aleatorietà non conosciuta, né conoscibile secondo la comune esperienza nell’ambito di lavoro dei Vigili del Fuoco.

La difesa di parte convenuta ha rappresentato inoltre che, stanti gli accertamenti tecnici svolti in sede penale, la problematica relativa al dispositivo di fine corsa fuoriuscirebbe dalle competenze del Comando dei Vigili del Fuoco e rientrerebbe invece in quelle del fabbricante e che trattandosi di un vizio occulto sarebbe stato impossibile per il datore di lavoro accertarlo.

In merito alla lamentata violazione dell’art. 35, comma 3, lett. c) bis Dlgs 626/1994 introdotta con Dlgs 359/1999 il Ministero ha osservato che tale norma prescrive obblighi in capo al datore di lavoro al momento della scelta delle attrezzature di lavoro e l’autogru utilizzata era stata acquistata prima del 1999 e pertanto nessuna violazione era imputabile al Ministero.

Il Ministero ha poi rilevato che l’uso dell’autogrù per sollevare le persone sarebbe stato consentito ai sensi dell’art. 184 del D.P.R. 547/1995, in quanto detta norma prevede tale possibilità in casi eccezionali, quale era sicuramente quello in cui i Vigili del Fuoco stavano operando e purché venissero prese efficaci misure in materia di sicurezza, obbligo che sarebbe stato rispettato in quanto Ma.Si. era stato dotato di una idonea imbracatura di sicurezza collegata a mezzo di fettuce al gancio sottostante il bozzolo.

Parte convenuta ha inoltre osservato che l’unico obbligo di sicurezza che non e ra stato soddisfatto era quello di revisione periodica dell’autogru, revisione che la USL doveva eseguire annualmente in qualità di unico soggetto a ciò preposto dalla legge e che, invece, era stata effettuata l’ultima volta soltanto nel febbraio 2000, quindi quasi tre anni prima dell’evento. Tuttavia il Ministero ha rilevato che in sede penale anche tale profilo era stato affrontato ed il giudice del dibattimento aveva accertato che l’omissione di tale controllo non aveva avuto alcuna incidenza causale nel la verificazione dell’infortunio mortale. Ciò in quanto in ogni caso si sarebbe trattato soltanto di un controllo esteriore del mezzo, senza procedere allo smontaggio delle sue parti, e pertanto non avrebbe in alcun modo modificato l’esito degli eventi.

Il Ministero ha contestato poi anche l’altro profilo di responsabilità datoriale rappresentato da parte attrice, ossia l’adozione di una procedura di soccorso del tutto errata, richiamando anche in questo caso gli accertamenti compiuti in sede penale. Il medico intervenuto per primo, infatti, aveva sostenuto che, visti i traumi riportati dall’autotrasportatore, la tipologia di soccorso più consona sarebbe stata quella di trasportarlo con l’autogrù, in modo da mantenere il traumatizzato in posizione orizzontale senza sottoporlo ad ulteriori ed eccessivi scossoni nella fase della risalita. Far risalire il traumatizzato a braccio per la scarpata avrebbe aggravato lo stato fisico dell’uomo, mentre l’intervento dell’elicottero sarebbero stato materialmente più difficile da attuare vista l’impervietà dei luoghi.

La difesa di parte convenuta ha poi contestato anche la quantificazione del danno da perdita del rapporto parentale operata da controparte facendo riferimento ai valori massimi stabiliti dalle Tabelle di Milano senza tuttavia argomentare tale esigenza ed ha ritenuto insussistente il danno biologico lamentato da Se.Si..

All’udienza del 18.1.2018 su richiesta di entrambe le parti sono stati concessi i termini di cui all’art. 183 comma 6 c.p.c. e la causa è stata rinviata al 6.12.2018. A scioglimento della riserva assunta in tale udienza, con ordinanza del 10.2.2019, è stata disposta la ctu psichiatrica – psicologica sulla persona di Se.Si. e la causa è stata rinviata al 12.3.2019. In tale sede, con ferito l’incarico al consulente tecnico, il processo è stato rinviato al 17.10.2019. A detta udienza entrambi i difensori hanno chiesto la fissazione dell’udienza di precisazione delle conclusioni. A tal fine è stata dunque fissata l’udienza del 17.2.2020, alla quale le parti hanno precisato le conclusioni e la causa è stata trattenuta in decisione con la concessione dei termini ai sensi dell’art. 190 c.p.c..

La domanda di parte attrice è fondata e deve essere accolta per i seguenti motivi.

Innanzitutto, occorre analizzare l’eccezione di inammissibilità della domanda ai sensi dell’art. 652 cpp sollevata da parte convenuta. Tale norma non sancisce alcun automatismo tra la sentenza penale irrevocabile di assoluzione emessa con le formule “perché il fatto non sussiste” o “per non aver commesso il fatto” e l’esito del giudizio di responsabilità civile. Al contrario il giudicato penale deve essere valutato caso per caso tenendo conto dell’effettivo accertamento contenuto nella sentenza di assoluzione.

Nel caso di specie, mentre il processo penale ha avuto ad oggetto le specifiche condotte tenute rispettivamente dal Comandante dei Vigili del Fuoco di Arezzo Fr.Si., dall’autista e manovratore dell’autogrù Vi.Le. e dal responsabile della manutenzione ordinaria degli automezzi Ma.Co., nel presente giudizio parte attrice ha chiesto in via principale di accertare la responsabilità del Ministero dell’Interno quale datore di lavoro del Vigile del Fuoco Si.Ma., non per fatto dei propri dipendenti, bensì per fatto ad esso stesso addebitabile, ossia per aver messo a disposizione del proprio lavoratore un mezzo difettoso, la cui intrinseca pericolosità risulta essere emersa anche nel corso del procedimento penale.

Sotto tale profilo la domanda risulta dunque pienamente ammissibile e non può trovare applicazione il disposto di cui all’art. 652 cpp.

Allo stesso modo risulta ammissibile anche la domanda di parte attrice volta ad ottenere l’accertamento della responsabilità del Ministero degli Interni in virtù della tipologia di intervento prescelto. Sotto tale punto di vista il Ministero degli Interni sarebbe chiamato a rispondere non per fatto proprio, ma dei propri dipendenti e sebbene all’interno del giudizio penale tale profilo di responsabilità sia stato analizzato e il giudice abbia ritenuto impraticabili eventuali altri percorsi, nella sentenza n. 367/2009 del Tribunale di Arezzo, è stato espressamente affermato che eventuali profili di indebito utilizzo dell’autogru potevano essere fatti ricadere esclusivamente sul caposquadra e non sul soggetto al quale erano stati addebitati in imputazione. Per tale motivo, non essendo stata emessa detta sentenza anche nei confronti dell’unico soggetto eventualmente responsabile per la tipologia di intervento prescelto, nessuna efficacia di giudicato può produrre la sentenza di assoluzione sopra richiamata all’interno del presente processo e pertanto l’eccezione di parte convenuta risulta infondata.

Tanto chiarito, occorre analizzare il primo profilo di responsabilità lamentato da parte attrice, ossia la pericolosità intrinseca dell’autogru messa a disposizione dal Ministero degli Interni.

A tal riguardo occorre innanzitutto osservare che entrambe le difese nei propri scritti difensivi hanno richiamato ed utilizzato le risultanze delle due perizie svolte all’interno del processo penale, quella dell’Ing. Fa.Ca. e quella dell’Ing. St.Ce.. Tali elaboratori, le cui conclusioni non sono state contestate né dagli attori, né dal convenuto, potranno dunque essere posti a fondamento della presente decisione.

In particolare, alle pagine 3 e 4 del proprio elaborato l’Ing. Ce. ha chiarito innanzitutto come funzionasse il dispositivo di finecorsa di cui era dotata l’autogrù (…), targata (…) utilizzata nell’intervento del 28.1.2003. Tale dispositivo era costituito da un microinterruttore fissato mediante due viti direttamente sul braccio della gru e doveva essere azionato da un bilanciere che gli veniva spinto contro da due molle a trazione. Nel momento in cui il bilanciere schiacciava il pulsante del microinterruttore veniva inibita la salita del bozzello e lo sfilamento del braccio. Il bilanciere era tenuto lontano dal microinterruttore tramite un contrappeso infilato in una fune di sollevamento e solo quando il bozzello nella sua risalita andava a sollevare il contrappeso, il bilanciere, non più trattenuto, avrebbe dovuto schiacciare il pulsante sotto l’effetto delle due molle.

Ebbene, secondo quanto affermato dal perito con un dispositivo così concepito non si aveva alcuna certezza sul suo funzionamento in quanto un qualunque malfunzionamento del finecorsa, sia meccanico che elettrico, di una qualunque delle varie componenti, avrebbe prodotto l’effetto di non bloccare la salita del bozzello come avvenuto nel caso di specie. L’ing. Ce. ha poi affermato che “all’epoca in cui si sono verificati i fatti un simile dispositivo non poteva essere montato sull’autogrù; ma doveva essere sostituito da un dispositivo che garantisse la sicurezza anche in condizioni di guasto. Il finecorsa avrebbe dovuto funzionare esattamente al contrario di quello installato. Ciò avrebbe dovuto consentire il funzionamento dell’autogrù solamente quando azionato e bloccarla per qualunque malfunzionamento potesse verificarsi”.

Alla luce di tale elaborato emerge dunque come il dispositivo di fine corsa di cui era dotata l’autogrù oggetto di causa fosse intrinsecamente pericoloso e, inoltre, è risultato pacifico che l’incidente fosse stato cagionato proprio dal suo mancato funzionamento.

Ebbene, ai sensi dell’art. 2087 c.c. il datore di lavoro è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. Tale disposizione rappresenta la norma di chiusura del sistema di prevenzione, operante anche in assenza di specifiche regole di esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, al fine di sanzionare l’omessa predisposizione di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di venire a conoscenza e di indagare sull’esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico (cfr. Cass. n. 24742/2018).

Nel caso di specie, oltre a tale disposizione, viene anche in rilievo il disposto dell’art. 35 Dlgs n. 626/1994, così come modificato dal Dlgs n. 359/1999, vigente all’epoca dei fatti. Se è pur vero infatti che il comma 3 lett. c bis), introdotto a seguito di tale modifica legislativa, prescriveva obblighi in capo al datore di lavoro al momento della scelta delle attrezzature di lavoro e l’autogru utilizzata era stata acquistata prima del 1999, è altrettanto vero che il successivo comma 4 della medesima norma stabiliva espressamente che “il datore di lavoro prende le misure necessarie affinché le attrezzature di lavoro siano.. .. oggetto di idonea manutenzione al fine di garantire nel tempo la rispondenza ai requisiti di cui all’art. 36 e siano corredate, ove necessario, da apposite istruzioni d’uso”. Così come il comma 4 quater stabiliva che “il datore di lavoro, sulla base della normativa vigente, provvede affinché le attrezzature di cui all’allegato XIV siano sottoposte a verifiche di prima installazione o di successiva installazione e a verifiche periodiche o eccezionali, di seguito denominate “verifiche”, al fine di assicurarne l’installazione corretta e il buon funzionamento” e tra le attrezzature indicate nell’allegato XIV vi erano anche le gru e gli apparecchi di sollevamento di portata 200 kg.

Ebbene, alla luce di tali disposizioni, occorre innanzitutto osservare che nessun rilievo hanno le argomentazioni utilizzate dalla difesa del convenuto relativamente agli accertamenti contenuti nelle sentenze penali passate in giudicato, al fine di escludere la propria responsabilità.

A tal riguardo, come già chiarito, quanto accertato in sede penale riguarda esclusivamente i profili di responsabilità addebitabili ai soggetti imputati e non ogni altra omissione e conseguente responsabilità gravante sul datore di lavoro che ha messo a disposizione dei propri lavoratori un mezzo intrinsecamente pericoloso.

Non assumono dunque alcun rilievo in questa sede innanzitutto le argomentazioni spese dal GUP presso il Tribunale di Arezzo nella sentenza di assoluzione di Co.Ma.. Il GUP ha infatti accertato soltanto che a tale soggetto erano assegnate le mansioni di seguire il settore dell’officina interna, la manutenzione, gestione e dislocazione degli automezzi; il settore delle verifiche periodiche degli automezzi e dei materiali tecnici; e che non rientrava nelle sue competenze l’occuparsi di quel dispositivo, raffinato e delicato, che proprio per tale motivo era stato protetto da possibili manomissioni ed era dotato di un carterino di protezione. Tuttavia, la circostanza che tra le attività di manutenzione ordinaria esigibili dal Vigile del Fuoco Co.Ma. non rientrasse quella di verificare il corretto funzionamento di tale dispositivo, non esclude che il Ministero degli Interni, nella propria qualità di datore di lavoro, non fosse gravato da tale obbligo in virtù della normativa sopra richiamata.

Analogo ragionamento vale per quanto affermato dal Tribunale di Arezzo nella sentenza n. 367/2009, relativamente all’imputato Si.Fr., in qualità di Comandante dei Vigili del Fuoco di Arezzo. Anche l’accertamento contenuto in tale provvedimento infatti è limitato all’esigibilità di un efficace manutenzione del dispositivo di sicurezza di fine corsa esclusivamente in capo all’imputato. Occorre pertanto affermare ancora una volta che l’accertamento della inesigibilità di tale condotta da parte del Comandante dei Vigili del Fuoco di Arezzo, non esonera il Ministero degli Interni, nella propria veste di datore di lavoro, dall’obbligo di compiere o segnalare la necessità di compiere agli organi a ciò preposti tutti i necessari accertamenti, prima di mettere a disposizione dei propri dipendenti un mezzo.

Entrambi i periti, infatti, si sono limitati ad affermare che il malfunzionamento non poteva essere notato se non togliendo il carter di alloggiamento, ma non che nessuno fosse tenuto ad effettuare tale tipologia di controllo.

Neppure assumono rilievo le argomentazioni per cui la revisione periodica dell’autogrù ad opera della USL, seppur omessa, non avrebbe modificato in alcun modo l’esito degli eventi. In quanto se è pur vero che tale controllo meramente “a vista” non avrebbe permesso di riscontrare la difettosità del dispositivo di fine corsa, protetto da un carter e quindi non visibile sulla base di una semplice ispezione esterna, non è in alcun modo concepibile che un automezzo come quello di cui è causa, in dotazione al Comando dei Vigili del Fuoco dal 1982, non fosse soggetto anche ad altri e più pregnanti obblighi di revisione e manutenzione, che se correttamente eseguiti avrebbero permesso di individuare e correggere l’intrinseca pericolosità del dispositivo.

Analogamente non appare dirimente la circostanza che fino al 28.1.2003 nessuna autogru analoga a quella coinvolta nel sinistro avesse manifestato problemi. Il corretto funzionamento del dispositivo di fine corsa del mezzo non poteva infatti essere rimesso alla aleatorietà, come affermato da parte convenuta, bensì doveva essere oggetto di controlli e manutenzioni, che avrebbero permesso di rilevarne la pericolosità, come accaduto attraverso la perizia eseguita durante il dibattimento nel processo penale.

Oltretutto, la circostanza risultante dalla perizia dell’Ing. Ce. che dopo il sinistro per cui è causa, su di un’autogrù analoga, utilizzata dal Comando dei Vigili del Fuoco di Grosseto, fosse stata apportata una modifica del dispositivo di fine corsa, rappresenta la dimostrazione che l’errato funzionamento di tale dispositivo non solo fosse riscontrabile, ma anche correggibile, al fine di evitare incidenti analoghi a quello accorso a Si.Ma..

In definitiva, nell’ambito del processo penale è emersa, da un lato, l’intrinseca pericolosità del mezzo fornito dal Ministero degli Interni che non offriva le minime garanzie di sicurezza e, dall’altro, che la difettosità del dispositivo di fine corsa fosse sia prevenibile, che evitabile, stanti gli interventi correttivi operati su un’autogrù analoga in seguito al sinistro del 28.1.2003.

A tal riguardo, se è pur vero che in astratto può ritenersi sussistente una responsabilità del fabbricante, il quale avrebbe dovuto fornire un dispositivo di fine corsa che funzionasse al contrario, dall’altro lato, sarebbe stato onere del Ministero degli Interni convenuto ai sensi degli art. 2087 e 1218 c.c. provare di aver correttamente adempiuto all’obbligazione su di lui gravante, non solo richiamando quanto accertato in sede penale, ma dimostrando che ogni attività di controllo e di manutenzione del mezzo, anche di competenza di soggetti diversi rispetto a quelli imputati nel procedimento penale, fosse stato effettuato.

Anche la giurisprudenza di legittimità ha infatti affermato che “in tema di responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c., posto che, ai fini del superamento della presunzione di cui all’art. 1218 c.c., grava sul datore di lavoro l’onere di dimostrare di aver rispettato le norme specificamente stabilite in relazione all’attività svolta, e di aver adottato tutte le misure che, in considerazione della peculiarità dell’attività e tenuto conto dello stato della tecnica, siano necessarie per tutelare l’integrità del lavoratore, vigilando altresì sulla loro osservanza, il vizio strutturale del macchinario, quale fatto liberatorio, non può prescindere dalla prova circostanziata, da parte del datore di lavoro, dell’assolvimento dei suddetti obblighi di protezione specifici” (cfr. Cass. n. 14468/2017).

Nel presente giudizio, infatti, è stato pacificamente accertato, e non contestato da parte convenuta, che il sinistro del 28.1.2003 era stato causato dal mancato funzionamento del dispositivo di fine corsa. Risulta inoltre sussistente il nesso di causalità tra l’omesso controllo del corretto funzionamento di tale dispositivo e la morte di Si.Ma., in quanto se questo fosse stato oggetto di controllo, sarebbe stato immediatamente accertato che un simile dispositivo non poteva essere montato sull’autogrù e sarebbe stata adottata una modifica in modo che il finecorsa funzionasse esattamente al contrario di come invece operava, ossia consentendo il funzionamento dell’autogrù solamente quando azionato. A conferma di ciò occorre osservare, come emerso nella perizia dell’Ing. Ce. e già rilevato, che una tale modifica di fatto era stata effettuata su di un mezzo analogo a quello oggetto di causa proprio in seguito al sinistro.

Al contrario, invece, non è stata fornita alcuna prova da parte del Ministero convenuto circa il corretto collaudo prima e i controlli di conformità poi del dispositivo di fine corsa di cui era dotata l’autogrù in questione, essendosi limitato il Ministero degli Interni a contestare la domanda di part e attrice richiamando le statuizioni del processo penale.

Tuttavia proprio all’interno della sentenza n. 367/2009 del Tribunale di Arezzo è stato accertato che nessuna delle attività previste dalla normativa di riferimento è stata svolta nel termine di legge previsto dalla “direttiva macchine”, con riferimento al dispositivo di fine corsa dell’autogrù costruita nel 1982.

Come infatti evidenziato all’interno della predetta sentenza, per i mezzi già immessi sul mercato muniti della marcatura CE alla data dell’entrata in vigore dell’art. 35, comma 3 let. c-bis) Dlgs 626/1994, in virtù del Dlgs n. 359/1999, l’art. 7 del D.P.R. n. 459/1996 dispone che i controlli della conformità ai requisiti essenziali di sicurezza di cui all’Allegato 1 siano operati dal Ministero dell’Industria, del commercio e dell’artigianato e dal Ministero del lavoro e della previdenza sociale attraverso i propri organi ispettivi in coordinamento permanente tra loro. Al successivo comma 3 della medesima norma è poi previsto che qualora gli organismi di vigilanza competenti per la prevenzione e la sicurezza accertino la non conformità di una macchina o di un componente di sicurezza ai requisiti essenziali di sicurezza di cui all’Allegato 1, ne devono dare immediata comunicazione al Ministero dell’industria, del commercio e dell’artigianato e al Ministero del lavoro e della previdenza sociale. Inoltre il regolamento di attuazione della “direttiva macchine” (“Linee guida e modalità operative per l’applicazione del Dlgs n. 626/1994 in relazione alla emanazione del D.P.R. n. 459/1996) indica le attività da adottare per le ipotesi in cui i servizi delle Aziende USL trovino macchine che presentino situazioni di rischio grave ed immediato, anche con riferimento alle c.d. carenze occulte, indicate a titolo di esempio, come le carenze progettuali non rilevabili da un semplice esame visivo e dall’uso quotidiano della macchina).

Ebbene, il giudice del dibattimento ha avuto modo di accertare come nessuna delle attività previste dalla normativa di riferimento sia stata svolta nel termine di legge.

A quanto emerso in sede penale deve aggiungersi che nel presente giudizio il Ministero degli Interni non ha ad ogni modo fornito la prova non solo di aver compiuto tutti gli accertamenti previsti dalla normativa in vigore, ma neppure di aver provveduto a segnalare la necessità di compiere accertamenti agli organi a ciò preposti. Obbligo che sicuramente gravava sul convenuto tenuto oltretutto conto del fatto che, se è pur vero che ai sensi dell’art. 184 D.P.R. n. 547/1955 il sollevamento di persone in casi eccezionali può essere effettuato anche con attrezzature non previste a tal fine, ciò può avvenire solo laddove siano state prese adeguate misure in materie di sicurezza. Tra tali misure, per espressa previsione normativa, non si fa riferimento all’eventuale utilizzo di imbracature come sostenuto da parte convenute, bensì alla necessità che i mezzi utilizzati, seppur eccezionalmente a tale scopo, conformemente alle disposizioni di buona tecnica, non solo siano sottoposti a controlli appropriati, ma anche che tali controlli siano registrati.

Anche sotto tale punto di vista, il Ministero convenuto non ha fornito alcuna prova.

Pertanto, alla luce di tutti gli elementi sopra richiamati, si ritiene che nel caso di specie sussista la responsabilità del Ministero degli Interni, quale datore di lavoro di Si.Ma., in ordine all’infortunio mortale a lui occorso il 28.1.2003, per avere messo a disposizione del proprio dipendente un mezzo intrinsecamente pericoloso, omettendo di compiere i doverosi e indispensabili controlli sul medesimo, mezzo, oltretutto, potenzialmente destinato, seppure in casi eccezionali, al sollevamento di persone.

Il profilo di responsabilità del Ministero degli Interni sopra analizzato è tale da assorbire anche l’altro invocato da parte attrice e relativo alla tipologia di intervento prescelto. Sulla base di quanto sopra accertato, infatti, l’evento mortale è stato causato dal difetto del dispositivo di fine corsa di cui era dotata l’autogrù in questione. La scelta del caposquadra di utilizzare tale macchinario per calare Si.Ma. assieme alla barella al fine di soccorrere il ferito non era infatti di per sé vietata. Come sopra accennato, l’autogrù poteva in casi eccezionali, quale quello che si era verificato,essereutiliz0ta per la movimentazione di persone, ma solo a seguito degli indispensabili controlli che il Ministero degli Interni avrebbe dovuto eseguire prima di mettere a disposizione dei propri dipendenti tale mezzo.

Tanto accertato in merito alla sussistenza della responsabilità del Ministero degli Interni, relativamente alla tipologia di danni risarcibili occorre innanzitutto fare riferimento al danno da perdita del rapporto parentale subito sia dalla madre, che dal fratello di Si.Ma..

Per tale si intende infatti il danno di natura non patrimoniale che un soggetto subisce per la morte di una persona cara, a cui era legata da un rapporto di natura familiare o affettiva. Anche recentemente la Corte di Cassazione ha affermato che tale danno si concretizza “nel vuoto costituito dal non potere più godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno e perciò nell’irrimediabile distruzione di un sistema di vita basato sull’affettività, sulla condivisione, sulla rassicurante quotidianità dei rapporti tra moglie e marito, tra madre e figlio, tra fratello e fratello, nel non poter più fare ciò che per anni si è fatto, nonché nell’alterazione che una scomparsa del genere inevitabilmente produce anche nelle relazioni tra i superstiti’ (Cass. n. 9196/2018).

La liquidazione di detto danno non può che essere compiuta in via equitativa, tenendo conto di vari fattori quali l’intensità del vincolo familiare, la presenza o meno di una situazione di convivenza e ogni altra circostanza utile quali la consistenza più o meno ampia del nucleo familiare, le abitudini di vita, l’età della vittima e dei superstiti.

Per quanto riguarda il fratello della vittima, Lu.Ma., questi all’epoca del sinistro aveva 27 anni e pur non convivendo con Si.Ma., all’epoca ventinovenne, è sicuramente presumibile il forte legame che lega due fratelli di età molto ravvicinata. I due inoltre risiedevano comunque all’interno del medesimo Comune e, come emerso dalla consulenza tecnica svolta in corso di causa, frequentemente Si.Ma. si recava nella casa in cui vivevano la madre ed il fratello, avendo uno stabile legame affettivo con entrambi.

Pertanto, tenuto conto del grado di parentela, dell’età della vittima e del congiunto, della non convivenza dei due e degli ulteriori elementi sopra indicati, sulla base delle tabelle elaborate dal Tribunale di Milano e dal Tribunale di Roma ed attualmente vigenti, si ritiene che il danno da perdita del rapporto parentale subito da Lu.Ma. debba essere quantificato in Euro 73.550,25 in moneta attuale.

Per quanto riguarda la madre della vittima, Si.Se., la donna all’epoca dei fatti aveva 47 anni. Questa conviveva con l’altro figlio, Lu.Ma. ed analogamente a quest’ultimo aveva un forte legame con Si.Ma. che, nonostante si fosse sposato nel 2000, vista anche la sua giovane età, si presume avesse ancora uno stretto rapporto con la madre, tenuto conto della frequenza con la quale il Vigile del Fuoco si recava a casa della madre e del fratello, anche in compagnia dei propri colleghi. Dalla consulenza tecnica svolta in corso di causa è inoltre emerso che tra i congiunti della donna, oltre all’altro figlio, vi erano la madre e il compagno, in quanto il marito, nonché padre di Luca e Simone era deceduto per un carcinoma nel 1997.

Tenuto conto dunque del grado di parentela, dell’età della vittima e del congiunto, della non convivenza dei due e degli ulteriori elementi sopra indicati, sulla base delle tabelle elaborate dal Tribunale di Milano e dal Tribunale di Roma ed attualmente vigenti, si ritiene che il danno da perdita del rapporto parentale subito da Se.Si. debba essere quantificato in Euro 132.390,45 in moneta attuale.

In merito al risarcimento del danno biologico richiesto dalla madre di Si.Ma., Se.Si., occorre innanzitutto chiarire che la morte di un prossimo congiunto può causare nei familiari superstiti oltre al danno parentale, sopra analizzato, anche un danno biologico vero e proprio, in presenza di una effettiva compromissione dello stato di salute fisica o psichica di chi lo invoca. I due danni, pertanto, devono essere oggetto di separata considerazione e liquidazione trattandosi di diversi elementi del danno non patrimoniale, senza tuttavia giungere ad alcuna duplicazione risarcitoria.

Al fine di valutare la sussistenza del danno biologico suddetto nel corso del presente giudizio, stante la documentazione medica prodotta, è stata svolta CTU medica all’esito della quale il consulente, dott. Pa.Ci., ha diagnosticato a Se.Si. un disturbo da stress post traumatico cronico, diagnosi condivisa anche dai consulenti tecnici di parte.

Per stabilire la gravità di tale patologia, tenuto conto delle osservazioni mosse dal consulente tecnico del Ministero degli Interni, il ctu ha poi analizzato la possibile presenza di fattori concausali. Dall’analisi di Se.Si. è infatti emerso che nel 1997 aveva subito la perdita del marito a causa di un carcinoma e che poco prima dell’incidente mortale in cui era rimasto coinvolto il figlio, nel dicembre del 2002, il padre della donna era morto per suicidio mediante arma da fuoco. L’uomo era stato operato ad una carotide per ostruzione circolatoria nell’ottobre del 2002 e aveva manifestato dei cambiamenti caratteriali post-operatori. Tuttavia, il ctu sulla base degli elementi raccolti ha avuto modo di riscontrare, con argomentazioni che si ritiene di condividere, come entrambi tali eventi fossero stati superati senza l’insorgere di disturbi psicopatologici che alterassero la vita sociale e lavo rativa della donna e senza che si rendesse necessario il ricorso a consulenze specialistiche e a trattamenti psichiatrici. Al contrario, la morte del figlio Simone era stata vissuta in modo diverso rispetto ai precedenti lutti, a causa della modalità traumatiche ed inaspettate con cui la stessa era avvenuta. Tale evento aveva provocato un rifiuto psicologico all’accettazione e aveva comportato l’insorgenza di una sintomatologia riferibile a disturbo da stress post traumatico, per la cui cura la donna era dovuta ricorrere alle terapie psicofarmacologiche di uno psichiatria e di una psicologa psicoterapeuta.

Inoltre, come rilevato dal ctu a seguito dell’analisi della certificazione rilasciata dallo psichiatra e psicoterapeuta dott. Paolo Serra, la morte traumatica del figlio aveva creato nella Sereni uno stato mentale di sconvolgimento completamente nuovo che in un’occasione l’aveva anche portata a recarsi nei luoghi in cui si era verificato il sinistro, aggirandosi nei dintorni fino ad entrare nel fiume, in uno stato di disperazione e di incompleta padronanza dei propri impulsi.

Alla luce di tali elementi si ritiene di condividere le conclusioni a cui è giunto il ctu, in quanto risulta accertato che i disturbi psichici della donna siano sorti a seguito della morte del figlio e non possano trovare concausa nei due precedenti lutti subiti dalla stessa. La perdita di un figlio, in circostanze oltretutto improvvise e traumatiche durante lo svolgimento della propria attività lavorativa, risulta essere infatti la causa esclusiva del disturbo manifestato da Si.Se., come emerso anche nel corso dei colloqui clinici avuti con il ctu. Mentre dopo la morte del marito avvenuta nel 1997 la donna aveva ripreso a lavorare, in seguito alla scomparsa del figlio questa aveva molto rallentato la propria attività nel suo negozio e vi si era recata soltanto sporadicamente per distrarsi, spronata dall’altro figlio. Nel corso di tali colloqui, pur emergendo anche la morte del padre per suicidio, non risulta che tale evento abbia inciso sulla condizione psicologica della Sereni al punto di degenerare in una patologia, in quanto dai racconti dalla stessa effettuati è stata la morte del figlio ad aver rappresentato un evento imprevisto e insuperabile, tanto da decidere di rivolgersi a degli specialisti su consiglio del proprio medico di famiglia.

Si ritiene dunque di condividere la quantificazione del danno biologico effettuata dal ctu e pari al 12%, in quanto la stessa è stata effettuata conformemente a quanto previsto per il disturbo da stress post traumatico in forma lieve al massimo punteggio secondo le linee guida SIMLA per la determinazione del danno biologico derivante dalla morte di un familiare stretto, avente una portata psicologica molto elevata.

Pertanto, nel caso concreto, tenuto conto del tipo di malattia cagionata, dell’età dell’attrice al momento dei fatti (anni 47), dell’entità dei postumi permanenti, si ritiene liquidabile a titolo di invalidità permanente la somma di Euro 28.625,00 in moneta attuale.

In merito alla richiesta di risarcimento dei danni patrimoniali subiti da Si.Se. in virtù delle spese mediche sostenute, si ritiene che risultino pertinenti e congrue le spese documentate, essendo relative a visite specialistiche e sedute psicoterapeutiche effettuate dalla donna in conseguenza del trauma cagionato dal sinistro. Sulla base della documentazione prodotta risulta quindi risarcibile la somma di Euro 4.025.

L’importo complessivamente dovuto a Si.Se. a titolo di risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale patito a seguito del sinistro in cui ha perso la vita il figlio Si.Ma. risulta essere pari ad Euro 165.040 in moneta attuale.

Tale somma, deve poi essere devalutata alla data dell’evento, ovvero al 28 gennaio 2003, risultando pari ad Euro 131.088. Secondo l’insegnamento della sentenza a Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 1712/1995, su questa somma, rivalutata anno per anno, devono poi essere calcolati gli interessi compensativi nella misura legale fino alla data della presente decisione, per un totale complessivo di Euro 208.307.

Dalla data della sentenza sono dovuti gli interessi al tasso legale sul solo importo liquidato, corrispondente al capitale già rivalutato.

Allo stesso modo l’importo dovuto a Lu.Ma. a titolo di risarcimento del danno da perdita del vincolo parentale, pari ad Euro 73.550,25, deve essere devalutato alla data dell’evento, ammontando così ad Euro 58.326,92. Su tale somma, rivalutata anno per anno, devono poi essere calcolati gli interessi compensativi nella misura legale fino alla data della presente decisione, per un totale complessivo di Euro 92.789,69.

Dalla data della sentenza sono dovuti gli interessi al tasso legale sul solo importo liquidato, corrispondente al capitale già rivalutato.

Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo in base al DM 55/2014, tenuto conto del valore della causa ritenuto in sentenza. Allo stesso modo anche le spese di CTU vengono definitivamente poste a carico di parta convenuta. Il Ministero degli Interni dovrà infine rimborsare altresì le spese sostenute per l’attività prestata dal consulente tecnico di parte attrice dott.ssa El.Co., documentate da parte attrice e pari ad Euro 5.000.

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone:

1) accertata la responsabilità del Ministero degli Interni nella determinazione dell’infortunio mortale occorso a Ma.Si. in data 28.1.2003, condanna il Ministero degli Interni, in persona del Ministro pro tempore, a corrispondere:

– a Ma.Lu., a titolo di risarcimento del danno da perdita del vincolo parentale, la somma di Euro 92.789,69, oltre interessi legali dalla data della sentenza al saldo;

– a Se.Si., a titolo di risarcimento del danno da perdita del vincolo parentale, biologico e patrimoniale, la somma di Euro 208.307,00, oltre interessi legali dalla data della sentenza al saldo;

2) pone definitivamente a carico del Ministero degli Interni le spese di CTU medico legale, come già liquidate in corso di causa;

3) condanna il Ministero degli Interni, in persona del Ministro pro tempore, al pagamento delle spese di lite sostenute da Se.Si. e Ma.Si., che si liquidano in Euro 1.253,93 per spese (contributo unificato, marca e spese notifica), Euro 5.000 per spese di ctp ed Euro 21.387,00 per compensi, oltre i.v.a., c.p.a. e 15% per spese generali.

Così deciso in Firenze il 29 luglio 2020.

Depositata in Cancelleria il 30 luglio 2020.

 

Originally posted 2021-09-04 11:10:39.

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Diapositiva1

La massima

1. La caparra confirmatoria costituisce un contratto che si perfeziona con la consegna che una parte fa all’altra di una somma di danaro o di una determinata quantità di cose fungibili per il caso d’inadempimento delle obbligazioni nascenti da un diverso negozio ad essa collegato (c.d. contratto principale).

2. La caparra (sia confirmatoria che penitenziale) è una clausola che ha lo scopo di rafforzare il vincolo contrattuale; il relativo patto contrattuale ha natura reale, e, come tale, è improduttivo di effetti giuridici ove non si perfezioni con la consegna della relativa somma. Ciò tuttavia non esclude che le parti, nell’ambito della loro autonomia negoziale, possano differire la dazione della caparra in tutto o in parte ad un momento successivo alla conclusione del contratto, come previsto dall’art. 1385, primo comma c.c., purché anteriore alla scadenza delle obbligazioni pattuite. Tale possibilità non comporta tuttavia anche quella di escludere la natura reale del contratto e ad attribuire all’obbligazione della sua prestazione gli effetti che l’art. 1385, 2 comma c.c. ricollega alla sua consegna.

ACASA

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE II

SENTENZA 24 aprile 2013, n.10056

Svolgimento del processo

La Berna Tech srl, con atto ritualmente notificato, proponeva opposizione avverso il decreto ingiuntivo n. 1165/2000 con cui il Tribunale di Monza – sez. distaccata di Desio, le aveva ingiunto il pagamento, in favore della ricorrente srl A.B. System, della somma di L. 161.778.725 oltre accessori, a titolo di caparra confirmatoria prevista nel contratto d’appalto stipulato tra le parti, avente ad oggetto la realizzazione e fornitura di facciate continue, serramenti in alluminio e facciate Forster, contratto che era stato risolto proprio per la mancata corresponsione della caparra in questione. Deduceva la società opponente in specie l’inefficacia e/o nullità del patto relativo alla caparra stante il mancato versamento della somma e la natura reale del patto stesso nonché l’intervenuta risoluzione del contratto per muto consenso e non per inadempimento, per cui non sussistevano i presupposti per la risoluzione o il recesso del contratto. Chiedeva quindi la revoca del decreto opposto, previo accertamento dell’inesistenza e/o inefficacia del patto relativo alla caparra confirmatoria e la declaratoria dell’avvenuta risoluzione del contratto per concorde volontà della parti. In riconvenzionale chiedeva la condanna della srl AB System al pagamento della somma di L. 22.620.000 a saldo della fattura n. …. Instaurato il contraddittorio, la società opposta chiedeva il rigetto dell’opposizione, sostenendo che il mancato versamento della caparra aveva legittimato il suo recesso dal contratto in questione. Previa sospensione della provvisoria esecutorietà del provvedimento monitorio opposto, l’adito tribunale, con sentenza n. 39/04 accoglieva l’opposizione, revocava il decreto ingiuntivo e in accoglimento della riconvenzionale condannava la srl AB System al pagamento in favore dell’opponente della somma di Euro 11.682,00, oltre interessi legali. Il primo giudice, qualificato come appalto il contratto concluso tra le parti e rilevata la natura reale del patto di caparra, osservava che l’inadempimento dell’obbligo di versare la caparra non era così grave da giustificare il venir meno dell’interesse al mantenimento del contratto e il rapporto fiduciario con la Berna Tech.
Avverso tale pronunzia proponeva appello la srl AB System che insisteva in specie sull’erronea qualificazione della natura reale della caparra confirmatoria e della mancanza d’inadempimento ai fini del legittimo recesso dell’appellante, lamentando altresì l’omessa pronuncia sulla domanda di risoluzione contrattuale. Resisteva la Berna Tech che proponeva appello incidentale in punto compensazione delle spese processuali; l’adita Corte d’Appello di Milano, con sentenza n. 2961/06 depos. in data 12.12.2006 rigettava sia l’appello principale che quello incidentale, condannando l’AB System al pagamento delle spese del grado. Secondo la corte, non vi era alcun vizio di omesso esame della domanda di risoluzione, in quanto il tribunale si era implicitamente pronunciato sulla stessa respingendola, ritenendo che l’inadempimento della Brna Tch non era ancora definitivo, trattandosi di un mero ritardo nel versamento dell’acconto e del correlato patto accessorio di caparra. Rilevava tra l’atro che, in mancanza di specifici motivi d’appello circa la cause della risoluzione del contrato per inadempimento, si era formato il giudicato su tale specifico punto. Precisava la Corte che “il mancato versamento della caparra non (poteva) configurare inadempimento…., né una legittima causa di recesso del contratto, ma giustificare un’azione obbligatoria per il versamento di tale importo”.
Per la cassazione di tale pronunzia, ricorre AB System sulla base di 4 mezzi; la società intimata non ha svolto difese.

Motivi delle decisione

1 – Con il primo motivo, la società ricorrente eccepisce il vizio di motivazione ‘per non avere la corte d’appello enunciate le ragioni che l’hanno portata a ritenere valide le argomentazioni del giudice di primo grado in ordine alla questione della natura degli effetti della caparra confirmatoria’. Eccepisce altresì la violazione e falsa applicazione degli artt. 1385, 1322 e 1655 c.c.’ nella parte in cui si è ritenuto non applicabile l’istituto della caparra confirmatoria in mancanza della materiale consegna della corrispondente somma di danaro.

Ritiene pertanto l’esponente che l’accordo circa il versamento della caparra ha efficacia vincolante per le parti anche se la relativa somma non sia stata versata al momento della stipula del contratto.

Il mezzo si conclude con i seguenti quesiti di diritto:

a) ‘se contrattualmente pattuito il versamento di una somma a titolo di caparra confirmatoria, si producano gli effetti di cui all’art. 1385 comma 2 c.c. anche in mancanza di materiale versamento della relativa somma’;

b) ‘se in relazione al disposto di cui all’art. 1655 ult comma c.c. e nel rispetto dell’autonomia contrattuale previsto dall’art. 1322 c.c., possa ritenersi valida ed efficace la pattuizione che pone a carico della parte committente l’onere del versamento di una somma di danaro a titolo di caparra confirmatoria, prima della realizzazione dell’opera da parte dell’appaltatore’. La doglianza è infondata.

Occorre premettere che, la caparra confirmatoria, costituisce un contratto che si perfeziona con la consegna che una parte fa all’altra di una somma di danaro o di una determinata quantità di cose fungibili per il caso d’inadempimento delle obbligazioni nascenti da un diverso negozio ad essa collegato (c.d. contratto principale). La caparra (sia confirmatoria che penitenziale) è dunque, come è noto, una clausola che ha lo scopo di rafforzare il vincolo contrattuale; il relativo patto contrattuale ha natura reale, e, come tale, è improduttivo di effetti giuridici ove non si perfezioni con la consegna della relativa somma (Cass. n. 2870 del 07/06/1978). Ciò tuttavia non esclude che le parti, nell’ambito della loro autonomia negoziale, possano differire la dazione della caparra in tutto o in parte ad un momento successivo alla conclusione del contratto, come previsto dall’art. 1385, primo comma c.c., purché anteriore alla scadenza delle obbligazioni pattuite (Cass. n. 5424 del 14.4.2002; Cass. 3071 del 13.02.2006; Cass. n. 17127 del 9.8.2011). Tale possibilità non comporta tuttavia anche quella di escludere la natura reale del contratto e ad attribuire all’obbligazione della sua prestazione gli effetti che l’art. 1385, 2 comma c.c. ricollega alla sua consegna, che nel caso di specie non è avvenuta. Con tale conclusione resta assorbito l’esame delle ulteriori censure contenute nel motivo.

2- Con il 2 motivo la società denuncia la violazione degli artt. 1655, 1453 e 1455 c.c. ‘nella parte in cui la corte ha ritenuto l’insussistenza dell’inadempimento e della sua gravità’. Assume che dagli elementi acquisiti risultava che la Berna Tech non aveva né intenzione e né possibilità di adempiere al contratto di appalto e che erano pretestuosi i motivi da lei addotti per ritardare il pagamento della caparra, la quale peraltro era economicamente rilevante per la ricorrente, che doveva a sua volta, affrontare altri impegni economici con altre aziende per adempiere agli obblighi scaturenti dal contratto d’appalto stipulato con la controparte.

La doglianza non è fondata, non ravvisandosi i denunciati vizi.

Al riguardo la corte distrettuale ha puntualmente osservato che il recesso era stato fondato sul mancato versamento della caparra e non sul mancato pagamento del prezzo; che inoltre si era formato il giudicato sul rigetto implicito della domanda di risoluzione perché ‘era riscontrabile un mero ritardo nell’adempimento dell’obbligo di versamento dell’acconto e del correlato patto accessorio di caparra’ e che ‘siffatto ritardo non era così grave da giustificare il venir meno dell’interesse al mantenimento del contratto’ avente ad oggetto una fornitura d’ingente valore (quasi un miliardo di lire).

3 – Con il 3 motivo si deduce la violazione dell’art. 342 cpc, nonché il vizio di motivazione ‘per non avere la corte specificato le ragioni per cui ha ritenuto l’esame della domanda di risoluzione precluso dalla formazione del giudicato e ciò nonostante detta domanda sia stata espressamente proposta in grado d’appello e siano state enunciate le ragioni poste a suo fondamento e non accolte in primo grado.

La doglianza non ha pregio ed è inammissibile perché non attiene alla ratio decidendi. La sentenza infatti non ha negato la riproposizione della domanda di risoluzione in grado d’appello, ma ha affermato che, essendosi implicitamente pronunciata su di essa il giudice di primo grado, non era sufficiente riproporre la domanda, ma doveva essere impugnato il rigetto della stessa. Il rigetto di tale motivo comporta anche l’assorbimento del 4 motivo (la violazione e falsa applicazione dell’art. 1385 c.c. nella parte in cui si ritenuta non ammissibile la domanda di risoluzione del contratto).

Il ricorso dev’essere dunque rigettato. Nulla per le spese non avendo l’intimata svolto difese.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso.

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Originally posted 2015-02-10 16:36:18.

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Due casi trattati

 

Nel 2007 mi trovai ad assistere una famiglia che aveva perso il padre in un incidente stradale. Le assicurazioni fanno smepre eccezioni, ovviamente non sono mai favorevoli a un pronto pagamento.

 

Trattandosi di incidente mortale, ho assistiti anche i congiunti nella fase penale quali parti lese  poi quali parti civili.

 

Nel frattempo aprivo la posizione nei confronti dell’assicurazione, per chieder eil risarcimento dei congiunti quale danno morale  e per il rimborso delle spese funerarie.

 

L’assicurazione incominciò a fare una serie di contestazioni infondate, e decisi insieme ai clienti di rivolgermi al tribunale ove l’assicurazione aveva sede, ed era il Tribunale di Milano.

Allora si procedeva con ricorso e chiesi che alla prima udienza fosse liquidata una provvisionale ai sensi art 5 legge 102/2006, e alla prima udienza a favore degli eredi il tribunale liquidò provvisionale di euro quattrocentomila per gli eredi.

 

In pochi giorni l’assicurazione fece una buona offerta per chiuder eil danno complessivo e la posizone fu chiusa con soddisfazione dei clienti.

 

Secondo caso

 

Un giovane era stato investito e aveva riportato lesioni superiori al 50%.

Tentai a lungo una transazione con l’assicurazione fino a che fui costretto a citare l’assicurazione spesso il Tribunale di Trieste che dpo due anni di causa liquidò il danno

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Originally posted 2015-01-21 10:25:17.

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la  Corte Costituzionale, nella richiamata sentenza, individuato quali sono i “trattamenti sanitari”, c.d. invasivi, consentiti, tra cui il prelievo ematico, le modalità previste dall’art. 186 C.d.S., comma 5, per l’accertamento del tasso alcoolemico trovano il loro fondamento nell’art. 32 della Carta Costituzionale, comma 2.

Ciò che può essere opposto – va ribadito- è il rifiuto al controllo; ma la stessa sanzione penale che accompagna tale condotta, sancendone il disvalore, risulta incompatibile con la pretesa di un esplicito consenso al prelievo dei campioni.

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IL FATTO

 

Il Tribunale Monocratico di Treviso, all’esito di giudizio dibattimentale di opposizione a decreto penale di condanna, dichiarava l’imputato responsabile del reato di guida in stato d’ebbrezza di cui alla lettera C dell’art. 186 C.d.S., (valori alcolemici, accertati mediante analisi dei liquidi biologici, di 2,61 g/l), aggravato dall’avere cagionato un incidente stradale e dall’ora notturna (art. 186 C.d.S., commi 2 bis e 2 sexies), commesso in (OMISSIS).

L’imputato veniva condannato in primo grado alla pena di mesi 8 di arresto ed Euro 2.000,00 di ammenda, con la concessione delle attenuanti generiche e conversione in 248 giorni di lavoro di pubblica utilità.

2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia, D.M.F., deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1:

a. VIOLAZIONE DELL’ART. 186 C.d.S. IN RELAZIONE ALL’ART. 606 C.P.P., LETT. B; CARENZA, CONTRADDITTORITA’ E, COMUNQUE, MANIFESTA ILLOGICITA’ DELLA MOTIVAZIONE (ART. 606 C.P.P., LETT. E).

Il ricorrente deduce che i prelievi ematici venivano effettuati su richiesta della P.G. e non, come affermato in sentenza, a fini terapeutici. Infatti, la P.G. inviava alle ore 2.24 del (OMISSIS), a mezzo fax, al Pronto Soccorso una richiesta di accertamenti urgenti sulla persona ex art. 353 c.p.p., prima che l’imputato vi giungesse alle ore 2,52. Il prelievo non sarebbe avvenuto, pertanto, nell’ambito di un protocollo medico attivato dalla struttura sanitaria, ma al solo scopo di accertare la configurabilità del reato di cui all’art. 186 C.d.S., contrariamente a quanto dichiarato dal teste Z..

La corte di appello – ci si duole- avrebbe valorizzato solo alcuni frammenti della deposizione dello Z., che rendeva una testimonianza sostanzialmente contraddittoria, in quanto lo stesso teste successivamente affermava che l’alcolemia era stata fatta su richiesta della Polizia Stradale.

Inoltre la sentenza impugnata avrebbe omesso di considerare come la richiesta di sottoposizione agli accertamenti era stata indirizzata esclusivamente alla Direzione Sanitaria e non fosse mai pervenuta all’imputato, che non ebbe, perciò, a rilasciare alcun consenso all’effettuazione del prelievo.

Inoltre dalla motivazione della sentenza impugnata non risulterebbe che le forze dell’ordine abbiano mai provveduto ad accertare l’identità di colui che era alla guida dell’autovettura, sulla quale permarrebbe una sostanziale incertezza.

b. VIOLAZIONE DEGLI ARTT. 178, 180, 182, 191, 354 E 356 c.p.p. E ART 114 DISP. ATT. C.P.P. (ART. 606 C.P.P., LETT. C); CARENZA, CONTRADDITTORIETA’ E, COMUNQUE, MANIFESTA ILLOGICITA’ DELLA MOTIVAZIONE (ART. 606 c.p.p., LETT. E).

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LA CASSAZIONE

 

Con riguardo alla ipotizzata violazione da parte della disposizione normativa in esame dei principi costituzionali a tutela della libertà personale del cittadino e del suo diritto di rifiuto a sottoporsi ad accertamenti invasivi anche se per finalità di accertamento di reati, possono essere evocati i principi affermati con la sentenza della Corte Costituzionale 238/1996, la quale ebbe a dichiarare l’illegittimità dell’art. 224 c.p.p., comma 2, nella parte in cui consente che il giudice, nell’ambito delle operazioni peritali, disponga misure che comunque incidano sulla libertà personale dell’indagato o dell’imputato o di terzi, al di fuori di quelle specificamente previste nei “casi” e nei “modi” dalla legge”. Principio a maggior ragione valido anche per gli atti di indagine.

Va osservato che i giudici delle leggi giunsero alla pronuncia di illegittimità per arginare l’utilizzo di provvedimenti coercitivi atipici, astrattamente riconducibili alla nozione di “provvedimenti.. necessari per l’esecuzione delle operazioni peritali”, senza che fosse prevista alcuna distinzione tra quelli incidenti e quelli non incidenti sulla libertà personale, così cumulandoli in una disciplina, connotata da assoluta genericità di formulazione e totale carenza di ogni specificazione dei casi e dei modi in presenza dei quali soltanto poteva ritenersi legittima l’esecuzione coattiva di accertamenti peritali mediante l’adozione, a discrezione del giudice, di misure restrittive della libertà personale. Carenza normativa a cui, peraltro, il legislatore ha posto riparo con l’introduzione dell’art. 224 bis c.p.p..

Invero, la stessa Corte, nella motivazione della sentenza sopra ricordata, nel momento in cui censurava la genericità della disciplina del rito penale, ebbe a segnalare come invece, “…. in un diverso contesto, che è quello del nuovo codice della strada (artt. 186 e 187), il legislatore – operando specificamente il bilanciamento tra l’esigenza probatoria di accertamento del reato e la garanzia costituzionale della libertà personale – abbia dettato una disciplina specifica (e settoriale) dell’accertamento (sulla persona del conducente in apparente stato di ebbrezza alcoolica o di assunzione di sostanze stupefacenti) della concentrazione di alcool nell’aria alveolare espirata e del prelievo di campioni di liquidi biologici, (prevedendo bensì in entrambi i casi la possibilità del rifiuto dell’accertamento, ma con la comminatoria di una sanzione penale per tale indisponibilità dei conducente ad offrirsi e cooperare all’acquisizione probatoria); disciplina – questa la cui illegittimità costituzionale è stata recentemente esclusa da questa Corte (sentenza n. 194 del 1996, citata) proprio denegando, tra l’altro, la denunziata violazione dell’art. 13 Cost., comma 2, atteso che la dettagliata normativa di tale accertamento non consente neppure di ipotizzare la violazione della riserva di legge”.

Ne consegue che la stessa Corte Costituzionale ha riconosciuto, nelle due pronunce sopra riportate, la legittimità della disciplina del codice della strada, anche laddove nell’indicare le modalità degli accertamenti tecnici per rilevare lo stato di ebbrezza, non prevede alcun preventivo consenso dell’interessato al prelievo dei campioni. E, dunque, avendo la stessa Corte Costituzionale, nella richiamata sentenza, individuato quali sono i “trattamenti sanitari”, c.d. invasivi, consentiti, tra cui il prelievo ematico, le modalità previste dall’art. 186 C.d.S., comma 5, per l’accertamento del tasso alcoolemico trovano il loro fondamento nell’art. 32 della Carta Costituzionale, comma 2.

Ciò che può essere opposto – va ribadito- è il rifiuto al controllo; ma la stessa sanzione penale che accompagna tale condotta, sancendone il disvalore, risulta incompatibile con la pretesa di un esplicito consenso al prelievo dei campioni.

Nel caso di specie, detto prelievo è stato effettuato nel rispetto delle norme vigenti all’epoca dei fatti (dopo la riforma introdotta dal D.L. n. 151 del 2003, conv. in L. n. 214 del 2003), ai sensi dell’art. 186 C.d.S., comma 5, legittimamente presso il presidio ospedaliero in cui era stato portato per controlli medici, ferito, il D.M..

Per quanto detto, le censure di inutilizzabilità degli accertamenti ospedalieri in relazione alla positività all’alcool dell’imputato sono manifestamente infondate.

8. In ultimo, va rilevato che non può porsi in questa sede la questione di una declaratoria della prescrizione maturata dopo la sentenza d’appello, in considerazione della manifesta infondatezza del ricorso.


 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

 

SEZIONE QUARTA PENALE

 

Sentenza 1 febbraio 2018, n. 4943

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PICCIALLI Patrizia – Presidente –

Dott. NARDIN Maura – Consigliere –

Dott. PEZZELLA Vincenzo – rel. Consigliere –

Dott. CENCI Daniele – Consigliere –

Dott. PICARDI Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA


sul ricorso proposto da:

D.M.F. nato il (OMISSIS);

avverso la sentenza del 12/12/2016 della CORTE DI APPELLO DI VENEZIA;

Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

Udita la relazione svolta da Consigliere Dott. PEZZELLA VINCENZO;

Udite le conclusioni del PG Dott.ssa MIGNOLO OLGA che ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.

Udito il Difensore avv. ALBERTO FENOS del Foro di Pordenone che ha insistito per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo

  1. La Corte di Appello di Venezia, pronunciando nei confronti dell’odierno ricorrente D.M.F., con sentenza del 12/12/2016, in parziale riforma della sentenza del Tribunale Monocratico di Treviso, emessa in data 17/10/2014, appellata dal P.G. e dall’imputato, rideterminava la pena inflitta in mesi 6 di arresto ed Euro 1.400,00 di ammenda, con revoca della conversione della pena in lavoro di p.u., con pena sospesa e non menzione.


Il Tribunale Monocratico di Treviso, all’esito di giudizio dibattimentale di opposizione a decreto penale di condanna, dichiarava l’imputato responsabile del reato di guida in stato d’ebbrezza di cui alla lettera C dell’art. 186 C.d.S., (valori alcolemici, accertati mediante analisi dei liquidi biologici, di 2,61 g/l), aggravato dall’avere cagionato un incidente stradale e dall’ora notturna (art. 186 C.d.S., commi 2 bis e 2 sexies), commesso in (OMISSIS).

L’imputato veniva condannato in primo grado alla pena di mesi 8 di arresto ed Euro 2.000,00 di ammenda, con la concessione delle attenuanti generiche e conversione in 248 giorni di lavoro di pubblica utilità.

2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia, D.M.F., deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1:

a. VIOLAZIONE DELL’ART. 186 C.d.S. IN RELAZIONE ALL’ART. 606 C.P.P., LETT. B; CARENZA, CONTRADDITTORITA’ E, COMUNQUE, MANIFESTA ILLOGICITA’ DELLA MOTIVAZIONE (ART. 606 C.P.P., LETT. E).

Il ricorrente deduce che i prelievi ematici venivano effettuati su richiesta della P.G. e non, come affermato in sentenza, a fini terapeutici. Infatti, la P.G. inviava alle ore 2.24 del (OMISSIS), a mezzo fax, al Pronto Soccorso una richiesta di accertamenti urgenti sulla persona ex art. 353 c.p.p., prima che l’imputato vi giungesse alle ore 2,52. Il prelievo non sarebbe avvenuto, pertanto, nell’ambito di un protocollo medico attivato dalla struttura sanitaria, ma al solo scopo di accertare la configurabilità del reato di cui all’art. 186 C.d.S., contrariamente a quanto dichiarato dal teste Z..

La corte di appello – ci si duole- avrebbe valorizzato solo alcuni frammenti della deposizione dello Z., che rendeva una testimonianza sostanzialmente contraddittoria, in quanto lo stesso teste successivamente affermava che l’alcolemia era stata fatta su richiesta della Polizia Stradale.

Inoltre la sentenza impugnata avrebbe omesso di considerare come la richiesta di sottoposizione agli accertamenti era stata indirizzata esclusivamente alla Direzione Sanitaria e non fosse mai pervenuta all’imputato, che non ebbe, perciò, a rilasciare alcun consenso all’effettuazione del prelievo.

Inoltre dalla motivazione della sentenza impugnata non risulterebbe che le forze dell’ordine abbiano mai provveduto ad accertare l’identità di colui che era alla guida dell’autovettura, sulla quale permarrebbe una sostanziale incertezza.

b. VIOLAZIONE DEGLI ARTT. 178, 180, 182, 191, 354 E 356 c.p.p. E ART 114 DISP. ATT. C.P.P. (ART. 606 C.P.P., LETT. C); CARENZA, CONTRADDITTORIETA’ E, COMUNQUE, MANIFESTA ILLOGICITA’ DELLA MOTIVAZIONE (ART. 606 c.p.p., LETT. E).

Il ricorrente definisce inammissibile la ricostruzione dei fatti operata dai giudici del merito, in quanto gli stessi non avrebbero reso alcuna motivazione sulle ragioni per cui la richiesta inoltrata dalla P.G. all’ospedale, prima che i sanitari procedessero ai prelievi, non costituisca atto di accertamento irripetibile.

Se la verifica del tasso alcolemico richiesta nei confronti di un soggetto ospedalizzato configura un atto investigativo di P.G. effettuato a fronte di un stato di alterazione o di elementi che lasciano intendere l’avvenuta commissione del reato di guida in stato di ebbrezza, il prelievo ematico fatto ai fini dell’accertamento della responsabilità penale non può essere privato delle ordinarie garanzie previste per tutti gli accertamenti urgenti sulla persona, conclude il ricorrente.

c. VIOLAZIONE DELL’ART. 192 C.P.P., ART. 530 C.P.P., COMMI 1 E 2, ARTT. 533 E 546 C.P.P. (ART. 606 C.P.P., LETT. C); CARENZA, CONTRADDITTORIETA’ E. COMUNQUE, MANIFESTA LOGICITA’ DELLA MOTIVAZIONE (ART. 606 C.P.P., LETT. E).

Con il terzo motivo, il ricorrente chiede di verificare se la ricostruzione dei fatti contenuta in sentenza, basata sulle sole dichiarazioni dei testi, poggi su concreti riscontri processuali o piuttosto sia l’esito di un giudizio affrettato, che conduca ad una conclusione meramente congetturale.

Ritiene il ricorrente che le acquisizioni processuali non consentano di superare il limite del ragionevole dubbio.

Nel caso di specie ci si duole che la Corte territoriale consideri attendibile la ricostruzione eseguita dal primo giudice, fondata sulla deposizione di un teste senza attribuire rilievo alle altre dichiarazioni rese dallo stesso teste nel corso del giudizio. Il Tribunale avrebbe ritenuto che il conducente veniva trasportato in ospedale prima dell’intervento della P.S. e successivamente identificato nell’imputato. Invece la deposizione dell’agente De. chiarisce di non aver avuto alcun contatto con l’imputato, di non averlo visto nell’abitacolo, nè di aver sentito alcuna persona informata sui fatti, sul luogo del sinistro.

Gli agenti avrebbero potuto identificare il conducente solo nel caso si fossero recati in ospedale.

Ma la corte di appello condivide la valutazione del primo giudice ritenendo che dalla circostanza che l’imputato fosse stato condotto presso il Pronto Soccorso e che lo stesso imputato non abbia mai contestato di essere stato alla guida del veicolo, si desumerebbe la sussistenza della penale responsabilità di aver guidato in stato di ebbrezza.

Non si capisce, però, argomenta il D.M., quale sia il fatto certo dal quale desumere l’esistenza del fatto da provare, ossia la condotta di trovarsi alla guida in stato di ebbrezza.

Il conducente non è mai stato visto nell’abitacolo, nè successivamente identificato, precisa il ricorrente. La sentenza impugnata invece di prendere atto dell’incongruenza degli elementi emersi nel giudizio, ne darebbe per scontata la sussistenza e la rilevanza senza valutare approfonditamente le dichiarazioni testimoniali, mentre avrebbe dovuto, preso atto della sussistenza di un ragionevole dubbio pronunciare il proscioglimento dell’imputato.

Chiede, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata con ogni conseguente statuizione di legge.

Motivi della decisione

  1. I motivi sopra illustrati appaiono manifestamente infondati e, pertanto, il proposto ricorso va dichiarato inammissibile.

  2. Il ricorrente, non senza evocare in larga misura censure in fatto non proponibili in questa sede, si è nella sostanza limitato a riprodurre le stesse questioni già devolute in appello e da quei giudici puntualmente esaminate e disattese con motivazione del tutto coerente e adeguata che il ricorrente non ha in alcun modo sottoposto ad autonoma e argomentata confutazione.

    E’ ormai pacifica acquisizione della giurisprudenza di questa Suprema Corte come debba essere ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che riproducono le medesime ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici. La mancanza di specificità del motivo, infatti, va valutata e ritenuta non solo per la sua genericità, intesa come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, dal momento che quest’ultima non può ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità che conduce, a norma dell’art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), alla inammissibilità della impugnazione (in tal senso sez. 2, n. 29108 del 15.7.2011, Cannavacciuolo non mass.; conf. sez. 5, n. 28011 del 15.2.2013, Sammarco, rv. 255568; sez. 4, n. 18826 del 9.2.2012, Pezzo, rv. 253849; sez. 2, n. 19951 del 15.5.2008, Lo Piccolo, rv. 240109; sez. 4, n. 34270 del 3.7.2007, Scicchitano, rv. 236945; sez. 1, n. 39598 del 30.9.2004, Burzotta, rv. 230634; sez. 4, n. 15497 del 22.2.2002, Palma, rv. 221693).

    Ancora di recente, questa Corte di legittimità ha ribadito come sia inammissibile il ricorso per cassazione fondato sugli stessi motivi proposti con l’appello e motivatamente respinti in secondo grado, sia per l’insindacabilità delle valutazioni di merito adeguatamente e logicamente motivate, sia per la genericità delle doglianze che, così prospettate, solo apparentemente denunciano un errore logico o giuridico determinato (sez. 3, n. 44882 del 18.7.2014, Cariolo e altri, rv. 260608).

    3. La Corte veneziana ha ritenuto che la prima sentenza meritasse integrale conferma, confutando le argomentazioni difensive proposte in quella sede con motivazione logica e congrua e pertanto immune dai denunciati vizi di legittimità.

    Preliminarmente, ha respinto il primo motivo di doglianza, con il quale si eccepiva la mancata identificazione dell’odierno imputato nel soggetto alla guida del veicolo al momento del sinistro, rilevando che la P.G. intervenuta sul posto accertava che il conducente del veicolo era stato trasportato presso il locale pronto soccorso, ove l’imputato risultava essere stato visitato alle 3,42 per le ferite riportate in un incidente stradale.

    Del resto, come correttamente si rileva nell’impugnata sentenza, la circostanza che il D.M. non abbia mai contestato, nel processo di primo grado, di essere stato alla guida del veicolo, rende del tutto inverosimile che lo stesso possa essere stato coinvolto nell’incidente ad altro titolo.

    La pronuncia impugnata, sul punto, non appare viziata nè sotto il denunciato profilo della violazione di legge e nemmeno sotto quello del vizio motivazionale.

    Quanto a quest’ultimo, va ricordato che il controllo del giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia la oggettiva tenuta sotto il profilo logico argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le varie, cfr. vedasi Sez. 3, n. 12110 del 19/3/2009 n. 12110 e n. 23528 del 6/6/2006). Ancora, la giurisprudenza ha affermato che l’illogicità della motivazione per essere apprezzabile come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purchè siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (sez. 3, n. 35397 del 20.6.2007; Sez. Unite n. 24 del 24.11.1999, Spina, rv. 214794).

    Più di recente è stato ribadito come ai sensi di quanto disposto dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), il controllo di legittimità sulla motivazione non attiene nè alla ricostruzione dei fatti nè all’apprezzamento del giudice di merito, ma è circoscritto alla verifica che il testo dell’atto impugnato risponda a due requisiti che lo rendono insindacabile: a) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; b) l’assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento (Sez. 2, n. 21644 del 13/2/2013, Badagliacca e altri, rv. 255542).

    Il sindacato demandato a questa Corte sulle ragioni giustificative della decisione ha dunque, per esplicita scelta legislativa, un orizzonte circoscritto.

    Non c’è, in altri termini, come richiesto nel presente ricorso, la possibilità di andare a verificare se la motivazione corrisponda alle acquisizioni processuali. E ciò anche alla luce del vigente testo dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), come modificato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46.

    Il giudice di legittimità non può procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti ovvero ad una rivalutazione del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva al giudice del merito.

    Il ricorrente non può, come nel caso che ci occupa limitarsi a fornire una versione alternativa del fatto (altri era alla guida), senza indicare specificamente quale sia il punto della motivazione che appare viziato dalla supposta manifesta illogicità e, in concreto, da cosa tale illogicità vada desunta.

    Com’è stato rilevato nella citata sentenza 21644/13 di questa Corte, la sentenza deve essere logica “rispetto a sè stessa”, cioè rispetto agli atti processuali citati. In tal senso la novellata previsione secondo cui il vizio della motivazione può risultare, oltre che dal testo del provvedimento impugnato, anche da “altri atti del processo”, purchè specificamente indicati nei motivi di gravame, non ha infatti trasformato il ruolo e i compiti di questa Corte, che rimane giudice della motivazione, senza essersi trasformato in un ennesimo giudice del fatto.

    Se questa, dunque, è la prospettiva ermeneutica cui è tenuta questa Suprema Corte, le censure che il ricorrente rivolge al provvedimento impugnato si palesano manifestamente infondate, non apprezzandosi nella motivazione della sentenza della Corte d’Appello di Venezia laddove individua il D.M. come il conducente dell’autoveicolo alcuna illogicità che ne vulneri la tenuta complessiva.

    Rispetto a tale motivata, logica e coerente pronuncia il ricorrente chiede una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l’adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione. Ma per quanto sin qui detto un siffatto modo di procedere è inammissibile perchè trasformerebbe questa Corte di legittimità nell’ennesimo giudice del fatto.

    4. I giudici del gravame del merito confutano, con motivazione logica e aderente ai principi di diritto più volte affermati da questa Corte di legittimità anche la doglianza oggi riproposta in ordine all’avvenuta esecuzione degli accertamenti ematici, senza previo avviso della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia e senza averne richiesto il preventivo consenso. Come si dirà più articolatamente nelle pagine che seguono, l’avviso non occorreva in quanto il prelievo è stato eseguito nell’ambito di un protocollo di cure di pronto soccorso e non occorreva neanche il consenso, potendo rilevare, semmai, un esplicito dissenso che non risulta esserci stato.

    Viene dato atto, in sentenza, che nel secondo grado di giudizio veniva svolta l’attività di rinnovazione dibattimentale volta all’acquisizione della cartella relativa al paziente D.M.F. e all’audizione del teste dottor Z.G.. Ebbene, proprio l’integrazione istruttoria consentiva di fugare ogni dubbio circa il fatto che l’imputato, ferito, ricoverato per ben tre giorni nella struttura ospedaliera e venne sottoposto ai prelievi ematici per ragioni terapeutiche, nell’ambito del protocollo medico di pronto soccorso attivato dalla struttura sanitaria.

    Non assume, perciò, alcun rilievo la circostanza che l’accertamento ematico fosse stato anche immediatamente richiesto ai medici dagli agenti della Polizia Stradale intervenuti a seguito del sinistro, dal momento che tale accertamento si è poi inserito nell’ambito del prelievo eseguito per le cure del caso.

    Diversamente da quanto si sostiene in ricorso non può definirsi contraddittoria la deposizione del teste Z. che, con estrema sincerità, ha confermato non solo l’avvenuta effettuazione del prelievo ematico nell’ambito del protocollo sanitario ma anche che l’accertamento dell’alcolemia era stato anche richiesto della Polizia Stradale. Del resto – va ancora una volta ribadito- è fuori di dubbio e mai contestato che l’imputato ebbe a riportare ferite che, come detto, ne determinarono il ricovero ospedaliero per tre giorni.

    Perciò, è assolutamente corretto il richiamo da parte dei giudicio del gravame del merito al dictum di questa Corte secondo cui per l’accertamento del reato contravvenzionale di guida in stato di ebbrezza, sono utilizzabili i risultati del prelievo ematico che sia stato effettuato, secondo i criteri e gli ordinali protocolli sanitari di pronto soccorso, durante il ricovero presso una struttura ospedaliera pubblica a seguito di incidente stradale, trattandosi, in tal caso, di elementi di prova acquisiti attraverso la documentazione medica, con conseguente irrilevanza, a questi fini, della eventuale mancanza di consenso (Sez. 4, n. 26108 del 16/5/2012, Pesaresi, Rv. 253596; conf. Sez. 4, n. 1827 del 04/11/2009 dep. il 2010, Rv. 245997; Sez. 4, n. 4118 del 9/12/2008 dep. il 2009, Rv. 242834; Sez. 4 n. 22599/2005, che ebbe ad esaminare una fattispecie in cui il tribunale aveva assolto l’imputato ritenendo non utilizzabili i risultati dell’esame ematico che era stato compiuto secondo i normali protocolli di pronto soccorso presso l’ospedale dove il soggetto era stato trasportato per le lesioni riportate dopo un incidente stradale e, in accoglimento del ricorso presentato dal P.M., in applicazione del principio di diritto così affermato, annullò la sentenza di assoluzione, con rinvio al tribunale per nuovo esame della vicenda).

    In proposito, va anche ribadito che è diritto del soggetto opporre il rifiuto al prelievo ematico laddove questo sia finalizzato chiaramente ed unicamente all’accertamento di eventuale presenza di sostanze alcoliche nel sangue, trattandosi di un esame invasivo, con violazione dei diritti della persona: nella concreta fattispecie, come già evidenziato, il prelievo ematico è stato effettuato, invece, presso una struttura ospedaliere nell’ambito del protocollo medico di pronto soccorso a seguito di incidente stradale; nè rileva, con riferimento a prelievo effettuato nell’ambito del protocollo di pronto soccorso a seguito di incidente, che possa esservi stata anche una richiesta della Polizia Giudiziaria (così il condivisibile dictum di Sez. 4, n. 6755 del 6/11/2012 dep. il 2013, Guardabascio, Rv. 254931, che il Collegio ritiene vada ribadito).

    Più nello specifico è stato precisato che i risultati del prelievo ematico effettuato per le terapie di pronto soccorso successive ad incidente stradale e non preordinato a fini di prova della responsabilità penale, sono utilizzabili per l’accertamento del reato di guida in stato di ebbrezza senza che rilevi la ” mancanza di un preventivo consenso” dell’interessato (Sez. F, n. 52877 del 25/8/2016, Ilardi, Rv. 268807 che, in applicazione di tale principio, ha precisato che, per il suo carattere invasivo, il conducente può, invece, opporre un “espresso dissenso” al prelievo ematico richiesto dalla polizia giudiziaria e finalizzato esclusivamente all’accertamento della presenza di alcol nel sangue, in presenza del quale l’eventuale accertamento effettuato dalla P.G. è illegittimo ed i suoi risultati saranno inutilizzabili; conf. Sez. 4, n. 26108 del 16/5/2012, Pesaresi, Rv. 253596).

    5. Questa Corte di legittimità -va ricordato- ha anche chiarito che, in tema di guida in stato di ebbrezza, il prelievo ematico compiuto autonomamente dai sanitari in esecuzione di ordinari protocolli di pronto soccorso, in assenza di indizi di reità a carico di un soggetto coinvolto in un incidente stradale e poi ricoverato, non rientra tra gli atti di polizia giudiziaria urgenti ed indifferibili ex art. 356 c.p.p., di talchè non sussiste alcun obbligo di avviso all’indagato della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia ai sensi dell’art. 114 disp. att. c.p.p. (Sez. 4, n. 38458 del 4/6/2013, Grazioli, Rv. 257573; coni. Sez. 4, n. 34145 del 21/12/2011 dep. il 2012, Invernizzi, Rv. 253746). Tale attività non è finalizzata alla ricerca delle prove dì un reato, ma alla cura della persona e nulla ha a che vedere con l’esercizio del diritto di difesa da parte del soggetto sottoposto a quel trattamento o a quelle cure, cosicchè non sussiste alcun obbligo di avviso all’indagato della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia ai sensi dell’art. 114 disp. att. c.p.p., (cfr. la recentissima Sez. 4 n. 51284 del 10/10/2017, Lirussi, non ancora mass. che richiama Sez. 4 n. 53293 del 27/09/2016; Rv. 268690; Sez. 6 n. 43894 del 13/09/2016, Rv. 268505). La successiva utilizzabilità dell’atto in sede processuale va, infatti, equiparata, come si diceva in precedenza, a quella di un documento e non può considerarsi atto di polizia giudiziaria, anche ove l’acquisizione sia avvenuta ad iniziativa di questa, ma dopo che l’accertamento sanitario fosse già stato avviato, esclusivamente nell’ambito di quel protocollo.

    Ove, invece, l’esecuzione del prelievo da parte di personale medico non avvenga nell’ambito degli ordinari protocolli sanitari, ma sia espressamente richiesta dalla polizia giudiziaria al fine di acquisire la prova del reato nei confronti di soggetto già indiziato, il personale richiesto finisce per agire come vera e propria longa manus della polizia giudiziaria e, anche rispetto a tale accertamento, scatteranno le garanzie difensive sottese all’avviso di cui all’art. 114 disp. att. cod. proc. pen. (così la già ricordata Sez. 4 n. 51284 del 10/10/2017, Lirussi, non ancora mass e, in termini, Sez. 4 n. 3340 del 22/12/2016 dep. il 2017, Tolazzi, Rv. 268885; Sez. 4 n. 53293 del 27/9/2016, Rv. 268690; Sez. F. n. 34886 del 6/8/2015, Rv. 264728).

    In tale ipotesi, cioè, la polizia giudiziaria non farebbe altro che avvalersi di una facoltà espressamente attribuita dalla legge, in quanto l’art. 348 c.p.p., comma 4, prevede, per l’appunto, che “La polizia giudiziaria, quando, di propria iniziativa o a seguito di delega del pubblico ministero, compie atti od operazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, può avvalersi di persone idonee le quali non possono rifiutare la propria opera”, precisandosi che il ricorso alla collaborazione di tali ausiliari non richiede che costoro siano individuati con l’osservanza delle forme e delle modalità previste per la nomina del consulente tecnico del pubblico ministero (cfr. Sez. 3 n. 16683 del 5/03/2009, Rv. 243462; n. 5818 dei 10/11/2015 dep. il 2016, Rv. 266267).

    In altri termini, la polizia giudiziaria, in caso di incidente stradale, allorchè la persona sulla quale si siano già addensati indizi di reità con riferimento alle condotte descritte dall’art. 186 C.d.S., sia trasferita in ospedale, ma non sottoposta ad autonomo intervento di soccorso e cura, può anche decidere, anche solo per ragioni di tipo organizzativo, di non procedere con l’esame spirometrico, ma di delegare l’accertamento del tasso alcolemico al personale sanitario che ha ricevuto il soggetto. L’avviso, obbligatorio in tal caso, potrà essere, dato anche dal personale sanitario richiesto, atteso che esso non necessita di formule sacramentali, ma deve essere idoneo a raggiungere lo scopo, che è quello di avvisare colui che non possiede conoscenze tecnico-processuali, del fatto che, tra i propri diritti, vi è la facoltà di nominare un difensore che lo assista durante l’atto (cfr. Sez. 4 n. 15189 del 18/1/2017, Rv. 269606; sez. 3 n. 23697 del 1/3/2016, Rv. 266825).

    6. Come rileva condivisibilmente la richiamata sentenza 755/2013, non può sostenersi che il difetto di consenso al prelievo del campione costituisca una causa di inutilizzabilità patologica dell’accertamento compiuto, facendo appello a principi di natura costituzionale, posto che la specifica disciplina dettata dall’art. 186 del nuovo codice della strada, nel dare attuazione alla riserva di legge stabilita dall’art. 13 Cost., comma 2, non prevede alcun preventivo consenso dell’interessato al prelievo dei campioni (cfr. Sez. 4 n. 1522 del 10/12/2013 dep. il 2014), Rv. 258490; Sez. 4 n. 10605 del 15/11/2012 dep. il 2013, Rv. 254933 in cui la S.C. ha, tuttavia, chiarito, come si dirà di qui a poco, che il prelievo non sarebbe effettuabile laddove il paziente rifiutasse espressamente di essere sottoposto a qualsiasi trattamento sanitario); Sez. 4 n. 15189 del 18/1/2017, Rv. 269606).

    Innanzitutto, va osservato, come già si ebbe occasione di fare in quella pronuncia, che le situazioni, in relazione all’accertamento del tasso alcoolemico, che in concreto possono prospettarsi, nel momento in cui il conducente, presumibilmente in stato di ebbrezza, abbia provocato un incidente stradale e venga condotto presso una struttura sanitaria, sono diverse, ma, ad ognuna di esse, è possibile dare una regolamentazione ricavabile dalla norma di riferimento, che è l’art. 186 C.d.S., comma 5, nella sua attuale formulazione già in vigore al momento del fatto di cui trattasi.

    La norma prevede che, per i conducenti coinvolti in incidenti stradali e sottoposti alle cure mediche, l’accertamento del tasso alcolemico su richiesta degli organi della Polizia Stradale viene effettuato da parte delle strutture sanitarie, che rilasciano ai predetti organi la relativa certificazione estesa alla prognosi delle lesioni accertate. Il successivo art. 186 C.d.S., comma 6, statuisce che, qualora da tale accertamento risulti un valore corrispondente ad un tasso alcoolemico superiore a 0,5 grammi per litro di sangue, l’interessato è considerato in stato di ebbrezza ai fini delle applicazioni delle sanzioni di cui al comma 2 dello stesso articolo.

    Ne discende che, in presenza dei presupposti di fatto indicati (coinvolgimento del conducente in un incidente stradale, sua sottoposizione a cure mediche da parte della struttura sanitaria) l’accertamento del tasso alcoolemico, richiesto ai sanitari da organi della Polizia Giudiziaria, è utilizzabile ai fini dell’affermazione di responsabilità dell’interessato, indipendentemente dal consenso che costui abbia o meno prestato all’effettuazione dell’accertamento stesso.

    Il primo presupposto di fatto, e cioè il coinvolgimento in un incidente stradale, è un dato oggettivo, non rilevando se esso abbia o meno coinvolto solo il veicolo dell’interessato o anche di altri, quel che importa, infatti, è il pericolo causato alla circolazione stradale; per la sussistenza del secondo presupposto è necessario che il prelievo ematico sia stato eseguito dal personale sanitario della struttura, presso cui è stato condotto l’interessato, nell’ambito di un protocollo medico di pronto soccorso; a tal fine, ovviamente, la valutazione se si debba o meno sottoporre il medesimo a cure mediche e procedere anche al prelievo ematico, onde predisporre adeguate cure farmacologiche, è rimessa agli stessi sanitari.

    Nell’ambito delle cure che vengono in tal modo prestate, con il prelievo ematico, gli organi di P.G. sono legittimati a richiedere l’accertamento del tasso alcoolemico, i cui risultati possono essere utilizzati ai fini penali, indipendentemente dal consenso prestato o meno in tal senso dal conducente.

    In tale caso -che, si ribadisce, è quello di un soggetto che necessita di cure di pronto soccorso nell’ambito delle quali comunque i medici l’avrebbero sottoposto a prelievo ematico- poichè l’acquisizione del risultato dell’accertamento ematico è previsto ex lege, non è affatto necessario, a tutela del diritto di difesa, che l’interessato venga avvertito della facoltà di nomina di un difensore.

    Come condivisibilmente rilevava già la citata sentenza 755/2013, il conducente potrebbe, però, opporsi ad essere sottoposto alle cure mediche e, quindi, al prelievo di sangue e, sostanzialmente all’accertamento del tasso alcoolemi-co, disposti dai sanitari nell’ambito di applicazione del protocollo di pronto soccorso cui si è fatto riferimento, ma, in tal caso, atteso il collegamento tra il settimo ed l’art. 186 C.d.S., comma 5, egli sarebbe punito con le pene previste dal comma 2, lett. c) dello stesso articolo, sempre, però, che fosse stato informato che, nell’ambito delle cure mediche, era stato richiesto da parte della P.G. ai sanitari il prelievo di sangue per l’accertamento del tasso alcoolemico. Diversamente, se i sanitari abbiano ritenuto di non sottoporre il conducente a cure mediche ed a prelievo ematico, la richiesta degli organi di P.G. di effettuare l’analisi del tasso alcoolemico, in presenza di un dissenso espresso dell’interessato, sarebbe illegittima e, quindi, l’eventuale accertamento, comunque effettuato a mezzo del prelievo ematico da parte dei sanitari, sarebbe inutilizzabile ai fini dell’affermazione di responsabilità per una delle ipotesi di reato previste dall’art. 186 C.d.S., comma 2, (cfr. sul punto anche Sez. 4, n. 26108 del 16/05/2012 Rv. 253596 secondo cui ” i risultati del prelievo ematico effettuato per le terapie di pronto soccorso successive ad incidente stradale e non preordinato a fini di prova della responsabilità penale sono utilizzabili per l’accertamento del reato di guida in stato di ebbrezza, senza che rilevi l’assenza di consenso dell’interessato, ove, in applicazione di tale principio, la Corte ha affermato che, per il suo carattere invasivo, il conducente può opporre un rifiuto al prelievo ematico se sia finalizzato esclusivamente all’accertamento della presenza di alcool nel sangue).

    7. Non a caso si è fatto riferimento al “dissenso espresso dell’interessato” e non al suo “mancato consenso”, in quanto l’utilizzazione dell’una o dell’altra locuzione ha risvolti applicativi di non poco conto. Ed, infatti, se basta “il dissenso espresso dell’interessato” gli organi di P.G. possono richiedere ai sanitari l’effettuazione del prelievo ematico e, quindi, dell’accertamento del tasso alcoolemico, ancorchè gli stessi non abbiano ritenuto necessario di sottoporre l’interessato a cure mediche, deducendo il consenso di quest’ultimo, ovviamente previa informazione al medesimo della finalità per cui è effettuato il prelievo ematico (trattasi pur sempre di un consenso informato) anche da un atteggiamento positivo, sebbene verbalmente non espresso; altrimenti, se si richiede “il consenso dell’interessato” è ovvio che esso debba essere espresso, cioè non ricavabile da suoi atteggiamenti.

    La scelta del Collegio di ritenere che, per l’utilizzabilità processuale dell’accertamento del tasso alcoolemico, acquisito con le modalità descritte, non ci debba essere “il dissenso espresso dell’interessato”, deriva dalla lettura del comma 7 dell’art. 186 CDS, laddove il legislatore ha specificamente utilizzato il termine “rifiuto” da parte del conducente, con riferimento all’accertamento del tasso alcoolemico (anche con riguardo al comma 5 dello stesso articolo).

    Il significato lessicale di tale sostantivo, laddove con rifiuto si intende l’opporsi espressamente (con qualsiasi modalità, verbale e non) ad una richiesta di fare o subire un qualche cosa (consenso informato) è incontrovertibile (vedasi infra sent. Corte Cost. 238/1996).

    Si ritiene di convenire con la più volte ricordata sentenza 755/2013 nel senso che è del tutto ovvio, alla luce di un’interpretazione sistematica della norma, che anche in questo caso l’espresso dissenso (rifiuto) del conducente all’effettuazione dell’accertamento alcoolemico, richiesto dagli organi di P.G. ai sanitari, al di fuori dei presupposti illustrati, di cui al comma 5, consenta l’applicazione della disposizione del richiamato comma 7.

    Con riguardo alla ipotizzata violazione da parte della disposizione normativa in esame dei principi costituzionali a tutela della libertà personale del cittadino e del suo diritto di rifiuto a sottoporsi ad accertamenti invasivi anche se per finalità di accertamento di reati, possono essere evocati i principi affermati con la sentenza della Corte Costituzionale 238/1996, la quale ebbe a dichiarare l’illegittimità dell’art. 224 c.p.p., comma 2, nella parte in cui consente che il giudice, nell’ambito delle operazioni peritali, disponga misure che comunque incidano sulla libertà personale dell’indagato o dell’imputato o di terzi, al di fuori di quelle specificamente previste nei “casi” e nei “modi” dalla legge”. Principio a maggior ragione valido anche per gli atti di indagine.

    Va osservato che i giudici delle leggi giunsero alla pronuncia di illegittimità per arginare l’utilizzo di provvedimenti coercitivi atipici, astrattamente riconducibili alla nozione di “provvedimenti.. necessari per l’esecuzione delle operazioni peritali”, senza che fosse prevista alcuna distinzione tra quelli incidenti e quelli non incidenti sulla libertà personale, così cumulandoli in una disciplina, connotata da assoluta genericità di formulazione e totale carenza di ogni specificazione dei casi e dei modi in presenza dei quali soltanto poteva ritenersi legittima l’esecuzione coattiva di accertamenti peritali mediante l’adozione, a discrezione del giudice, di misure restrittive della libertà personale. Carenza normativa a cui, peraltro, il legislatore ha posto riparo con l’introduzione dell’art. 224 bis c.p.p..

    Invero, la stessa Corte, nella motivazione della sentenza sopra ricordata, nel momento in cui censurava la genericità della disciplina del rito penale, ebbe a segnalare come invece, “…. in un diverso contesto, che è quello del nuovo codice della strada (artt. 186 e 187), il legislatore – operando specificamente il bilanciamento tra l’esigenza probatoria di accertamento del reato e la garanzia costituzionale della libertà personale – abbia dettato una disciplina specifica (e settoriale) dell’accertamento (sulla persona del conducente in apparente stato di ebbrezza alcoolica o di assunzione di sostanze stupefacenti) della concentrazione di alcool nell’aria alveolare espirata e del prelievo di campioni di liquidi biologici, (prevedendo bensì in entrambi i casi la possibilità del rifiuto dell’accertamento, ma con la comminatoria di una sanzione penale per tale indisponibilità dei conducente ad offrirsi e cooperare all’acquisizione probatoria); disciplina – questa la cui illegittimità costituzionale è stata recentemente esclusa da questa Corte (sentenza n. 194 del 1996, citata) proprio denegando, tra l’altro, la denunziata violazione dell’art. 13 Cost., comma 2, atteso che la dettagliata normativa di tale accertamento non consente neppure di ipotizzare la violazione della riserva di legge”.

    Ne consegue che la stessa Corte Costituzionale ha riconosciuto, nelle due pronunce sopra riportate, la legittimità della disciplina del codice della strada, anche laddove nell’indicare le modalità degli accertamenti tecnici per rilevare lo stato di ebbrezza, non prevede alcun preventivo consenso dell’interessato al prelievo dei campioni. E, dunque, avendo la stessa Corte Costituzionale, nella richiamata sentenza, individuato quali sono i “trattamenti sanitari”, c.d. invasivi, consentiti, tra cui il prelievo ematico, le modalità previste dall’art. 186 C.d.S., comma 5, per l’accertamento del tasso alcoolemico trovano il loro fondamento nell’art. 32 della Carta Costituzionale, comma 2.

    Ciò che può essere opposto – va ribadito- è il rifiuto al controllo; ma la stessa sanzione penale che accompagna tale condotta, sancendone il disvalore, risulta incompatibile con la pretesa di un esplicito consenso al prelievo dei campioni.

    Nel caso di specie, detto prelievo è stato effettuato nel rispetto delle norme vigenti all’epoca dei fatti (dopo la riforma introdotta dal D.L. n. 151 del 2003, conv. in L. n. 214 del 2003), ai sensi dell’art. 186 C.d.S., comma 5, legittimamente presso il presidio ospedaliero in cui era stato portato per controlli medici, ferito, il D.M..

    Per quanto detto, le censure di inutilizzabilità degli accertamenti ospedalieri in relazione alla positività all’alcool dell’imputato sono manifestamente infondate.

    8. In ultimo, va rilevato che non può porsi in questa sede la questione di una declaratoria della prescrizione maturata dopo la sentenza d’appello, in considerazione della manifesta infondatezza del ricorso.

    La giurisprudenza di questa Corte Suprema ha, infatti, più volte ribadito che l’inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 c.p.p. (così Sez. Un. n. 32 del 22/11/2000, De Luca, Rv. 217266 relativamente ad un caso in cui la prescrizione del reato era maturata successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso; conformi, Sez. Un., n. 23428 del 2/3/2005, Bracale, Rv. 231164, e Sez. Un. n. 19601 del 28/2/2008, Niccoli, Rv. 239400; in ultimo Sez. 2, n. 28848 del 8/5/2013, Ciaffoni, rv. 256463).

    9. Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell’art. 616 c.p.p., non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura indicata in dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2000,00 in favore della cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 10 gennaio 2018.

Depositato in Cancelleria il 1 febbraio 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Originally posted 2021-08-25 17:39:25.

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2)Secondo: un avvocato specializzato in malasanità opera una rigorosa disamina del caso, ricevendo in studio direttamente con il medico specialista nella materia d’interesse del cliente, a seconda che si tratti dell’ambito della ginecologiaostetricia, ortopedia, neurochirurgia, oncologia, cardiologia,oculistica  ecc.

3)Terzo: se vuoi giusti risultati  la professionalità è d’obbligo come d’obbligo è sottoporre preventivamente il caso a medici esperti che valutino la situazione e questo atteggiamento nei confronti di una materia così delicata fa si che si abbiano maggiori successi nell’ottenimento del risarcimento e si eviti, allo stesso tempo, che vengano intentate azioni prive di fondamento o comunque di risibile apprezzamento economico.

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si era allontanato subito dopo

l’esecuzione dell’intervento chirurgico, senza attendere il regolare risveglio del

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piccolo paziente, senza accertarsi delle sue condizioni, senza lasciar detto dove

andava e dove poteva essere rintracciato, lasciando il bimbo alla sola vigilanza

delle infermiere, nei fatti quindi rifiutando un atto del suo ufficio che doveva

essere compiuto senza ritardo per ragioni di sanità, rendendosi irreperibile ed

irraggiungibile per oltre quaranta minuti, pur nella consapevolezza di avere

lasciato senza la doverosa e cogente assistenza un piccolo paziente appena

operato, oltre quaranta minuti durante i quali -a seguito dell’insorgere di serie

complicanze respiratorie nel  paziente-  era stato insistentemente e

reiteratamente cercato dai medici e dal centralino dell’ospedale.

 

AVVOCATO DANNO DA INSIDIA STRADALE fosse dipeso da un'anomalia della strada o del marciapied

AVVOCATO DANNO DA INSIDIA STRADALE fosse dipeso da un’anomalia della strada o del marciapied

 

 

IL RAGIONAMENTO DELLA CASSAZIONE

La Corte d’Appello ha poi sottolineato che nel caso in esame il piccolo paziente

non era stato trattato con sedativi prima di essere sottoposto all’intervento de

quo, là dove tutta la letteratura internazionale era concorde sulla opportunità

di premedicare in questi casi i bambini proprio per determinare una amnesia su

quanto accaduto in sala operatoria ed evitare stati di agitazione postoperatori

(v. relazione M.). A fronte di ciò, la Corte di merito non ha potuto non rilevare

che l’imputato, dirigente medico della unità operativa anestesia e rianimazione

dell’ospedale di —- che in data —- svolgeva funzioni di anestesia di sala, si

era allontanato dal luogo in cui si trovava il minore C.S. subito dopo

l’esecuzione dell’intervento chirurgico, senza attendere il regolare risveglio del

piccolo paziente, senza accertarsi delle sue condizioni di salute, senza lasciare

recapiti, abbandonando il bambino alla sola vigilanza delle infermiere di sala.

Ne derivava che il F. aveva indebitamente rifiutato atti del suo ufficio,

allontanandosi subito dopo l’intervento chirurgico e omettendo, in violazione

dei suoi obblighi di anestesista, di continuare a monitorare il paziente (tanto

più che si trattava di un bambino che non era stato da lui premeditato) e di

intervenire tempestivamente alla vista dei sintomi di malessere manifestati dal

piccolo S. al risveglio dall’anestesia, somministrando il farmaco giusto che

evitasse di  cagionargli  la crisi  respiratoria verificatasi  a seguito della

somministrazione di midazolam ad opera degli anestesisti sopraggiunti in sua

sostituzione. Si  tratta con tutta evidenza di  argomentazioni  (non solo

pienamente rispondenti alla realtà processuale, ma anche perfettamente

logiche e aderenti alle regole del diritto) che dimostrano la superfluità della

richiesta perizia medica, posto che ai fini della affermazione della penale

responsabilità dell’imputato per il reato a lui ascritto non rileva in alcun modo il

fatto che la somministrazione di benzodiazepine, praticata dagli altri medici per

sedare l’agitazione del paziente dopo il risveglio, sia stata la causa unica della

crisi respiratoria del piccolo C., come ribadito nell’atto di ricorso.

3. Consegue al rigetto del ricorso la condanna del ricorrente al pagamento

delle spese processuali, nonchè alla rifusione delle spese sostenute dalla parte

civile, liquidate come da dispositivo.

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Cassazione Penale – Sentenza n. 38354/14

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Con sentenza in data 9-11-11 il Tribunale di Ascoli Piceno ha condannato

F.G. alla pena (condizionalmente sospesa) di anni uno di reclusione (con

interdizione per la stessa durata dai pubblici servizi e con risarcimento dei

danni in favore della parte civile) per il reato di cui all’art. 328 c.p., a lui

ascritto perchè, quale medico anestesista in servizio presso l’ospedale di ——

incaricato di  prestare la dovuta assistenza all’intervento chirurgico di

adenotonsillectomia sul piccolo C.S. di anni sei, si era allontanato subito dopo

l’esecuzione dell’intervento chirurgico, senza attendere il regolare risveglio del

piccolo paziente, senza accertarsi delle sue condizioni, senza lasciar detto dove

andava e dove poteva essere rintracciato, lasciando il bimbo alla sola vigilanza

delle infermiere, nei fatti quindi rifiutando un atto del suo ufficio che doveva

essere compiuto senza ritardo per ragioni di sanità, rendendosi irreperibile ed

irraggiungibile per oltre quaranta minuti, pur nella consapevolezza di avere

lasciato senza la doverosa e cogente assistenza un piccolo paziente appena

operato, oltre quaranta minuti durante i quali -a seguito dell’insorgere di serie

complicanze respiratorie nel  paziente-  era stato insistentemente e

reiteratamente cercato dai medici e dal centralino dell’ospedale.

Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte d’Appello di Ancona, in data 12-7-

12, ha confermato la sopra menzionata decisione, condannando altresì il F. alla

rifusione delle spese di parte civile, liquidate come da dispositivo.

2. F.G. ha proposto ricorso per cassazione avverso quest’ultima sentenza,

chiedendone l’annullamento.

Con il primo motivo di ricorso denuncia la violazione dell’art. 606 c.p.p., lett.

d), per la mancata assunzione di una prova decisiva perizia medica per

accertare le condizioni del piccolo C. S. al momento in cui esso F. si era

assentato dopo l’intervento chirurgico, in quanto la crisi respiratoria che lo

aveva colpito non sarebbe da imputare ad esso ricorrente ma altro non

sarebbe stata che la reazione avversa ad un farmaco (benzodiazopine)

somministrato dai sanitari sopraggiunti per fronteggiare lo stato di agitazione

del paziente.

Con il secondo motivo di ricorso deduce vizio di motivazione là dove i giudici di

merito non hanno ritenuto necessario l’espletamento della predetta perizia

medica.

In prossimità della odierna pubblica udienza la difesa del F. ha depositato una

memoria illustrativa, con la quale si insiste per l’accoglimento del ricorso. In

particolare, si sostiene:

che il F. si era allontanato dall’anti-sala nella quale si trovava il bambino in un

momento ampiamente successivo a quello in cui il piccolo paziente si era

correttamente risvegliato dalla anestesia, e, dunque, in un momento in cui per

il medesimo F. era terminato il dovere di assistere il bimbo operato;

che l’apnea insorta nel piccolo S. non era stata la conseguenza dell’operazione

chirurgica, ma era stata provocata unicamente dalla errata ed arbitraria

somministrazione al bambino del farmaco Ipnovel ad opera di altri sanitari

intervenuti per l’agitazione del bimbo dopo che esso F. si era allontanato.

3. Il ricorso è infondato.

La Corte di merito ha spiegato che i fatti specificati nel capo di imputazione

dovevano ritenersi accertati in base alla ampia istruttoria dibattimentale svolta

in primo grado.

In particolare, nella sentenza impugnata si è chiarito che, alla luce delle

risultanze dibattimentali,  la richiesta di  perizia medica,  rinnovata

dall’appellante, doveva ritenersi irrilevante ai fini della decisione, che verteva

sulla penale responsabilità del medico anestesista per omissione della doverosa

assistenza del piccolo paziente nella fase successiva all’intervento operatorio

effettuato.

Infatti il teste Fe. (direttore del dipartimento di emergenza e della struttura

complessa di anestesia e rianimazione presso l’ospedale —- aveva sintetizzato

le regole generali alle quali deve attenersi l’anestesista in caso di intervento

chirurgico, durante e dopo l’operazione di un bambino per tonsille ed adenoidi.

Segnatamente il  predetto testimone aveva spiegato che al  termine

dell’intervento l’anestesista deve garantire un buon risveglio, un atterraggio

migliore possibile fino alla completa ripresa di tutte le funzioni depresse

dall’anestesia, che l’obbligo di assistenza dell’anestesista cessa quando c’è un

recupero totale di tutte le funzioni, la coscienza, la mobilità, i riflessi, e che la

cessazione dei doveri dell’anestesista interviene solo dopo che i farmaci

somministrati siano stati eliminati. Il dott. Fe. ha anche specificato che

generalmente era buona norma tenere il bambino nell’antisala operatoria, nella

sala di risveglio, fino a che non si fosse tranquillizzato e non versasse più in

stati di agitazione.

La Corte d’Appello ha poi sottolineato che nel caso in esame il piccolo paziente

non era stato trattato con sedativi prima di essere sottoposto all’intervento de

quo, là dove tutta la letteratura internazionale era concorde sulla opportunità

di premedicare in questi casi i bambini proprio per determinare una amnesia su

quanto accaduto in sala operatoria ed evitare stati di agitazione postoperatori

(v. relazione M.). A fronte di ciò, la Corte di merito non ha potuto non rilevare

che l’imputato, dirigente medico della unità operativa anestesia e rianimazione

dell’ospedale di —- che in data —- svolgeva funzioni di anestesia di sala, si

era allontanato dal luogo in cui si trovava il minore C.S. subito dopo

l’esecuzione dell’intervento chirurgico, senza attendere il regolare risveglio del

piccolo paziente, senza accertarsi delle sue condizioni di salute, senza lasciare

recapiti, abbandonando il bambino alla sola vigilanza delle infermiere di sala.

Ne derivava che il F. aveva indebitamente rifiutato atti del suo ufficio,

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più che si trattava di un bambino che non era stato da lui premeditato) e di

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3. Consegue al rigetto del ricorso la condanna del ricorrente al pagamento

delle spese processuali, nonchè alla rifusione delle spese sostenute dalla parte

civile, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali

nonchè a rifondere le spese sostenute dalla parte civile, che liquida in

complessivi euro duemilacinquecento, oltre iva e cpa.

Così deciso in Roma, il 3 giugno 2014.

Depositat

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3)Terzo: se vuoi giusti risultati  la professionalità è d’obbligo come d’obbligo è sottoporre preventivamente il caso a medici esperti che valutino la situazione e questo atteggiamento nei confronti di una materia così delicata fa si che si abbiano maggiori successi nell’ottenimento del risarcimento e si eviti, allo stesso tempo, che vengano intentate azioni prive di fondamento o comunque di risibile apprezzamento economico.

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· Perdita del feto per amniocentesi o villocentesi.
· Prescrizione di terapie senza adeguati controlli.
· Ritardo nell’esecuzione di parto cesareo. · Ritardo nell, Danni alla madre durante il parto.
· Diagnosi errate per malattie ginecologiche.
· Distocia della spalla.
· Errate terapie per la cura della infertilità.
· Erronea diagnosi prenatale.
· Fratture della, DANNO – ALESSANDRIA SEI VITTIMA DI MALASANITA’ ?RISARCIMENTO DA DANNO MEDICO, DANNO – ASTI SEI VITTIMA DI MALASANITA’ ?RISARCIMENTO DA DANNO MEDICO, DANNO – BOLOGNA SEI VITTIMA DI MALASANITA’ ?RISARCIMENTO DA DANNO MEDICO, DANNO – CUNEO SEI VITTIMA DI MALASANITA’ ?RISARCIMENTO DA DANNO MEDICO, DANNO – FAENZA SEI VITTIMA DI MALASANITA’ ?RISARCIMENTO DA DANNO MEDICO, DANNO – LUGO SEI VITTIMA DI MALASANITA’ ?RISARCIMENTO DA DANNO MEDICO, DANNO – NOVARA SEI VITTIMA DI MALASANITA’ ?RISARCIMENTO DA DANNO MEDICO, DANNO – responsabilità medica civile responsabilità medica contrattuale responsabilità medica risarcimento danni responsabilità medica citazione responsabilità medica penale responsabilità medica ness, DANNO – TREVISO SEI VITTIMA DI MALASANITA’ ?RISARCIMENTO DA DANNO MEDICO, DANNO – VERCELLI SEI VITTIMA DI MALASANITA’ ?RISARCIMENTO DA DANNO MEDICO, DANNO – VICENZA SEI VITTIMA DI MALASANITA’ ?RISARCIMENTO DA DANNO MEDICO, di un caso di malasanità. Se vuoi ottenre un giusto risarcimento TU devi sapere quali siano i 3 passi fondamentali da seguire. 1)Primo: rivolgersi ad un avvocato specializzato in responsabilità medica, MEDICO CHE SBAGLIA, neurochirurgia, oculistica ecc. 3)Terzo: se vuoi giusti risultati la professionalità è d’obbligo come d’obbligo è sottoporre preventivamente il caso a medici esperti che valutino la situazione e questo atteggiamento , oncologia, ortopedia, ricevendo in studio direttamente con il medico specialista nella materia d’interesse del cliente, RISARCIMENTO PER DANNO PRONTO SOCCORSO, RISARCIMENTO PER ERRORE MEDICO, RISARICMENTO PER DANNO PRONTO SOCCORSO il 2 dicembre 2014 da Armarolio in Cancelleria il 18 settembre 2014

MALASANITA’ RESPONSABILITA’ MEDICA ERRORE DIAGNOSTICO O TERAPEUTICO DANNO PAZIENTE

  1. AFFERMA LA CASSAZIONE
  2. Nella elaborazione dei canoni di redazione del quesito di diritto la giurisprudenza di questa Suprema Corte si è chiaramente orientata a ritenere che ognuno dei quesiti formulati per ciascun motivo di ricorso deve consentire l’individuazione del principio di diritto che è alla base del provvedimento impugnato e, correlativamente, del diverso principio la cui auspicata applicazione ad opera della Corte di Cassazione possa condurre ad una decisione di segno diverso: ove tale articolazione logico – giuridica mancasse, il quesito si risolverebbe in un’ astratta petizione di principio, inidonea sia ad evidenziare il nesso tra la fattispecie ed il principio di diritto che si chiede venga affermato, sia ad agevolare la successiva enunciazione di tale principio ad opera della Corte, in funzione nomofilattica. Il quesito non può pertanto consistere in una mera richiesta di accoglimento del motivo o nell’interpello della Corte in ordine alla fondatezza della censura così come illustrata nello svolgimento dello stesso motivo, ma deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la medesima Corte in condizione di rispondere ad esso con l’enunciazione di una regula iuris che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata. Ciò vale a dire che la Corte di legittimità deve poter comprendere dalla lettura del solo quesito, inteso come sintesi logico giuridica della questione, l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare (Cass. S.U. n. 3519/2008 ). Nella fattispecie con il quesito suddetto il ricorrente si è limitato a richiedere se nella fattispecie la corte di merito avesse applicato il principio di diritto fissato dalle S.U. con sentenza n. 13533/2001.
  3. 2.Quanto alla doglianza relativa al vizio motivazionale, essa è inconferente poiché la sentenza impugnata non pone in dubbio che vi sia stato un errore istopatologico presso l’Istituto X. e, quindi sotto questo profilo non pone in dubbio l’inadempimento lamentato, ma ritiene che sia rimasto accertato che esso non ha prodotto il danno lamentato dagli appellanti. Non vi quindi questione in merito alla prova dell’inadempimento, poiché la domanda non è stata rigettata per l’esatto adempimento l’obbligazione sanitaria dovuta, ma perché, pur essendo essa esistente, essa era eziologicamente “indifferente” in relazione al danno subito.
  4. Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 360 n. 3 c.p.c., inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 40, 41 589 c.p.c., e dell’art. 2236 c.c., nonché ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c., degli artt. 132, 112, 116 c.p.c., nonché ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., il vizio di motivazione relativamente all’esclusione del rapporto causale tra la condotta dell’imputata B. e l’aggravamento della malattia a carico della G.
  5. Segnatamente il ricorrente lamenta che la sentenza impugnata erroneamente ed in contrasto con quanto affermato in sede scientifica ha ritenuto che nella fattispecie non vi fosse nesso causale tra l’errore nella diagnosi istopatologica della B. e l’evento dannoso; che se fosse stata diagnosticata tempestivamente tale patologia neoplastica ed a seguito dell’intervento non si fosse adottata la teoria attendista del follow-up, ma quella chemioterapia, ciò avrebbe comportato, se non un diverso exitus, quanto meno un allungamento della vita della sig.ra G. ed un miglioramento della stessa nella fase terminale; che tutto ciò va valutato alla luce del principio probatorio “del più probabile che non”; che il secondo intervento fu effettuato quando ormai la G. era completamente defedata; che, in presenza di dette cure chemioterapiche, la morte si sarebbe verificata in epoca significativamente posteriore; che l’omessa corretta diagnosi di neoplasia aveva comportato danno della perdita di chance di vivere alcune settimane o alcuni mesi in più rispetto a quelli poi effettivamente vissuti.
  1. Cassazione Civile – (errore o ritardo diagnostico: attenuazione della prova della perdita di chance)

Cassazione Civile – Sez. III – Sent. n. 12961 del 14.06.2011 Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 18 gennaio 2001 la sig.ra G.M. esponeva di essere stata sottoposta in data X., presso l’Istituto Clinico X. , ad un intervento chirurgico di lobectomia sinistra a seguito di alcuni accertamenti da cui era emersa una calcolosi della intraepatica di sinistra; che in data X. , presso la medesima struttura, era stato eseguito un esame istopatologico, il cui referto, a firma del prof. Ro.Ma., non indicava l’eventualità di una patologia tumorale ; che peraltro successivi accertamenti il X. avevano individuato la presenza di metastasi ed avevano portato a riconoscere nei medesimi reperti istologici un cistadenocarcinoma epatico e comunque la presenza di “atipie cellulari suggestive di malignità”. L’attrice lamentava che dal grave errore diagnostico compiuto presso l’Istituto X. era derivata la mancata identificazione della neoplasia e di conseguenza la mancata adozione di provvedimenti specifici terapeutici, con miglioramento della qualità e della durata della vita e rallentamento della malattia. La sig.ra G.M. conveniva in giudizio l’Istituto Clinico X. e il prof. Ma.Ro. per ottenerne la condanna in solido al risarcimento di tutti i danni (patrimoniali, morali e a carattere biologico) subiti in conseguenza, del dedotto errore diagnostico, oltre interessi e rivalutazione monetaria.

I convenuti si costituivano ed il prof. Ro. chiedeva inoltre, e otteneva, di chiamare in giudizio la Dott.ssa B.M.P., sul rilievo che era stata quest’ultima ad eseguire l’esame istologico.
Deceduta l’attrice, intervenivano nel giudizio il marito e i figli, R.G., D. e L., i quali, con memoria ex art 183 c.p.c., estendevano alla terza chiamata Dott.ssa B., che chiedeva anche il rigetto o l’inammissibilità della chiamata. Veniva disposta nel giudizio di appello una nuova c.t.u. collegiale, affidata, a specialisti in medicina legale e in anatomia patologica. Con sentenza del tribunale di Milano del 10.5.2005 il tribunale dichiarava l’estinzione del giudizio tra R.D. e L. , contro i convenuti per l’avvenuto trasferimento dell’azione in sede penale, e nel merito rigettava la domanda nei confronti di G..R. . Questi proponeva appello davanti alla corte territoriale di Milano.

Resisteva la L..B. , che proponeva anche appello incidentale. Con sentenza depositata il 27.11.2008, la corte di appello di Milano, rigettava gli appelli.
Riteneva la corte di merito, quanto all’appello principale, che esse andava rigettato, poiché all’esito della seconda consulenza tecnica collegiale, disposta in appello, ed in conformità della risultanze della prima consulenza e di quella resa in sede penale, era emerso che non sussisteva alcun nesso causale tra l’errore istopatologico effettuato dalla chiamata B. e l’evento dannoso, nel senso che, ove pure fosse stato tempestivamente nel gennaio 1998 effettuata una diagnosi di neoplasia o un sospetto diagnostico in questo senso, l’intervento chirurgico non sarebbe stato diverso (dovendosi sempre procedere. ad una lobectomia epatica sinistra radicale) né avrebbe dovuto avere, una maggiore capacità demolitoria; che allo stesso modo, non ne sarebbe seguita l’indicazione di alcun trattamento radio o chemioterapico, entrambi non indicati nel particolare tipo di neoplasia; che era certo, tuttavia, che la prognosi quoad vitam della paziente non sarebbe significativamente evoluta in melius e ciò a fronte della severità della patologia neoplastica (colangiocarcinoma) e della carenza di opportunità terapeutiche sicuramente efficaci, sia verso la malattia al momento della sua insorgenza (al di là della opzione chirurgica comunque adeguatamente utilizzata) che in caso di comparsa di recidiva metastatica. Ritiene la sentenza di appello, aderendo alle conclusioni della c.t.u., che la condotta dei sanitari, oggetto del presente giudizio, deve “essere ritenuta indifferente sotto il profilo del rapporto di causalità rispetto all’invalidità ed alla successiva morte di M.G.”.

Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione R.G..
Resiste con controricorso la dr.sa P.B., che ha proposto anche ricorso incidentale, al quale ha resistito il ricorrente con controricorso. La B. ed il R.G. hanno presentato memorie.

Motivi della decisione

  1. Con il primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., l’inosservanza e l’erronea applicazione degli artt. 1218, 1321, 1382, 1453, 1460 e 2697 c.c., nonché ai sensi dell’art. 360 n. 5, la mancanza e contraddittorietà di motivazione su punti decisivi della controversia, in ordine alle responsabilità di natura contrattuale dedotte con l’azione svolta attraverso l’allegazione dell’inadempimento ad esse correlate. Tale motivo si conclude con il seguente quesito, a norma dell’art. 366 bis c.p.c.: “dica la corte: se risulti applicato al caso di specie l’insegnamento di codesta S.C. a S.U., del quale alla sentenza n. 13533/2001, in tema di prova dell’inadempimento di una obbligazione, secondo cui il creditore che agisca per il risarcimento del danno deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento, talché il creditore non ha onere di dimostrazione che adempimento non vi sia stato, essendo sufficiente che egli si limiti a tale allegazione, in applicazione del principio della riferibilità o vicinanza della prova, talché essa resti caricata, in capo al soggetto nella cui sfera è prodotto l’inadempimento e che è quindi in possesso degli elementi utili per paralizzare la pretesa del creditore stesso, dimostrando eventualmente l’avvenuto adempimento: tanto anche in quanto dedotto l’inesatto adempimento, sia per mancata osservanza di doveri accessori o dell’obbligo di diligenza”. 2.1.Ritiene questa Corte che il suddetto motivo è inammissibile. Quanto alla censura proposta ex art. 360 n. 3 c.p.c., il motivo non presenta un quesito di diritto adeguato al disposto di cui all’art. 366 bis, applicabile ratione temporis al ricorso in esame.

Nella elaborazione dei canoni di redazione del quesito di diritto la giurisprudenza di questa Suprema Corte si è chiaramente orientata a ritenere che ognuno dei quesiti formulati per ciascun motivo di ricorso deve consentire l’individuazione del principio di diritto che è alla base del provvedimento impugnato e, correlativamente, del diverso principio la cui auspicata applicazione ad opera della Corte di Cassazione possa condurre ad una decisione di segno diverso: ove tale articolazione logico – giuridica mancasse, il quesito si risolverebbe in un’ astratta petizione di principio, inidonea sia ad evidenziare il nesso tra la fattispecie ed il principio di diritto che si chiede venga affermato, sia ad agevolare la successiva enunciazione di tale principio ad opera della Corte, in funzione nomofilattica. Il quesito non può pertanto consistere in una mera richiesta di accoglimento del motivo o nell’interpello della Corte in ordine alla fondatezza della censura così come illustrata nello svolgimento dello stesso motivo, ma deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la medesima Corte in condizione di rispondere ad esso con l’enunciazione di una regula iuris che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata. Ciò vale a dire che la Corte di legittimità deve poter comprendere dalla lettura del solo quesito, inteso come sintesi logico giuridica della questione, l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare (Cass. S.U. n. 3519/2008 ). Nella fattispecie con il quesito suddetto il ricorrente si è limitato a richiedere se nella fattispecie la corte di merito avesse applicato il principio di diritto fissato dalle S.U. con sentenza n. 13533/2001.

2.2.Quanto alla doglianza relativa al vizio motivazionale, essa è inconferente poiché la sentenza impugnata non pone in dubbio che vi sia stato un errore istopatologico presso l’Istituto X. e, quindi sotto questo profilo non pone in dubbio l’inadempimento lamentato, ma ritiene che sia rimasto accertato che esso non ha prodotto il danno lamentato dagli appellanti. Non vi quindi questione in merito alla prova dell’inadempimento, poiché la domanda non è stata rigettata per l’esatto adempimento l’obbligazione sanitaria dovuta, ma perché, pur essendo essa esistente, essa era eziologicamente “indifferente” in relazione al danno subito.

  1. Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 360 n. 3 c.p.c., inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 40, 41 589 c.p.c., e dell’art. 2236 c.c., nonché ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c., degli artt. 132, 112, 116 c.p.c., nonché ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., il vizio di motivazione relativamente all’esclusione del rapporto causale tra la condotta dell’imputata B. e l’aggravamento della malattia a carico della G.

Segnatamente il ricorrente lamenta che la sentenza impugnata erroneamente ed in contrasto con quanto affermato in sede scientifica ha ritenuto che nella fattispecie non vi fosse nesso causale tra l’errore nella diagnosi istopatologica della B. e l’evento dannoso; che se fosse stata diagnosticata tempestivamente tale patologia neoplastica ed a seguito dell’intervento non si fosse adottata la teoria attendista del follow-up, ma quella chemioterapia, ciò avrebbe comportato, se non un diverso exitus, quanto meno un allungamento della vita della sig.ra G. ed un miglioramento della stessa nella fase terminale; che tutto ciò va valutato alla luce del principio probatorio “del più probabile che non”; che il secondo intervento fu effettuato quando ormai la G. era completamente defedata; che, in presenza di dette cure chemioterapiche, la morte si sarebbe verificata in epoca significativamente posteriore; che l’omessa corretta diagnosi di neoplasia aveva comportato danno della perdita di chance di vivere alcune settimane o alcuni mesi in più rispetto a quelli poi effettivamente vissuti.

4.1. Il motivo è infondato.
Non risultano anzitutto violate le norme di diritto, a cui si riporta il ricorrente.
Va poi premesso che, anche in tema di risarcimento del danno patrimoniale da inadempimento, non è l’inadempimento in sé che è oggetto di risarcimento, ma il danno conseguente.
Ciò comporta che deve essere in concreto fornita la dimostrazione dell’esistenza del pregiudizio lamentato e il diretto nesso causale dall’inadempimento (Cass. 20/11/2007, n. 24140 Cass. 15/05/2007, n. 11189; Cass. 10/01/2007, n. 238; Cass. 04/07/2006, n. 15274).
4.2. Mentre sul creditore della prestazione non grava l’onere della prova dell’inadempimento, dovendo il debitore provare – a fronte dell’allegazione di inadempimento del creditore – che egli ha esattamente adempiuto, giusto quanto si ricava dalla struttura dell’art. 1453 c.c. (Cass. S.u. n. 13533/2001), invece la prova del danno lamentato e del nesso causale tra lo stesso e l’inadempimento, così allegato, grava sull’attore secondo i principi generali di cui all’art. 2697 c.c..
4.3. L’inadempimento del professionista (consistente anche nell’errore o omissione di diagnosi) :in relazione alla propria obbligazione, e la conseguente responsabilità dell’ente presso il quale egli presta la propria opera, deve essere valutato alla stregua del dovere di diligenza particolarmente qualificato inerente lo svolgimento della sua attività professionale; sicché è configurabile un nesso causale tra il suo comportamento, anche omissivo, ed il pregiudizio subito da un paziente qualora, attraverso un criterio necessariamente probabilistico, si ritenga che l’opera del professionista, se correttamente e prontamente svolta, avrebbe avuto serie ed apprezzabili possibilità di evitare il danno verificatosi (Cass. 23/09/2004, n. 19133).
Nella fattispecie la sentenza impugnata ha ritenuto che era accertato l’inadempimento dell’Istituto … costituito dall’errore istopatologico, e quindi della mancata diagnosi della neoplasia alle vie biliari, ma ha escluso che questo errore avesse determinato – sia pure in termini probabilistici – un danno alla paziente, nel senso che lo sviluppo neoplastico che ella subì ed il successivo exitus non furono influenzati, neppure nella durata della residua vita o nella qualità degradata della stessa, dalla mancata diagnosi precoce della malattia tumorale.

5.1. Per giungere a questa conclusione la corte di merito ha correttamente applicato i principi in tema di nesso causale da condotta omissiva, fissati da questa Corte.
Infatti l’inadempimento ascritto ai convenuti è di carattere omissivo, in quanto consiste nel non avere fornito alla paziente una diagnosi di neoplasia delle vie biliari (integrante appunto la diagnosi esatta).

Ai fini della causalità materiale la giurisprudenza (Cass. Sez. Unite, 11/01/2008, n. 581, 576 ed altre) e la dottrina prevalenti, in applicazione dei principi penalistici, di cui agli artt. 40 e 41 c.p., ritengono che un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non)., mentre ad un secondo momento va riferita la regola dell’art. 1223 c.c., per il quale il risarcimento deve comprendere le perdite “che siano conseguenza immediata e diretta” del fatto lesivo (c.d. causalità giuridica), per cui esattamente si è dubitato che la norma attenga al nesso causale e non piuttosto alla determinazione del quantum del risarcimento, selezionando le conseguenze dannose risarcibili.

Il rigore del principio dell’equivalenza delle cause, posto dall’art. 41 c.p., in base al quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale, trova il suo temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dall’art. 41 c.p., comma 2, in base al quale l’evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto (Cass. 19.12.2006, n. 27168; Cass. 8.9.2006, n. 19297; Cass. 10.3.2006, n. 5254; Cass. 15.1.1996, n. 268).

Nel contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all’interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l’evento causante non appaiano del tutto inverosimili, ma che si presentino come effetto non del tutto imprevedibile, secondo il principio della c.d. causalità adeguata o quella similare della c.d. regolarità causale (ex multis: Cass. 1.3.2007; n. 4791; Cass. 6.7.2006, n. 15384; Cass. 27.9.2006, n. 21020; Cass. 3.12.2002, n. 17152; Cass. 10.5.2000 n. 5962).

5.2.Nel danno da inadempimento omissivo il giudizio causale assume come termine iniziale la condotta omissiva del comportamento dovuto (Cass. n. 20328 del 2006; Cass. n. 21894 del 2004; Cass. n. 6516 del 2004; Cass. 22/10/2003, n. 15789).
La causalità è tuttavia accertabile attraverso un giudizio ipotetico: l’azione ipotizzata, ma omessa, avrebbe impedito l’evento? In altri termini non può riconoscersi la responsabilità per omissione quando il comportamento omesso, ove anche fosse stato tenuto, non avrebbe comunque impedito l’evento prospettato: la responsabilità non sorge non perché non vi sia stato un comportamento antigiuridico (l’omissione di un comportamento dovuto è di per sé un comportamento antigiuridico e nella responsabilità contrattuale l’inadempimento è comportamento antigiuridico), ma perché quell’omissione non è causa del danno lamentato.
5.3.11 Giudice pertanto è tenuto ad accertare se l’evento sia ricollegabile all’omissione (causalità omissiva) nel senso che esso non si sarebbe verificato se (causalità ipotetica) l’agente avesse posto in essere la condotta doverosa impostagli, con esclusione di fattori alternativi. L’accertamento del rapporto di causalità ipotetica passa attraverso l’enunciato “controfattuale” che pone al posto dell’omissione il comportamento alternativo dovuto, onde verificare se la condotta doverosa avrebbe evitato il danno lamentato dal danneggiato.
5.4.Essendo questi i principi che regolano il procedimento logico – giuridico ai fini della ricostruzione del nesso causale, ciò che muta sostanzialmente tra il processo penale e

quello civile è la regola probatoria, in quanto nel primo vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio” (cfr. Cass. Pen. S.U. 11 settembre 2002, n. 30328, Franzese), mentre nel secondo vige la regola della preponderanza dell’evidenza o “del più probabile che non”, stante la diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa, e l’equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti, come rilevato da attenta dottrina che ha esaminato l’identità di tali standars delle prove in tutti gli ordinamenti occidentali, con la predetta differenza tra processo civile e penale (in questo senso Cass. 16.10.2007, n. 21619; Cass. 18.4.2007, n. 9238; 11/05/2009, n. 10741; Cass. 22837 del 2010; Cass. 16123 del 2010).

Detto standard di “certezza probabilistica” in materia civile non può essere ancorato esclusivamente alla determinazione quantitativa – statistica delle frequenze di classi di eventi (c.d. probabilità quantitativa o pascaliana), che potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto (c.d. probabilità logica o baconiana). Nello schema generale della probabilità come relazione logica va determinata l’attendibilità dell’ipotesi sulla base dei relativi elementi di conferma (c.d. evidence and inference nei sistemi anglosassoni). Nella fattispecie la sentenza impugnata si è conformata a detti principi.

5.5.Sulla base di accertamenti fattuali (sulla correttezza della cui motivazione ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., si vedrà successivamente) ha ritenuto accertato in punto di fatto che l’inadempimento ascritto, (mancata diagnosi istologica di neoplasia, a seguito dell’intervento effettuato di lobectomia sinistra) non avrebbe né evitato l’exitus finale né avrebbe prolungato apprezzabilmente la vita della sig.ra G. né la stessa sarebbe significativamente evoluta in melius. Pertanto, avendo la corte ritenuto che un’eventuale prognosi più precoce non avrebbe favorito un approccio terapeutico più efficace né avrebbe migliorato la qualità e la durata della vita della paziente, con giudizio contro fattuale ha escluso anche in termini di prevalenza di probabilità che i danni lamentati dai ricorrenti fossero conseguenza della mancata tempestiva e corretta diagnosi tumorale da errore istologico e che essi si sarebbero in ogni caso verificati, trovando causa esclusiva nella malattia neoplastica.

6.1.Ciò comporta che vanno rigettate le censure di violazione di legge avanzate dal ricorrente.
Diverso problema è quello relativo all’esattezza, sotto il profilo motivazionale, di tale ricostruzione fattuale. Questo costituisce il nucleo centrale del ricorso del ricorrente principale il quale appunto lamenta che erroneamente i consulenti prima e la corte concludono che una diagnosi precoce della neoplasia, ed eventualmente una terapia chemioterapia, non avrebbe allungato e migliorato la vita della paziente, pur nell’inevitabilità dell’esito infausto.

6.2.Sennonché tanto integra una censura di vizio motivazionale della sentenza impugnata, pur fatta valere con il secondo motivo di ricorso.
Essa, tuttavia, può avere ingresso in questa sede di sindacato di legittimità negli stretti limiti di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c. Sotto questo profilo non vi sono elementi per ritenere che la motivazione della sentenza impugnata sia apparente (o mancante), insufficiente o contraddittoria.

Va, anzitutto, osservato che la sentenza impugnata è giunta alla conclusione di dover rigettare l’appello (e quindi confermare il rigetto della domanda) per mancanza di nesso causale tra la suddetta condotta omissiva ascrivibile ai convenuti e l’evento, sulla base della consulenza collegiale di secondo grado (uno dei consulenti svolgeva la sua attività presso l’Istituto nazionale dei Tumori di Milano e l’altro presso Istituto di Medicina legale di Milano), conforme sul punto a quella di primo grado ed alle conclusioni cui erano giunti i

consulenti del P.M. in sede penale nel procedimento per omicidio colposo a carico della appellata P..B.
I consulenti in sede civile avevano accertato che, ove pure fosse stata nel gennaio 1998 effettuata una diagnosi di neoplasia o un sospetto diagnostico in questo senso, l’intervento chirurgico non sarebbe stato diverso (dovendosi sempre procedere. ad una lobectomia epatica sinistra radicale) ne avrebbe dovuto avere una maggiore capacità demolitoria; allo stesso modo non ne sarebbe seguita l’indicazione di alcun trattamento radio o chemioterapico, entrambi non indicati nel particolare tipo di neoplasia. E, pur concedendosi dai consulenti che, in ipotesi di diagnosi tempestiva, la paziente sarebbe stata sottoposta ad uno stretto regime di follow-up, onde diagnosticare precocemente eventuali recidive, e pur non potendosi escludere la possibilità che la diagnosi di recidiva neoplastica venisse raggiunta con un certo anticipo (anche se gli stessi consulenti tecnici d’ufficio hanno fatto rilevare, in proposito, come ancora – nell’aprile 2000 – sia i marcatori tumorali che la TAC preoperatoria non fossero ancora affatto suggestivi in tal senso ed una diagnosi certa venisse conseguita solo in sede chirurgica), è certo, tuttavia, che la prognosi quoad vitam della paziente non sarebbe significativamente evoluta in melius e ciò a fronte della severità della patologia neoplastica (colangiocarcinoma) e della carenza di opportunità terapeutiche sicuramente efficaci, sia verso la malattia al momento della sua insorgenza (al di là della opzione chirurgica comunque adeguatamente utilizzata) che in caso di comparsa di recidiva metastatica.

6.3.Lei corte di merito ha condiviso le conclusioni dei c.t.u. in merito all’irrilevanza di eseguire un trattamento chemioterapico post-chirurgico in luogo di quella di follow-up, osservando anche che: a)Presso l’Istituto Nazionale dei Tumori la chemioterapia viene prescritta nei pazienti operati radicalmente “soltanto se essi vengono giudicati ad alto rischio di recidiva, cioè quando presentano fattori prognostici oggettivi, che però, nel caso in discussione, la paziente non possedeva posto che in sede di intervento i linfonodi locoregionali venivano descritti come normali; che in nessuna delle varie revisioni istologiche veniva rilevata invasione vascolare o linfatica; che i marcatori tumorali non presentavano valori elevati.

  1. b) Non può ammettersi che “una eventuale diagnosi più precoce avrebbe favorito un approccio terapeutico più efficace” e, soprattutto, non può ammettersi, che quest’ultimo avrebbe migliorato la qualità e la durata della vita della paziente”. c) La condotta dei sanitari, oggetto del presente giudizio, doveva “essere ritenuta indifferente sotto il profilo del rapporto di causalità rispetto all’invalidità ed alla successiva morte di M..G. “.

Ne consegue che nella fattispecie non presenta i lamentati vizi di motivazione l’impugnata sentenza che ha aderito alle conclusioni dei C.T.U. di secondo grado, che hanno ribadito quanto accertato dai consulenti di primo grado e del p.m. in sede penale. A tal fine, ed in relazione alle critiche riformulate dal ricorrente nel ricorso al percorso argomentativo dei consulenti prima e della sentenza poi, va ribadito il principio secondo cui il giudice del merito, quando aderisce alle conclusioni del consulente tecnico che nella relazione abbia tenuto conto, replicandovi, dei rilievi dei consulenti di parte, esaurisce l’obbligo della motivazione con l’indicazione delle fonti del suo convincimento; non è quindi necessario che egli si soffermi sulle contrarie deduzioni dei consulenti di fiducia che, anche se non espressamente confutate, restano implicitamente disattese perché incompatibili con le argomentazioni accolte. Le critiche di parte, che tendano al riesame degli elementi di giudizio già valutati dal consulente tecnico, si risolvono in tal caso in mere allegazioni difensive, che non possono configurare il vizio di motivazione previsto dall’art. 360 n. 5 c.p.c. (Cass. 03/04/2007, n. 8355). Nella fattispecie la seconda consulenza è stata disposta in sede di appello proprio perché tenesse conto delle varie critiche alla consulenza di primo grado svolte dai c.t. di parte e dallo stesso appellante.

7.1. Infondata è anche la censura con cui il ricorrente lamenta che non sia stata valutato il danno sotto il profilo di perdita di chance, come possibilità che la vita fosse allungata e migliorata in presenza della chemioterapia.
Va condiviso il principio già affermato da questa corte, secondo cui in tema di danno alla persona, conseguente a responsabilità medica, integra l’esistenza di un danno risarcibile alla persona l’omissione della diagnosi di un processo morboso terminale, allorché abbia determinato la tardiva esecuzione di un intervento chirurgico, che normalmente sia da praticare per evitare che l’esito definitivo del processo morboso si verifichi anzitempo, prima del suo normale decorso, e risulti inoltre che, per effetto del ritardo, sia andata perduta dal paziente la “chance” di conservare, durante quel decorso, una migliore qualità della vita nonché la “chance” di vivere alcune settimane od alcuni mesi in più, rispetto a quelli poi effettivamente vissuti (Cass. 18/09/2008, n. 23846).

Ciò comporta che, quando sia stata fornita la dimostrazione, anche in via presuntiva e di calcolo probabilistico, dell’esistenza di una chance di consecuzione di un vantaggio in relazione ad una determinata situazione giuridica, la perdita di tale chance è risarcibile come danno alla situazione giuridica di cui trattasi indipendentemente dalla dimostrazione che la concreta utilizzazione della chance avrebbe presuntivamente o probabilmente determinato la consecuzione del vantaggio, essendo sufficiente anche la sola possibilità di tale consecuzione. La idoneità della chance a determinare presuntivamente o probabilmente ovvero solo possibilmente la detta consecuzione è, viceversa, rilevante, soltanto ai fini della concreta individuazione e quantificazione del danno, da effettuarsi eventualmente in via equitativa, posto che nel primo caso il valore della chance è certamente maggiore che nel secondo e, quindi, lo è il danno per la sua perdita, che, del resto, in presenza di una possibilità potrà anche essere escluso, all’esito di una valutazione in concreto della prossimità della chance rispetto alla consecuzione del risultato e della sua idoneità ad assicurarla.

7.2. Nella fattispecie la questione in termini di perdita di chance, inteso come risultato utile possibile, va ritenuta non affetta da inammissibilità, conseguente alla novità della stessa in questa sede di legittimità.
Infatti può superarsi la tesi secondo cui esito positivo probabile e possibilità di tale esito costituiscano oggetto di pretese risarcitorie diverse ed accedere ad un risultato per cui probabilità di esito favorevole dell’intervento medico e la sua sola possibilità non siano che gradazioni di una stessa affermazione di pregiudizio, risentito a causa dell’omissione colposa del comportamento dovuto.

Ciò comporta optare, nelle situazioni caratterizzate dal più probabile che non, ma anche da una non eliminabile porzione di incertezza, per una applicazione generalizzata degli esiti della tecnica risarcitoria della chance e quindi nel senso di distribuire il peso del danno tra le parti in misura proporzionale all’apporto causale della colpa e dei fattori di rischio presenti nel paziente (cfr. Cass. 16.1.2009, n. 975).

Ritenuta la richiesta del risarcimento del danno da perdita di chance come riduzione dell’originaria domanda di risarcimento dell’intero pregiudizio assunto, da una parte essa non determina una mutatio libelli e dall’altra tale riduzione può essere effettuata direttamente anche dal giudice, pur in difetto di esplicita richiesta della parte in tal senso riduttiva (cfr. Cass. 21/02/2007, n. 4003).

7.2.Sennonché nella fattispecie la corte ha escluso sulla base delle conclusioni dei vari consulenti tecnici, che la tempestiva diagnosi tumorale abbia comportato con l’apprestamento di una terapia diversa da quella del follow-up e segnatamente quella chemioterapica, la possibilità per la sig.ra G. di avere un qualche miglioramento apprezzabile di durata o qualità della vita. Con ciò è esclusa in fatto l’avvenuta perdita di chance.

  1. Con il terzo motivo di ricorso il ricorrente lamenta ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., la violazione degli artt. 112, 113, 115, 116 c.p.c., per omessa motivazione sul punto relativo all’esclusione della colpa nella condotta del medico.
  2. Il motivo è inammissibile.
    Infatti la domanda (e quindi l’appello) è stato rigettato per mancanza di nesso causale tra la condotta omissiva e l’evento e non per difetto dell’elemento psicologico colposo dalla dr. B.P. , nell’esecuzione dell’esame e diagnosi istologica. La consolidata giurisprudenza di questa Corte ha, infatti, statuito che la proposizione, con il ricorso per cassazione, di censure prive di specifiche attinenze al “decisum” della sentenza impugnata è assimilabile alla mancata enunciazione dei motivi richiesti dall’art. 366 c.p.c., n. 4, con conseguente inammissibilità del ricorso, rilevabile anche d’ufficio (ex multis, Cass. 07/11/2005, n. 21490; Cass. 24/02/2004, n. 3612; Cass. 23/05/2001, n. 7C46). L’inconferenza del motivo comporta che l’eventuale accoglimento della censura risulta comunque privo di rilevanza nella fattispecie, in quanto inidoneo a risolvere la questione decisa con la sentenza impugnata (Cass. Sez. Unite, 12/05/2008, n.11650).
    10. Con il ricorso incidentale la ricorrente P..B. lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 116, 106, 167, 269 c.p.c. e la tardività ed inammissibilità dell’estensione del contraddittorio da parte degli eredi dell’attrice nei confronti della chiamata dr. B.
    Secondo la ricorrente incidentale nel caso in cui il convenuto chiami in causa un terzo (come nella fattispecie è avvenuto nei suoi riguardi), senza domandare direttamente la condanna di questi nei confronti dell’attore, tale domanda può essere qualificata di garanzia impropria, per cui l’estensione del contraddittorio che l’attore faccia per provocare la condanna del terzo direttamente nei suoi confronti nella memoria ex art. 183 c.p.c., va considerata tardiva.
  3. Il motivo è infondato.
    Allorquando — come nella specie — il convenuto chiami in causa un terzo, assumendo che questi, e non lui, è il soggetto tenuto a rispondere della pretesa dell’attore, la domanda di quest’ultimo, amene in mancanza di espressa istanza, si intende automaticamente estesa al terzo in quanto si tratta di individuare il vero responsabile, nel quadro di un rapporto oggettivamente unico; con l’effetto del determinarsi di un ampliamento della controversia originaria, sia in senso oggettivo – perché la nuova obbligazione dedotta dal convenuto viene ad inserirsi nel tema della controversia, in via alternativa con quella che l’attore ha assunto a caricò del convenuto — sia in senso soggettivo, perché il terzo chiamato in causa diventa un’altra parte di quella controversia e viene a trovarsi con il convenuto in una situazione tipica di litisconsorzio alternativo (cfr. ex plurimis, Cass. 14.3.2008, n. 6883; 21.3. 2003, n. 4145).
  4. I ricorsi vanno pertanto rigettati. Stante la reciproca soccombenza va disposta la compensazione delle spese processuali di entrambe le difese.
    P .Q.M.
    Riunisce i ricorsi e li rigetta. Compensa le spese del giudizio di cassazione

Per quanto concerne la responsabilità della struttura sanitaria nei confronti del paziente è irrilevante che si tratti di una casa di cura privata o di un ospedale pubblico in quanto sostanzialmente equivalenti sono a livello normativo gli obblighi dei due tipi di strutture verso il fruitore dei servizi, ed anche nella giurisprudenza si riscontra una equiparazione completa della struttura privata a quella pubblica quanto al regime della responsabilità civile anche in considerazione del fatto che si tratta di violazioni che incidono sul bene della salute, tutelato quale diritto fondamentale dalla Costituzione, senza possibilità di limitazioni di responsabilità o differenze risarcitorie a seconda della diversa natura, pubblica o privata, della struttura sanitaria (Cass. 25.2.2005, n. 4058).

Questa Corte ha costantemente inquadrato la responsabilità della struttura sanitaria nella responsabilità contrattuale, sul rilievo che l’accettazione del paziente in ospedale, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto (Cass. n. 1698 del 2006; Cass. n. 9085 del 2006; Cass. 28.5.2004, n. 10297; Cass. 11 marzo 2002, n. 3492; 14 luglio 2003, n. 11001; Cass. 21 luglio 2003, n. 11316).

A sua volta anche l’obbligazione del medico dipendente dalla struttura sanitaria nei confronti del paziente, ancorché non fondata sul contratto, ma sul “contatto sociale”, ha natura contrattuale (Cass. 22 dicembre 1999, n. 589; Cass. 29.9.2004, n. 19564; Cass. 21.6.2004, n. 11488; Cass. n. 9085 del 2006).

 

 

 

  1. In tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell’onere probatorio, l’attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare il contratto (o il contatto sociale) e l’aggravamento della patologia o l’insorgenza di un’affezione ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato.
  1. Competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante.

 

 

 

  1. B) I verbali della Commissione medico-ospedaliera di cui all’art. 4 della L n. 210/1992 fanno prova, ex art. 2700 c.c., dei fatti che la commissione attesta essere avvenuti in sua presenza, o essere stati dalla stessa compiuti, mentre le valutazioni, le diagnosi o comunque le manifestazioni di scienza o di opinione in essi contenute costituiscono materiale indiziario soggetto al libero apprezzamento del giudice, il quale può valutarne l’importanza ai fini della prova, ma non può mai attribuire a loro il valore di vero e proprio accertamento.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Sentenza 11 gennaio 2008, n. 577

(Pres. Carbone – est. Segreto)

Motivi della decisione

  1. La causa è stata rimessa alle Sezioni Unite, presentando questioni di massima di particolare importanza relative: alla responsabilità della struttura sanitaria nei confronti del paziente; alla ripartizione dell’onere probatorio in materia di responsabilità medica.

Con l’unico motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cc., la violazione degli artt. 113 e 115 c.p.c. ed il vizio di motivazione, a norma degli art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.

Assume il ricorrente che erratamente la corte di appello non ha preso in esame la documentazione prodotta in appello e relativa agli accertamenti sanitari effettuati nel maggio N., da cui risultava che non era affetto da epatite.

Lamenta poi il ricorrente che erratamente la sentenza impugnata ha ritenuto che fosse onere di esso attore provare il nesso causale tra emotrasfusione e l’epatite C di cui soffriva, nonché provare che esso attore non fosse già portatore di tale malattia al momento del ricovero. 2.11 motivo va accolto nei termini che seguono.

E’ infondata la censura secondo cui erratamente il giudice di appello non ha tenuto conto della documentazione sanitaria esibita in grado di appello e relativa al suo stato di salute precedentemente al ricovero, trattandosi di prove precostituite.

Come queste S.U. hanno già statuito, nel rito ordinario, con riguardo alla produzione di nuovi documenti in grado di appello, l’art. 345 c.p.c, terzo comma, va interpretato nel senso che esso fissa sul piano generale il principio della inammissibilità di mezzi di prova “nuovi” – la cui ammissione, cioè, non sia stata richiesta in precedenza – e, quindi, anche delle produzioni documentali, indicando nello stesso tempo i limiti di tale regola, con il porre in via alternativa i requisiti che tali documenti, al pari degli altri mezzi di prova, devono presentare per poter trovare ingresso in sede di gravame (sempre che essi siano prodotti, a pena di decadenza, mediante specifica indicazione degli stessi nell’atto introduttivo del giudizio di secondo grado, a meno che la loro formazione non sia successiva e la loro produzione non sia stata resa necessaria in ragione dello sviluppo assunto dal processo): requisiti consistenti nella dimostrazione che le parti non abbiano potuto proporli prima per cause a esse non imputabili, ovvero nel convincimento del giudice della indispensabilità degli stessi per la decisione. Peraltro, nel rito ordinario, risultando il ruolo del giudice nell’impulso del processo meno incisivo che nel rito del lavoro, l’ammissione di nuovi mezzi di prova ritenuti indispensabili non può comunque prescindere dalla richiesta delle parti (Cass. Sez. Unite, 20/04/2005, n. 8203).

3.1. Sono invece fondate le altre censure sollevate nel motivo di ricorso.

Per quanto concerne la responsabilità della struttura sanitaria nei confronti del paziente è irrilevante che si tratti di una casa di cura privata o di un ospedale pubblico in quanto sostanzialmente equivalenti sono a livello normativo gli obblighi dei due tipi di strutture verso il fruitore dei servizi, ed anche nella giurisprudenza si riscontra una equiparazione completa della struttura privata a quella pubblica quanto al regime della responsabilità civile anche in considerazione del fatto che si tratta di violazioni che incidono sul bene della salute, tutelato quale diritto fondamentale dalla Costituzione, senza possibilità di limitazioni di responsabilità o differenze risarcitorie a seconda della diversa natura, pubblica o privata, della struttura sanitaria (Cass. 25.2.2005, n. 4058).

Questa Corte ha costantemente inquadrato la responsabilità della struttura sanitaria nella responsabilità contrattuale, sul rilievo che l’accettazione del paziente in ospedale, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto (Cass. n. 1698 del 2006; Cass. n. 9085 del 2006; Cass. 28.5.2004, n. 10297; Cass. 11 marzo 2002, n. 3492; 14 luglio 2003, n. 11001; Cass. 21 luglio 2003, n. 11316).

A sua volta anche l’obbligazione del medico dipendente dalla struttura sanitaria nei confronti del paziente, ancorché non fondata sul contratto, ma sul “contatto sociale”, ha natura contrattuale (Cass. 22 dicembre 1999, n. 589; Cass. 29.9.2004, n. 19564; Cass. 21.6.2004, n. 11488; Cass. n. 9085 del 2006).

3.2. Per diverso tempo tale legame contrattuale è stato interpretato e disciplinato sulla base dell’applicazione analogica al rapporto paziente-struttura delle norme in materia di contratto di prestazione d’opera intellettuale vigenti nel rapporto medico-paziente, con il conseguente e riduttivo appiattimento della responsabilità della struttura su quella del medico. Da ciò derivava che il presupposto per l’affermazione della responsabilità contrattuale della struttura fosse l’accertamento di un comportamento colposo del medico operante presso la stessa.

Più recentemente, invece, dalla giurisprudenza il suddetto rapporto è stato riconsiderato in termini autonomi dal rapporto paziente-medico, e riqualificato come un autonomo ed atipico contratto a prestazioni corrispettive (da taluni definito contratto di spedalità, da altri contratto di assistenza sanitaria) al quale si applicano le regole ordinarie sull’inadempimento fissate dall’art. 1218 c.c..

Da ciò consegue l’apertura a forme di responsabilità autonome dell’ente, che prescindono dall’accertamento di una condotta negligente dei singoli operatori, e trovano invece la propria fonte nell’inadempimento delle obbligazioni direttamente riferibili all’ente. Questo percorso interpretativo, anticipato dalla giurisprudenza di merito, ha trovato conferma in una sentenza di queste Sezioni Unite (1.7.2002, n. 9556, seguita poi da altre delle sezioni semplici, Cass. n. 571 del 2005; Cass. n. 1698 del 2006) che si è espressa in favore di una lettura del rapporto tra paziente e struttura (anche in quel caso, privata) che valorizzi la complessità e l’atipicità del legame che si instaura, che va ben oltre la fornitura di prestazioni alberghiere, comprendendo anche la messa a disposizione di personale medico ausiliario, paramedico, l’apprestamento di medicinali e di tutte le attrezzature necessarie anche per eventuali complicazioni. In virtù del contratto, la struttura deve quindi fornire al paziente una prestazione assai articolata, definita genericamente di “assistenza sanitaria”, che ingloba al suo interno, oltre alla prestazione principale medica, anche una serie di obblighi cd. di protezione ed accessori.

3.3. Così ricondotta la responsabilità della struttura ad un autonomo contratto (di spedalità), la sua responsabilità per inadempimento si muove sulle linee tracciate dall’art. 1218 c.c., e, per quanto concerne le obbligazioni mediche che essa svolge per il tramite dei medici propri ausiliari, l’individuazione del fondamento di responsabilità dell’ente nell’inadempimento di obblighi propri della struttura consente quindi di abbandonare il richiamo, alquanto artificioso, alla disciplina del contratto d’opera professionale e di fondare semmai la responsabilità dell’ente per fatto del dipendente sulla base dell’art. 1228 c.c..

3.4. Questa ricostruzione del rapporto struttura – paziente va condivisa e confermata.

Ciò comporta che si può avere una responsabilità contrattuale della struttura verso il paziente danneggiato non solo per il fatto del personale medico dipendente, ma anche del personale ausiliario, nonché della struttura stessa (insufficiente o inidonea organizzazione).

Dalla ricostruzione in termini autonomi del rapporto struttura-paziente rispetto al rapporto paziente-medico, discendono importanti conseguenze sul piano della affermazione di responsabilità in primo luogo, ed anche sul piano della ripartizione e del contenuto degli oneri probatori. Infatti, sul piano della responsabilità, ove si ritenga sussistente un contratto di spedalità tra clinica e paziente, la responsabilità della clinica prescinde dalla responsabilità o dall’eventuale mancanza di responsabilità del medico in ordine all’esito infausto di un intervento o al sorgere di un danno che, come nel caso di specie, non ha connessione diretta con l’esito dell’intervento chirurgico.

Non assume, in particolare, più rilevanza, ai fini della individuazione della natura della responsabilità della struttura sanitaria se il paziente si sia rivolto direttamente ad una struttura sanitaria del SSN, o convenzionata, oppure ad una struttura privata o se, invece, si sia rivolto ad un medico di fiducia che ha effettuato l’intervento presso una struttura privata. In tutti i predetti casi è ipotizzabile la responsabilità contrattuale dell’Ente.

4.1. Inquadrata nell’ambito contrattuale la responsabilità della struttura sanitaria e del medico, nel rapporto con il paziente, il problema del riparto dell’onere probatorio deve seguire i criteri fissati in materia contrattuale, alla luce del principio enunciato in termini generali dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza 30 ottobre 2001, n. 13533, in tema di onere della prova dell’inadempimento e dell’inesatto adempimento.

Le Sezioni Unite, nel risolvere un contrasto di giurisprudenza tra le sezioni semplici, hanno enunciato il principio – condiviso da questo Collegio – secondo cui il creditore che agisce per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo, costituito dall’avvenuto adempimento.

Analogo principio è stato enunciato con riguardo all’inesatto adempimento, rilevando che al creditore istante è sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell’obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto, esatto adempimento.

4.2. La giurisprudenza delle sezioni semplici di questa Corte, applicando questo principio all’onere della prova nelle cause di responsabilità professionale del medico ha ritenuto che gravasse sull’attore (paziente danneggiato che agisce in giudizio deducendo l’inesatto adempimento della prestazione sanitaria) oltre alla prova del contratto, anche quella dell’aggravamento della situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie nonché la prova del nesso di causalità tra l’azione o l’omissione del debitore e tale evento dannoso, allegando il solo inadempimento del sanitario. Resta a carico del debitore l’onere di provare l’esatto adempimento, cioè di aver tenuto un comportamento diligente (Cass. n. 12362 del 2006; Cass. 11.11.2005, n. 22894; Cass. 28.5.2004, n. 10297; Cass. 3.8.2004, n. 14812).

4.3. Il punto relativo alla prova del nesso di causalità non può essere condiviso, nei termini in cui è stato enunciato, poiché esso risente implicitamente della distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato, che se può avere una funzione descrittiva, è dogmaticamente superata, quanto meno in tema di riparto dell’onere probatorio dalla predetta sentenza delle S.U. n. 13533/2001 (vedasi anche S.U. 28.7.2005, n. 15781).

5.1. La dottrina ha assunto posizioni critiche sull’utilizzo della distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato, la quale, ancorché operante soltanto all’interno della categoria delle obbligazioni di fare (a differenza che in Francia dove rappresenta una summa divisio valida per tutte le obbligazioni), ha originato contrasti sia in ordine all’oggetto o contenuto dell’obbligazione, sia in relazione all’onere della prova e, quindi, in definitiva, allo stesso fondamento della responsabilità del professionista.

Come insegna la definizione tradizionale, nelle obbligazioni di mezzi la prestazione dovuta prescinde da un particolare esito positivo dell’attività del debitore, che adempie esattamente ove svolga l’attività richiesta nel modo dovuto.

In tali obbligazioni è il comportamento del debitore ad essere in obbligazione, nel senso che la diligenza è tendenzialmente considerata quale criterio determinativo del contenuto del vincolo, con l’ulteriore corollario che il risultato è caratterizzato dall’aleatorietà, perché dipende, oltre che dal comportamento del debitore, da altri fattori esterni oggettivi o soggettivi.

Nelle obbligazioni di risultato, invece, ciò che importa è il conseguimento del risultato stesso, essendo indifferente il mezzo utilizzato per raggiungerlo. La diligenza opera solo come parametro, ovvero come criterio di controllo e valutazione del comportamento del debitore: in altri termini, è il risultato cui mira il creditore, e non il comportamento, ad essere direttamente in obbligazione.

5.2. Tale impostazione non è immune da profili problematici, specialmente se applicata proprio alle ipotesi di prestazione d’opera intellettuale, in considerazione della struttura stessa del rapporto obbligatorio e tenendo conto, altresì, che un risultato è dovuto in tutte le obbligazioni.

In realtà, in ogni obbligazione si richiede la compresenza sia del comportamento del debitore che del risultato, anche se in proporzione variabile, sicché molti Autori criticano la distinzione poiché in ciascuna obbligazione assumono rilievo così il risultato pratico da raggiungere attraverso il vincolo, come l’impegno che il debitore deve porre per ottenerlo.

5.3. Dalla casistica giurisprudenziale emergono spunti interessanti in ordine alla dicotomia tra obbligazione di mezzi e di risultato, spesso utilizzata al fine di risolvere problemi di ordine pratico, quali la distribuzione dell’onere della prova e l’individuazione del contenuto dell’obbligo, ai fini del giudizio di responsabilità, operandosi non di rado, per ampliare la responsabilità contrattuale del professionista, una sorta di metamorfosi dell’obbligazione di mezzi in quella di risultato, attraverso l’individuazione di doveri di informazione e di avviso (cfr. segnatamente, per quanto riguarda la responsabilità professionale del medico: Cass. 19.5.2004, n. 9471), definiti accessori ma integrativi rispetto all’obbligo primario della prestazione, ed ancorati a principi di buona fede, quali obblighi di protezione, indispensabili per il corretto adempimento della prestazione professionale in senso proprio.

5.4. Sotto il profilo dell’onere della prova, la distinzione (talvolta costruita con prevalente attenzione alla responsabilità dei professionisti intellettuali e dei medici in particolare) veniva utilizzata per sostenere che mentre nelle obbligazioni di mezzi, essendo aleatorio il risultato, sul creditore incombesse l’onere della prova che il mancato risultato era dipeso da scarsa diligenza, nelle obbligazioni di risultato, invece, sul debitore incombeva l’onere della prova che il mancato risultato era dipeso da causa a lui non imputabile.

5.5. Ma anche sotto tale profilo la distinzione è stata sottoposta a revisione sia da parte della giurisprudenza che della dottrina.

Infatti, come detto, questa Corte (sent. n. 13533/2001) ha affermato che il meccanismo di ripartizione dell’onere della prova ai sensi dell’art. 2697 c.c. in materia di responsabilità contrattuale (in conformità a criteri di ragionevolezza per identità di situazioni probatorie, di riferibilità in concreto dell’onere probatorio alla sfera di azione dei singoli soggetti e di distinzione strutturale tra responsabilità contrattuale e da fatto illecito) è identico, sia che il creditore agisca per l’adempimento dell’obbligazione, ex art. 1453 cc., sia che domandi il risarcimento per l’inadempimento contrattuale, ex art. 1218 cc., senza richiamarsi in alcun modo alla distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato.

  • 6.1. Prestata piena adesione al principio espresso dalla pronunzia suddetta, ritengono queste S.U. che l’inadempimento rilevante nell’ambito dell’azione di responsabilità per risarcimento del danno nelle obbligazioni così dette di comportamento non è qualunque inadempimento, ma solo quello che costituisce causa (o concausa) efficiente del danno.
  • Ciò comporta che l’allegazione del creditore non può attenere ad un inadempimento, qualunque esso sia, ma ad un inadempimento, per così dire, qualificato, e cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno.
  • Competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è proprio stato ovvero che, pur esistendo, non è stato nella fattispecie causa del danno.
  • 6.2. Nella fattispecie, quindi, avendo l’attore provato il contratto relativo alla prestazione sanitaria (ed il punto non è in contestazione) ed il danno assunto (epatite), allegando che i convenuti erano inadempienti avendolo sottoposto ad emotrasfusione con sangue infetto, competeva ai convenuti fornire la prova che tale inadempimento non vi era stato, poiché non era stata effettuata una trasfusione con sangue infetto, oppure che, pur esistendo l’inadempimento, esso non era eziologicamente rilevante nell’azione risarcitoria proposta, per una qualunque ragione, tra cui quella addotta dell’affezione patologica già in atto al momento del ricovero.
  • 7.1. Per quanto concerne, in particolare, l’ipotesi del contagio da emotrasfusione eseguita all’interno della struttura sanitaria, gli obblighi a carico della struttura ai fini della declaratoria della sua responsabilità, vanno posti in relazione sia agli obblighi normativi esistenti al tempo dell’intervento e relativi alle trasfusioni di sangue, quali quelli relativi alla identificabilità del donatore e del centro trasfusionale di provenienza (cd. tracciabilità del sangue) che agli obblighi più generali di cui all’art. 1176 cc. nell’esecuzione delle prestazioni che il medico o la struttura possono aver violato nella singola fattispecie.
  • 7.2. Ne consegue che la sentenza impugnata, la quale ha posto a carico del paziente (creditore) la prova che al momento del ricovero esso non fosse già affetto da epatite, ha violato i principi in tema di riparto dell’onere probatorio, fissati in tema di azione per il risarcimento del danno da inadempimento contrattuale.
  • 8.1. Tale dato relativo alle patologie in corso, peraltro, doveva già emergere dai dati anamnestici prossimi e dagli accertamenti ematici di laboratorio, cui il paziente doveva essere sottoposto prima dell’intervento chirurgico e della trasfusione; dati che dovevano essere riportati sulla cartella clinica.
  • A tal fine va condiviso l’orientamento giurisprudenziale (Cass. 21.7.2003, n. 11316; Cass. 23.9.2004, n. 19133), secondo cui la difettosa tenuta della cartella clinica naturalmente non vale ad escludere la sussistenza del nesso eziologico tra la colposa condotta dei medici e la patologia accertata, ove risulti provata la idoneità di tale condotta a provocarla, ma consente anzi il ricorso alle presunzioni, come avviene in ogni caso in cui la prova non possa essere data per un comportamento ascrivibile alla stessa parte contro la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato, nel quadro dei principi in ordine alla distribuzione dell’onere della prova ed al rilievo che assume a tal fine la “vicinanza alla prova”, e cioè la effettiva possibilità per l’una o per l’altra parte di offrirla.
  • 8.2. Quanto al valore probatorio del verbale della Commissione medico-ospedaliera di Chieti, va osservato che trattasi della Commissione di cui all’art. 4 della legge n. 210 del 1992, composta da ufficiali medici ed istituita presso ospedali militari, ai fini dell’indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazione di emoderivati.

L’art. 4 statuisce che: “1. Il giudizio sanitario sul nesso causale tra la vaccinazione, la trasfusione, la somministrazione di emoderivati, il contatto con il sangue e derivati in occasione di attività di servizio e la menomazione dell’integrità psico-fisica o la morte è espresso dalla commissione medico-ospedaliera di cui all’art 165 del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092.

  1. La commissione medico-ospedaliera redige un verbale degli accertamenti eseguiti e formula il giudizio diagnostico sulle infermità e sulle lesioni riscontrate.
  2. La commissione medico-ospedaliera esprime il proprio parere sul nesso causale tra le infermità o le lesioni e la vaccinazione, la trasfusione, la somministrazione di emoderivati, il contatto con il sangue e derivati in occasione di attività di servizio”.

8.3. Al di fuori del procedimento amministrativo per la concessione dell’indennizzo di cui alla legge, tali verbali hanno lo stesso valore di qualunque altro verbale redatto da un pubblico ufficiale fuori dal giudizio civile ed in questo prodotto. Pertanto essi fanno prova, ex art. 2700 c.c., dei fatti che la commissione attesta essere avvenuti in sua presenza, o essere stati dalla stessa compiuti, mentre le valutazioni, le diagnosi o comunque le manifestazioni di scienza o di opinione in essi contenute costituiscono materiale indiziario soggetto al libero apprezzamento del giudice, il quale può valutarne l’importanza ai fini della prova, ma non può mai attribuire a loro il valore di vero e proprio accertamento (Cass. 20/07/2004, n. 13449; Cass. 25/06/2003, n. 10128; Cass. 25/06/2003, n. 10128; Cass. 12/05/2003, n. 7201).

9.1. Infondata è l’eccezione di carenza di legittimazione passiva avanzata dai resistenti eredi T., sotto il profilo che il de cuius dr. G.T. non poteva essere tenuto ad un controllo sulla qualità dei campioni di sangue trasfuso.

L’istituto della legittimazione ad agire o a contraddire il giudizio (legittimazione attiva o passiva) si ricollega al principio dettato dall’art. 81 c.p.c., secondo cui nessuno può far valere nel processo un diritto altrui in nome proprio fuori dei casi espressamente previsti dalla legge e comporta – trattandosi di materia attinente al contraddittorio e mirandosi a prevenire una sentenza “inutiliter data” – la verifica, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del processo (salvo che sulla questione sia intervenuto il giudicato interno) e in via preliminare al merito (con eventuale pronuncia di inammissibilità della domanda), circa la coincidenza dell’attore e del convenuto con i soggetti che, secondo la legge che regola il rapporto dedotto in giudizio, sono destinatati degli effetti della pronuncia richiesta. Dalla questione relativa alla legittimazione si distingue quella relativa alla effettiva titolarità del rapporto giuridico dedotto in causa, che non può essere rilevata d’ufficio dal giudice dell’impugnazione in difetto di specifico gravame. (cfr. Cass. 17.7.2002, n. 10388; Cass. 27/10/1995, n. 11190).

Nella fattispecie l’eccezione, così come prospettata, attiene non alla legittimazione passiva ma alla titolarità passiva del rapporto dedotto in giudizio. Ciò comporta che la questione non possa essere rilevata d’ufficio da questo Collegio.

9.2. Ove sul punto si fosse pronunziato il giudice di appello, affermando tale titolarità passiva, pur rigettando poi l’appello per altre ragioni, la questione poteva essere proposta con ricorso incidentale condizionato.

Non essendosi il giudice pronunziato, e quindi non essendoci sul punto una soccombenza per quanto virtuale, la questione non avrebbe potuto essere proposta a questa Corte con impugnazione incidentale, ma l’accoglimento del ricorso principale comporta la possibilità di riesame nel giudizio di rinvio di detta eccezione (Cass. 20/08/2003, n. 12219).

10 In definitiva va accolto il ricorso nei termini suddetti; va cassata,in relazione, l’impugnata sentenza e la causa va rinviata, anche per le spese del giudizio di cassazione, ad altra sezione della corte di appello di Roma, che si uniformerà ai seguenti principi di diritto:

  1. A) In tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell’onere probatorio, l’attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare il contratto (o il contatto sociale) e l’aggravamento della patologia o l’insorgenza di un’affezione ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato.

Competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante.

  1. B) I verbali della Commissione medico-ospedaliera di cui all’art. 4 della L n. 210/1992 fanno prova, ex art. 2700 c.c., dei fatti che la commissione attesta essere avvenuti in sua presenza, o essere stati dalla stessa compiuti, mentre le valutazioni, le diagnosi o comunque le manifestazioni di scienza o di opinione in essi contenute costituiscono materiale indiziario soggetto al libero apprezzamento del giudice, il quale può valutarne l’importanza ai fini della prova, ma non può mai attribuire a loro il valore di vero e proprio accertamento.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione. Cassa l’impugnata sentenza e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di cassazione, ad altra sezione della Corte di appello di Roma.

  • E’ il caso di aggiungere, per puro spirito di completezza, che la giurisprudenza di questa Corte, alla quale il collegio intende dare continuita’, pacificamente ritiene che, in via di principio, pur quando manchi un rapporto di subordinazione o di collaborazione tra clinica e sanitario, sussiste comunque un collegamento tra i due contratti stipulati, l’uno tra il medico ed il paziente, e l’altro, tra il paziente e la Casa di cura, contratti aventi ad oggetto, il primo, prestazioni di natura professionale medica, comportanti l’obbligo di abile e diligente espletamento dell’attivita’ professionale (e, a volte, anche di raggiungimento di un determinato risultato) e, il secondo, prestazione di servizi accessori di natura alberghiera, di natura infermieristica ovvero aventi ad oggetto la concessione in godimento di macchinari sanitari, di attrezzi e di strutture edilizie specificamente destinate allo svolgimento di attivita’ terapeutiche e/o chirurgiche.
  • Trattasi di collegamento, per cosi’ ontologico, che dal piano fattuale assume inevitabilmente rilevanza su quello giuridico, posto che di norma, l’individuazione della Casa di cura dove il medico eseguira’ la prestazione promessa costituisce parte fondamentale del contenuto del contratto stipulato tra il paziente e il professionista, nel senso che ciascun medico opera esclusivamente presso determinate cliniche e che, a sua volta, ciascuna Casa di cura accetta solo i pazienti curati da determinati medici (confr. Cass. civ. 14 giugno 2007, n. 13953).
  • Ne deriva che deve ritenersi consustanziale al dovere di diligente espletamento della prestazione l’obbligo del medico di accertarsi preventivamente che la Casa di cura dove si appresta a operare sia pienamente idonea, sotto ogni profilo, ad offrire tutto cio’ che serve per il sicuro e ottimale espletamento della propria attivita’; cosi’ come, reciprocamente la Casa di cura e’ obbligata a vigilare che chi si avvale della sua organizzazione sia abilitato all’esercizio della professione medica in generale e, in particolare, al compimento della specifica prestazione di volta in volta richiesta nel caso concreto. E tanto in applicazione del principio generale di cui all’articolo 1228 c.c., il quale comporta che il medico, come ogni debitore, e’ responsabile dell’operato dei terzi della cui attivita’ si avvale, cosi’ come la struttura risponde non solo dell’inadempimento delle obbligazioni su di essa tout court incombenti, ma anche dell’inadempimento della prestazione svolta dal sanitario, quale ausiliario necessario dell’organizzazione aziendale (confr. Cass. civ. 26 giugno 2012, n. 10616; Cass. civ. 6 giugno 2014, n. 12833; Cass. civ. 14 giugno 2007, n. 13953).
  • Ne consegue che correttamente il convenuto e’ stato condannato a rifondere tutti i danni subiti dagli attori.

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 13 gennaio 2015, n. 280

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETTI Giovanni B. – Presidente

Dott. AMENDOLA Adelaide – rel. Consigliere

Dott. AMBROSIO Annamaria – Consigliere

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 8955/2013 proposto da:

(OMISSIS) (OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentato e difeso dall’avvocato (OMISSIS) giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

(OMISSIS) e (OMISSIS) in proprio e nella qualita’ di esercenti la potesta’ e tutori del figlio (OMISSIS), elettivamente domiciliati in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentati e difesi dall’avvocato (OMISSIS) giusta procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 232/2012 della CORTE D’APPELLO di SALERNO, depositata il 28/02/2012, R.G.N. 1305/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/10/2014 dal Consigliere Dott. ADELAIDE AMENDOLA;

udito l’Avvocato (OMISSIS);

udito l’Avvocato (OMISSIS) per delega;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. VELARDI Maurizio, che ha concluso per l’inammissibilita’ in subordine per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

In data (OMISSIS), giunta al termine della gravidanza, (OMISSIS) venne ricoverata, su indicazione del Dott. (OMISSIS), che l’aveva seguita durante la gestazione, presso la Casa di Cura (OMISSIS). All’esito del travaglio, risultati vani i numerosi tentativi di espulsione naturale del feto, non essendo piu’ praticabile il taglio cesareo, il ginecologo, alle ore 19.30 del (OMISSIS), provvide a estrarre il bambino facendo uso del forcipe.

Il neonato, manifestando sintomi di sofferenza perinatale, venne trasferito la sera stessa della nascita all’ospedale di (OMISSIS), dove fu formulata diagnosi di emorragia endocranica da parto distocico.

Deducendo che il figlio, a causa dell’imperizia del sanitario, era affetto da tetraparesi spastica, microcefalia e ritardo motorio, (OMISSIS) e (OMISSIS), in proprio e quali esercenti la potesta’ genitoriale sul minore, convennero (OMISSIS) innanzi al Tribunale di Salerno, chiedendo il risarcimento dei danni subiti.

Resistette il convenuto.

Con sentenza del 1 luglio 2005 il giudice adito dichiaro’ il (OMISSIS) responsabile nella misura di un terzo dei pregiudizi lamentati dagli attori, per l’effetto condannandolo al pagamento in loro favore della somma di euro 375.000,00, oltre interessi e spese.

Proposto gravame principale dal (OMISSIS) e incidentale dalla (OMISSIS) e dal (OMISSIS), la Corte d’appello di Salerno, in data 26 febbraio 2012, in riforma della impugnata sentenza, ha condannato (OMISSIS) al pagamento, in favore di (OMISSIS) e di (OMISSIS), nella qualita’ di legali rappresentanti del figlio (OMISSIS), della somma di euro 434.000,00, nonche’ in favore degli stessi in proprio, della somma di euro 83.000,00 ciascuno, oltre accessori.

Per la cassazione di detta decisione ricorre a questa Corte (OMISSIS), formulando due motivi, illustrati anche da memoria.

Resistono con controricorso (OMISSIS) e (OMISSIS).

MOTIVI DELLA DECISIONE

1 Va preliminarmente dichiarata l’inammissibilita’ del controricorso per tardivita’.

E invero, a norma dell’articolo 370 c.p.c., la parte contro la quale il ricorso e’ diretto, se intende contraddire, deve farlo mediante controricorso da notificarsi al ricorrente nel domicilio eletto entro venti giorni dalla scadenza del termine stabilito per il deposito del ricorso. In mancanza di tale notificazione, essa non puo’ presentare memorie, ma soltanto partecipare alla discussione orale.

Orbene, nella fattispecie, a fronte di una notifica del ricorso intervenuta in data 29 marzo 2013, il controricorso e’ stato presentato per la notifica il 19 giugno successivo, ben oltre, dunque, il limite temporale massimo stabilito dalla norma processuale richiamata.

Cio’ nondimeno il difensore ha validamente partecipato alla discussione orale, posto che, in tema di giudizio di legittimita’, la procura speciale conferita dalla parte intimata con un controricorso inammissibile resta valida come atto di costituzione, consentendo al difensore della stessa di partecipare attivamente alla pubblica udienza (confr. Cass. civ. 28 maggio 2013, n. 13183).

2 Con il primo motivo l’impugnante denuncia violazione degli articoli 40 e 41 c.p., articoli 1176, 1218, 1223, 1226 e 1227 c.c., articoli 115 e 116 c.p.c., nonche’ mancanza, insufficienza e contraddittorieta’ della motivazione, ex articolo 360 c.p.c., nn. 3 e 5.

Oggetto delle critiche e’ l’affermazione del giudice di merito secondo cui la valutazione di una situazione di concorso tra cause naturali non imputabili e cause umane imputabili puo’ sfociare, alternativamente, o in un giudizio di responsabilita’ totale per l’autore della causa umana, o in un giudizio di totale assolvimento da ogni responsabilita’, con esclusione, dunque, di ogni possibilita’ di graduare percentualmente la responsabilita’ dell’autore della causa imputabile.

Tali argomentazioni – sostiene l’esponente – farebbero malgoverno della distinzione, ormai assurta a diritto vivente, tra causalita’ materiale e causalita’ giuridica: la prima, regolata dagli articoli 40 e 41 c.p., volta a imputare al responsabile l’evento lesivo; la seconda, regolata dall’articolo 1223 c.c., volta a stabilire l’entita’ delle conseguenze pregiudizievoli del fatto di cui deve rispondere l’autore.

3 Le critiche non hanno pregio.

Nel motivare il suo convincimento la Corte d’appello ha evidenziato come, sulla base degli argomentati rilievi degli ausiliari, l’errato impiego del forcipe dovesse ritenersi fattore causale essenziale nella eziologia della patologie che affliggevano il piccolo (OMISSIS), determinandone l’invalidita’ nella misura del 100%. Del resto – ha aggiunto – una volta allegata la responsabilita’ del ginecologo per il mancato espletamento del parto cesareo, malgrado la manifestatasi sofferenza fetale, sarebbe stato onere del convenuto dimostrare o che nessun rimprovero, di scarsa diligenza o imperizia, poteva essergli mosso, oppure che, pur essendovi stato inesatto adempimento, questo non aveva avuto alcuna incidenza nella produzione del danno, laddove tale prova non era stata fornita dal (OMISSIS). Quanto poi alla dedotta esistenza di un danno cerebrale prenatale, dello stesso, ad avviso della Corte, mancava ogni certezza, tenuto conto che il convenuto aveva fatto riferimento in maniera affatto generica a una non meglio specificata situazione congenita.

In ogni caso – ha concluso il decidente – anche a voler ritenere la sussistenza, nella sequela causale che aveva dato origine alla grave patologia da cui era affetto (OMISSIS), di un fattore prenatale, valeva pur sempre il principio per cui la valutazione del concorso tra cause naturali non imputabili e cause umane imputabili poteva sfociare, alternativamente, o in un giudizio di responsabilita’ totale per l’agente, o in un giudizio di totale assolvimento da ogni responsabilita’, a seconda che il giudice ritenesse o meno, la perdurante operativita’ del nesso di causalita’ tra la predetta causa umana e l’evento, essendo esclusa ogni possibilita’ di graduare percentualmente la responsabilita’ dell’autore del comportamento.

4 A fronte di tale corredo motivazionale, l’adesione del collegio all’affermazione secondo cui, in tema di responsabilita’ civile, qualora la produzione di un evento dannoso, quale una gravissima patologia, possa apparire riconducibile, sotto il profilo eziologico, alla concomitanza della condotta del sanitario e del fattore naturale rappresentato dalla pregressa situazione del danneggiato, il giudice deve accertare, sul piano della causalita’ materiale l’efficienza della condotta rispetto all’evento, in applicazione della regola di cui all’articolo 41 c.p., cosi’ da ascrivere il fatto dannoso interamente all’autore della stessa, per poi procedere, eventualmente anche con criteri equitativi, alla valutazione della diversa incidenza delle varie concause sul piano della causalita’ giuridica (confr. Cass. civ., 21 luglio 2011, n. 15991), non giova all’esponente in quanto, al postutto, il decidente ha escluso l’enucleabilita’ nella fattispecie di un danno cerebrale neonatale, in motivata adesione all’opinione espressa dai nominati esperti, i quali avevano precisato che l’origine delle affezioni di (OMISSIS) era da ascriversi al momento del travaglio.

Cio’ vuoi dire che la mancanza di ogni riferimento, nella sentenza impugnata, alla selezione delle conseguenze dannose ascrivibili al sanitario secondo i criteri della causalita’ giuridica, non concreta ne’ un errar in iudicando ne’ un vizio motivazionale, posto che l’omissione, quand’anche imputabile all’insufficiente approccio del giudice di merito con i principi che governano la materia, non ha influito sulla scelta decisoria adottata, avendo il decidente tout court escluso la sussistenza di un concorso tra fattori naturali e condotta del medico.

Peraltro l’impugnante, lungi dal censurare gli esiti dell’apprezzamento del giudice di merito in punto di riconducibilita’, in via esclusiva, alla condotta del sanitario, delle patologie di cui e’ portatore (OMISSIS), ha articolato le sue doglianze dando per scontato un presupposto che tale non era, e cioe’ l’incidenza di fattori naturali nell’eziologia delle stesse, il che connota le critiche in termini di aspecificita’.

5 Con il secondo mezzo il ricorrente lamenta violazione degli articoli 40 e 41 c.p., articoli 1218, 1223, 1226, 1228, 1292, 1294, 1314 e 1316 c.c., articoli 112, 115 e 116 c.p.c., nonche’ mancanza, insufficienza e contraddittorieta’ della motivazione, ex articolo 360 c.p.c., nn. 3 e 5.

Evidenzia che gli attori non avevano convenuto in giudizio la Casa di cura (OMISSIS), ritenendo il (OMISSIS) unico ed esclusivo responsabile di quanto accaduto. Sennonche’ tutti i periti nominati sia dal Tribunale che dalla Corte d’appello avevano affermato la corresponsabilita’ della Clinica per inadeguatezze strutturali e organizzative, rilevando che le stesse, secondo un giudizio necessariamente probabilistico, potevano avere compromesso, sia nella fase preparatoria del parto che in quella successiva, la salute del neonato. In tale contesto, secondo l’impugnante, erroneamente la Corte d’appello, non potendo pronunciarsi (anche) nei confronti della Casa di cura, in quanto non convenuta, aveva condannato il solo medico al risarcimento integrale dei danni subiti dagli istanti, in nome di un inesistente vincolo di solidarieta’ tra la sua obbligazione e quella della Clinica e in violazione del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

La statuizione ignorerebbe peraltro, sul piano sistematico, che l’articolo 2055 c.c., e’ norma dettata in tema di responsabilita’ extracontrattuale e non si estende a quella contrattuale.

Secondo l’esponente, in definitiva, la parziarieta’ dell’obbligazione risarcitoria incombente sul medico e sulla Clinica in conseguenza dell’inadempimento di due distinti contratti da essi rispettivamente conclusi con la (OMISSIS), doveva imporre che il risarcimento a carico del (OMISSIS) venisse diminuito della percentuale di responsabilita’ addebitabile alla Casa di cura.

6 Anche tali critiche non hanno fondamento.

Nel riformare la sentenza di prime cure che aveva quantificato nella misura di un terzo il livello di contribuzione della condotta del ginecologo nella produzione dell’evento lesivo, la Corte ha escluso che le inadeguatezze strutturali e organizzative del punto nascita potessero legittimare una graduazione di responsabilita’ di (OMISSIS). Ha ricordato in proposito che, per giurisprudenza consolidata, quando un medesimo danno e’ provocato da piu’ soggetti, per inadempimenti di contratti diversi, intercorsi rispettivamente tra ciascuno di essi e il danneggiato, tali soggetti debbono essere considerati corresponsabili in solido, non tanto sulla base dell’estensione alla responsabilita’ contrattuale del disposto dell’articolo 2055 c.c., quanto perche’, sia in tema di responsabilita’ contrattuale che di responsabilita’ extracontrattuale, se un unico evento dannoso e’ imputabile a piu’ persone, al fine di ritenere la responsabilita’ di tutte nell’obbligo risarcitorio, e’ sufficiente, in base ai principi che regolano il nesso di causalita’ e il concorso di piu’ cause nella produzione dell’evento, che le azioni od omissioni di ciascuno abbiano concorso in modo efficiente a produrlo. Conseguentemente – ha concluso – la persona danneggiata in conseguenza di un fatto dannoso imputabile a piu’ persone legate da un vincolo di solidarieta’, puo’ pretendere l’intero da una sola di esse, mentre la diversa gravita’ delle rispettive colpe e l’eventuale, diseguale efficienza causale delle loro condotte poteva avere rilevanza solo ai fini della ripartizione interna dell’obbligazione passiva di risarcimento dei corresponsabili.

Esaminando, nell’ambito di tale ricostruzione dogmatica, l’appello incidentale degli attori nella parte in cui era volto a contestare la graduazione di responsabilita’ del (OMISSIS) nei limiti di un terzo, la Corte lo ha ritenuto meritevole di accoglimento, evidenziando che le valutazioni in ordine alla pretesa inidoneita’ della struttura sanitaria erano state prospettate dagli esperti nominati dal Tribunale in via meramente ipotetica ed erano pertanto prive dei necessari requisiti di specificita’, mentre i consulenti nominati nel giudizio di gravame avevano individuato quali concause della patologia da cui era affetto (OMISSIS) solo l’ipossia e la cattiva utilizzazione del forcipe, escludendo il concorso di cause successive al parto.

7 Cio’ vuoi dire che, ferma l’operativita’ della presente decisione nei confronti delle sole parti in causa, la condanna del convenuto al pagamento dell’intero danno subito dagli attori e’ sorretta da due rationes decidendi, basate, l’una, sul carattere solidale dell’obbligazione risarcitoria in tesi gravante e sul medico e sulla clinica, l’altra sulla insussistenza, in concreto, di profili di responsabilita’ di quest’ultima.

Ora, il ricorrente ha del tutto ignorato i rilievi in ordine alla mancanza di presupposti per ravvisare nella pretesa inidoneita’ della struttura una concausa del danno, concentrandosi esclusivamente sulla natura parziaria della sua obbligazione.

In tale contesto le critiche non sfuggono alla sanzione dell’inammissibilita’, in applicazione del principio per cui, qualora la decisione di merito si fondi su di una pluralita’ di ragioni, tra loro distinte e autonome, singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, la ritenuta infondatezza delle censure mosse ad una di esse rende inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse, le censure relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime non potrebbero comunque condurre, stante l’intervenuta definitivita’ delle altre, alla cassazione della decisione stessa (confr. Cass. civ. sez. un. 29 marzo 2013, n. 7931; Cass. civ. 14 febbraio 2012, n. 2108).

8 E’ il caso di aggiungere, per puro spirito di completezza, che la giurisprudenza di questa Corte, alla quale il collegio intende dare continuita’, pacificamente ritiene che, in via di principio, pur quando manchi un rapporto di subordinazione o di collaborazione tra clinica e sanitario, sussiste comunque un collegamento tra i due contratti stipulati, l’uno tra il medico ed il paziente, e l’altro, tra il paziente e la Casa di cura, contratti aventi ad oggetto, il primo, prestazioni di natura professionale medica, comportanti l’obbligo di abile e diligente espletamento dell’attivita’ professionale (e, a volte, anche di raggiungimento di un determinato risultato) e, il secondo, prestazione di servizi accessori di natura alberghiera, di natura infermieristica ovvero aventi ad oggetto la concessione in godimento di macchinari sanitari, di attrezzi e di strutture edilizie specificamente destinate allo svolgimento di attivita’ terapeutiche e/o chirurgiche.

Trattasi di collegamento, per cosi’ ontologico, che dal piano fattuale assume inevitabilmente rilevanza su quello giuridico, posto che di norma, l’individuazione della Casa di cura dove il medico eseguira’ la prestazione promessa costituisce parte fondamentale del contenuto del contratto stipulato tra il paziente e il professionista, nel senso che ciascun medico opera esclusivamente presso determinate cliniche e che, a sua volta, ciascuna Casa di cura accetta solo i pazienti curati da determinati medici (confr. Cass. civ. 14 giugno 2007, n. 13953). Ne deriva che deve ritenersi consustanziale al dovere di diligente espletamento della prestazione l’obbligo del medico di accertarsi preventivamente che la Casa di cura dove si appresta a operare sia pienamente idonea, sotto ogni profilo, ad offrire tutto cio’ che serve per il sicuro e ottimale espletamento della propria attivita’; cosi’ come, reciprocamente la Casa di cura e’ obbligata a vigilare che chi si avvale della sua organizzazione sia abilitato all’esercizio della professione medica in generale e, in particolare, al compimento della specifica prestazione di volta in volta richiesta nel caso concreto. E tanto in applicazione del principio generale di cui all’articolo 1228 c.c., il quale comporta che il medico, come ogni debitore, e’ responsabile dell’operato dei terzi della cui attivita’ si avvale, cosi’ come la struttura risponde non solo dell’inadempimento delle obbligazioni su di essa tout court incombenti, ma anche dell’inadempimento della prestazione svolta dal sanitario, quale ausiliario necessario dell’organizzazione aziendale (confr. Cass. civ. 26 giugno 2012, n. 10616; Cass. civ. 6 giugno 2014, n. 12833; Cass. civ. 14 giugno 2007, n. 13953).

Ne consegue che correttamente il convenuto e’ stato condannato a rifondere tutti i danni subiti dagli attori.

9 In definitiva il ricorso deve essere integralmente rigettato. Segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.

La circostanza che il ricorso per cassazione e’ stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilita’ del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla Legge 24 dicembre 2012, n. 228, articolo 1, comma 17. Invero, in base al tenore letterale della disposizione, il rilevamento della sussistenza o meno dei presupposti per l’applicazione dell’ulteriore contributo unificato costituisce un atto dovuto, poiche’ l’obbligo di tale pagamento aggiuntivo non e’ collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo – ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione – del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, dell’impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell’ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio, liquidate in complessivi euro 8.000,00 (di cui euro 200,00 per esborsi), oltre accessori e spese generali, come per legge.

Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1-quater, da’ atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis

responsabilita\’ medica responsabilita medica e sanitaria
responsabilita medica diritto civile
responsabilita medica diagnosi errata

responsabilita medica e sanitaria responsabilita medica e sanitaria mediazione

responsabilita medica e sanitaria mediazione 3
responsabilita medica diritto civile 2
responsabilita medica diagnosi errata responsabilita medica per errata diagnosi

responsabilita medica per errata diagnosi

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ERRATA DIAGNOSI DEL MEEDICO ERRORE

 

 

 

La valutazione della colpa medica deve essere compiuta con speciale cautela nei casi in cui si richiedano interventi particolarmente delicati e complessi e che coinvolgano l’aspetto più squisitamente scientifico dell’arte medica. In particolare, un’attenta e prudente analisi della realtà di ciascun caso può consentire di distinguere i casi nei quali vi è una particolare difficoltà della diagnosi sovente accresciuta dall’urgenza, da quelle situazioni in cui, invece, il medico è malaccorto, non si adopera per fronteggiare adeguatamente l’urgenza o tiene comportamenti semplicemente omissivi, tanto più quando la sua specializzazione gli impone di agire tempestivamente proprio in urgenza”.

Art. 43. Elemento psicologico del reato

Il delitto: è doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione;

è preterintenzionale, o oltre l’intenzione, quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente;

è colposo, o contro l’intenzione quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.

La distinzione tra reato doloso e reato colposo, stabilita da questo articolo per i delitti, si applica altresì alle contravvenzioni, ogni qualvolta per queste la legge penale faccia dipendere da tale distinzione un qualsiasi effetto giuridico”.

Art. 589. Omicidio colposo

Chiunque cagiona per colpa la morte di una persona è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni.

Se il fatto è commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale o di quelle per la prevenzione degli infortuni sul lavoro la pena è della reclusione da due a sette anni.Si applica la pena della reclusione da tre a dieci anni se il fatto è commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale da:

1) soggetto in stato di ebbrezza alcolica ai sensi dell’articolo 186, comma 2, lettera c), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e successive modificazioni;

2) soggetto sotto l’effetto di sostanze stupefacenti o psicotrope.

Nel caso di morte di più persone, ovvero di morte di una o più persone e di lesioni di una o più persone, si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse aumentata fino al triplo, ma la pena non può superare gli anni quindici”.

 

Nel giudizio di liquidazione del danno da perdita della chance verranno ad assumere rilievo sia l’aspetto della prossimità della situazione fattuale al conseguimento del risultato sperato, sia il profilo della maggiore o minore idoneità a garantire questo risultato. Sotto il primo aspetto, il valore della perdita dipenderà dalla sufficienza del comportamento tenuto o mancato, da parte del responsabile, a determinare il risultato sperato (ovvero dalla necessità, al contrario, dell’intervento di ulteriori evenienze, da valutarsi caso per caso quanto alla probabilità o solamente alla possibilità del loro accadimento); sotto il secondo aspetto, rileverà l’idoneità in concreto della situazione a determinare il risultato sperato, cioè la probabilità o la mera possibilità del conseguimento del risultato, anche in termini percentuali.

 

Alla fine dell’anno 2000 la Suprema Corte in due occasioni (Sez. 4, 28 settembre 2000, Musto, e Sez. 4, 29 novembre 2000, Baltrocchi) ha poi sostanzialmente rivisto ex novo la tematica in questione procedendo ad ulteriori puntualizzazioni. In tali occasioni è stato invero rilevato che ‘il problema del significato da attribuire alla espressione “con alto grado di probabilità”….non può essere risolto se non attribuendo all’espressione il valore, il significato, appunto, che le attribuisce la scienza e, prima ancora, la logica cui la scienza si ispira, e che non può non attribuirgli il diritto’; ed è stato quindi affermato che ‘per la scienza’ non v’è alcun dubbio che dire “alto grado di probabilità”, – coltissima percentuale, “numero sufficientemente alto di casi”, voglia dire che, in tanto il giudice può affermare che una azione o omissione sono state causa di un evento, in quanto possa effettuare il giudizio controfattuale avvalendosi di una legge o proposizione scientifica che “enuncia una connessione tra eventi in una percentuale vicina a cento”…., questa in sostanza realizzando quella ‘probabilità vicina alla certezza’. Successivamente (Sez. 4, 23/1/2002, dep. 10/6/2002, Orlando) è stata sottolineata la distinzione tra la probabilità statistica e la probabilità logica, ed è stato evidenziato come una percentuale statistica pur alta possa non avere alcun valore eziologico effettivo quando risulti che, in realtà, un certo evento è stato cagionato da una diversa condizione; e come, al contrario, una percentuale statistica medio-bassa potrebbe invece risultare positivamente suffragata in concreto dalla verifica della insussistenza di altre possibili cause esclusive dell’evento, di cui si sia potuto escludere l’interferenza.

È stato dunque richiesto l’intervento delle Sezioni Unite in presenza del radicale contrasto che nel tempo si era determinato all’interno della giurisprudenza di legittimità tra due contrapposti indirizzi interpretativi in ordine alla ricostruzione del nesso causale tra condotta omissiva ed evento, con particolare riguardo alla materia della responsabilità professionale del medico-chirurgo: secondo talune decisioni (che avevano dato vita all’orientamento delineatosi più recentemente) sarebbe necessaria la prova che un diverso comportamento dell’agente avrebbe impedito l’evento con un elevato grado di probabilità ‘prossimo alla certezza’, e cioè in una percentuale di casi ‘quasi prossima a cento’; secondo altre decisioni sarebbero invece sufficienti ‘serie ed apprezzabili probabilità di successo’ per l’impedimento dell’evento.

Le Sezioni Unite si sono quindi pronunciate con la sentenza n. 30328 del 10/07/2002 Ud. (dep. 11/09/2002 – imp. Franzese), con la quale sono stati individuati i criteri da seguire perché possa dirsi sussistente il nesso causale tra la condotta omissiva e l’evento, e sono stati enunciati taluni principi che appare opportuno qui sinteticamente ricordare: 1) il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica – universale o statistica – si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa impeditiva dell’evento ‘hic et nunc’, questo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva; 2) non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, così che, all’esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso l’interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con ‘alto o elevato grado di credibilità razionale’ o ‘probabilità logica’; 3) l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio; 4) alla Corte di Cassazione, quale giudice di legittimità, è assegnato il compito di controllare retrospettivamente la razionalità delle argomentazioni giustificative – la c.d. giustificazione esterna – della decisione, inerenti ai dati empirici assunti dal giudice di merito come elementi di prova, alle inferenze formulate in base ad essi ed ai criteri che sostengono le conclusioni: non la decisione, dunque, bensì il contesto giustificativo di essa, come esplicitato dal giudice di merito nel ragionamento probatorio che fonda il giudizio di conferma dell’ipotesi sullo specifico fatto da provare.

Può dunque affermarsi che le Sezioni Unite hanno ripudiato qualsiasi interpretazione che faccia leva, ai fini della individuazione del nesso causale quale elemento costitutivo del reato, esclusivamente o prevalentemente su dati statistici ovvero su criteri valutativi a struttura probabilistica, in tal modo mostrando di propendere, tra i due contrapposti indirizzi interpretativi sopra ricordati, maggiormente verso quello delineatosi in tempi più recenti. L’articolato percorso motivazionale seguito nella sentenza Franzese, induce a ritenere che le Sezioni Unite, nel sottolineare la necessità dell’individuazione del nesso di causalità (quale ‘condicio sine qua non’ di cui agli artt. 40 e 41 del codice penale) in termini di certezza, abbiano inteso riferirsi non alla certezza oggettiva (storica e scientifica), risultante da elementi probatori di per sé altrettanto inconfutabili sul piano della oggettività, bensì alla ‘certezza processuale’ che, in quanto tale, non può essere individuata se non con l’utilizzo degli strumenti di cui il giudice dispone per le sue valutazioni probatorie: ‘certezza’, che deve essere pertanto raggiunta dal giudice valorizzando tutte le circostanze del caso concreto sottoposto al suo esame, secondo un procedimento logico – praticamente analogo a quello seguito allorquando si tratta di valutare la prova indiziaria, la cui disciplina è dettata dal secondo comma dell’art. 192 del codice di procedura penale – che consenta di poter ricollegare un evento ad una condotta omissiva ‘al di là di ogni ragionevole dubbio’ (vale a dire, con alto o elevato grado di credibilità razionale o probabilità logica). Invero, non pare che possa diversamente intendersi il pensiero che le Sezioni Unite hanno voluto esprimere allorquando hanno testualmente affermato che deve risultare “giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con alto o elevato grado di credibilità ragionale o ‘probabilità logica”.

 

D’altronde, la rilevanza dell’elemento tempo quale componente essenziale del bene della vita, con la conseguente rilevanza di ogni fatto imputabile che ne determini l’anticipata cessazione, è già presente nella giurisprudenza di questa Corte, intervenuta, – oltre che nel caso su ricordato, del tutto affine al presente (Cass. n. 23846/08)-in ipotesi speculari, ma comunque significative (di comportamento commissivo che anticipi un decesso comunque inevitabile, piuttosto che – come nel caso di specie – di omissione di comportamento che ne avrebbe ritardato la sopravvenienza: cfr. Cass. n. 5962/00 e n. 20996/12). Questa stessa giurisprudenza ha pure chiarito che, proprio perché il fatto illecito non è stato causa della morte in sé, ma solo della morte in quella data e non successivamente, il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale in favore degli aventi diritto, non potrà che investire detta anticipazione della morte, ed avere quindi come termine di riferimento il lasso di tempo intercorrente tra la data in cui l’evento si è effettivamente verificato e quello in cui si sarebbe presumibilmente verificato se il fatto illecito acceleratore dei fattori patogenetici preesistenti non vi fosse stato (cfr., in motivazione, Cass. n. 5962/00 cit.).

Il principio va adattato al caso in cui il danno sia consistito in una perdita di chance, dovendosi contemperare con il criterio di quantificazione del risarcimento in ragione della maggiore o minore idoneità, anche percentuale, della chance a produrre il risultato sperato.

In conclusione va affermato che, in tema di responsabilità medica, dà luogo a danno risarcibile l’errata esecuzione di un intervento chirurgico praticabile per rallentare l’esito certamente infausto di una malattia, che abbia comportato la perdita per il paziente della chance di vivere per un periodo di tempo più lungo rispetto a quello poi effettivamente vissuto. In tale eventualità, le possibilità di sopravvivenza, misurate in astratto secondo criteri percentuali, rilevano ai fini della liquidazione equitativa del danno, che dovrà altresì tenere conto dello scarto temporale tra la durata della sopravvivenza effettiva e quella della sopravvivenza possibile in caso di intervento chirurgico corretto.

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D’altronde, la rilevanza dell’elemento tempo quale componente essenziale del bene della vita, con la conseguente rilevanza di ogni fatto imputabile che ne determini l’anticipata cessazione, è già presente nella giurisprudenza di questa Corte, intervenuta, – oltre che nel caso su ricordato, del tutto affine al presente (Cass. n. 23846/08)-in ipotesi speculari, ma comunque significative (di comportamento commissivo che anticipi un decesso comunque inevitabile, piuttosto che – come nel caso di specie – di omissione di comportamento che ne avrebbe ritardato la sopravvenienza: cfr. Cass. n. 5962/00 e n. 20996/12). Questa stessa giurisprudenza ha pure chiarito che, proprio perché il fatto illecito non è stato causa della morte in sé, ma solo della morte in quella data e non successivamente, il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale in favore degli aventi diritto, non potrà che investire detta anticipazione della morte, ed avere quindi come termine di riferimento il lasso di tempo intercorrente tra la data in cui l’evento si è effettivamente verificato e quello in cui si sarebbe presumibilmente verificato se il fatto illecito acceleratore dei fattori patogenetici preesistenti non vi fosse stato (cfr., in motivazione, Cass. n. 5962/00 cit.).

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Originally posted 2021-05-13 17:44:00.

SEPARAZIONE TRADIMENTO 2021 BOLOGNA : WHATSAPP

SE SI VALUTA LA REALTA’  E LA NORMALITA’MOLTI TRADIMENTI SI SCOPRONO E CORRONO IN VIA TELEMATICA

Famiglia – Coniugi – Separazione – Addebito – Messaggi inviati per via telematica 

I messaggi inviati per via telematica all’amante POSSON O4SSERE PROVA SUFFICENTE  PER ADDEBITO SEPARAZIONE?

 

SI costituiscono una prova sufficiente per addebitare la separazione ponendola legittimamente a carico del coniuge che abbia intrattenuto la relazione adulterina comprovata dai predetti messaggi.

 

 Sulla efficacia probatoria delle riproduzioni informatiche rileva che per procedere al disconoscimento e per rendere il disconoscimento idoneo ad escludere la prova, occorre che esso sia chiaro, circostanziato ed esplicito per attestare che la riproduzione informatica non sia congrua alla verità fattuale.

 

In tema di efficacia probatoria delle riproduzioni informatiche di cui all’art. 2712 c.c. il disconoscimento idoneo a farne perdere la qualità di prova, degradandole a presunzioni semplici, deve essere chiaro, circostanziato ed esplicito, dovendosi concretizzare nell’allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta (Cass. 2 settembre 2016, n. 17526; Cass. 17 febbraio 2015, n. 3122). In tal senso, non possono quindi ritenersi espressive del dedotto disconoscimento le deduzioni, richiamate dal ricorrente (pag. 9 del ricorso), secondo cui lo stesso «non aveva mai dato inizio ad alcuna relazione affettiva in costanza di matrimonio» o in cui si è assunto «l’infondatezza delle affermazioni della Mariani circa la supposta esistenza di una relazione extraconiugale del sig. Nativi».

AFFIDO-FIGLI-A-BOLOGNA-NELLA-SEPARAZIONE-AVVOCATO-DIVORZISTA

AFFIDO FIGLI AFFIDO CONDIVISO AVVOCATO DIVORZISTA BOLOGNA

D’altro canto, il rilievo per cui l’odierno istante, a fronte della produzione in giudizio delle evidenze telematiche, avrebbe smentito che quanto rappresentato nella documentazione corrispondesse alla realtà dei fatti in essa descritta (sempre pag. 9 del ricorso) appare del tutto generico e carente di autosufficienza: infatti, sono inammissibili, per violazione dell’art. 366, n. 6, c.p.c., le censure fondate su atti e documenti del giudizio di merito qualora il ricorrente si limiti a richiamare tali atti e documenti, senza riprodurli nel ricorso ovvero, laddove riprodotti, senza fornire puntuali indicazioni necessarie alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame, ovvero ancora senza precisarne la collocazione nel fascicolo di ufficio o in quello di parte e la loro acquisizione o produzione in sede di giudizio di legittimità (Cass. Sez. U. 27 dicembre 2019, n. 34469). Analoghe considerazioni andrebbero svolte con riferimento al richiamo, operato dallo stesso ricorrente, alle deduzioni da lui svolte 4 Corte di Cassazione – copia non ufficiale nella memoria ex art. 190 c.p.c. (ove si sarebbe fatta menzione della possibile artificiosa realizzazione del messaggio: pagg. 9 s. del ricorso): ma sul punto è assorbente l’osservazione per cui il disconoscimento soggiace a precise preclusioni processuali (Cass. 19 gennaio 2018, n. 1250, che menziona, in proposito, quelle desumibili dagli artt. 167 e 183 c.p.c.), onde non può essere certamente svolto con gli scritti conclusionali.

 

 

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D’altro canto, il rilievo per cui l’odierno istante, a fronte della produzione in giudizio delle evidenze telematiche, avrebbe smentito che quanto rappresentato nella documentazione corrispondesse alla realtà dei fatti in essa descritta (sempre pag. 9 del ricorso) appare del tutto generico e carente di autosufficienza: infatti, sono inammissibili, per violazione dell’art. 366, n. 6, c.p.c.,

 

. il disconoscimento idoneo a farne perdere la qualità di prova, degradandole a presunzioni semplici, deve essere chiaro, circostanziato ed esplicito, dovendosi concretizzare nell’allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta (Cass. 2 settembre 2016, n. 17526; Cass. 17 febbraio 2015, n. 3122). In tal senso, non possono quindi ritenersi espressive del dedotto disconoscimento le deduzioni, richiamate dal ricorrente (pag. 9 del ricorso), secondo cui lo stesso «non aveva mai dato inizio ad alcuna relazione affettiva in costanza di matrimonio» o in cui si è assunto «l’infondatezza delle affermazioni della Mariani circa la supposta esistenza di una relazione extraconiugale del sig. Nativi». D’altro canto, il rilievo per cui l’odierno istante, a fronte della produzione in giudizio delle evidenze telematiche, avrebbe smentito che quanto rappresentato nella documentazione corrispondesse alla realtà dei fatti in essa descritta (sempre pag. 9 del ricorso) appare del tutto generico e carente di autosufficienza: infatti, sono inammissibili, per violazione dell’art. 366, n. 6, c.p.c., le censure fondate su atti e documenti del giudizio di merito qualora il ricorrente si limiti a richiamare tali atti e documenti, senza riprodurli nel ricorso ovvero, laddove riprodotti, senza fornire puntuali indicazioni necessarie alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame, ovvero ancora senza precisarne la collocazione nel fascicolo di ufficio o in quello di parte e la loro acquisizione o produzione in sede di giudizio di legittimità (Cass. Sez. U. 27 dicembre 2019, n. 34469). Analoghe considerazioni andrebb

 

 

 

 

 

Da ultimo, la Corte di merito precisava che il prelievo di denaro da parte di Evelyn Mariani e l’abbandono della casa coniugale nel corso dell’anno 2014 non assumevano rilievo, ai fini del giudizio di addebito della separazione «atteso il loro logico collegamento con la condotta fedifraga del marito e il difetto di prova in ordine alla già avvenuta compromissione dell’unità matrimoniale all’epoca del tradimento, che i testi affermano ammesso 2 Corte di Cassazione – copia non ufficiale nel febbraio 2013 per i fatti di fine anno 2012». 2. — Simone Nativi ha impugnato la pronuncia d’appello con un ricorso per cassazione articolato in due motivi. Resiste con controricorso Evelyn Mariani. Il ricorrente ha depositato memoria. 3. — Il Collegio ha autorizzato la redazione della presente ordinanza in forma semplificata. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. — Con il primo motivo il ricorrente oppone la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., in punto di valutazione della prova rappresentata dalla corrispondenza telematica prodotta in giudizio e dalle prove orali dei testi indotti dalla controparte, in combinato disposto con gli artt. 2727 e 2729 c.c., oltre che la violazione dell’art. 2712 c.c.. Viene dedotto che, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice del gravame, il ricorrente aveva in più occasioni smentito di essere l’autore dei messaggi inoltrati per via telematica i quali attesterebbero l’esistenza della relazione extraconiugale. L’istante lamenta, inoltre, che la Corte territoriale, confermando l’operato del giudice di primo grado, abbia ritenuto che dalle comunicazioni telematiche fosse possibile risalire, attraverso un procedimento induttivo al fatto ignoto, costituito dalla relazione extraconiugale. Viene osservato, al riguardo, che l’esame degli indizi emersi nel corso del procedimento non avevano i connotati della gravità della precisione e della concordanza, tenuto conto anche del rapporto di parentela intercorrente tra i testi escussi ed Evelyn Mariani. Il ricorrente contesta, infine, il rilievo che potrebbe assumere, nel quadro dell’indagine circa la prova della detta relazione, il percorso di mediazione coniugale avviato dai coniugi. Il motivo, che prospetta plurime censure, è nel complesso infondato. 3 Corte di Cassazione – copia non ufficiale In tema di efficacia probatoria delle riproduzioni informatiche di cui all’art. 2712 c.c. il disconoscimento idoneo a farne perdere la qualità di prova, degradandole a presunzioni semplici, deve essere chiaro, circostanziato ed esplicito, dovendosi concretizzare nell’allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta (Cass. 2 settembre 2016, n. 17526; Cass. 17 febbraio 2015, n. 3122). In tal senso, non possono quindi ritenersi espressive del dedotto disconoscimento le deduzioni, richiamate dal ricorrente (pag. 9 del ricorso), secondo cui lo stesso «non aveva mai dato inizio ad alcuna relazione affettiva in costanza di matrimonio» o in cui si è assunto «l’infondatezza delle affermazioni della Mariani circa la supposta esistenza di una relazione extraconiugale del sig. Nativi». D’altro canto, il rilievo per cui l’odierno istante, a fronte della produzione in giudizio delle evidenze telematiche, avrebbe smentito che quanto rappresentato nella documentazione corrispondesse alla realtà dei fatti in essa descritta (sempre pag. 9 del ricorso) appare del tutto generico e carente di autosufficienza: infatti, sono inammissibili, per violazione dell’art. 366, n. 6, c.p.c., le censure fondate su atti e documenti del giudizio di merito qualora il ricorrente si limiti a richiamare tali atti e documenti, senza riprodurli nel ricorso ovvero, laddove riprodotti, senza fornire puntuali indicazioni necessarie alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame, ovvero ancora senza precisarne la collocazione nel fascicolo di ufficio o in quello di parte e la loro acquisizione o produzione in sede di giudizio di legittimità (Cass. Sez. U. 27 dicembre 2019, n. 34469). Analoghe considerazioni 

 

 

Originally posted 2021-07-19 19:54:45.

ART 572 TRIBUNALE COLLEGIALE AVVOCATO DIFENDE BOLOGNA

 

 

Cassazione penaleSez. VIsentenza n. 37628 del 11 settembre 2019

E’ configurabile il reato di maltrattamenti in situazione di condivisa genitorialità, anche in assenza di convivenza, a condizione che la filiazione non sia stata un evento meramente occasionale ma si sia quantomeno instaurata una relazione sentimentale, ancorché non più attuale, tale da ingenerare l’aspettativa di un vincolo di solidarietà personale, autonomo rispetto ai doveri connessi alla filiazione.

 

ANCHE NELLA MERA CONVIVENZA SI PUO’ AVERE L REATO DI CUI ALL’ART 572 CP

 

IL FATTO

La Corte di appello di Roma, con sentenza del 19 giugno 2018, ha confermato la condanna di G.D. per i delitti di maltrattamenti e lesioni personali dolose aggravati, commessi in danno di L.V.N., pronunciata dal Tribunale di Roma con sentenza del 10 luglio 2017.

2. Impugna la sentenza d’appello l’imputato, per il tramite del suo difensore, chiedendone l’annullamento, sulla base dei seguenti motivi.

2.1. Difetto di motivazione – ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), – in relazione alla inattendibilità delle dichiarazioni della persona offesa, peraltro non supportate da alcun riscontro.

La Corte di appello, nonostante la specifica deduzione nei motivi di gravame, avrebbe omesso di soffermarsi su aspetti decisivi ai fini della svalutazione di tali dichiarazioni, ovvero: a) sulle affermazioni della zia di costei, M.F., dalle quali emergerebbe che il comportamento della ragazza fosse peggiorato già prima di conoscere l’imputato; b) sulle aggressioni fisiche compiute dalla persona offesa ai danni dell’imputato; c) sul fatto che ella indossasse sempre i medesimi vestiti non per volontà di quest’ultimo, bensì perchè la propria madre le aveva impedito di accedere all’abitazione familiare; d) sul protrarsi della convivenza soprattutto per volontà di lei, avendo G. più volte tentato di allontanarla da casa; e) sulla circostanza per cui, in occasione di una delle aggressioni riferite, ella, anzichè chiamare le forze dell’ordine od i familiari, si sia limitata a postare l’immagine del proprio dito insanguinato su “Facebook”.

AVVOCATO ESPERTO DIVORZI SEPARAZIONI EREDITA' PROCESSI BOLOGNA

AVVOCATO ESPERTO DIVORZI SEPARAZIONI EREDITA’ PROCESSI BOLOGNA


2.2. Erronea applicazione della legge penale e vizio di motivazione – ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), – con riferimento all’art. 572 c.p..

La Corte avrebbe errato, e comunque non ha compiutamente assolto al proprio onere di motivazione, laddove è giunta a ritenere sussistente tale reato, nonostante: a) non vi fosse un rapporto di supremazia dell’imputato sulla querelante e le aggressioni fossero reciproche; b) non vi fosse, tra costoro, un rapporto di tipo familiare, mancando un comune progetto di vita.

3. Nel termine assegnato dall’art. 525 c.p.p., comma 4, ha depistato in cancelleria memoria scritta la difesa della parte civile, rappresentando la completezza e la coerenza logica dell’impugnata sentenza, e perciò chiedendo il rigetto del ricorso

 

 

LA MOTIVAZONE DELLA SUPREMA CORTE

In tema di maltrattamenti in famiglia, l’art. 572 c.p., è applicabile non solo ai nuclei familiari fondati sul matrimonio, ma a qualunque relazione sentimentale che, per la consuetudine dei rapporti creati, implichi l’insorgenza di vincoli affettivi e aspettative di assistenza assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale (Sez. 6, n. 31121 del 18/03/2014, Rv. 261472). Ragione per cui il delitto è configurabile anche quando manchi una stabile convivenza e sussista, con la vittima degli abusi, un rapporto familiare di mero fatto, caratterizzato dalla messa in atto di un progetto di vita basato sulla reciproca solidarietà ed assistenza (Sez. 6, n. 22915 del 07/05/2013, Rv. 255628.).

Con riferimento alla vicenda in esame, è sufficiente allora evidenziare che come emerge pacificamente dall’impugnata sentenza, incontroversa per questa parte – l’imputato e la parte civile, oltre ad avere intrattenuto una relazione sentimentale, hanno convissuto nella stessa abitazione per circa dieci mesi.

3.2. Quanto, poi, al diverso profilo dell’asserita reciprocità delle condotte aggressive, va anzitutto osservato che – stando alla narrativa della sentenza impugnata – esso non risulta essere stato dedotto in appello: sicchè, già solo per questo, il relativo motivo, per questa parte, si esporrebbe a censure di inammissibilità.

In ogni caso, tale doglianza non ha giuridico fondamento, in quanto, in tema di maltrattamenti in famiglia, lo stato di inferiorità psicologica della vittima non deve necessariamente tradursi in una situazione di suo completo abbattimento, potendo consistere anche in un avvilimento generale conseguente alle vessazioni patite, senza che sporadiche reazioni vitali ed aggressive da parte della stessa possano escluderne lo stato di soggezione, a fronte di soprusi abituali (Sez. 3, n. 46043 del 20/03/2018, Rv. 274519).

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LA SENTENZA PER ESTESO

Cassazione penaleSez. VIsentenza n. 37628 del 11 settembre 2019

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

 

SEZIONE SESTA PENALE

 

Sentenza 7 febbraio – 9 maggio 2019, n. 19922

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETRUZZELLIS Anna – Presidente –

Dott. CALVANESE Ersilia – Consigliere –

Dott. APRILE Ercole – Consigliere –

Dott. DE AMICIS Gaetano – Consigliere –

Dott. ROSATI Martino – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

 

SENTENZA


sul ricorso proposto da:

G.D., nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza emessa il 19/06/2018 dalla Corte di appello di Roma;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Martino Rosati;

udito il Pubblico Ministero, nella persona del Sostituto Procuratore Generale, Dott. Tampieri Luca, che ha concluso chiedendo di dichiarare inammissibile il ricorso;

udito il difensore della parte civile L.V.N., avv. Antonella Faieta, che ha depositato conclusioni scritte e nota spese, chiedendo di dichiarare inammissibile il ricorso;

udito il difensore dell’imputato, avv. Carla Giordano, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.


Svolgimento del processo


  1. La Corte di appello di Roma, con sentenza del 19 giugno 2018, ha confermato la condanna di G.D. per i delitti di maltrattamenti e lesioni personali dolose aggravati, commessi in danno di L.V.N., pronunciata dal Tribunale di Roma con sentenza del 10 luglio 2017.

    2. Impugna la sentenza d’appello l’imputato, per il tramite del suo difensore, chiedendone l’annullamento, sulla base dei seguenti motivi.

    2.1. Difetto di motivazione – ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), – in relazione alla inattendibilità delle dichiarazioni della persona offesa, peraltro non supportate da alcun riscontro.

    La Corte di appello, nonostante la specifica deduzione nei motivi di gravame, avrebbe omesso di soffermarsi su aspetti decisivi ai fini della svalutazione di tali dichiarazioni, ovvero: a) sulle affermazioni della zia di costei, M.F., dalle quali emergerebbe che il comportamento della ragazza fosse peggiorato già prima di conoscere l’imputato; b) sulle aggressioni fisiche compiute dalla persona offesa ai danni dell’imputato; c) sul fatto che ella indossasse sempre i medesimi vestiti non per volontà di quest’ultimo, bensì perchè la propria madre le aveva impedito di accedere all’abitazione familiare; d) sul protrarsi della convivenza soprattutto per volontà di lei, avendo G. più volte tentato di allontanarla da casa; e) sulla circostanza per cui, in occasione di una delle aggressioni riferite, ella, anzichè chiamare le forze dell’ordine od i familiari, si sia limitata a postare l’immagine del proprio dito insanguinato su “Facebook”.

    2.2. Erronea applicazione della legge penale e vizio di motivazione – ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), – con riferimento all’art. 572 c.p..

    La Corte avrebbe errato, e comunque non ha compiutamente assolto al proprio onere di motivazione, laddove è giunta a ritenere sussistente tale reato, nonostante: a) non vi fosse un rapporto di supremazia dell’imputato sulla querelante e le aggressioni fossero reciproche; b) non vi fosse, tra costoro, un rapporto di tipo familiare, mancando un comune progetto di vita.

    3. Nel termine assegnato dall’art. 525 c.p.p., comma 4, ha depistato in cancelleria memoria scritta la difesa della parte civile, rappresentando la completezza e la coerenza logica dell’impugnata sentenza, e perciò chiedendo il rigetto del ricorso.

Motivi della decisione


  1. Entrambi i motivi di ricorso sono manifestamente destituiti di fondamento.

    2. Con il primo, si chiede alla Corte sostanzialmente una rivalutazione in fatto delle emergenze istruttorie.

    2.1. In tema di sindacato del vizio della motivazione, però, il compito del giudice di legittimità non è quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito in ordine all’affidabilità delle fonti di prova, bensì di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (Sez. U, n. 930 del 13/12/1995, Clarke, Rv. 203428). Ne consegue che non sono sindacabili in sede di legittimità, se non entro gli appena esposti limiti, la valutazione del giudice di merito circa eventuali contrasti testimoniali o la sua scelta tra divergenti versioni e interpretazioni dei fatti (Sez. 5, n. 51604 del 19/09/2017, Rv. 271623).

    Peraltro, l’illogicità della motivazione, censurabile a norma dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), è soltanto quella evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, senza possibilità, per la Corte di cassazione, di verificare la rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali (Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003, Petrella, Rv. 226074).

    Da tanto consegue, in particolare, che minime incongruenze argomentative o l’omessa esposizione di elementi di valutazione, che il ricorrente ritenga tali da determinare una diversa decisione, ma che non siano inequivocabilmente munite di un chiaro carattere di decisività, non possono dar luogo all’annullamento della sentenza, posto che non costituisce vizio della motivazione qualunque omissione valutativa che riguardi singoli dati estrapolati dal contesto (Sez. 2, n. 9242 del 08/02/2013, Rv. 254988). Soltanto l’esame del complesso probatorio, dunque, entro il quale ogni elemento sia contestualizzato, consente di verificare la consistenza e la decisività degli elementi medesimi oppure la loro ininfluenza ai fini della compattezza logica dell’impianto argomentativo della motivazione, sì da poter condurre all’annullamento della sentenza solo quando, per effetto di tale verifica, risulti disarticolato uno degli essenziali nuclei di fatto che sorreggono l’impianto della decisione. (Sez. 1, n. 46566 del 21/02/2017, Rv. 271227).

    2.2. Tanto premesso, non possono residuare dubbi sulla tenuta logica dell’impugnata sentenza.

    Le circostanze evidenziate dalla difesa ricorrente rappresentano mere spigolature, tranquillamente conciliabili con i comportamenti maltrattanti dell’imputato, messi in luce dalle conformi sentenze di condanna, e, perciò, non idonee ad incidere sulla solidità logica dell’impianto motivazionale.

    Il quale – giova ricordarlo – poggia non solamente sulle dichiarazioni della persona offesa, ma anche su quelle di suoi parenti e di terzi estranei al nucleo familiare ( S., G., C.), nonchè su certificati medici, fotografie, messaggi “Facebook” e relazioni di servizio, redatte dagli operatori di polizia in occasione di vari interventi. Ond’è che completamente infondata si rivela la doglianza relativa all’inattendibilità della persona offesa ed alla mancanza di riscontri alle sue accuse.

    3. Anche il secondo motivo, come s’è anticipato, è del tutto infondato.

    3.1. In tema di maltrattamenti in famiglia, l’art. 572 c.p., è applicabile non solo ai nuclei familiari fondati sul matrimonio, ma a qualunque relazione sentimentale che, per la consuetudine dei rapporti creati, implichi l’insorgenza di vincoli affettivi e aspettative di assistenza assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale (Sez. 6, n. 31121 del 18/03/2014, Rv. 261472). Ragione per cui il delitto è configurabile anche quando manchi una stabile convivenza e sussista, con la vittima degli abusi, un rapporto familiare di mero fatto, caratterizzato dalla messa in atto di un progetto di vita basato sulla reciproca solidarietà ed assistenza (Sez. 6, n. 22915 del 07/05/2013, Rv. 255628.).

    Con riferimento alla vicenda in esame, è sufficiente allora evidenziare che come emerge pacificamente dall’impugnata sentenza, incontroversa per questa parte – l’imputato e la parte civile, oltre ad avere intrattenuto una relazione sentimentale, hanno convissuto nella stessa abitazione per circa dieci mesi.

    3.2. Quanto, poi, al diverso profilo dell’asserita reciprocità delle condotte aggressive, va anzitutto osservato che – stando alla narrativa della sentenza impugnata – esso non risulta essere stato dedotto in appello: sicchè, già solo per questo, il relativo motivo, per questa parte, si esporrebbe a censure di inammissibilità.

    In ogni caso, tale doglianza non ha giuridico fondamento, in quanto, in tema di maltrattamenti in famiglia, lo stato di inferiorità psicologica della vittima non deve necessariamente tradursi in una situazione di suo completo abbattimento, potendo consistere anche in un avvilimento generale conseguente alle vessazioni patite, senza che sporadiche reazioni vitali ed aggressive da parte della stessa possano escluderne lo stato di soggezione, a fronte di soprusi abituali (Sez. 3, n. 46043 del 20/03/2018, Rv. 274519).

    4. Sulla scorta di tali considerazioni, il ricorso va dichiarato inammissibile.

    Da tanto consegue – ai sensi dell’art. 616, c.p.p. – la condanna del proponente alle spese del procedimento ed al pagamento di una somma in favore della Cassa delle Ammende, non ravvisandosi una sua assenza di colpa nella determinazione della causa d’inammissibilità (vds. Corte Cost., sent. n. 186 del 13 giugno 2000). Detta somma, considerando la manifesta assenza di pregio degli argomenti addotti, va fissata in duemila Euro.

    5. A norma dell’art. 592 c.p.p., il ricorrente, in quanto integralmente soccombente, va altresì condannato alla rifusione delle spese di giudizio sostenute dalla costituita parte civile, le quali, essendo quest’ultima ammessa al patrocinio per i non abbienti, saranno liquidate dal giudice di merito che ha pronunciato la sentenza (D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 83, comma 2) e debbono essere pagate in favore dello Stato anticipatario (art. 110, comma 3, D.P.R. cit.).

P.Q.M.


Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle ammende.

Condanna, inoltre, l’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà separatamente liquidata dal giudice di merito, disponendo il pagamento di tali spese in favore dello Stato.


Così deciso in Roma, il 7 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 9 maggio 2019.

 

Originally posted 2021-06-23 17:56:20.

DIFFAMAZIONE SU FACEBOOK DANNI RISARCIMENTO TRIB BOLOGNA

 

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IMPORTANTE SENTENZA TRIBUNALE DI BOLOGNA DIFFAMAZIONE FACEBOOK

 

 

 

la Cassazione ha espressamente riconosciuto la possibilità che il reato di diffamazione possa essere commesso a mezzo internet, configurando la propagazione tramite Facebook un’ipotesi che integra quale aggravante quella di cui al terzo comma del menzionato articolo.

La diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca Facebook integra l’ipotesi aggravata menzionata trattandosi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di soggetti. Un’aggravante che trova la sua ratio nella idoneità del mezzo utilizzato che determina una rapida pubblicizzazione e diffusione (Cassazione penale, sez. I, 28/04/2015, n. 24431; Cassazione penale, sez. V., 13/07/2015, n. 8328). Questo si traduce, sul piano penale e per espressa previsione del legislatore, in un aumento della pena.

Sul piano civile, ciò andrà verosimilmente a potenziare l’ingiustizia del danno, posto che l’utilizzo del mezzo internet comporta una diffusione della notizia diffamatoria ben più ampia e potenzialmente idonea a raggiungere un numero indeterminato di individui.

Vero è che la tutela della reputazione personale e dell’onore, bene giuridico presidiato dal perseguimento delle condotte diffamatorie, deve molto spesso trovare un adeguato bilanciamento con un altro diritto fondamentale, ossia quello di manifestazione del libero pensiero, in tutte le sue specifiche declinazioni, quali il diritto di critica e il diritto di cronaca, che trovano un preciso addentellato costituzionale nell’art. 21 Cost. L’impossibile coesistenza di entrambe le tutele, in alcune occasioni, impone all’ordinamento, all’esito di un bilanciamento tra i valori in gioco, di decidere quale dei due diritti deve considerarsi prevalente, sacrificando l’altro. Ciò avviene attraverso l’operatività di vere e proprie esimenti che, in una data situazione, elidono l’antigiuridicità di una condotta altrimenti rilevante.

 

 

 

 

 

Al riguardo, preme evidenziare che non possa essere condiviso l’assunto per cui il danno non patrimoniale da lesione dell’immagine e della reputazione sia un danno ” in re ipsa”, ciò contrastando con l’attuale, e ormai consolidatosi (a partire dalle pronunce delle Sezioni Unite del 2008: si vada segnatamente, Cass., Il novembre 2008, n. 26972, sino alla recente Cass., sez. un., 22 luglio 2015, n. 15350), orientamento che esclude, in ogni caso, la sussistenza di un danno non patrimoniale ” in re ipsa”, sia che esso derivi da reato (Cass., 12 aprile 2011, n. 8421), sia che sia contemplato come ristoro tipizzato dal legislatore (in tema di tutela della privacy: Cass., 26 settembre 2013, n. 22100; Cass., 15 luglio 2014, n. 16133; in tema di equa riparazione per durata irragionevole del processo: Cass., 26 maggio 2009, n. 12242), sia, infine, che derivi dalla lesione di diritti costituzionalmente garantiti, e, tra questi, il diritto all’immagine (anche di enti collettivi: Cass., 13 ottobre 2016, n. 20643) e, segnatamente, il diritto all’onore ed alla reputazione della persona fisica (Cass., 18 novembre 2014, n. 24474). Le conclusioni che precedono traggono alimento dal superamento della teorica del c.d. “danno evento”, elaborata compiutamente, come è noto, dalla sentenza n. 184 del 1986 della Corte costituzionale in tema di danno biologico e oggetto di revirement da parte della stessa Corte Costituzionale con la sentenza n. 372 del 1994. Orbene, il danno risarcibile, nella sua attuale ontologia giuridica, segnata dalla norma dell’art. 2043 c.c., cui è da ricondurre la struttura stessa dell’illecito aquiliano, non si identifica con la lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento, ma con le conseguenze di tale lesione (Cass. n. 16133 del 2014). Detta ricostruzione muove anzitutto dal riconoscimento che l’art. 2059 c.c. non disciplina una autonoma fattispecie di illecito, distinta da quella di cui all’art. 2043 c.c., ma si limita a disciplinare i limiti e le condizioni di risarcibilità dei pregiudizi non patrimoniali, sul presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito richiesti dal citato art. 2043, senza differenziazioni in termini di prova (cfr. Cass., sez. un. n. 26972 del 2008, cit.). Ne consegue che la sussistenza del danno non patrimoniale, quale conseguenza pregiudizievole (ossia, una perdita ai sensi dell’art. 1223 cod. civ., quale norma richiamata dall’art. 2056 c.c.) di una lesione suscettibile di essere risarcita, deve essere oggetto di allegazione e di prova, sebbene, a tale ultimo fine, possano ben utilizzarsi anche le presunzioni semplici, là dove, proprio in materia di danno causato da diffamazione, idonei parametri di riferimento possono rinvenirsi, tra gli altri, dalla diffusione dello scritto, dalla rilevanza dell’offesa e dalla posizione sociale della vittima (si veda, in tema di diffamazione a mezzo stampa Cass. n. 13153 del 2017). Ciò posto, dunque, la oggettiva difficoltà di tradurre in termini monetari una entità (ossia il danno non patrimoniale) che non può essere stimata sulla base di criteri economici specifici, consente al giudice di applicare una valutazione necessariamente equitativa e ciò sulla base della espressa previsione codicistica, di cui all’art. 1226 c.c.. Pertanto, alla luce di tutte le circostanze del caso concreto debitamente considerate a tale fine nella specie, quali la diffusione dello scritto attraverso il social network Facebook idoneo a diffondere il messaggio pubblicato, l’intrinseca rilevanza dell’offesa all’immagine dell’azienda e alla reputazione professionale degli attori, il numero di destinatari qualificati raggiunti, la qualità di concorrente sul mercato del soggetto diffamante, si ritiene equo riconoscere la somma complessiva pari a euro 15.000,00 a titolo di risarcimento del danno all’immagine patito da parte attrice (5.000,00 per ciascuno degli attori). Dal momento della sentenza e sino all’effettivo soddisfo dovranno essere corrisposti, sul totale sopra liquidato all’attualità, gli ulteriori interessi al tasso legale.

 

 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE ORDINARIO DI BOLOGNA
TERZA SEZIONE CIVILE

Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Cinzia Gamberini ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 13362/2017 promossa da:

F.T.S.R.L., con il patrocinio dell’avv. P. M., elettivamente domiciliato in XX 4 40123 BOLOGNA presso il difensore avv. P. M.
G. G., con il patrocinio dell’avv. P. M., elettivamente domiciliato in XX 4 40123 BOLOGNA presso il difensore avv. P. M. F. G., con il patrocinio dell’avv. P. M., elettivamente domiciliato in XX 4 40123 BOLOGNA presso il difensore avv. P. M.

ATTORI

Contro

  1. B., con il patrocinio dell’avv. M. S., elettivamente domiciliato in VIA X N. 43 40100 BOLOGNA presso il difensore avv. M. S.

CONVENUTO

CONCLUSIONI

Le parti hanno concluso come segue

Per F. T. S.R.L., per G. G., per F. G.: “Voglia l’Ill. mo Giudice adito, ogni contraria istanza ed eccezione disattesa: – accertare la condotta diffamatoria posta in essere dal sig. M. B. nei confronti degli attori per le ragioni esposte in narrativa e per effetto della pubblicazione su Facebook del post prodotto come doc. 10; – condannare il convenuto a risarcire, a F. T. s.r.l. e ai sig. ri G. e F. G., tutti i danni patiti, patrimoniali e non, nessuno escluso; – per l’effetto, condannare il sig. M. B. a pagare l’importo di 8.000,00 (ottomila) cadauno ai sigg. F. e G. G. ed 10.000,00 (diecimila) a F. T. s.r.l., ovvero la diversa somma che sarà ritenuta dovuta, anche in via equitativa, all’esito del giudizio, oltre rivalutazione monetaria ed interessi ex art. 1284, comma IV, c.c. dalla domanda al saldo; – disporre la pubblicazione dell’emananda sentenza di condanna, anche ex art. 2058 c.c. e 120 c.p.c., a cura degli attori ed a spese del convenuto, per una volta e per estratto di “Il Resto del Carlino”, edizione domenicale di Bologna con caratteri doppi rispetto a quelli normali di stampa; – condannare il sig. M. B. a rifondere, agli attori, le spese del presente giudizio nonché del procedimento di mediazione”.

  1. M. B. “L’Ill. mo Tribunale adito voglia, in via principale, respingere le domande attoree e le richieste per i motivi suesposti in quanto infondate in fatto e/o in diritto e/o non provate e/o sprovviste di nesso di causalità. In ogni caso, con vittoria di spese, diritti, onorari, Iva e CPA come per legge”.

Concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione

Con atto di citazione notificato in data 04.08.2017, la F. T. S.r.l. – già W. s.r.l., società nata nel 2007 all’interno del gruppo T. di Bologna con l’obiettivo di sviluppare il mercato della bicicletta elettrica – ed i signori G. F. e G. G. in proprio, convenivano il signor B. M. innanzi il Tribunale di Bologna per sentir accertare la condotta diffamatoria da questi posta in essere ed ottenere la condanna del convenuto al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, conseguenti alla lesione del loro diritto alla reputazione e all’immagine, quantificati in € 8.000,00 (ciascuno) per i signori F. G. e G. G. e in € 10.000,00 per la F. T. s.r.l., ovvero nella diversa somma ritenuta di giustizia, anche in via equitativa, oltre rivalutazione monetaria ed interessi ex art. 1284 comma IV, c.c. dalla domanda al saldo. Chiedevano, inoltre, disporre la pubblicazione dell’emananda sentenza di condanna, a cura degli attori ed a spese del convenuto, per una volta e per estratto su “Il Resto del Carlino”, edizione domenicale di Bologna, con caratteri doppi rispetto a quelli normali di stampa.

Si costituiva nel presente giudizio il signor M. B. il quale confutava e contestava quanto dedotto e prodotto ed insisteva nella reiezione delle domande avversarie.

Assegnati i termini di cui all’art. 183, comma VI, c.p.c., all’udienza in data 08.05.2018, il Giudice rigettava le istanze istruttorie formulate dalle parti e rinviava all’udienza in data 07.03.2019 ove tratteneva la causa in decisione, assegnando i termini di cui all’art. 190 c.p.c.. *** Le pretese di parte attrice sono fondate e devono essere accolte, seppure solo parzialmente in relazione al quantum di danno lamentato, per le ragioni che seguono.

In genere: cenni sulla disciplina in materia di diffamazione.

Ai fini di un migliore inquadramento della vicenda oggetto di causa, si ritiene utile ripercorrere sinteticamente la regolamentazione delle fattispecie di diffamazione, cui l’ordinamento nel suo complesso attribuisce un evidente disvalore, sia sul piano penale, con la previsione di una specifica ipotesi di reato, ex art. 595 c.p., sia sul piano civile quale condotta evidentemente integrativa di fatto illecito, ai sensi dell’art. 2043. 5 o Comune a entrambi i piani è il significato di condotta diffamatoria, esplicitato invero solo nel codice penale, laddove si punisce la condotta di chi, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione. Se la comunicazione avviene a mezzo stampa o, come nel caso di specie, a mezzo internet, l’offesa si ritiene ancora più pregnante.

Infatti, la Cassazione ha espressamente riconosciuto la possibilità che il reato di diffamazione possa essere commesso a mezzo internet, configurando la propagazione tramite Facebook un’ipotesi che integra quale aggravante quella di cui al terzo comma del menzionato articolo.

La diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca Facebook integra l’ipotesi aggravata menzionata trattandosi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di soggetti. Un’aggravante che trova la sua ratio nella idoneità del mezzo utilizzato che determina una rapida pubblicizzazione e diffusione (Cassazione penale, sez. I, 28/04/2015, n. 24431; Cassazione penale, sez. V., 13/07/2015, n. 8328). Questo si traduce, sul piano penale e per espressa previsione del legislatore, in un aumento della pena.

Sul piano civile, ciò andrà verosimilmente a potenziare l’ingiustizia del danno, posto che l’utilizzo del mezzo internet comporta una diffusione della notizia diffamatoria ben più ampia e potenzialmente idonea a raggiungere un numero indeterminato di individui.

Vero è che la tutela della reputazione personale e dell’onore, bene giuridico presidiato dal perseguimento delle condotte diffamatorie, deve molto spesso trovare un adeguato bilanciamento con un altro diritto fondamentale, ossia quello di manifestazione del libero pensiero, in tutte le sue specifiche declinazioni, quali il diritto di critica e il diritto di cronaca, che trovano un preciso addentellato costituzionale nell’art. 21 Cost. L’impossibile coesistenza di entrambe le tutele, in alcune occasioni, impone all’ordinamento, all’esito di un bilanciamento tra i valori in gioco, di decidere quale dei due diritti deve considerarsi prevalente, sacrificando l’altro. Ciò avviene attraverso l’operatività di vere e proprie esimenti che, in una data situazione, elidono l’antigiuridicità di una condotta altrimenti rilevante.

In questo senso il diritto di critica e di cronaca, se esercitati con le modalità e nei limiti previsti, sono idonei a conferire legittimità a una condotta che, in astratto, potrebbe integrare un illecito, ad esempio perché lesiva della reputazione altrui.

Come accennato, tuttavia, l’operatività di tali esimenti non è illimitata.

Il diritto di critica e di cronaca deve essere esercitato nel rispetto dei principi di verità, di pertinenza e di continenza. Non solo. A questi stessi limiti si assegna una accezione in parte diversa, più o meno restrittiva, a seconda che si parli specificamente di diritto di critica o di diritto di cronaca.

In particolare, nel diritto di critica, il principio di verità assume un rilievo più limitato e affievolito rispetto al diritto di cronaca, in quanto la critica, per sua natura, sottende espressioni meramente soggettive, relative non tanto alla narrazione di un fatto storico quanto piuttosto alle opinioni che l’individuo ha di questo, senza che possa pretendersi una valutazione rigorosamente obiettiva.

  1. diverso è invece il diritto di cronaca, inteso quale diritto a informare e ad essere informati, che trova soprattutto nel “principio di verità”un presupposto ma anche un limite del suo esercizio. Ed infatti la finalità propria della cronaca è quella di riferire non mere opinioni personali ma notizie di accadimenti, che debbono in ogni caso rivestire un pubblico interesse.

Si deve poi rammentare che, qualora si ritenga integrata una condotta diffamatoria, le pretese risarcitorie avanzate dal danneggiato a ristoro del danno all’immagine che si ritiene subito, devono sempre essere sostenute da prove adeguate sulla effettiva verificazione di un apprezzabile pregiudizio.

 Non è pertanto ammissibile una presunzione assoluta iuris et de iure per il solo fatto dell’accertamento di una condotta diffamatoria.

Nondimeno, la prova del danno non patrimoniale all’immagine può essere data anche per presunzioni, sulla base però di una complessiva valutazione di precisi elementi di fatto dedotti in causa (ex plurimis, Cassazione civile, n. 28457/2008), potendosi in questo modo giungere a una valutazione anche in via equitativa dell’ammontare del risarcimento, stante l’obiettiva difficoltà in questi casi di una determinazione specifica.

2.Il caso di specie.

L’an.

Il fatto che ha dato origine alla presente controversia consiste nella pubblicazione, in data 26.09.2015, da parte del signor M. B. sulla pagina Facebook della W. s.r.l. (oggi F. T. s.r.l.) -che, all’epoca, riportava un annuncio promozionale relativo alla bicicletta elettrica modello “Trilogia” rappresentando agli utenti la possibilità di usufruire fino a 300,00 di sconto – di un “post”del seguente contenuto: “Ma perché la W. invece che ostinarsi a chiudere bilanci in passivo da circa 6 anni e offrire incentivi con denaro pubblico non regala qualche bicicletta alla nuova velostazione di Bologna, e da un contributo e un sostegno alla mobilità pubblica invece che succhiare denaro ? …Dai F. meno mi piace …Al buon giatti!” Ad avviso di questo giudicante non può revocarsi in dubbio che il post scritto dal convenuto sulla pagina Facebook della W., – il cui contenuto essenziale si è integralmente riportato – assuma una portata lesiva dell’immagine della W. stessa e della reputazione dei suoi titolari, G. G. e F. G., fornendo al pubblico interessato dall’annuncio promozionale dell’azienda una rappresentazione della W. come una società in perdita da anni, che “succhia” denaro pubblico e che inganna i suoi clienti spacciando incentivi del Comune come propri sconti.

Tali affermazioni risultano denigratorie di per sé stesse e, ancor più, ove non corrispondenti al vero, come nel caso di specie.

Parte attrice ha, infatti, documentato la falsità della circostanza stigmatizzata dal signor M. B. con il “post” di cui si discute, ossi che la W. offrisse gli incentivi riferiti nell’annuncio promozionale commentato da B. utilizzando denaro pubblico, atteso che: “- il Comune di Bologna aveva previsto un contributo a favore degli utilizzatori finali per l’acquisto di qualsiasi bicicletta a pedalata assistita” (Doc. 18); – W. aveva, autonomamente, disposto un proprio distinto sconto ad hoc (Doc. 19), pubblicizzato sulla pagina F., che andava ad aggiungersi e cumularsi al contributo del Comune.

Le azioni attribuite dal signor B. a W. (“offrire incentivi con denaro pubblico” E “succhiare denaro pubblico”) sono quindi non veritiere e lesive dell’immagine dell’azienda.

Inoltre, il post risulta denigratorio anche nella parte in cui il signor B. domanda, in maniera canzonatoria, perché la W. si ostini a chiudere bilanci in passivo da circa 6 anni”. “Per sostenere la veridicità di tale affermazione il convenuto ha riferito in atti che la W. si trovava già da anni in stato di decozione e che, a fine 2015, è stata incorporata per fusione e quindi cancellata.. per effetto della gestione fallimentare (cfr. memoria B. ex art. 183, comma VI, n. 2 c.p.c.). Anche tali affermazioni non appaiono veritiere – alla luce della documentazione e delle considerazioni svolte da parte attrice, che ha spiegato come le perdite di esercizio, per una start-up in un settore altamente innovativo siano del tutto normali nel periodo iniziale, richiedendosi rilevanti investimenti e dovendosi attendere risultati positivi nel medio, lungo periodo -, ed esposte in violazione del limite della continenza.

Peraltro, a smentita della gestione fallimentare riferita dal convenuto, parte attrice ha prodotto il n. del catalogo 2018 W., da cui si evince che la società attrice è in sviluppo e continuità e lanciare nuovi e più evoluti modelli di e-bike (Doc. 25), Quanto immediatamente precede conduce questo giudice a ritenere che il descritto “post” leda l’immagine e la reputazione degli attori, integrando l’elemento materiale della fattispecie diffamatoria.

In relazione, poi, alla sussistenza dell’elemento soggettivo, come noto è necessario e sufficiente che ricorra il dolo generico, anche nelle forme del dolo eventuale, cioè la consapevolezza di offendere l’immagine e la reputazione altrui, la quale, nel caso di specie, si può desumere dalla intrinseca consistenza diffamatoria delle espressioni usate.

In ordine al riconoscimento dell’esimente del diritto di critica, si osserva che il contenuto del commento appare esorbitante rispetto ai limiti di una opinione genuina, continente e costruttiva.

Sul punto si è osservato che “il diritto di critica si concretizza in un giudizio valutativo che postula l’esistenza del fatto assunto ad oggetto o spunto del discorso critico ed una forma espositiva non ingiustificatamente sovrabbondante rispetto al concetto da esprimere, e, conseguentemente, esclude la punibilità di coloriture ed iperboli, toni aspri o polemici, linguaggio figurato o gergale, purché tali modalità espressive siano proporzionate e funzionali all’opinione o alla protesta, in considerazione degli interessi e dei valori che si ritengono compromessi” (Cass., sez. 1, n. 36045 del 13/06/2014 – dep. 20/08/2014, P.M. in proc. Surano, Rv. 261122). Invero, l’ambito di operatività di tale diritto nei delitti contro l’onore è stato oggetto di molteplici statuizioni della giurisprudenza. Si è così stabilito che, pur assumendo il requisito della verità del fatto un rilievo affievolito rispetto alla diversa incidenza che esso svolge sul versante del diritto di cronaca (Sez. 5, n. 4938/11 del 28/10/2010, S., Rv. 249239), è tuttavia indispensabile che sia rispettato un nucleo di veridicità (Sez. 5, n. 43403 del 18/06/2009, R., Rv. 245098), posto che nessuna interpretazione soggettiva, che sia fonte di discredito per la persona che ne è investita, può ritenersi rapportabile al lecito esercizio del diritto di critica quando tragga le sue premesse da una prospettazione dei fatti opposta alla verità (Sez. 5, n. 7419/10 del 03/12/2009, C., Rv. 246096). Tali principi hanno trovato applicazione anche nel caso di specie, tanto è vero che, in data 14.03.2016, il Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale di Bologna ha emesso decreto penale di condanna n. 892/2016 nei confronti del sig. B. per il reato di diffamazione aggravata (Doc. 16 fasc. att.). 3. Il quantum Tanto puntualizzato in ordine all’integrazione degli elementi costitutivi della fattispecie diffamatoria, occorre accertare la consistenza dei pregiudizi patiti dagli attori in conseguenza della pubblicazione lesiva.

Al riguardo, preme evidenziare che non possa essere condiviso l’assunto per cui il danno non patrimoniale da lesione dell’immagine e della reputazione sia un danno ” in re ipsa”, ciò contrastando con l’attuale, e ormai consolidatosi (a partire dalle pronunce delle Sezioni Unite del 2008: si vada segnatamente, Cass., Il novembre 2008, n. 26972, sino alla recente Cass., sez. un., 22 luglio 2015, n. 15350), orientamento che esclude, in ogni caso, la sussistenza di un danno non patrimoniale ” in re ipsa”, sia che esso derivi da reato (Cass., 12 aprile 2011, n. 8421), sia che sia contemplato come ristoro tipizzato dal legislatore (in tema di tutela della privacy: Cass., 26 settembre 2013, n. 22100; Cass., 15 luglio 2014, n. 16133; in tema di equa riparazione per durata irragionevole del processo: Cass., 26 maggio 2009, n. 12242), sia, infine, che derivi dalla lesione di diritti costituzionalmente garantiti, e, tra questi, il diritto all’immagine (anche di enti collettivi: Cass., 13 ottobre 2016, n. 20643) e, segnatamente, il diritto all’onore ed alla reputazione della persona fisica (Cass., 18 novembre 2014, n. 24474). Le conclusioni che precedono traggono alimento dal superamento della teorica del c.d. “danno evento”, elaborata compiutamente, come è noto, dalla sentenza n. 184 del 1986 della Corte costituzionale in tema di danno biologico e oggetto di revirement da parte della stessa Corte Costituzionale con la sentenza n. 372 del 1994. Orbene, il danno risarcibile, nella sua attuale ontologia giuridica, segnata dalla norma dell’art. 2043 c.c., cui è da ricondurre la struttura stessa dell’illecito aquiliano, non si identifica con la lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento, ma con le conseguenze di tale lesione (Cass. n. 16133 del 2014). Detta ricostruzione muove anzitutto dal riconoscimento che l’art. 2059 c.c. non disciplina una autonoma fattispecie di illecito, distinta da quella di cui all’art. 2043 c.c., ma si limita a disciplinare i limiti e le condizioni di risarcibilità dei pregiudizi non patrimoniali, sul presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito richiesti dal citato art. 2043, senza differenziazioni in termini di prova (cfr. Cass., sez. un. n. 26972 del 2008, cit.). Ne consegue che la sussistenza del danno non patrimoniale, quale conseguenza pregiudizievole (ossia, una perdita ai sensi dell’art. 1223 cod. civ., quale norma richiamata dall’art. 2056 c.c.) di una lesione suscettibile di essere risarcita, deve essere oggetto di allegazione e di prova, sebbene, a tale ultimo fine, possano ben utilizzarsi anche le presunzioni semplici, là dove, proprio in materia di danno causato da diffamazione, idonei parametri di riferimento possono rinvenirsi, tra gli altri, dalla diffusione dello scritto, dalla rilevanza dell’offesa e dalla posizione sociale della vittima (si veda, in tema di diffamazione a mezzo stampa Cass. n. 13153 del 2017). Ciò posto, dunque, la oggettiva difficoltà di tradurre in termini monetari una entità (ossia il danno non patrimoniale) che non può essere stimata sulla base di criteri economici specifici, consente al giudice di applicare una valutazione necessariamente equitativa e ciò sulla base della espressa previsione codicistica, di cui all’art. 1226 c.c.. Pertanto, alla luce di tutte le circostanze del caso concreto debitamente considerate a tale fine nella specie, quali la diffusione dello scritto attraverso il social network Facebook idoneo a diffondere il messaggio pubblicato, l’intrinseca rilevanza dell’offesa all’immagine dell’azienda e alla reputazione professionale degli attori, il numero di destinatari qualificati raggiunti, la qualità di concorrente sul mercato del soggetto diffamante, si ritiene equo riconoscere la somma complessiva pari a euro 15.000,00 a titolo di risarcimento del danno all’immagine patito da parte attrice (5.000,00 per ciascuno degli attori). Dal momento della sentenza e sino all’effettivo soddisfo dovranno essere corrisposti, sul totale sopra liquidato all’attualità, gli ulteriori interessi al tasso legale.

A diverse conclusioni si deve giungere con riferimento al danno patrimoniale lamentato e dipendente, in tesi attorea, dalla disincentivazione all’acquisto da parte degli utenti Facebook raggiunti dal “post” pubblicato dal convenuto. Con riferimento a tale danno, nessuna prova concreta è stata offerta dagli attori, neppure in termini di calo di fatturato a seguito della pubblicazione del “post” diffamatorio. Ne consegue il mancato riconoscimento del danno patrimoniale.

Quanto, infine, alla richiesta di pubblicazione della sentenza su quotidiano locale, ritiene il giudicante che della pubblicità, soprattutto in considerazione del tempo trascorso dai fatti di causa, non possa, nel caso di specie, in alcun modo contribuire a riparare il danno subito. La domanda deve, pertanto, essere rigettata.

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e vanno, dunque, poste a carico di parte convenuta, liquidate in 341,77 per spese, 5.255,00 per compensi professionali, oltre rimborso forfetario spese generali ex art. 2 D.MN. 55/2014, I.V.A. e C.P.A. come per legge.

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni diversa istabza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone: 1) Dichiara tenuto e condanna il signor M. B., per i titoli di cui in motivazione, al pagamento in favore di F. T. s.r.l., G. G. e F. G., della somma di euro 15.000,00 (5.000,00 ciascuno), oltre interessi legali dalla data della presente sentenza al saldo definitivo.

2) Rigetta ogni altra domanda.

3 ) Condanna il convenuto al pagamento, in favore degli attori in solido tra loro, delle spese del presente procedimento, liquidate in 341, 77 per spese, 5.255,00 per compenso professionale, oltre rimborso forfetario spese generali ex art. 2 D.M. 55/2014, I.V.A. e C.P.A. come per legge.

Bologna, 05/07/2019

Il Giudice
dott. Cinzia Gamberini

 

 

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Originally posted 2019-12-06 11:22:20.

 

Proprieta’ – Limitazioni legali della proprieta’ – Rapporti di vicinato – Distanze legali (nozione) – Azione giudiziaria per il rispetto delle – Poteri del giudice – Risarcimento del danno – In genere liquidazione del danno in caso di demolizione dell’opera – Riferimento al pregiudizio transitorio e non al diminuito valore di mercato – Necessità – Fondamento. Proprietà – Limitazioni legali della proprietà – Rapporti di vicinato – Aperture (finestre) – Veduta – Servitù di veduta – In genere – Muro divisorio – Idoneità all’esercizio di una servitù di veduta – Esclusione – Fondamento. Proprietà – Limitazioni legali della proprietà – Rapporti di vicinato – Distanze legali – Nelle costruzioni – In genere – Volume tecnico – Nozione – Piano urbanistico del comprensorio della vallagarina – Silos – Configurabilità come volumi tecnici – Esclusione.

Avvocato Bologna civilista per ogni vicenda condominiale che possa aver causato dissidi e liti coi tuoi vicini, condomini o confinanti; ad esempio rumori esagerati e molesti in giorni o ore inopportune, infiltrazioni ed allagamenti da soffitti e pareti che deturpano le tua proprietà,

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Oppure un uso improprio degli spazi comuni per parcheggi di veicoli o spazzatura, piante invadenti su spazi privati, animali domestici che minacciano o disturbano la tua serenità

In tema di distanze legali tra fabbricati, integra la nozione di “volume tecnico”, non computabile nella volumetria della costruzione, solo l’opera edilizia priva di alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinata a contenere impianti serventi – quali quelli connessi alla condotta idrica, termica o all’ascensore – di una costruzione principale per esigenze tecnico funzionali dell’abitazione e che non possono essere ubicati nella stessa. Pertanto, nella nozione di “volumi tecnici” di cui all’art. 10, comma 10, del piano urbanistico del comprensorio della Vallagarina, che stabilisce le distanze dai confini e dalle costruzioni limitatamente ai fabbricati, con riferimento a strutture destinate a funzioni complementari e integrative di tipo tecnico, non rientrano i silos, che costituiscono autonome costruzioni tecnologicamente predisposte alla conservazione e allo stoccaggio di prodotti alimentari o minerali.

Proprieta’ – Limitazioni legali della proprieta’ – Rapporti di vicinato – Immissioni – Azione contro le immissioni illecite – Poteri del giudice – In genere accertamento – Fatti sopravvenuti nelle more del giudizio – Adozione di accorgimenti tecnici – Cessazione parziale dell’attività – Obbligo del giudice di tenerne conto – Conseguenze.

In tema di azione diretta alla cessazione delle immissioni, i fatti sopravvenuti nel corso del processo, incidendo sul livello di tollerabilità delle stesse e quindi su una condizione dell’azione, devono essere presi in considerazione dal giudice al momento della decisione e, qualora la consulenza tecnica di ufficio espletata non ne abbia tenuto conto, il giudice, a fronte di specifiche e circostanziate critiche mosse alla stessa, deve disporre una nuova consulenza, anche al fine di valutare l’idoneità dell’adozione di misure meno afflittive di quelle interdittive già disposte. (Nel caso di specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza della corte d’appello che, pur avendo disposto un supplemento di consulenza tecnica d’ufficio, aveva omesso di prendere in considerazione la cessazione di una parte delle attività produttive generatrici di immissioni rumorose, anche alla luce dei lavori eseguiti per la loro eliminazione o riduzione).

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Proprieta’ avvocato Bologna esperto Limitazioni legali della proprieta’ – Rapporti di vicinato – Distanze legali

Il muro divisorio non può dar luogo all’esercizio di una servitù di veduta, sia perché ha solo la funzione di demarcazione del confine e tutela del fondo, sia perché, anche quando consente di “inspicere” e “prospicere” sul fondo altrui, è inidoneo ad assoggettare un fondo all’altro, a causa della reciproca possibilità di affaccio da entrambi i fondi confinanti.

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Proprietà – Limitazioni legali della proprietà – Rapporti di vicinato – Distanze legali – Nelle costruzioni – Criterio della prevenzione (costruzione sul confine o con distacco) – In genere – Costruzione di un edificio con sporgenze e rientranze rispetto al confine – Liceità – Diritti del vicino – Costruzione in aderenza – Ammissibilità – Condizioni.

In tema di distanze legali, gli artt. 873, 875, 877 cod. civ. non vietano di costruire con sporgenze e rientranze rispetto alla linea di confine, potendo, in tal caso, il proprietario del fondo finitimo costruire in aderenza alla fabbrica preesistente sia per la parte posta sul confine, sia per quella corrispondente alle rientranze, pagando in quest’ultimo caso la metà del valore del muro del vicino, che diventa comune, nonché il valore del suolo occupato per effetto dell’avanzamento della costruzione.

 

In tema di violazione delle distanze legali, ove sia disposta la demolizione dell’opera illecita, il risarcimento del danno va computato tenendo conto della temporaneità della lesione del bene protetto dalle norme non rispettate e non del valore di mercato dell’immobile, diminuito per effetto della detta violazione, poiché tale pregiudizio è suscettibile di eliminazione.

Affinché sussista una veduta ex art. 900 c.c., è necessario, oltre al requisito della “inspectio”, anche quello della “prospectio” sul fondo del vicino, dovendo detta apertura consentire non solo di vedere e guardare frontalmente, ma anche di affacciarsi, garantendo una visione frontale, obliqua e laterale, sì da assoggettare il fondo alieno ad una visione mobile e globale, secondo un giudizio di fatto incensurabile in sede di legittimità, se non per vizi di motivazione. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto congruamente motivata la sentenza di merito, che aveva escluso la natura di veduta relativamente ad una finestra posta a mt. 1,56 dal piano di calpestio e munita di sbarre orizzontali infisse in un muro alto mt. 1,80 e spesso cm. 30, non potendo la stessa costituire un comodo affaccio). Il richiamo alla nozione di edifici di nuova costruzione ovvero di fabbricati, in assenza di una puntuale e specifica disciplina dettata per gli edifici aventi carattere cd. accessorio, come riconosciuto da parte degli stessi ricorrenti, non consente di optare per un’interpretazione che ne limiti l’applicazione ai soli edifici aventi carattere principale, posto che anche i manufatti di piu’ contenute dimensioni, quali quelli per i quali si vorrebbe escludere la valutazione ai fini del rispetto delle distanze, appaiono evidentemente riconducibili alla nozione di costruzione di cui all’articolo 873 c.c., trattandosi di manufatti stabilmente infissi al suolo che, per solidita’, struttura e sporgenza dal terreno, possono creare quelle intercapedini dannose che la legge, stabilendo la distanza minima tra le costruzioni, intende evitare, rispondendo alla tradizionale nozione di costruzione quale recepita dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 5753/2014).

D’altronde proprio la carenza di una specifica disciplina, impone di ritenere come gia’ affermato in passato che (cfr. da ultimo Cass. n. 144/2016) la nozione di costruzione, agli effetti dell’articolo 873 c.c., e’ unica e non puo’ subire deroghe da parte delle norme secondarie, sia pure al limitato fine del computo delle distanze legali, in quanto il rinvio ivi contenuto ai regolamenti locali e’ circoscritto alla sola facolta’ di stabilire una “distanza maggiore”.

Ne discende che, una volta ricondotti gli edifici accessori al novero delle costruzioni in senso civilistico e nell’accezione propria della disciplina in materia di distanze, le previsioni regolamentari che prevedono un distacco tra costruzioni risultano evidentemente applicabili anche a tali manufatti, e che, anche laddove lo strumento urbanistico locale avesse dettato una disciplina difforme, tale deroga dovrebbe reputarsi illegittima, non rientrando nel potere degli enti locali quello di dettare deroghe alla disciplina codicistica in materia di distanze, eccezione fatta per la previsione sopra richiamata, di porre delle distanze maggiori rispetto a quelle di legge.

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Originally posted 2019-01-09 17:45:10.

Art 2932 cc art 1453 cc VENDITA APPARTAMENTO BOLOGNA SE  UNA PARTE NON ADEMPIE

contratti acquisto vendita casa bologna

In caso di inadempimento di una delle parti, l’altra  potrà a sua scelta chiedere la risoluzione del contratto ed il risarcimento del danno, secondo i principi generali di cui all’art 1453 cc.

Oppure l’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere il contratto ai sensi dell’0art 2932 codice civile.

“Dispositivo dell’art. 1453 Codice Civile

Nei contratti con prestazioni corrispettive, quando uno dei contraenti non adempie le sue obbligazioni, l’altro può a sua scelta chiedere l’adempimento(1) o la risoluzione del contratto(2), salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno(3).

La risoluzione può essere domandata anche quando il giudizio è stato promosso per ottenere l’adempimento; ma non può più chiedersi l’adempimento quando è stata domandata la risoluzione.

Dalla data della domanda di risoluzione l’inadempiente non può più adempiere la propria obbligazione.”

La stipulazione di un contratto a prestazioni corrispettive e l’inadempimento di uno dei contraenti sono, ai sensi dell’art. 1453 c.c., i fatti costitutivi del diritto dell’altro contraente ad ottenere la risoluzione del contratto, ovvero l’adempimento, ed in ogni caso il risarcimento del danno; ma ciascuno di tali diritti, configurandosi in termini di diversità ed autonomia rispetto a ciascun altro, può legittimamente costituire oggetto di rinuncia senza che, per ciò solo, gli effetti di tale rinuncia debbano automaticamente estendersi anche agli altri (nella specie, senza che la rinuncia all’azione esperita per ottenere il risarcimento dei danni comporti, “ipso facto”, rinuncia all’azione di adempimento in forma specifica), a meno che l’atto abdicativo non si atteggi, in concreto, come rinuncia “tout court” a far valere tutti i diritti conseguenti al fatto dell’inadempimento della controparte.

Nei contratti con prestazioni corrispettive, ai fini della pronuncia di risoluzione per inadempimento in caso di inadempienze reciproche deve procedersi ad un esame del comportamento complessivo delle parti, al fine di stabilire quale di esse, in relazione ai rispettivi interessi e all’oggettiva entità degli inadempimenti, si sia resa responsabile delle violazioni maggiormente rilevanti e causa del comportamento della controparte e della conseguente alterazione del sinallagma contrattuale, con la conseguenza che, qualora l’inadempimento di una delle parti sia valutato come prevalente deve considerarsi legittimo il rifiuto dell’altra di adempiere alla propria obbligazione e alla risoluzione del contratto deve seguire l’esame dell’eventuale richiesta di risarcimento del danno della parte non inadempiente.

Cosa prevede l’art 2932  codice civile:

Dispositivo dell’art. 2932 Codice Civile

Se colui che è obbligato a concludere un contratto non adempie l’obbligazione(1), l’altra parte, qualora sia possibile e non sia escluso dal titolo(2), può ottenere una sentenza che produca gli effetti del contratto non concluso [250, 651, 849, 1032, 1351, 1679, 1706 comma 2, 2597, 2643 n. 14, 2645 bis, 2652 n. 2, 2690, 2775 bis, 2825 bis, 2908](3).

Se si tratta di contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa determinata o la costituzione o il trasferimento di un altro diritto, la domanda non può essere accolta, se la parte che l’ha proposta non esegue la sua prestazione [1208 ss.] o non ne fa offerta nei modi di legge(4), a meno che la prestazione non sia ancora esigibile(5).

Non è suscettibile di esecuzione in forma specifica l’obbligazione principale assunta con falsa alternativa, che ricorre qualora sia contrattualmente prevista un’obbligazione subordinata, avente natura di sanzione per l’inadempimento, ed il debitore sia tenuto ad adempierla qualora non abbia adempiuto l’obbligazione principale; l’obbligazione con falsa alternativa si distingue sia dall’obbligazione alternativa, in cui due obbligazioni concorrono in posizione di parità e con scelta della prestazione rimessa alla volontà di una delle parti, sia dall’obbligazione facoltativa, in cui l’obbligazione principale è unica, ma è rimesso alla volontà del debitore fornire una determinata diversa prestazione. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto non fosse suscettibile di esecuzione in forma specifica la prestazione principale dedotta in un’obbligazione con falsa alternativa, osservando che, inadempiuta l’obbligazione principale, i creditori non avevano richiesto l’adempimento dell’obbligazione subordinata).

In tema di obbligazioni indivisibili, fra le quali rientra la promessa di più soggetti di acquistare in comune un immobile considerato nella sua interezza, l’impossibilità che gli effetti del contratto si producano (o non si producano) pro quota o nei confronti soltanto di alcuni dei promissari comporta che il diritto di ciascuno dei creditori di chiedere l’adempimento dell’intera obbligazione, comune alla disciplina delle obbligazioni solidali, richiamata in materia dall’art. 1317 c.c., non sia oggettivamente suscettibile dell’effetto liberatorio parziale nei confronti degli altri creditori previsto dall’art. 1301 c.c. nell’ipotesi di remissione di uno dei creditori; ciò, peraltro, non comporta la risolubilità del contratto per l’impossibilità di richiedere una prestazione pro quota dell’obbligazione indivisibile, attesa l’espressa previsione nell’art. 1320 c.c. secondo la quale la remissione di uno dei creditori non determina la liberazione del debitore nei confronti degli altri creditori e il loro diritto di domandare la prestazione indivisibile è condizionato, in tal caso, unicamente all’addebito o al rimborso del valore della parte di colui che ha fatto la remissione.

(

Nell’ipotesi in cui la pronuncia emessa ai sensi dell’art. 2932 c.c. imponga all’acquirente di versare il prezzo della compravendita, l’obbligo diviene attuale al momento del passaggio in giudicato della sentenza che trasferisce il bene o allo spirare del termine ulteriore da essa eventualmente stabilito, sicché il ritardo nel pagamento, ove qualificabile come grave, può essere causa della risoluzione del rapporto sorto con la sentenza sostitutiva del negozio non concluso, non essendo a tal fine necessario che il creditore chieda al giudice la fissazione, ai sensi dell’art. 1183 c.c., del termine per l’adempimento oppure costituisca in mora il debitore.

In tema di contratto preliminare di vendita di un immobile, considerato nella sua interezza, stipulato da più soggetti, l’impossibilità che gli effetti del contratto si producano “pro quota” o nei confronti soltanto di alcuni dei promissari non esclude il diritto di ciascuno di essi di chiedere l’adozione di una pronuncia ai sensi dell’art. 2932 c.c., in base alla disciplina delle obbligazioni solidali, richiamata in materia dall’art. 1317 c.c., atteso che, quando una parte negoziale, intesa come centro di imputazione delle posizioni attive o passive nascenti dal contratto, ha carattere soggettivamente complesso, essa resta insensibile alle mutazioni attinenti ai soggetti che la costituiscono; da ciò consegue che, solo qualora tutti i promissari acquirenti agiscano congiuntamente in giudizio al fine di ottenere la pronuncia costitutiva ex art. 2932 c.c., si configura, in fase di gravame, un’ipotesi di litisconsorzio necessario per ragioni processuali, determinato dall’esigenza di evitare pronunzie contraddittorie.

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GLI ARTICOLI LE FONTI

 

ART . 587 Codice Civile

Il testamento(1) è un atto revocabile [679 ss. c.c.] con il quale taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o di parte di esse(2).

Le disposizioni di carattere non patrimoniale, che la legge consente siano contenute in un testamento, hanno efficacia, se contenute in un atto che ha la forma del testamento [601 c.c.], anche se manchino disposizioni di carattere patrimoniale(3)(4).

 

ART 588 CODICE CIVILE

 

Le disposizioni testamentarie(1), qualunque sia l’espressione o la denominazione usata dal testatore, sono a titolo universale [637 c.c.] e attribuiscono la qualità di erede [625 c.c.], se comprendono l’universalità o una quota dei beni del testatore(2) [674 c.c.]. Le altre disposizioni sono a titolo particolare [631 c.c.] e attribuiscono la qualità di legatario(3) [649 c.c.].

L’indicazione di beni determinati o di un complesso di beni non esclude che la disposizione sia a titolo universale, quando risulta che il testatore ha inteso assegnare quei beni come quota del patrimonio(4) [734 c.c.]

 

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Avvocato separazioni Bologna  Budrio pianoro Secondo la giurisprudenza consolidata della Cassazione, però, deve sussistere un nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale, ossia il tradimento deve essere stata la causa della rottura dell’unione. L’esistenza di un rapporto causale deve essere individuato mediante una valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi, al fine di stabilire se anche prima della violazione sia presente una crisi già irrimediabilmente in atto, in un contesto caratterizzato da una convivenza meramente formale (Cass. Civ. n. 27730/2013, n. 2059/2012 e n. 9074/2011).

separazioni e divorzi avvocato esperto

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Avvocato separazioni Bologna  Budrio pianoroil fondamento della separazione personale dei coniugi è costituito dall’intollerabilità della prosecuzione della convivenza

E’ opportuno premettere che, nonostante qualche imprecisione rinvenibile occasionalmente in giurisprudenza (Cass. 27 giugno 2006 n. 14840, influenzata dall’inesatta massimazione di Cass. 11 giugno 2005 n. 12383), il fondamento della separazione personale dei coniugi è costituito dall’intollerabilità della prosecuzione della convivenza (art. 151 c.c., comma 1), e non già dalla “irreversibile” crisi della comunione spirituale e materiale dei coniugi (presupposto invece della pronuncia di scioglimento e di cessazione degli effetti civili del matrimonio: L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 1). Ora, l’art. 151 cpv. c.c. stabilisce che il giudice, pronunciando sulla separazione, dichiara, ove ne sia richiesto, a quale dei coniugi sia addebitabile l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza (o il grave pregiudizio che questa comporta all’educazione della prole), in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri del matrimonio.

Occupandosi di fattispecie simili a quella oggetto del presente ricorso, questa corte ha ripetutamente affermato che, in tema di separazione tra coniugi, l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale rappresenta una violazione particolarmente grave, la quale, determinando normalmente l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, deve ritenersi, di regola, circostanza sufficiente a giustificare l’addebito della separazione al coniuge responsabile (Cass. 12 aprile 2006 n. 8512; 12 giugno 2006 n. 13592; 19 settembre 2006 n. 202567 dicembre 2007 n. 25618; Cass. 8512/2006 e 25618/2007 sono espressamente richiamate – nella parte in cui affermano che la violazione dell’obbligo di fedeltà coniugale, particolarmente grave in quanto di regola rende intollerabile la prosecuzione della convivenza, giustifica ex se l’addebito della separazione al coniuge responsabile – in motivazione dalla più recente e conforme Cass. 14 ottobre 2010 n. 21245, non massimata).

in tema di separazione personale tra i coniugi, al fine della quantificazione dell’assegno di mantenimento, il giudice del merito deve anzitutto accertare il tenore di vita dei coniugi durante il matrimonio, per poi verificare se i mezzi economici a disposizione del coniuge gli permettano di conservarlo indipendentemente dalla percezione di detto assegno e, in caso di esito negativo di questo esame, deve procedere alla valutazione comparativa dei mezzi economici a disposizione di ciascun coniuge al momento della separazione. In quest’ambito, la valutazione delle condizioni economiche delle parti non richiede la determinazione dell’esatto importo dei redditi posseduti attraverso l’acquisizione di dati numerici, in quanto è necessaria, ma anche sufficiente, un’attendibile ricostruzione delle complessive situazioni patrimoniali e reddituali dei coniugi, in relazione alle quali sia possibile pervenire a fissare l’erogazione, in favore di quello più debole, di una somma corrispondente alle sue esigenze (cfr, tra le altre, cass n. 13592 del 2006). A questi principi i giudici di appello si sono ineccepibilmente attenuti, avendo pure tenuto conto, comparandoli, dei redditi fruiti da ciascuna delle parti, quali risultanti dalla documentazione fiscale, e dunque non solo di quelli d’indole retributiva, oltre che dell’entità dei rispettivi patrimoni immobiliari, conclusivamente, motivatamente ed attendibilmente evidenziando la minore consistenza delle condizioni economiche della B. rispetto a quelle del coniuge e l’insufficienza delle stesse a consentirle di mantenere, in termini evidentemente tendenziali, l’emerso, agiato tenore della pregressa vita coniugale.

Tradimento coniuge separazione addebito  avvocato matrimonialista divorzista famigliarista bologna sergio armaroli

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RICHIESTA ADDEBITO ALTRO CONIUGE PROVE Avvocato separazioni Bologna  Budrio pianoro

Da queste premesse deriva che sulla parte, la quale richieda l’addebito della separazione all’altro coniuge, grava l’onere di provare sia la contrarietà del comportamento di questi ai doveri che derivano dal matrimonio, e sia l’efficacia causale di questi comportamenti nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza (su queste affermazioni di principio, in genere, cfr. Cass. 27 giugno 2006 n. 14840; 11 giugno 2005 n. 12383); ma che, laddove la ragione dell’addebito sia costituita dall’inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale, questo comportamento, se provato, fa presumere che abbia reso la convivenza intollerabile, sicchè, da un lato, la parte che lo ha allegato ha interamente assolto l’onere della prova per la parte su di lei gravante, e dall’altro la sentenza che su tale premessa fonda la pronuncia di addebito è sufficientemente motivata.

AFFIDO FIGLI AFFIDO OCNDIVISO AVVOCATO DIVORZISTA BOLOGNA

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E’ poi altrettanto vero che questa corte ha costantemente chiarito (v., oltre alle sentenze già citate, Cass. 20 aprile 2011 n. 9074) che la regola appena ricordata viene meno quando si constati la mancanza di nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale, mediante un accertamento rigoroso ed una valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi, tale che ne risulti la preesistenza di una crisi già irrimediabilmente in atto, in un contesto caratterizzato da una convivenza meramente formale. In tal caso trovano peraltro applicazione le comuni regole in tema di onere della prova, per cui (art. 2967 cpv.) chi eccepisce l’inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda (nella specie, dell’infedeltà nella determinazione dell’intollerabilità della prosecuzione della convivenza) deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda, vale a dire l’anteriorità della crisi matrimoniale all’accertata infedeltà. E’ di conseguenza contraria ai principi generali in tema di onere della prova, oltre che alla logica e al comune buon senso, la tesi che sulla parte che allega un fatto del quale sia riconosciuta, in via generale, l’idoneità a determinare l’intollerabilità della convivenza gravi l’onere ulteriore, di dimostrare che la prosecuzione della convivenza non fosse già in precedenza intollerabile; e ciò perchè le prove non possono avere ad oggetto delle valutazioni giuridiche (qual è la precedente “non intollerabilità” della convivenza), ma solo dei fatti, e perchè questi fatti, se contrari a quelli posti a fondamento della domanda di addebito, devono essere allegati e provati da chi resista alla domanda medesima, non occorrendo al riguardo neppure richiamare la vecchia tesi dell’inammissibilità della prova negativa.

Tradimento coniuge separazione addebito  avvocato matrimonialista divorzista famigliarista bologna sergio armaroli

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Avvocato separazioni Bologna  Budrio pianoro Non costituiscono precedenti contrari alle conclusioni appena esposte le sentenze di questa corte 11 giugno 2005 n. 12383 e 27 giugno 2006 n. 14840, le quali affermano che la dichiarazione di addebito della separazione implica la prova che la crisi coniugale sia ricollegabile “esclusivamente” al comportamento volontariamente e consapevolmente contrario ai doveri nascenti dal matrimonio di uno o di entrambi i coniugi, ovverosia, coitì è del resto contestualmente precisato, che sussista un nesso di causalità tra i comportamenti addebitati ed il determinarsi dell’intollerabilità della ulteriore convivenza. Nel primo caso, il giudice di merito aveva svolto un esame di tutti gli elementi della fattispecie emersi nel corso del giudizio, pervenendo ad escludere che nel caso concreto i comportamenti contrari ai doveri del matrimonio tenuti dal marito fossero stati la causa della crisi familiare, con una motivazione in fatto che la ricorrente – per aver confuso il piano della valutazione dei comportamenti con quello della loro efficienza causale – non aveva adeguatamente censurato. Nel secondo caso il giudice di merito aveva escluso, anche qui con accertamento in fatto giudicato dalla corte di legittimità esente da vizi, che fossero stati provati dei comportamenti contrari ai doveri derivanti dal matrimonio che avessero determinato la disgregazione familiare, affermando che dalla lettura degli atti di causa si coglieva solo una diversità morfologica, intellettuale, sensibile delle diverse nature dei coniugi (dal ricorrente erano state allegate, in particolare, turbe psichiche e caratteriali della moglie, le quali peraltro potrebbero in astratto rilevare soltanto per i comportamenti ai quali abbiano dato luogo, nonchè comportamenti quali il rifiuto di liberarsi della convivenza con la famiglia di origine o infamanti denunce contro il marito ed il suocero). Nella fattispecie in esame, invece, la corte non ha accertato elementi idonei a retrodatare la crisi a data anteriore all’infedeltà del marito.

La denunciata violazione degli artt. 143 e 151 c.c., nell’impugnata sentenza, deve dunque essere esclusa in base al principio che, in tema di addebito della separazione personale, l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale rappresenta una violazione particolarmente grave, la quale, determinando normalmente l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, deve ritenersi, di regola, circostanza sufficiente a giustificare l’addebito della separazione al coniuge responsabile, mentre i fatti che escludono il nesso di causalità tra la violazione accertata e l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, ove non emergano dagli atti del processo, devono essere allegati, e occorrendo provati dalla parte che resiste alla domanda di addebito della separazione.

La violazione dell’obbligo di coabitazione (art. 143 cpv. c.c.)Avvocato separazioni Bologna  Budrio pianoro

 

non si connota, infatti, soltanto per la sua particolare gravità, comportando la sospensione del diritto all’assistenza morale e materiale nei confronti del coniuge che, allontanatosi senza giusta causa dalla residenza familiare, rifiuti di tornarvi (art. 146 c.c., comma 1: il dovere di assistenza ha un ruolo centrale nell’economia della solidarietà matrimoniale). Essa, piuttosto, non si lascia ridurre al rango delle altre violazioni cui fa riferimento l’art. 151 cpv. c.c., non essendo predicabile per essa, come conseguenza, l’intollerabilità della prosecuzione di una convivenza, alla quale essa pone invece direttamente fine, in forza di una decisione unilaterale. Per questa ragione, l’abbandono del domicilio coniugale ha sempre ricevuto, nel codice civile e nella giurisprudenza, una considerazione speciale nell’accertamento delle condizioni della separazione personale.

ipotesi di separazione consensuale di fatto Avvocato separazioni Bologna  Budrio pianoro

Vero è che, anche fuori dell’ipotesi di separazione consensuale di fatto, la decisione unilaterale di interrompere la coabitazione può avere gravi giustificazioni, non sempre facili da dimostrare. La Novella del 9 maggio 1975 n. 171 ha affrontato anche questo tema, integrando la disciplina dell’art. 146 c.c. con l’espressa previsione che la proposizione della domanda di separazione costituisce giusta causa dell’allontanamento dalla residenza familiare. La norma legittima in tal modo un comportamento in precedenza giudicato di regola illecito, perchè in violazione dell’art. 143 c.c., e consente al coniuge che giudichi anche solo soggettivamente intollerabile la prosecuzione della convivenza di sottrarsi ad essa con decisione unilaterale, all’unica condizione di proporre la domanda di separazione. Ma tale agevolazione comporta, con riferimento al tema che qui interessa, conseguenze di rilievo nel caso in cui, immotivatamente, quella condizione non sia stata soddisfatta.

Originally posted 2018-08-24 10:58:46.

SUPERBONUS 110% EcObonus rischi cOndominio CONDOMINI E  cessione

AVVOCATO ESPERTO ASSISTENZA LEGALE SUPERBONUS  A PRIVATI E CONDOMINI E CONTESTAZIONI AD IMPRESE

QUALI CONSEGUENZE AL SUPERBONUS CI HAI PENSATO?

MA SE LE IMPRESE NON ACCETTANO PIU’ LE CESSIONI?

MOLTI PENSANO SBAGLIANDO CHE IL SUPERBONUS 110 NON ABBIA RISCHI 

QUALI RISCHI PER CONDOMINIO E CONDOMINI

CREDIMI IL SUPERBONUS 110 NON HA SOLO COSE POSITIVE MA RIGORE ASSOLUTO PER CHI N O NE HA DIRITTO O HA FATTO IL FURBO

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Superbonus 110%: le modifiche normative

dal Decreto-Legge 14 agosto 2020, n. 104(Decreto Agosto) convertito con modificazioni dalla Legge 13 ottobre 2020, n. 126;

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dalla Legge 30 dicembre 2020, n. 178(Legge di Bilancio 2021);

dal Decreto-Legge 22 marzo 2021, n. 41 (Decreto Sostegni) convertito con modificazioni dalla Legge 21 maggio 2021, n. 69(modifiche arrivate dopo la conversione in legge);

dal Decreto-Legge 6 maggio 2021, n. 59convertito con modificazioni dalla Legge 1 luglio 2021, n. 101;

dal Decreto-Legge 31 maggio 2021, n. 77(Decreto Semplificazioni-bis o Governance PNRR) convertito con modificazioni dalla Legge 29 luglio 2021, n. 108;

dal Decreto-Legge 11 novembre 2021, n. 157(Decreto anti-frode) abrogato dalla Legge di Bilancio 2022 (in vigore dal 12 novembre al 31 dicembre 2021);

dalla Legge 30 dicembre 2021, n. 234(Legge di Bilancio 2022);

dal Decreto-Legge 27 gennaio 2022, n. 4(Decreto Sostegni-ter) convertito con modificazioni dalla Legge 28 marzo 2022, n. 25;

dal Decreto-Legge 25 febbraio 2022, n.13(Decreto Frodi) abrogato dalla Legge di conversione del Decreto Sostegni-ter;

dal Decreto-Legge 1 marzo 2022, n. 17 (Decreto Bollette) convertito con modificazioni dalla Legge 27 aprile 2022, n. 34(modifiche arrivate dopo la conversione in legge);

dal Decreto-Legge 21 marzo 2022, n. 21 (Decreto energia) convertito con modificazioni dalla Legge 20 maggio 2022, n. 51(modifiche arrivate dopo la conversione in legge);

dal Decreto Legge 17 maggio 2022, n. 50(Decreto Aiuti), in attesa di conversione in legge.

L’Agenzia delle Entrate, nell’ambito dell’ordinaria attività di controllo procede, in base a criteri selettivi e tenendo anche conto della capacità operativa degli Uffici, alla verifica documentale della sussistenza dei presupposti che danno diritto alla detrazione d’imposta negli ordinari termini di accertamento:
– per i crediti non spettanti, 5 anni dalla dichiarazione;
– per i crediti inesistenti, 8 anni dall’utilizzo del credito.
In assenza dei requisiti che danno diritto alla detrazione, l’Agenzia delle Entrate provvede a recuperare l’importo corrispondente alla detrazione non spettante maggiorato degli interessi per ritardata iscrizione a ruolo e delle sanzioni per utilizzo di crediti di imposta in misura superiore a quella spettante, ovvero inesistenti come previste dall’art. 13 del D.Lgs. n. 471/1997 (per la compensazione di crediti inesistenti la sanzione va dal 100% al 200%).

Partono dal presupposto generale della possibilità, per le Entrate, di revocare il beneficio e richiedere al cedente l’importo fiscale ceduto.

L’aumento del credito comporta infatti per le casse del Tesoro italiano unicamente un aggravio:  Vi sono listini per accertare che gli importi in fattura non siano stati preventivamente alzati.

Obbligo di conformità

Anche per chi intende usufruire dei Bonus diversi dal Superbonus 110% sarà necessario il Visto di Conformità, anche quando si sceglie la cessione del credito o lo sconto in fattura.

ECOBONUS SANZIONI

ECOBONUS SANZIONI

 

Esiste un prezziario Dei o dagli altri possibili riferimenti e un scostamento  è poco giustificabile, anche se magari per il momento i Sal sono a posto ma il saldo è a rischio; conviene cercare di trattare con l’impresa o con il general contractor per ridurlo alle giuste misure, rideterminando quindi il contratto d’appalto, che va approvato nuovamente in un’assemblea condominiale;

 

Le imprese specie quelle poco serie hanno gonfiato al massimo i prezzi e spesso vanno molto oltre  a quanto preventivato. Vero che anche i materiali sono cresciuti anche del 500%

L’Agenzia recupera nei confronti del condomino-committente (il condominio non ha infatti personalità giuridica né l’amministratore corrisponde a un amministratore delegato di una società) la detrazione non spettante, le sanzioni del 30% e gli interessi.

 

 

MA POI COME CI SI RIVALE SULLE IMPRESE?

 

QUESTA E’ UNA BELLA DOMANDA

 

ALCUNE IMPRESE POCO SERIE NATE AD HOC PER GUADAGNARE IN MODO ILLECITO SULL’ ECOBONUS, RISCHIANO POI DI SPARIRE E SARA’ IL CONDOMINIO A DOVER RESTITUIRE I SOLDI DEL CREDITO ALL’AGENZIA DELLE ENTRATE CON RELATIVE SANZIONI.

 

NON SOLO

 

PONIAMO CHE A FRONTE DI LAVORI CONDOMINIALI  CON IL 90 O 110 % L’AGENZIA ACCORTASI DI SCOSTAMENTO ECCESSIVO DEI PREZZI CHIEDA REVOCANDO IL BENEFICIO DEL 110 I SOLDI INDIETRO DOVRANNO DI FATTO I SINGOLI CONDOMINI RESTITUIRE LA SOMME A VOLT SONO SOMME ALTISSIME ANCHE MILIONI E MILIONI DI EURO.

Originally posted 2022-06-11 12:01:45.

SEPARAZIONE CONIUGI BOLOGNA, E IL PATRIMONIO? SPESSO SON DOLORI !! SEPARAZIONE CONIUGI BOLOGNA CON INGENTE PATRIMONIO

 

egge n. 74 del 1987 operano con riferimento a tutti gli atti e convenzioni che i coniugi pongono in essere nell’intento di regolare sotto il controllo del giudice i loro rapporti patrimoniali conseguenti allo scioglimento del matrimonio o alla separazione personale, ivi compresi gli accordi che contengono il riconoscimento o il trasferimento della proprietà esclusiva di beni mobili ed immobili all’uno o all’altro coniuge. Tale agevolazione si estende ad ogni tipo di “tassazione”, indipendentemente dalla natura di imposta o di tassa in senso proprio del tributo concretamente in discussione.

Cass. civ., Sez. I, 10/07/2018, n. 18138

Sulla efficienza di un patto parasociale che trova la sua causa giustificativa nell’ambito degli accordi di divisione del complessivo compendio di una comunione sciolta per separazione personale tra coniugi non hanno influenza, di per sé, le vicende che concernono il successivo svolgimento dell’impresa sociale a cui è relativo, quale, nella specie concreta, l’aumento di capitale verificatosi.

 

AVVOCATO SERGIO ARMAROLI

AVVOCATO CASSAZIONISTA

 

Una volta intervenuta la separazione personale dei coniugi, ciascuno di essi può domandare la divisione del patrimonio comune, da effettuarsi secondo i criteri stabiliti dagli articolo 192 e 194 c.c.; ne consegue che, quello dei coniugi che sia rimasto nel possesso esclusivo di beni fruttiferi già appartenuti alla comunione legale, deve intendersi tenuto al pagamento pro quota verso l’altro coniuge del corrispettivo di tale godimento, secondo le regole generali.

Cass. civ., Sez. III, 14/05/2003, n. 7372 (rv. 563007)

Una volta intervenuta la separazione personale dei coniugi in regime patrimoniale di comunione dei beni, va escluso che continui a sussistere, a vantaggio dei terzi, una generale presunzione di comunione relativa ai beni che sono nella disponibilità esclusiva di uno di essi che non sia in grado di dimostrare con atto di data certa la proprietà individuale. Occorre infatti distinguere la presunzione di comproprietà posta dall’art. 195 c.c. che riflette i rapporti tra i coniugi, dalla presunzione posta dall’art. 197 c.c., che riguarda l’interesse dei terzi a non vedersi pregiudicata la possibilità di avvalersi degli effetti della presunzione medesima dall’avvenuto scioglimento della comunione rimesso alla esclusiva volontà dei coniugi ed attuato con il prelevamento effettuato da ciascuno di essi. Invero tra i coniugi il prelevamento dei beni effettuato da uno di essi sancisce il superamento della presunzione di comunione solo se avvenuto in accordo con l’altro, mentre nei riguardi dei terzi la presunzione di comproprietà dei beni non può continuare ad essere riferita a tutti i beni nell’esclusiva disponibilità del coniuge separato che li possiede, per il solo fatto che questi non sia in grado di dimostrarne la proprietà esclusiva con atto di data certa. Pertanto, il terzo che voglia avvalersi della presunzione di proprietà comune dei beni mobili non registrati, prelevati da uno dei coniugi a seguito di separazione personale e divisione del patrimonio, per potersi avvalere della presunzione stabilita dall’art. 197 c.c. deve dimostrare che il bene in contestazione sia stato acquistato in un momento anteriore allo scioglimento della comunione stessa.

 

 

Tribunale Monza, Sez. IV, 07/07/2009, n. 2074avvocato-esperto-3

In tema di comunione legale tra i coniugi, i rimborsi e le restituzioni delle somme spettanti in dipendenza dell’amministrazione dei beni comuni, nei limiti delle somme prelevate da ciascuno dei coniugi dal patrimonio comune per fini diversi dall’adempimento delle obbligazioni cui sono destinati per legge i beni in regime di comunione legale, si effettuano solo al momento della divisione dei beni comuni che, in caso di separazione dei coniugi, coincide con il passaggio in giudicato della relativa pronuncia.

 

Tribunale Novara, 03/10/2006, n. 824

Il diritto del coniuge divorziato ad una parte dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge, prevista dall’art. 12 bis della legge n. 898/1970, costituisce uno degli effetti patrimoniali del divorzio e richiede, quali presupposti per il suo riconoscimento, che il richiedente non sia passato a nuove nozze e che gli sia riconosciuto un assegno divorziale, anche in assenza di una condanna giudiziale sul punto, Alla base di tale disposizione normativa, con cui si provvede alla ripartizione di un’entità economica maturata nel corso del rapporto di lavoro e del matrimonio grazie anche al contributo dell’altro coniuge, si rinvengono sia profili assistenzialistici, evidenziati dal fatto che la disposizione stessa presuppone la spettanza dell’assegno divorziale, sia, soprattutto, criteri di carattere compensativo, rapportati al contributo personale ed economico dato dall’ex coniuge alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quelle comune. Tale contributo, inoltre, deve essere valutato con riferimento all’intera durata del matrimonio, in quanto esso non cessa col venir meno della convivenza e con l’instaurarsi dello stato di separazione, di fatto o legale che sia, posto che la cessazione della convivenza non comporta automaticamente il totale venir meno della comunione materiale e spirituale di vita fra i coniugi (cfr. in tal senso, da ultimo, Cass. Civ., sez. I, n. 4867/2006).

 

Cass. civ., 23/10/1967, n. 2615

È possibile l’espropriazione forzata dell’intera quota, spettante ad un compartecipe, dei beni compresi in una comunione, di qualunque tipo essa sia. Iniziata l’espropriazione della quota, il giudice dell’esecuzione può disporre la separazione, se questa è possibile, della quota in natura spettante al debitore esecutato; o, se la separazione non è possibile, ordinare che si proceda alla divisione, oppure disporre la vendita della quota indivisa. In tutte le dette ipotesi, il pignoramento della quota consegue i suoi effetti, col risultato di concentrarsi sui singoli beni corrispondenti alla quota ed assegnati al condividendo esecutato. Non è, invece, ammissibile l’espropriazione forzata della quota di un singolo bene immobile indiviso, quando la massa in comune comprenda più beni della stessa specie, perchè, potendo, in sede di divisione, venire assegnata al debitore una parte di un altro bene facente parte della massa, il pignoramento potrebbe non conseguire i suoi effetti, per inesistenza nel patrimonio del debitore, dell’oggetto dell’esecuzione.


Cass. Civ., sez. V, 3 febbraio 2016, n. 2111

In tema di benefici fiscali, l’agevolazione di cui all’


art. 19 della 


l. n. 74 del 1987, nel testo conseguente alla declaratoria di incostituzionalità (


Corte cost., sentenza n. 154 del 1999), spetta per gli atti esecutivi degli accordi intervenuti tra i coniugi in esito alla separazione personale o allo scioglimento del matrimonio, atteso il carattere di “negoziazione globale” attribuito alla liquidazione del rapporto coniugale per il tramite di contratti tipici in funzione di definizione non contenziosa, i quali, nell’ambito della nuova cornice normativa (da ultimo culminata nella disciplina di cui agli 


artt. 6 e 


12 del 


d.l. n. 132 del 2014, conv. con modif. nella 


l. n. 162 del 2014), rinvengono il loro fondamento nella centralità del consenso dei coniugi. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto la spettanza del beneficio rispetto al trasferimento, concordato tra i coniugi, di una porzione di immobile, che, in costanza di matrimonio, era stato dai medesimi acquistato “pro quota” in regime di separazione dei beni)cui agli artt. 702-bis e segg. c.p.c.


Cass. Civ., sez. V, 22 maggio 2002, n. 7493

Le agevolazioni di cui all’


art. 19 della 


legge n. 74 del 1987 operano con riferimento a tutti gli atti e convenzioni che i coniugi pongono in essere nell’intento di regolare sotto il controllo del giudice i loro rapporti patrimoniali conseguenti allo scioglimento del matrimonio o alla separazione personale, ivi compresi gli accordi che contengono il riconoscimento o il trasferimento della proprietà esclusiva di beni mobili ed immobili all’uno o all’altro coniuge. Tale agevolazione si estende ad ogni tipo di “tassazione”, indipendentemente dalla natura di imposta o di tassa in senso proprio del tributo concretamente in discussione.


Cass. Civ., sez. I, 15 maggio 1997, n. 4306

Sono pienamente valide le clausole dell’accordo di separazione che riconoscano ad uno o ad entrambi i coniugi la proprietà esclusiva di beni mobili o immobili, ovvero ne operino il trasferimento a favore di uno di essi al fine di assicurarne il mantenimento. Il suddetto accordo di separazione, in quanto inserito nel verbale d’udienza (redatto da un ausiliario del giudice e destinato a far fede di ciò che in esso è attestato), assume forma di atto pubblico ai sensi e per gli effetti dell’


art. 2699 cod. civ., e, ove implichi il trasferimento di diritti reali immobiliari, costituisce, dopo l’omologazione che lo rende efficace, titolo per la trascrizione a norma dell’


art. 2657 cod. civ., senza che la validità di trasferimenti siffatti sia esclusa dal fatto che i relativi beni ricadono nella comunione legale tra coniugi.


Cass. Civ., sez. I, 15 maggio 1997, n. 4306

La clausola, con la quale i coniugi, nel verbale di separazione consensuale, riconoscano la proprietà esclusiva di singoli beni mobili ed immobili in favore della moglie e del marito, ancorché non costituisca una dichiarazione di scienza, bensì un negozio attributivo, ad integrazione del regolamento stabilito per la separazione personale, soddisfa, per i beni immobili, l’esigenza della forma scritta non essendo necessario l’atto notarile, perché non si tratta di liberalità, ne’ di convenzione matrimoniale “ex” 


art. 162 cod. civ.

Cass. Civ., sez. I, 27 ottobre 1922, n. 3299

E valida la pattuizione, facente parte dell’accordo di separazione consensuale, secondo cui l’obbligazione di mantenimento debba essere adempiuto dal marito, anziche a mezzo di una prestazione periodica, con l’attribuzione definitiva alla moglie della proprieta di beni mobili od immobili, o di capitali in denaro. Tale attribuzione pertanto e, a sua volta, valida, ed estingue totalmente e definitivamente la predetta obbligazione, senza che in contrario rilevino il carattere non permanente dello stato di separazione e la possibilita che successivamente sorga, a carico del marito, l’Obbligo degli alimenti.

 

 

Originally posted 2021-11-16 16:37:15.

AVVOCATO ESPERTO DIVORZI SEPARAZIONI EREDITA' PROCESSI BOLOGNA
AVVOCATO ESPERTO DIVORZI SEPARAZIONI EREDITA’ PROCESSI BOLOGNA

EREDE TESTAMENTO BOLOGNA AVVOCATO ESPERTO :L’erede può prelevare le somme presenti sul conto del genitore defunto, senza il consenso degli altri coeredi.

In diritto italiano, erede testamentario è la persona che, in base a un testamento, succede al testatore nella sua eredità. L’erede testamentario può essere una persona fisica o una persona giuridica.

L’istituzione di un erede testamentario è una disposizione testamentaria che attribuisce all’erede l’intera eredità o una parte di essa. L’erede testamentario può essere designato indicandone il nome e il cognome, ma è altrettanto valido utilizzare formule equipollenti inequivocabili. Ad esempio, è valida la disposizione con cui il testatore dichiari di nominare erede universale il proprio (unico) figlio.

L’erede testamentario diviene tale solo dopo aver accettato l’eredità. L’accettazione dell’eredità può essere espressa o tacita. L’accettazione espressa può essere fatta mediante dichiarazione di accettazione al notaio o all’autorità giudiziaria. L‘accettazione tacita si presume quando l’erede compie un atto che presuppone l’accettazione dell’eredità, come ad esempio la riscossione di un credito del defunto.

L’erede testamentario ha diritto a succedere al testatore in tutti i suoi beni, sia mobili che immobili, sia presenti che futuri. L’erede testamentario ha anche diritto a succedere al testatore nei suoi diritti e nei suoi obblighi.

 

La nomina di un erede testamentario è un atto di autonomia privata che consente al testatore di disporre del proprio patrimonio secondo la propria volontà. Tuttavia, la nomina di un erede testamentario non può violare i diritti di legittima dei legittimari. I legittimari sono i parenti più stretti del testatore, e hanno diritto a una quota di eredità che è fissata dalla legge.

In caso di violazione dei diritti di legittima, i legittimari possono impugnare il testamento e chiedere al giudice di ridurre la quota attribuita all’erede testamentario.

La nomina di un erede testamentario è un atto di autonomia privata che consente al testatore di disporre del proprio patrimonio secondo la propria volontà. Tuttavia, la nomina di un erede testamentario non può violare i diritti di legittima dei legittimari. I legittimari sono i parenti più stretti del testatore, e hanno diritto a una quota di eredità che è fissata dalla legge.

In caso di violazione dei diritti di legittima, i legittimari possono impugnare il testamento e chiedere al giudice di ridurre la quota attribuita all’erede testamentario.

 

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Eredità testamentaria: cos’è e come funziona

L’eredità testamentaria è la successione a causa di morte che si verifica in base alle disposizioni contenute in un testamento. Il testamento è un atto unilaterale con il quale una persona, il testatore, dispone dei propri beni per il tempo successivo alla propria morte.

L’erede testamentario è la persona che, in base al testamento, succede al testatore nella sua eredità. L’erede testamentario può essere una persona fisica o una persona giuridica.

L’istituzione di un erede testamentario è una disposizione testamentaria che attribuisce all’erede l’intera eredità o una parte di essa. L’erede testamentario può essere designato indicandone il nome e il cognome, ma è altrettanto valido utilizzare formule equipollenti inequivocabili. Ad esempio, è valida la disposizione con cui il testatore dichiari di nominare erede universale il proprio (unico) figlio.

L’erede testamentario diviene tale solo dopo aver accettato l’eredità. L’accettazione dell’eredità può essere espressa o tacita. L’accettazione espressa può essere fatta mediante dichiarazione di accettazione al notaio o all’autorità giudiziaria. L’accettazione tacita si presume quando l’erede compie un atto che presuppone l’accettazione dell’eredità, come ad esempio la riscossione di un credito del defunto.

L’erede testamentario ha diritto a succedere al testatore in tutti i suoi beni, sia mobili che immobili, sia presenti che futuri. L’erede testamentario ha anche diritto a succedere al testatore nei suoi diritti e nei suoi obblighi.

I diritti dei legittimari

La nomina di un erede testamentario non può violare i diritti di legittima dei legittimari. I legittimari sono i parenti più stretti del testatore, e hanno diritto a una quota di eredità che è fissata dalla legge.

In caso di violazione dei diritti di legittima, i legittimari possono impugnare il testamento e chiedere al giudice di ridurre la quota attribuita all’erede testamentario.

Le tipologie di eredi testamentari

Esistono diverse tipologie di eredi testamentari, a seconda della quota di eredità che viene loro attribuita.

  • Erede universale è la persona che succede al testatore nell’intera eredità.
  • Erede a titolo particolare è la persona che succede al testatore in uno o più beni specifici.
  • Erede legatario è la persona che riceve un legato, che è una disposizione testamentaria che attribuisce all’erede un bene specifico.

La redazione del testamento

La redazione del testamento è un atto importante che deve essere fatto con cura e attenzione. Il testamento può essere redatto in forma pubblica o in forma privata.

Il testamento pubblico è redatto da un notaio alla presenza di due testimoni. Il testamento pubblico è la forma più sicura di testamento, in quanto è depositato presso un notaio e può essere consultato da chiunque ne abbia interesse.

Il testamento olografo è redatto interamente di pugno dal testatore e deve essere datato e sottoscritto. Il testamento olografo è la forma di testamento più semplice, ma è anche la forma meno sicura, in quanto può essere contestato in caso di contestazioni.

Conclusione

L’eredità testamentaria è un istituto giuridico complesso che può avere importanti conseguenze patrimoniali. È importante, pertanto, rivolgersi ad un professionista qualificato per la redazione del testamento.

EREDE TESTAMENTO BOLOGNA AVVOCATO ESPERTO :L’erede può prelevare le somme presenti sul conto del genitore defunto, senza il consenso degli altri coeredi.

EREDE TESTAMENTO BOLOGNA AVVOCATO ESPERTO :L’erede può prelevare le somme presenti sul conto del genitore defunto, senza il consenso degli altri coeredi.

GLI ARTICOLI LE FONTI

 

ART . 587 Codice Civile

Il testamento(1) è un atto revocabile [679 ss. c.c.] con il quale taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o di parte di esse(2).

Le disposizioni di carattere non patrimoniale, che la legge consente siano contenute in un testamento, hanno efficacia, se contenute in un atto che ha la forma del testamento [601 c.c.], anche se manchino disposizioni di carattere patrimoniale(3)(4).

 

ART 588 CODICE CIVILE

 

Le disposizioni testamentarie(1), qualunque sia l’espressione o la denominazione usata dal testatore, sono a titolo universale [637 c.c.] e attribuiscono la qualità di erede [625 c.c.], se comprendono l’universalità o una quota dei beni del testatore(2) [674 c.c.]. Le altre disposizioni sono a titolo particolare [631 c.c.] e attribuiscono la qualità di legatario(3) [649 c.c.].

L’indicazione di beni determinati o di un complesso di beni non esclude che la disposizione sia a titolo universale, quando risulta che il testatore ha inteso assegnare quei beni come quota del patrimonio(4) [734 c.c.]

 

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La Suprema Corte evidenzia la fallacia del ragionamento portato avanti dalla Corte d’Appello di Venezia e ritiene che il Giudice del gravame non abbia tenuto conto dell’orientamento espresso dalle Sezioni Unite con sentenza 24657/2007 nella sua completezza.
Ed invero, secondo tale orientamento, se pure i debiti ereditari siano componente essenziale della comunione e di conseguenza vadano divisi, “ogni coerede ha il diritto di chiedere la riscossione dell’intero credito ovvero della quota di sua spettanza, e senza che ciò implichi la necessaria partecipazione al giudizio degli altri coeredi, essendosi esclusa la ricorrenza di una fattispecie di litisconsorzio necessario”.

EREDE TESTAMENTO BOLOGNA AVVOCATO ESPERTO

DIRITTI EREDE, QUOTE EREDITARIE

EREDE TESTAMENTO BOLOGNA AVVOCATO ESPERTO :L’erede può prelevare le somme presenti sul conto del genitore defunto, senza il consenso degli altri coeredi.

Sui crediti de cuius, così ha pronunciato la VI Sezione Civile della Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 27417 del 20 novembre 2017. Tale sentenza si inserisce nel panorama delle successioni mortis causa.Occorre premettere che al momento del decesso di un individuo si apre automaticamente la successione di tutti i suoi beni fra i coeredi, i quali ricordiamo devono effettuare un’esatta ricognizione dell’asse ereditarioindividuando sia i beni mobili che immobili appartenenti al de cuius che eventuali crediti su conti correnti, depositi etc..

EREDE TESTAMENTO BOLOGNA AVVOCATO ESPERTO :L’erede può prelevare le somme presenti sul conto del genitore defunto, senza il consenso degli altri coeredi.

EREDE TESTAMENTO BOLOGNA AVVOCATO ESPERTO :L’erede può prelevare le somme presenti sul conto del genitore defunto, senza il consenso degli altri coeredi.

La controversia, oggetto della sentenza in premessa, riguardava proprio l’azione per il recupero delle somme depositate su un conto corrente e su un conto deposito. Nello specifico l’azione è stata esperita da 2 figlie del de cuius assieme alla moglie di quest’ultimo nei confronti dell’altro coerede e della Banca X per il recupero delle somme sul conto corrente del de cuius cointestato con la moglie e dei titoli giacenti su un conto deposito intestato al solo de cuius.

In altri termini, il singolo coerede ben potrà attivarsi per la riscossione del credito, in tutto o in parte, senza la necessità che l’intervento avvenga nell’esclusivo interesse della comunione.
Le eventuali pretese di rendiconto, precisa anche la Cassazione, potranno dar luogo a contrasti che troveranno naturale sede di risoluzione in un successivo giudizio di divisione.
Con l’accoglimento della prima doglianza, la Suprema Corte assorbe anche i motivi successivi e sottolinea:

  • la circostanza per cui V.T., appellante e vedova di A.C., fosse cointestataria del conto corrente in oggetto, e per questo avrebbe dovuto ottenere l’immediata restituzione di quanto richiesto;

  • il mancato riconoscimento da parte della Corte d’Appello di una effettiva responsabilità in capo alla Banca, nonostante quest’ultima deliberatamente aveva reinvestito le somme del de cuius anche in assenza del consenso della cointestataria – coerede, sulla base di una circostanza ritenuta quindi irrilevante (il diniego da parte del coerede C.C.).

  • I crediti del de cuius, a differenza dei debiti ( 752 c.c.), non si dividono automaticamente tra i coeredi in ragione delle rispettive quote, ma entrano a far parte della comunione ereditaria, come è dato desumere dalle disposizioni degli artt. 727 e 757 c.c.”.

    La vicenda sottesa a detto pronunciamento era stata la seguente: un soggetto, nella sua qualità di erede testamentario di un terzo dell’eredità, allo scopo di ottenere dalla banca il pagamento – nei limiti della quota spettantegli – del saldo attivo di alcuni conti correnti di cui era titolare il de cuius, aveva

  • proposto ricorso per ingiunzione di pagamento ai sensi dell’ 633 c.p.c. ed anche ottenuto il relativo decreto nei confronti della banca stessa per l’importo corrispondente.

  • A tale decreto la banca si era opposta sulla base della negazione dell’esistenza nel nostro ordinamento della regola secondo cui i crediti ereditari divisibili si dividono automaticamente tra i coeredi in proporzione alle quote ereditarie.

  • Il Tribunale accolse l’opposizione, ritenendo fondate le ragioni addotte dalla banca.

  • Successivamente la Corte d’Appello confermò la decisione di primo grado e tale sentenza fu, a sua volta, confermata dalla Cassazione che, infatti, rigettò il ricorso proposto dal coerede.

  • Le argomentazioni attraverso le quali la Cassazione è giunta ad affermare la non automatica divisione dei crediti ereditari e la loro conseguente inclusione nella comunione ereditaria risultavano fondate, in particolar modo, sulla disciplina di cui agli artt. 727 e 757 c.

  • L’ 727 c.c., infatti, annoverando anche i crediti tra gli elementi di cui si compongono i lotti divisionali confermerebbe implicitamente la inclusione degli stessi nella comunione ereditaria e quindi la circostanza della loro non automatica divisione.

  •  
  • La Suprema Corte ha escluso un liticonsosrzio nell’azione per il pagamento di somme. Inoltre, ha ribadito che anche i crediti del de cuius cadevano in comunione.

  • La lettura delle motivazioni della sentenza dellaSezioni Unite n. 24657/2007, alla quale pur dichiara di volersi conformare la sentenza impugnata, consente di avvedersi che la Corte riconosce a ciascun coerede di poter agire nei confronti del debitore del de cuius per la riscossione dell’intero credito ovvero della quota proporzionale a quella ereditaria vantata, senza la necessità del coinvolgimento degli altri coeredi, e soprattutto senza che venga in alcun modo precisato che l’iniziativa del coerede sia ammessa solo allorquando avvenga nell’interesse della comunione.

  • Appare evidente che nel ragionamento delle Sezioni Unite, ferma restando la necessità di ricomprendere nell’eventuale divisione dell’asse ereditario i crediti, l’avvenuta riscossione da parte di un coerede di tutto o parte del credito stesso, potrà incidere nell’ambito delle operazioni divisionali dando vita a delle pretese di rendiconto, tramite anche eventuali compensazioni tra diverse poste creditorie, ma senza che ciò precluda al singolo di poter immediatamente attivarsi per la riscossione anche solo del credito in proporzione della sua quota.

  • La connotazione dell’azione del singolo coerede in chiave finalistica, distinguendo quindi tra iniziativa nell’interesse della comunione ovvero nel proprio personale interesse, non trova affatto riscontro nella decisione delle Sezioni Unite, e nei fatti verrebbe a riproporre, laddove come nel caso in cui non vi sia l’adesione di un coerede alla richiesta di riscossione, una sorta di surrettizio litisconsorzio necessario, posto che tale mancata adesione imporrebbe la necessaria partecipazione al giudizio avente ad oggetto la domanda di pagamento, di tutti i coeredi, ancorché al fine di stabilire se la richiesta di pagamento sia strumentale o meno al soddisfacimento della comunione.

  • Deve pertanto ribadirsi, in adesione a quanto statuito dalle Sezioni Unite, che ogni coerede può agire anche per l’adempimento del credito ereditario pro quota, e senza che la parte debitrice possa opporsi adducendo il mancato consenso degli altri coeredi, dovendo trovare risoluzione gli eventuali contrasti insorti tra gli stessi nell’ambito delle questioni da affrontare nell’eventuale giudizio di divisione.

  • Il motivo deve pertanto essere accolto con la cassazione del provvedimento gravato.

  • L’accoglimento del primo motivo determina poi l’assorbimento del secondo motivo, con il quale si deduce la violazione degli artt. 112 e 113 c.p.c. e degli artt. 1852, 1854, 1766, 1771, 1772, 1175, 1375, 1218, 1223 e 1224 c.c., nonchè l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, in relazione al fatto che il conto era in realtà cointestato alla T., la quale quindi avrebbe potuto immediatamente ottenere la restituzione dell’intero saldo del rapporto bancario, nonchè del terzo motivo che lamenta la violazione degli artt. 112 e 132 c.p.c. e degli artt. 456, 459, 1854, 1856 e 1710, art. 1722, n. 4 e artt. 1223 e 1224, nonchè l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, nella parte in cui la sentenza d’appello ha escluso la responsabilità della banca per avere provveduto autonomamente a reinvestire le somme appartenenti al de cuius, sebbene fosse stata informata della morte del titolare e della contraria volontà di alcune delle coeredi e della cointestataria.

  • Come osservato da Cass. n. 11128/92 cit., il principio tradizionale della ripartizione automatica tra i coeredi è stabilito solo per i debiti dall’art. 752 cod. civ. (secondo cui i coeredi contribuiscono tra loro al pagamento dei debiti e dei pesi ereditari in proporzione delle rispettive quote ereditarie); ma una diversa disciplina deve ritenersi dettata per i crediti dagli artt. 727 e 757 cod. civ. La prima disposizione, stabilendo che le porzioni debbono essere formate comprendendo nelle stesse, oltre ai beni immobili e mobili anche i crediti, presuppone evidentemente che gli stessi facciano parte della comunione. La seconda, prevedendo che il coerede al quale siano assegnati tutti i crediti o l’unico credito del de cuius è reputato il solo successore nei crediti dal momento dell’apertura della successione, rivela inequivocabilmente che i crediti non si ripartiscono tra i coeredi in modo automatico, ma ricadono nella comunione ereditaria.

  • Una conferma si trae anche dalla disposizione dell’art. 760 cod. civ., che, escludendo la garanzia per l’insolvenza del debitore di un credito assegnato a uno dei coeredi, presuppone necessariamente che questi siano inclusi nella comunione.

  • L’opinione di chi, per circoscrivere la portata del principio di cui all’art. 727 cod. civ., limita l’operatività della comunione dei crediti a quelli indivisibili, non trova alcun riscontro nel dato normativo, dovendosi del resto escludere, come ha osservato attenta dottrina, che vi sia incompatibilità tra distinzione strutturale dei diritti di credito degli eredi e permanenza degli stessi in comunione.

  • Argomenti in senso contrario alla tesi della comunione non possono essere tratti dall’art. 1295 cod. civ., secondo cui l’obbligazione si divide tra gli eredi di uno dei condebitori o dei creditori in solido, in proporzione delle rispettive quote. La norma, che non riguarda il credito del solo de cuius, ma concerne la diversa ipotesi del credito solidale tra lo stesso ed altri soggetti, si limita a sancire in generale, salvo patto contrario, l’inoperatività del principio della solidarietà tra gli eredi di un concreditore in solido, senza definire l’appartenenza o meno dei crediti alla comunione ereditaria.

  • D’altro canto, l’art. 1314 cod. civ., che riguarda la divisibilità del credito in generale, non risulta formulato per l’ipotesi del credito degli eredi, che l’art. 1204 del codice civile abrogato regolava invece stabilendo che gli eredi del creditore non potevano domandare il credito se non per la porzione loro spettante.

  • In definitiva, in tema di crediti facenti parte di una comunione ereditaria, i singoli coeredi non possono pretendere il pagamento di quella che assumono essere la loro quota, con la conseguenza che la stessa cessa di far parte di tale comunione, per la decisiva considerazione che non sono titolari del relativo diritto, non trovando applicazione il principio nomina et debita ipso iure dividuntur, su questo esatto presupposto quindi Cass. 11128/1992 cit. ha ritenuto corretto il rigetto della domanda.

  • Ciò premesso, ritiene tuttavia il collegio che trova applicazione anche in questa ipotesi il principio generale, affermato dalla costante giurisprudenza di questa Corte, secondo cui ciascun soggetto partecipante alla comunione può esercitare singolarmente le azioni a vantaggio della cosa comune senza necessità di integrare il contraddittorio nei confronti di tutti gli altri partecipanti, perché il diritto di ciascuno di essi investe la cosa comune nella sua interezza (cfr. Cass. 22 ottobre 1998 n. 10478, 17 novembre 1999 n. 12767, 28 giugno 2001 n. 8842, 6 ottobre 2005 n. 19460).

  • In questa prospettiva ogni coerede può agire per ottenere la riscossione dell’intero credito, non ponendosi la necessità della partecipazione al giudizio di tutti gli eredi del creditore, atteso che la pronuncia sul diritto comune fatto valere dallo stesso spiega i propri effetti nei riguardi di tutte le parti interessate, restando peraltro estranei all’ambito della tutela del diritto azionato i rapporti patrimoniali interni tra coeredi, destinati ad essere definiti con la divisione.

  • L’integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri coeredi può essere richiesta dal convenuto debitore, se ed in quanto egli abbia interesse ad una pronuncia che faccia stato anche nei confronti di tutti i partecipanti alla comunione.

  • Se il singolo coerede può agire per la riscossione dell’intero credito, a maggior ragione tale legittimazione gli va riconosciuta in relazione alla riscossione della parte di credito proporzionale alla quota ereditaria, fermo restando che il pagamento effettuato dal debitore non ha effetti nei rapporti interni con gli altri coeredi.

  • In conclusione, si deve affermare il principio secondo cui i crediti del de cuius non si dividono automaticamente tra i coeredi in ragione delle rispettive quote, ma entrano a far parte della comunione ereditaria; ciascuno dei partecipanti ad essa può agire singolarmente per far valere l’intero credito ereditario comune o anche la sola parte di credito proporzionale alla quota ereditaria, senza necessità di integrare il contraddittorio nei confronti di tutti gli altri coeredi. La partecipazione al giudizio di costoro può essere richiesta dal convenuto debitore in relazione ad un concreto interesse all’accertamento nei confronti di tutti della sussistenza o meno del credito.

  • Ne consegue che la decisione impugnata appare conforme a diritto, pur dovendo essere corretta la motivazione ai sensi dell’art. 384 cod. proc. civ.; infatti, la necessità di integrazione del contraddittorio con gli altri coeredi è stata esclusa esattamente, ma sull’erroneo presupposto che ogni erede possa agire soltanto nei limiti della propria quota. La statuizione relativa all’ammontare del credito spettante alla sig. Tizio non costituisce d’altro canto oggetto di impugnazione.

  • L’avvocato Successioni Bologna Sergio Armaroli presta assistenza e consulenza in materia di successioni, legittime (senza testamento) e testamentari.
    all’accettazione dell’eredità (espressa, tacita o con beneficio di inventario), alla rinuncia all’eredità, alla fase, consensuale o giudiziale, di divisione/scioglimento delle comunioni ereditarie.

    EREDE TESTAMENTO BOLOGNA AVVOCATO ESPERTO

    L’avvocato Successioni Bologna Sergio Armaroli presta assistenza e consulenza in materia di successioni, legittime (senza testamento) e testamentari. all’accettazione dell’eredità (espressa, tacita o con beneficio di inventario), alla rinuncia all’eredità, alla fase, consensuale o giudiziale, di divisione/scioglimento delle comunioni ereditarie.   Consulenza e assistenza nella redazione di testamenti olografi avvocato Successioni Bologna Sergio Armaroli Assistenza nella redazione di testamento segreto e successivo deposito avvocato Successioni Bologna Sergio Armaroli Assistenza presso il Notaio per la redazione di testamento pubblico avvocato Successioni Bologna Sergio Armaroli Denuncie di successione avvocato Successioni Bologna Sergio Armaroli – accettazione dell’eredità, accettazione con beneficio di inventario; – rinuncia all’eredità; – redazione del testamento e degli atti dispositivi di ultima volontà; – interpretazione delle clausole testamentarie; – impugnazione del testamento; – mediazione e contenzioso ereditario; – divisione ereditaria; – donazioni;
    L’avvocato Successioni Bologna Sergio Armaroli presta assistenza e consulenza in materia di successioni, legittime (senza testamento) e testamentari.
    all’accettazione dell’eredità (espressa, tacita o con beneficio di inventario), alla rinuncia all’eredità, alla fase, consensuale o giudiziale, di divisione/scioglimento delle comunioni ereditarie.

    Consulenza e assistenza nella redazione di testamenti olografi
    avvocato Successioni Bologna Sergio Armaroli
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    Denuncie di successione
    avvocato Successioni Bologna Sergio Armaroli
    – accettazione dell’eredità, accettazione con beneficio di inventario;
    – rinuncia all’eredità;
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    1. Analisi e ricerca presso gli Archivi Notarili o presso il Distretto Notarile di testamenti;

    2. Analisi e R

    3. ricerca di rogiti notarili presso l’Archivio Notarile;

    4. Consulenza mirata  in materia di compravendita, donazione o divisione di immobili;

    5. Divisione ereditarie di immobili o denaro o quote di società;

  •  
 

Originally posted 2018-08-11 17:43:46.

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GIOVANNI l’incredibile storia di Giovanni
 

Giovanni è un distinto signore  sui 50 anni, ne dimostra meno, elegante, raffinato colto, spesato con Bianca, una signora di 38 anni, molto bella ,architetto,

Hanno una bambina di nome  Paola, come la madre di Giovanni.
 
Giovanni ha scoperto la moglie sulle chat di incontri, perché la moglie aveva lasciato aperto il computer, distrattamente, e  stava chattando con un uomo per  un incontro della settimana
 
Giovanni era stordito dalla scoperta, non aveva  piu’ fiducia nella moglie, si sentiva peggio che tradito.
 
La moglie confessa a Giovanni di aver avuto diverse relazioni, ma solo a sfondo sessuale, per Giovanni è una mazzata incredibile, piange…
 
Mi dice che  non potra’ piu guardare la moglie, e non vuole piu’ vederla.
 
Ricevo  Bianca dopo alcuni giorni ,senza Giovanni  e la moglie mi dice di non sopportare piu la gelosia del marito che a stava soffocando e che  trovava il marito invecchiato  e noioso e comunque non aveva piu’ interesse per lui ma voleva  che la bambina non soffrisse dalla separazione.
Erano sposati da 15 anni e il grande amore era svanito, non ve ne era piu’ traccia.
 
Consigliai ai coniugi una separazione consensuale , che è sempre la meno traumatica, oltre che la piu’ economica.
 
I coniugi mi chiesero un mese per pensarci, e dopo un mese successe   una cosa incredibile:
 
Vennero in studio entrambi, tra loro era scoppiata nuovamente l a passione, si amavano e  Giovanni aveva  perdonato Bianca che prometteva che con le chat di incontri aveva chiuso
 
Le fattispecie previste per ottenere lo scioglimento del matrimonio o la dichiarazione degli effetti civili sono tassative e sono espressamente indicate dall’art. 3 L. n.898/1970. Il Divorzio conseguente la separazione personale dei coniugi è sicuramente l’ipotesi più frequente nella pratica. In tal caso, è tuttavia necessario al fine della presentazione della relativa domanda (presso il Tribunale competente) che la separazione duri da almeno 6 Mesi o 12 Mesi (a seconda dei casi previsti dalla Legge Vigente) ininterrotti e consecutivi dalla comparizione personale dei coniugi avvenuta davanti al Presidente del Tribunale (nel procedimento di separazione), durante i quali non deve essere ripresa la convivenza, né deve essersi verificata alcuna riconciliazione tale da fare ritenere temporaneamente ricostituita la comunione materiale e spirituale dei coniugi.
 
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Avvocato Divorzista BOLOGNA

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Mediante la separazione consensuale i coniugi concordano le modalità alle quali intendono porre fine alla convivenza materiale e alla comunione morale, sottoscrivendo congiuntamente un ricorso depositato in Tribunale. In tal caso, pertanto, sussistendo un accordo tra i coniugi in ordine alle condizioni personali e patrimoniali della separazione, il Presidente del Tribunale si limiterà ad omologare tale accordo, cioè ad assicurarsi che siano rispettati i diritti di ciascun coniuge e della eventuale prole, mediante decreto.
Diversamente, la separazione giudiziale è un procedimento attraverso il quale uno solo dei coniugi o ciascuno di essi con proprio ricorso autonomo (in questo caso si hanno due iniziative distinte che verranno riunite) chiedono al Tribunale competente di pronunciare una sentenza di separazione che regoli i loro rapporti, essendo cessata la convivenza tra loro. La separazione giudiziale si distingue da quella consensuale perché in quest’ultima i coniugi sono d’accordo sia nel richiedere al Tribunale la separazione, sia su come regolare i loro rapporti circa l’affidamento dei figli, l’assegnazione della casa coniugale e le questioni economiche e patrimoniali.
Infine, nel segno di un più ampio mutamento sociale da tempo segnalato anche nella dottrina giuridica, l’intervento normativo della legge n. 55 del 2015 ha provveduto a ridurre i termini affinché sia possibile proporre domanda di cessazione degli effetti civili del matrimonio, determinando in dodici mesi il termine in caso di separazione giudiziale, ed in sei mesi in caso di separazione consensuale. Il termine decorre dalla data di comparizione dei coniugi dinanzi al presidente del Tribunale.
 
Di seguito un elenco dei casi più frequenti in cui operiamo:
  • Separazione consensuale e giudiziale con addebito
  • Divorzio consensuale e giudiziale
  • Tutela legale nei provvedimenti presidenziali
  • Assegno di mantenimento per il coniuge ed eventuale precetto di pagamento
  • Precetto di pagamento su condizioni di separazione non onorate
  • Precetto di pagamento in caso di non corresponsione aggiornamento ISTAT dell’assegno di mantenimento
  • Rapporti patrimoniali dopo la separazione, assegnazione casa coniugale
  • Affidamento congiunto e disgiunto dei figli nati in costanza di matrimonio
  • Accordi sull’affidamento dei figli anche fuori dal matrimonio, riconoscimento ed esecuzione dei provvedimenti urgenti
  • Responsabilità aquiliana e munus genitoriale
  • Rapporti patrimoniali fra conviventi
  • Cessazione della convivenza e conseguenze
  • Tutela penale in caso di violazione degli obblighi di assistenza familiare art. 570 c.p.
L’avvocato Sergio Armaroli per cause di diritto di famiglia e di tutela dei minori sono infatti particolarmente delicate perché possono andare a toccare la sfera privata e intima di persone provate da vicende tristi e logoranti. In situazioni del genere è necessario che intervenga un avvocato matrimonialista bravo capace di comprendere la sofferenza degli assistiti e di dare consigli preziosi su come agire dentro e fuori dal tribunale. Il miglior avvocato matrimonialista sa infatti che i problemi delle coppie non devono necessariamente essere vagliati e giudicati da un magistrato, ma che possono essere anche risolti in via stragiudiziale grazie all’intervento e alla mediazione di un avvocato matrimonialista esperto. Ciò è ancor più vero per un avvocato matrimonialista Bologna che sa di dover operare in un foro immenso e troppo dispersivo, dove le cause si accumulano a centinaia e i giudici non hanno la possibilità e il tempo di accostarsi ai litiganti con la necessaria empatia.
 
Succede sovente che un avvocato matrimonialista Roma preferisca consigliare ai clienti di fare accordi stragiudiziali proprio perché sa che in tribunale non si può trovare la giusta serenità per discutere di problemi intimi.
 
Tra i clienti si considera miglior avvocato matrimonialista quello che cura al meglio gli interessi dei clienti al di fuori dei tribunali ed è in grado di redigere scritture private chiare, giuste e inoppugnabili.
 
L’avvocato Sergio Armaroli è un avvocato matrimonialista f  L’avvocato Sergio Armaroli è quello della separazione, che ogni  avvocato matrimonialista cerca sempre più di risolvere con una consensuale . Qualora non vi siano eccessivi attriti fra i coniugi, la separazione consensuale è uno strumento agevole che riesce a risolvere nel miglior modo possibile gli aspetti giuridici della lite fra marito e moglie che ha portato alla rottura del matrimonio.
Con la scrittura privata che sancisce la separazione consensuale l’avveduto avvocato matrimonialista non deve risolvere in modo puntiglioso solo i problemi relativi alla divisione del patrimonio dei coniugi, ma deve anche regolare il mantenimento del coniuge più debole e stabilire i diritti di visita e gli obblighi di mantenimento della prole.
 
Qualora i coniugi non raggiungano un accordo, è inevitabile ricorrere a un giudice. In sede giudiziale il miglior avvocato matrimonialista può essere in grado di ottenere l’addebito della separazione, cioè il riconoscimento da parte del giudice che uno dei coniugi abbia violato gli obblighi discendenti dal contratto di matrimonio (cura dei figli, coabitazione, fedeltà). La legge prevede invece che debba essere pronunciato esclusivamente dal tribunale il divorzio fra i coniugi.
 
 
 
 
Avvocato Civilista BOLOGNA
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Aree di intervento
  • riconciliazione dei coniugi separati
  • il diritto agli alimenti per l’ex coniuge
  • l’assegnazione della casa familiare
  • l’affidamento dei figli ed il loro mantenimento
  • sottrazione internazionale di minori
  • filiazione naturale
  • adozioni
  • affidamento minori
  • interdizione e inabilitazione
  • nomina di amministratori di sostegno
  • redazione di testamenti
  • cause testamentarie
  • trust e patti di famiglia
  • lo Stalking a danno dell’ex partner
  • regime legale patrimoniale della famiglia
CASA CONIUGALE
 
Ciascuno dei genitori in procinto di separarsi si chiede “a chi spetta restare nella casa coniugale”?
IN PRIMIS SEMPRE L’INTERESSE DEI MINORI SEMPRE!!Scopo dell’assegnazione della casa ad uno dei genitori è la tutela dell’interesse dei figli a conservare l’habitat domestico, inteso come il centro delle consuetudini in cui si è espressa la vita della famiglia.
Tale provvedimento, pertanto, non può essere adottato in mancanza di figli minori o maggiorenni non autonomi.
 
Restare ad abitare nella casa coniugale spetta dunque:
– al genitore con il quale sono collocati stabilmente i figli minori, quando è previsto un regime di affidamento condiviso;
– al genitore cui sono affidati in via esclusiva i figli minori ;
– al genitore con il quale restano a convivere i figli maggiorenni non autonomi.
La legge prevede che dell’assegnazione il giudice tiene conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori
 
  • separazione giudiziale
  • separazione consensuale
  • divorzio
  • nullità \ annullamento matrimonio
  • modifica alla condizioni di separazione e divorzio
  • controversie relative alle convivenze more uxorio
  • ordini di protezione \ allontanamento del coniuge e\o del figlio
  • tutela frequentazione nonni \ zii
  • accordi di convivenza
  • famiglia di fatto e convivenze: le possibili tutele dei partner non sposati
  • accordi matrimoniali
  • ricorso di separazione
  • ricorso di divorzio
  • le questioni patrimoniali relative alla comunione e ai beni acquistati in comune, e i diritti successori
L’Avvocato Divorzista Bologna  è un avvocato che generalmente si occupa dei vari settori di cui è composto il diritto di famiglia.
Impropriamente, si effettua una distinzione tra “avvocato matrimonialista” e “professionista divorzista”, identificando quest’ultimo come specializzato nella fase patologica del rapporto.
Secondo la legge questa differenza non esiste ed un professionista può gestire tutte le fasi del rapporto familiare.
Separazione Giudiziale
 
12 mesi
 
dalla comparizione delle parti dinanzi al Presidente all’udienza ex art. 708 c.p.c
Separazione Giudiziale Trasformata in Consensuale
 
6 mesi
 
dalla comparizione delle parti dinanzi al Presidente all’udienza ex art. 711 c.p.c.
Separazione Consensuale
 
6 mesi
 
dalla comparizione delle parti dinanzi al Presidente all’udienza ex art. 711 c.p.c.
Negoziazione Assistita
 
6 mesi
 
dalla data certificata nell’accordo di separazione raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione assistita di Avvocati.
Separazione Dinanzi all’Ufficiale dello Stato Civile
 
6 mesi
 
dalla data dell’atto contenente l’accordo di separazione concluso innanzi all’ufficiale dello stato civile.
 
Per affrontare una scelta così delicata è indispensabile affidarsi ad un professionista in grado di offrire i giusti consigli e la conseguente assistenza legale per avviare a soluzione con professionalità, equilibrio e buon senso
il contenzioso che affligge i coniugi e i conviventi di fatto
. Pertanto l’attività legale è finalizzata a privilegiare soluzioni consensuali che consentano la più veloce soluzione della vicenda nell’interesse di tutte le parti coinvolte, evitando, per quanto possibile, l’inasprimento dei fisiologici conflitti che le singole vicende presentano. L’aspetto giudiziale, giudicato residuale, viene comunque seguito con la massima determinazione e con l’obiettivo di chiudere il contenzioso nel minor tempo possibile.
 
Solitamente l’avvocato famigliarista l’avvocato può occuparsi di diritto civile , così come degli accordi prematrimoniali oppure del matrimonio stesso.
Nel linguaggio comune, si identifica il giurista divorzista in colui che gestisce la fase della rottura del matrimonio.
DISCONOSCIMENTO DI PATERNITÀ
RICONOSCIMENTO DEL FIGLIO NATURALE
SUCCESSIONI E TESTAMENTI
AMMINISTRAZIONI DI SOSTEGNO
TUTELA E GESTIONE PATRIMONIALE
TRUST E FONDI PATRIMONIALI
PRATICA COLLABORATIVA
SEPARAZIONE
DIVORZIO
ASSEGNO DI MANTENIMENTO
AFFIDAMENTO
COLLOCAMENTO E MANTENIMENTO DEI FIGLI
UNIONI CIVILI E CONVIVENZE
ADOZIONI
 
Attenzione il matrimonio e la separazione e il divorzio fanno nascer euna serie di obblighi fa discendere diversi adempimenti in capo ai coniugi.
SCIOGLIMENTO DEL MATRIMONIO
Il legislatore prevede una serie di diritti e doveri, nascenti dalla fase della separazione ovvero dal divorzio.
L’ art. 12 della legge 162/2014 prevede la possibilità per i coniugi di concludere un accordo di separazione, di divorzio o di modifica delle condizioni di separazione e di divorzio avanti all’ Ufficiali di Stato Civile del Comune, senza che sia obbligatoria l’assistenza dei legali.
Tale procedura ha un ambito di applicazione piuttosto limitata, non potendo essere utilizzata qualora vi siano figli minori, maggiorenni non economicamente autosufficienti, portatori di handicap grave ed, in ogni caso, nell’accordo non potranno essere previsti patti di trasferimento patrimoniale.
I coniugi, pertanto, potranno solo regolare le pattuizioni aventi ad oggetto l’assegno di mantenimento o divorzile.
Il comune di competenza può essere quello in cui è stato celebrato il matrimonio, quello in cui è stato trascritto l’atto di matrimonio, quello di residenza di uno dei coniugi.
 
Qualcuno ritiene che nei casi relativi al diritto di famiglia, si debba scegliere un Avvocato Divorzista Bologna , esperto di separazioni.
In realtà, vi sono delle ipotesi – quali ad esempio, il mancato mantenimento dei figli – che per legge sono reati.

Quando una controversia è determinata da reati, generalmente si affida l’incarico ad un avvocato penalista, esperto di illeciti, appunto, penali.
Da quanto esposto, si desume l’importanza della comprensione della fase, che necessita di gestione qualificata, da parte di un professionista esperto.
Proprio per questi motivi, si ritiene utile la disamina delle varie fasi del rapporto coniugale, così come disciplinate dalla legge.
La trattazione delle fasi, conduce ad una scelta oculata dell’Avvocato Divorzista Bologna DIRITTO DI FAMIGLIA E Avvocato Divorzista Bologna
L’Avvocato Divorzista Bologna  fornisce, altresì, chiarimenti ai propri clienti in merito alla sentenza di divorzio.
Nella sentenza di divorzio, il Giudice valuta il contributo fornito dalle parti in costanza di matrimonio e statuisce:
– tutte le questioni relative allo stato patrimoniale;
– affidamento dei figli;
– assegnazione della casa in cui i coniugi hanno convissuto, in costanza di matrimonio.
Com’è facile intuire, il processo di divorzio può comportare rancori e controversie sugli aspetti economici e morali.
Proprio per questo, si consiglia di scegliere un Avvocato Divorzista Bologna esperto, che sia in grado di gestire le dinamiche conflittuali.
Avvocato DivorzistaBologna  E DIVORZIO BREVE
Con la riforma del 2015, il tempo di separazione utile alla richiesta di divorzio, diminuisce a sei o dodici mesi.
Avvocato Bologna DISCONOSCIMENTO DI PATERNITÀ
Avvocato civilista cause civili
Avvocato Bologna RICONOSCIMENTO DEL FIGLIO NATURALE
Avvocato Bologna SUCCESSIONI E TESTAMENTI
Avvocato Bologna AMMINISTRAZIONI DI SOSTEGNO
Avvocato Bologna TUTELA E GESTIONE PATRIMONIALE
Avvocato Bologna TRUST E FONDI PATRIMONIALI
Avvocato Bologna PRATICA COLLABORATIVA
Avvocato Bologna SEPARAZIONE
Avvocato Bologna DIVORZIO
Avvocato Bologna ASSEGNO DI MANTENIMENTO
Avvocato Bologna AFFIDAMENTO
Avvocato Bologna COLLOCAMENTO E MANTENIMENTO DEI FIGLI
UNIONI CIVILI E CONVIVENZE
ADOZIONI

Le vie alternative al tradizionale divorzio giudiziale, sono due:
– la negoziazione assistita che avviene a mezzo dell’assistenza di un preparato avvocato divorzista a Bologna ;
 
Separazione Giudiziale
 
12 mesi
 
dalla comparizione delle parti dinanzi al Presidente all’udienza ex art. 708 c.p.c
Separazione Giudiziale Trasformata in Consensuale
 
6 mesi
 
dalla comparizione delle parti dinanzi al Presidente all’udienza ex art. 711 c.p.c.
Separazione Consensuale
 
6 mesi
 
dalla comparizione delle parti dinanzi al Presidente all’udienza ex art. 711 c.p.c.
Negoziazione Assistita
 
6 mesi
 
dalla data certificata nell’accordo di separazione raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione assistita di Avvocati.
Separazione Dinanzi all’Ufficiale dello Stato Civile
 
6 mesi
 
dalla data dell’atto contenente l’accordo di separazione concluso innanzi all’ufficiale dello stato civile.
 
DISCONOSCIMENTO DI PATERNITÀ Avvocato civilista separazioni divorzi eredita’ cause civili   
RICONOSCIMENTO DEL FIGLIO NATURALE Avvocato civilista separazioni divorzi eredita’ cause civili   
SUCCESSIONI E TESTAMENTI
AMMINISTRAZIONI DI SOSTEGNO Avvocato civilista separazioni divorzi eredita’ cause civili   
TUTELA E GESTIONE PATRIMONIALE
TRUST E FONDI PATRIMONIALI
PRATICA COLLABORATIVA
SEPARAZIONE
DIVORZIO
ASSEGNO DI MANTENIMENTO
AFFIDAMENTO Avvocato civilista separazioni divorzi eredita’ cause civili   
COLLOCAMENTO E MANTENIMENTO DEI FIGLI
UNIONI CIVILI E CONVIVENZE Avvocato civilista separazioni divorzi eredita’ cause civili   
ADOZIONI Avvocato civilista separazioni divorzi eredita’ cause civili   
Aree di intervento
  • separazione giudiziale
  • separazione consensuale
  • divorzio
  • nullità \ annullamento matrimonio
  • modifica alla condizioni di separazione e divorzio
  • controversie relative alle convivenze more uxorio
  • ordini di protezione \ allontanamento del coniuge e\o del figlio
  • tutela frequentazione nonni \ zii
  • accordi di convivenza
  • famiglia di fatto e convivenze: le possibili tutele dei partner non sposati
  • accordi matrimoniali
  • ricorso di separazione
  • ricorso di divorzio
  • le questioni patrimoniali relative alla comunione e ai beni acquistati in comune, e i diritti successori
  • riconciliazione dei coniugi separati
  • il diritto agli alimenti per l’ex coniuge
  • l’assegnazione della casa familiare
  • l’affidamento dei figli ed il loro mantenimento
  • sottrazione internazionale di minori
  • filiazione naturale
  • adozioni
  • affidamento minori
  • interdizione e inabilitazione
  • nomina di amministratori di sostegno
  • redazione di testamenti
  • cause testamentarie Avvocato civilista separazioni divorzi eredita’ cause civili   
  • trust e patti di famiglia Avvocato civilista separazioni divorzi eredita’ cause civili   
  • lo Stalking a danno dell’ex partner Avvocato civilista separazioni divorzi eredita’ cause civili   
  • mobbing familiare Avvocato civilista separazioni divorzi eredita’ cause civili   
  • regime legale patrimoniale della famiglia Avvocato civilista separazioni divorzi eredita’ cause civili   
Separazioni consensuali e giudiziali, divorzi (sia cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario che scioglimento del matrimonio civile) sia congiunti che giudiziali, controversie relative ai figli minori (affido esclusivo, decadenza dalle potestà genitoriali) anche in ipotesi di convivenza e/o di unioni civili, modifica delle condizioni di separazione e/o di divorzio. DIRITTO DI FAMIGLIA – DIRITTO CIVILE
Separazione coniugi ,Divorzi (cessazione effetti civili/scioglimento matrimonio)-Richieste mutamento condizioni di separazione e di divorzio,affidamento e mantenimento figli –convivenze,cause sia davanti Tribunale Ordinario sia davanti Tribunale dei minorenni. Procedimenti avanti Giudice Tutelare
 
 
AFFIDO FIGLI MINORI AVVOCATO ESPERTO BOLOGNA
 
Se è vero che il conflitto fra i genitori non è, di per sé solo, idoneo ad escludere l’affidamento condiviso,
 
che il legislatore ha mostrato di ritenere come il regime ordinario (v. Cass. n. 1777/2012), questa Corte ha ritenuto possibile escluderlo in presenza di un pregiudizio per l’interesse del figlio laddove l’altro genitore risulti inidoneo o manifesti carenze sul piano educativo (v. Cass. n. 16593/2008, n. 5108/2012).
 
A tale riguardo, la Corte d’appello ha motivato
 
circa il negativo rapporto del figlio (descritto in sua presenza come “nervoso, iperattivo e aggressivo”) con il padre che in questa sede agisce per far ristabilire il precedente regime di affidamento condiviso con collocamento a Milano presso di lui o per ottenerne l’affidamento esclusivo. La censura mira in sostanza a una revisione del giudizio di fatto compiuto dal giudice di merito che è insindacabile in sede di legittimità, tanto più che non è stato specificamente allegato l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che sia stato oggetto di discussione tra le parti, a norma del novellato art. 360 n. 5 c.p.c. (nel nuovo testo riformulato ad opera del d.l. n. 83/2012, conv. in legge n. 134/2012, applicabile nella fattispecie ratione temporis
 
 
 
  • BOLOGNA AVVOCATO SEPARAZIONI
    SAPER GESTIRE UNA SEPARAZIONE E CREDIMI NON E’ UNA COSA FACILE AFFIDATI CHIAMA
    • SEPARAZIONI CONIUGI PROBLEMATICHE:
    • AFFIDO FIGLI, SU QUESTO SI LITIGA MOLTO NELLE SEPARAZIONI
    • CASA CONIUGALE Avvocato civilista separazioni divorzi eredita’ cause civili   
    • MUTUO EVENTUALE Avvocato civilista separazioni divorzi eredita’ cause civili   
    • ASSEGNO PER I FIGLI Avvocato civilista separazioni divorzi eredita’ cause civili   
  •    5BIS )ASSEGNO PER IL CONIUGE
    • SPESE STRAORDINARIE Avvocato civilista separazioni divorzi eredita’ cause civili   
    • DIVIISONE DEI MOBILI Avvocato civilista separazioni divorzi eredita’ cause civili   
    • DIVISIONE CON CORRENTI E SOMME Avvocato civilista separazioni divorzi eredita’ cause civili   
    • RIPARTIZIONE REGALI DI NOZZE Avvocato civilista separazioni divorzi eredita’ cause civili   
    • AFFIDO DEL CANE Avvocato civilista separazioni divorzi eredita’ cause civili   
    • PAGAMENTO DELL’AUTO
    • PAGAMENTO DEBITI CONTRATTI INSIEME VERSO BANCHE O FINANZIARIE
    La separazione consensuale
     
    è disciplinata sostanzialmente dagli artt. 150 e 158 c.c. e proceduralmente dall’art. 711 c.p.c. Separazione consensuale
    Una separazione di tipo consensuale si basa essenzialmente sull’accordo dei coniugi inserito in un apposito atto contenente la regolamentazione dei rapporti patrimoniali, l’assegnazione della casa coniugale e dei beni comuni (immobili automezzi, titoli e conti correnti ecc.), gli accordi inerenti l’affidamento ed il mantenimento dei figli, l’eventuale assegno di mantenimento ed ogni altro aspetto della loro vita futura. Tale atto viene depositato in Tribunale per ottenerne l’omologazione. 
    Separazione giudiziale
    Qualora le posizioni si rivelino inconciliabili, uno solo o entrambi i coniugi congiuntamente possono proporre ricorso per la separazione giudiziale che comporta, invece, l’instaurazione di un vero e proprio contenzioso giudiziario diretto all’esame di tutti i punti controversi con l’assistenza di un avvocato divorzista. 
    Se la separazione si protrae ininterrottamente per tre anni , uno solo o entrambi i coniugi congiuntamente possono proporre ricorso per ottenere il divorzio.
    La separazione consensuale da’ rilevanza alla volontà dei coniugi di separarsi personalmente, nonché di stabilire concordemente le condizioni e le modalità degli spetti personali e patrimoniali della loro vita futura.
    Il diritto attribuito ai coniugi (che sotto questo profilo non diverge dalla separazione giudiziale) è personalissimo, poiché spetta esclusivamente ai coniugi, è indisponibile, non trasmissibile agli eredi, imprescrittibile ed è pacifico che non può essere oggetto di arbitrato.
    Separazione consensuale
    Una separazione di tipo consensuale si basa essenzialmente sull’accordo dei coniugi inserito in un apposito atto contenente la regolamentazione dei rapporti patrimoniali, l’assegnazione della casa coniugale e dei beni comuni (immobili automezzi, titoli e conti correnti ecc.), gli accordi inerenti l’affidamento ed il mantenimento dei figli, l’eventuale assegno di mantenimento ed ogni altro aspetto della loro vita futura. Tale atto viene depositato in Tribunale per ottenerne l’omologazione. 
    Separazione giudiziale
    Qualora le posizioni si rivelino inconciliabili, uno solo o entrambi i coniugi congiuntamente possono proporre ricorso per la separazione giudiziale che comporta, invece, l’instaurazione di un vero e proprio contenzioso giudiziario diretto all’esame di tutti i punti controversi con l’assistenza di un avvocato divorzista. 
    Se la separazione si protrae ininterrottamente per tre anni , uno solo o entrambi i coniugi congiuntamente possono proporre ricorso per ottenere il divorzio.
    Anche nella seprazione consensuale, così come in quella giudiziale, non è necessario che la causa della crisi coniugale sia imputabile ad entrambi i coniugi, poiché quest’ultima ben può essere rapresentata dalla perdita di affetto, disaffezione e distacco di uno solo dei coniugi, tanto è vero che ai sensi dell’art. 711, comma 2, c.p.c. il ricorso per separazione consensuale può essere proposto anche da uno solo dei coniugi.
    La condizione affinché si possa giungere alla
  • separazione consensuale
    BOLOGNA AVVOCATO SEPARAZIONI
    fra i coniugi vi sia un accordo, cioè il consenso alla separazione, in difetto del quale tale tipo di separazione non può ritenersi possibile, fermo restando che essa acquista rilevanza giuridica solo attraverso l’omologazione da parte del Tribunale
    Nella prima ipotesi il ricorso andrà proposto al Tribunale del luogo in cui i coniugi hanno avuto l’ultima residenza comune. Nel caso in cui essi non abbiano mai avuto una residenza comune o da molto tempo non abitano più in una residenza comune (ad esempio per motivi di lavoro o di studio) il Tribunale territorialemnte competente è quello del luogo in cui uno dei coniugi risieda o abbia domicilio.
    Nella seconda ipotesi, cioè qualora il ricorso venga proposto da uno solo dei coniugi, Tribunale territorialmente competente è quello del luogo di residenza del coniuge che non propone il ricorso.
     
    L’attività tratta il diritto di famiglia
  • e delle persone, con particolare riferimento ai rapporti tra genitori e figli e a quelli personali e patrimoniali tra coniugi, al riconoscimento e al disconoscimento della paternità, alle cause di separazione e divorzio, alle procedure di affidamento dei minori e alla protezione contro gli abusi e la violenza. I professionisti guidati dall’avvocato esperto in separazioni a Bologna si occupano sia della crisi del matrimonio, della separazione e del divorzio, sia dell’affidamento dei figli minori. Il sistema giuridico offre oggi strumenti giuridici di ogni tipo: patti prematrimoniali, accordi tra conviventi, sistemazioni e cause successorie, responsabilità civile, tutela penale, amministrazione di sostegno, trascrizione di vincoli alla proprietà in funzione di tutela di molteplici interessi familiari.
    Fondamentale nel ricorso per separazione consensuale
  •   che va firmato da entrambi i coniugi con particolare riferimento all’affidamento dei figli, sul mantenimento e sulle modalità di frequentazione degli stessi, sulla somma periodica da corrispondere eventualmente al coniuge meno abbiente, all’assegnazione della casa coniugale e così via. Le attività svolte dallo Studio riguardano:
    • separazione personale dei coniugi, consensuale o giudiziale
    • divorzio, congiunto o contenzioso
    • ricorso per la modifica delle condizioni di separazione e/o di divorzio
    • affidamento dei figli minori, modifica delle condizioni economiche e di visita
    interdizioni, inabilitazioni e nomina di amministratore di sostegno
    Diritto di famiglia.
    Separazioni e divorzi consensuali e giudiziali.
    Modifica delle condizioni di separazione e divorzio.
    Accordi prematrimoniali.
    Comunione legale dei coniugi: problematiche e rimedi.
    • Amministrazione di sostegno. Tutela e Curatela.
    BOLOGNA AVVOCATO SEPARAZIONI
    sara’ una udienza del presidente del Tribunale (a volte presidente di sezione o magistrato facente funzioni di presidente).
    Nel corso di tale udienza (detta “udienza Presidenziale”) si dovrebbe esperire il tentativo di conciliazione dei coniugi, il quale raramente dà esito positivo. Qualora ciò accadesse, la prassi prevede la redazione del verbale di conciliazione che sancisce la volontà dei coniugi di conciliarsi.
    Diritto di famiglia
  • spesso è sinonimo di cause di separazione e di divorzio.  La posizione dell’ Avvocato Sergio Armaroli separazioni e divorzi Bologna  in questi casi, sebbene specializzato come avvocato divorzista, al di là di qualsiasi interesse, suggerisce di applicare e studiare tutti i mezzi e strumenti per evitare di arrivare a questa situazione di separazione definitiva.
    Quando però si presentano casi non risolvibili, per cui quindi è necessario l’intervento del legale, lo studio si propone come il miglior partner per tutte le cause di divorzio e di separazione.
    Si intende come separazione
  • lo stato di sospensione del contratto del matrimonio, in attesa di una riappacificazione o del definitivo scioglimento. Si intende invece come divorzio l’effettivo scioglimento del contratto del matrimonio, che può avvenire in modo consensuale, se entrambe le parti trovano appunto un accordo sullo scioglimento, oppure in modo giudiziale, quando una delle due parti si oppone.
    Nella ben più frequente ipotesi in cui le parti rinnovano la loro volontà di separarsi alle condizioni riportate nel ricorso, il Tribunale adito opera un controllo di conformità tra le richieste dei coniugi e la normativa vigente, prestando grande attenzione alle statuizioni inerenti l’affidamento della prole ed il suo mantenimento.
    Questa operazione viene chiamata omologazione, e consiste, precisamente, nel controllo sulla conformità e compatibilità degli accordi di separazione alla legge. Essa conferisce piena efficacia agli accordi di separazione.

    In seguito alla proposizione del ricorso, il Presidente del Tribunale fissa l’udienza di comparizione personale dei coniugi
     
    BOLOGNA AVVOCATO SEPARAZIONI
    a sé stesso. Il ricorso ed il decreto presidenziale, ovviamente, non dovranno essere notificati ad alcuno dei coniugi, mentre la comunicazione al pubblico ministero, che, come già precisato, è parte essenziale del procedimento viene disposta d’ufficio dal Giudice competente per la separazione al fine di consentirne l’intervento in giudizio, ed è a cura della cancelleria. Solo nell’eventualità in cui il ricorso di separazione consensuale sia presentato da un solo coniuge, allora quest’ultimo dovrà provvedere alla notifica all’altro coniuge sia del ricorso, sia del decreto con cui il Presidente del Tribunale fissa l’udienza di comparizione personale dei coniugi avanti a sé. Anche in questo caso la comunicazione al pubblico ministero avviene d’ufficio.
     
  Avvocato civilista separazioni divorzi Malalbergo Baricella, Bentivoglio, Galliera, Minerbio, Poggio Renatico (FE), San Pietro in Casale

Avvocato civilista separazioni divorzi Malalbergo Baricella, Bentivoglio, Galliera, Minerbio, Poggio Renatico (FE), San Pietro in Casale

Avvocato civilista separazioni divorzi
Malalbergo
Baricella, Bentivoglio, Galliera, Minerbio, Poggio Renatico (FE), San Pietro in Casale
1) SEPARAZIONI CONIUGI PROBLEMATICHE: 2) AFFIDO FIGLI, SU QUESTO SI LITIGA MOLTO NELLE SEPARAZIONI 3) CASA CONIUGALE 4) MUTUO EVENTUALE 5) ASSEGNO PER I FIGLI 5BIS )ASSEGNO PER IL CONIUGE 6) SPESE STRAORDINARIE 7) DIVIISONE DEI MOBILI 8) DIVISIONE CON CORRENTI E SOMME 9) RIPARTIZIONE REGALI DI NOZZE 10) AFFIDO DEL CANE 11) PAGAMENTO DELL’AUTO 12) PAGAMENTO DEBITI CONTRATTI INSIEME VERSO BANCHE O FINANZIARIE

1) SEPARAZIONI CONIUGI PROBLEMATICHE: 2) AFFIDO FIGLI, SU QUESTO SI LITIGA MOLTO NELLE SEPARAZIONI 3) CASA CONIUGALE 4) MUTUO EVENTUALE 5) ASSEGNO PER I FIGLI 5BIS )ASSEGNO PER IL CONIUGE 6) SPESE STRAORDINARIE 7) DIVIISONE DEI MOBILI 8) DIVISIONE CON CORRENTI E SOMME 9) RIPARTIZIONE REGALI DI NOZZE 10) AFFIDO DEL CANE 11) PAGAMENTO DELL’AUTO 12) PAGAMENTO DEBITI CONTRATTI INSIEME VERSO BANCHE O FINANZIARIE

CHI TI DICE CHE UNA SEPARAZIONE E’ UNA COSA FACILE TI INGANNA, OCCORRE PRIMA DI TUTTO AVERCI PENSATO BENE ALMENO 100 VOLTE, POI PREPARARSI A UN GRANDE CAMBIO DELLA PROPRIA VITA TE LO ASSICURO!!
– Separazione personale dei coniugi – Effetti – In genere – Condotte violente di un coniuge nei confronti dell’altro – Motivo di addebito della separazione – Sussistenza – Comparazione con i comportamenti del coniuge vittima delle stesse – Necessità – Esclusione – Condizioni.
Le reiterate violenze fisiche e morali, inflitte da un coniuge all’altro, costituiscono violazioni talmente gravi dei doveri nascenti dal matrimonio da fondare, di per sé sole, non solo la pronuncia di separazione personale, in quanto cause determinanti la intollerabilità della convivenza, ma anche la dichiarazione della sua addebitabilità all’autore di esse. Il loro accertamento esonera il giudice del merito dal dovere di procedere alla comparazione, ai fini dell’adozione delle relative pronunce, col comportamento del coniuge che sia vittima delle violenze, trattandosi di atti che, in ragione della loro estrema gravità, sono comparabili solo con comportamenti omogenei.
TRADIMENTO E ADDEBITO SEPARAZIONE
A seguito della riforma del diritto di famiglia, la violazione del reciproco dovere di fedeltà, ancorché ribadito come regola di condotta dei coniugi (art. 143 cod. civ.), non legittima di per sé, automaticamente, la pronunzia di separazione con addebito, ma solo se abbia reso intollerabile la prosecuzione della convivenza o recato grave pregiudizio all’educazione della prole. Pertanto, il giudice deve accertare se tali conseguenze si siano in concreto verificate, valutando in qual misura la violazione medesima abbia inciso sulla vita familiare, tenuto conto delle modalità e frequenza dei fatti, del tipo di ambiente in cui sono accaduti e della sensibilità morale dei soggetti interessati.
Costituisce circostanza idonea a determinare l’addebito della separazione coniugale ex art. 151 c.c. la relazione dell’un coniuge con altri, qualora, considerati gli aspetti esteriori caratterizzanti la stessa nell’ambiente in cui i coniugi vivono, sia tale da dar luogo a plausibili sospetti di infedeltà. In circostanze siffatte, invero, a nulla rileva che la relazione non si sostanzi in un vero e proprio adulterio, in quanto in ogni caso tale da determinare l’offesa alla dignità ed all’onore dell’altro coniuge. Nella fattispecie concreta le risultanze istruttorie hanno consentito di accertare che il rapporto dalla ricorrente intrattenuto con terzi, del quale ella afferma la natura amichevole, è stato in realtà percepito agli estranei come un vero e proprio tradimento, come confermato dai terzi escussi, per cui deve concludersi per l’accoglimento della proposta domanda di addebito della separazione. 
Il tradimento del coniuge e la conseguente separazione con addebito non comporta automaticamente il diritto del partner tradito a ricevere l’assegno di mantenimento. Il giudice, infatti, dovrà valutare caso per caso se il “coniuge cui non sia addebitabile la separazione” sia “privo di adeguati redditi propri”. E solo se non potrà “mantenere un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio” o sussista “una disparità economica tra i coniugi”, allora scatterà l’assegno. 
Deve essere rigettata, in sede di separazione personale dei coniugi, la domanda di addebito qualora, non emergano dall’istruttoria elementi atti a comprovare che il coniuge convenuto abbia tenuto condotte contrarie ai doveri nascenti dal matrimonio – in particolare relazioni extraconiugali – ovvero che il suo allontanamento dalla casa coniugale sia stato causa del fallimento dell’unione coniugale e non invece l’effetto di una crisi già in atto da tempo e dovuta a una progressiva disaffezione tra i coniugi, che li ha portati a condurre vite sempre più autonome fino a giungere alla definitiva separazione (1). (S.Gall.)
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(1) La pronuncia è conforme all’orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo la quale la violazione, da parte di uno dei coniugi, dei doveri nascenti dal matrimonio può comportare l’addebito della separazione solo qualora sia la causa dell’intollerabilità della convivenza, e non invece l’effetto di una frattura già in atto nel rapporto matrimoniale. Il giudice pertanto «non può fondare una pronuncia di addebito sulla sola inosservanza dei doveri che l’art. 143 c.c. pone a carico dei coniugi, essendo, invece, tenuto a verificare se tale violazione sia stata l’unica causa della separazione, ovvero se preesistesse una situazione di intollerabilità della convivenza» (Cass., sentenza 11 dicembre 1998, n. 12489; Cass., sentenza 27 novembre 2003, n. 18132). Emblematico è proprio il caso della violazione del dovere di fedeltà. che non rileva più come causa autonoma di separazione per colpa (Cass., s.u., sentenza 23 aprile 1982, n. 2494; Cass., sentenza 20 ottobre 2000, n. 321), ma può essere invece individuata come causa di quell’intollerabilità della convivenza che conduce i coniugi alla separazione. La giurisprudenza ritiene inoltre che, ai fini dell’addebito, più che l’atto infedele rilevi tutto ciò che può determinare forme di pubblicità della vicenda. Così si è anche addebitato ad un coniuge l’adulterio apparente, cioè l’adulterio mostrato e ostentato, pur in mancanza di un effettivo tradimento. Allo stesso modo è stata considerata rilevante ai fini dell’addebito l’infedeltà rimasta allo stadio di mero tentativo per la resistenza del terzo alle proposte (Cass., sentenza 7 settembre 1999, n. 9472).
BOLOGNA AVVOCATO SEPARAZIONI
di disconoscimento della paternità è tempestiva
qualora proposta entro l’anno dal giorno in cui il marito (attore) è venuto a conoscenza del tradimento della moglie. Sul punto occorre avere riguardo all’adulterio della moglie che sia contestuale e cronologicamente prossimo all’epoca del concepimento del figlio, essendo irrilevante la circostanza che il marito avesse già avuto notizia di altre e (assai) precedenti infedeltà coniugali della consorte. (Non giova, per l’effetto, al fine di ritenere tardiva la proposizione della domanda di disconoscimento la circostanza che la convenuta faccia riferimento ai sospetti del marito circa gli incontri amorosi di lei con altri uomini molto anteriori al concepimento del figlio e avvenuti in diversi periodi pregressi di loro separazione di fatto discontinua, poi invece sanata dalla temporanea riconciliazione e ripresa della vita matrimoniale insieme proprio in costanza della quale è stato dapprima generato ed è poi nato il presunto figlio di entrambi).
Costituisce circostanza idonea a determinare l’addebito della separazione coniugale ex art. 151 c.c. la relazione dell’un coniuge con altri, qualora, considerati gli aspetti esteriori caratterizzanti la stessa nell’ambiente in cui i coniugi vivono, sia tale da dar luogo a plausibili sospetti di infedeltà. In circostanze siffatte, invero, a nulla rileva che la relazione non si sostanzi in un vero e proprio adulterio, in quanto in ogni caso tale da determinare l’offesa alla dignità ed all’onore dell’altro coniuge. Nella fattispecie concreta le risultanze istruttorie hanno consentito di accertare che il rapporto dalla ricorrente intrattenuto con terzi, del quale ella afferma la natura amichevole, è stato in realtà percepito agli estranei come un vero e proprio tradimento, come confermato dai terzi escussi, per cui deve concludersi per l’accoglimento della proposta domanda di addebito della separazione. 
L’esistenza di una stabile relazione extraconiugale ) rappresenta una violazione particolarmente grave dell’obbligo della fedeltà coniugale, che, determinando normalmente l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, deve ritenersi di regola causa della separazionepersonale dei coniugi e, dunque, circostanza sufficiente a giustificare l’addebito della separazione al coniuge che ne è responsabile. È, tuttavia, necessario che non si accerti la mancanza di nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale, mediante un accertamento rigoroso e una valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi, da cui risulti la preesistenza di una crisi già irrimediabilmente in atto in un contesto caratterizzato da una convivenza meramente formale.
La separazione consensuale è un negozio di diritto familiare avente un contenuto essenziale – il consenso reciproco a vivere separati,
 l’affidamento dei figli, l’assegno di mantenimento ove ne ricorrano i presupposti – ed un contenuto eventuale, che trova solo occasione nella separazione, costituito da accordi patrimoniali del tutto autonomi che i coniugi concludono in relazione all’instaurazione di un regime di vita separata (nella specie vendita della casa familiare e attribuzione del ricavato a ciascun coniuge in proporzione al denaro investito nel bene stesso). Ne consegue che questi ultimi non sono suscettibili di modifica (o conferma) in sede di ricorso “ad hoc” ex art. 710 c.p.c. o anche in sede di divorzio, la quale può riguardare unicamente le clausole aventi causa nella separazionepersonale, ma non i patti autonomi, che restano a regolare i reciproci rapporti ai sensi dell’art. 1372 c.c.
Nel giudizio di separazione personale diversamente da quello di divorzio, ove le ragioni della decisione e più genericamente le condizioni dei coniugi assumono rilievo ai fini della determinazione dell’assegno insieme con numerosi altri elementi, le condizioni alle quali sono sottoposti il diritto al mantenimento ed il suo concreto ammontare consistono soltanto nella non addebitabilità della separazione al coniuge in favore del quale viene disposto il mantenimento, nella mancanza, per il beneficiario, di adeguati redditi propri e nella sussistenza di una disparità economica fra i due coniugi, con la conseguenza che a quello cui non sia stata addebitata la separazione il mantenimento spetta nel concorso delle altre condizioni, a prescindere dal fatto che la prima sia stata promossa con o senza addebito alla controparte.
Il diritto all’assegno di mantenimento, nella separazione personale,
ha come suoi presupposti la non addebitabilità della separazione al coniuge richiedente, la non titolarità, a parte del medesimo, di adeguati redditi propri, ossia di redditi che consentano di mantenere un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio e la sussistenza di una disparità economica tra le parti. Il precedente tenore di vita coniugale deve desumersi dalle potenzialità economiche dei coniugi, ossia dall’ammontare complessivo dei loro redditi e dalle loro disponibilità patrimoniali, non avendo – invece – rilievo il più modesto livello di vita eventualmente subito o tollerato.
Nel procedimento di separazione personale dei coniugi, i provvedimenti adottati dal giudice istruttore, ex articolo 709, ultimo comma, del Cpc,
 di modifica o di revoca di quelli presidenziali, non sono reclamabili poiché è garantita l’effettività della tutela delle posizioni soggettive mediante la modificabilità e la revisione, a richiesta di parte, dell’assetto delle condizioni separative e divorzili, anche all’esito di una decisione definitiva, piuttosto che dalla moltiplicazione di momenti di riesame e controllo da parte di altro organo giurisdizionale nello svolgimento del giudizio a cognizione piena
Il coniuge che abbia integralmente adempiuto l’obbligo di mantenimento dei figli, pure per la quota facente carico all’altro coniuge,
è legittimato ad agire iure proprio nei confronti di quest’ultimo per il rimborso di detta quota, anche per il periodo anteriore alla domanda, atteso che l’obbligo di mantenimento dei figli sorge per effetto della filiazione e che nell’indicato comportamento del genitore adempiente è ravvisabile un caso di gestione di affari, produttiva a carico dell’altro genitore degli effetti di cui all’articolo 2031 del Cc. Quanto agli interessi sul capitale del figlio minore, essi, come in genere i frutti dei beni del medesimo, spettano al genitore esercente la potestà, ai sensi dell’articolo 324 del Cc, sicché deve escludersi che il figlio, divenuto maggiorenne, sia legittimato ad agire per il pagamento dei suddetti interessi inerenti al periodo antecedente al raggiungimento della maggiore età.
Famiglia – Matrimonio – Separazione personale dei coniugi – Effetti – Provvedimenti per i figli – In genere ascolto del figlio minore infradodicenne – Obbligo del giudice – Modalità – Ascolto del minore da parte del consulente – Differente natura e finalità – Conseguenze – Onere di motivazione.
In tema di separazione personale tra coniugi, ove si assumano provvedimenti in ordine alla convivenza dei figli con uno dei genitori, l’audizione del minore infradodicenne, capace di discernimento, costituisce adempimento previsto a pena di nullità, in relazione al quale incombe sul giudice un obbligo di specifica e circostanziata motivazione –
tanto più necessaria quanto più l’età del minore si approssima a quella dei dodici anni, oltre la quale subentra l’obbligo legale dell’ascolto – non solo se ritenga il minore infradodicenne incapace di discernimento ovvero l’esame manifestamente superfluo o in contrasto con l’interesse del minore, ma anche qualora il giudice opti, in luogo dell’ascolto diretto, per un ascolto effettuato nel corso di indagini peritali o demandato ad un esperto al di fuori di detto incarico, atteso che l’ascolto diretto del giudice dà spazio alla partecipazione attiva del minore al procedimento che lo riguarda, mentre la consulenza è indagine che prende in considerazione una serie di fattori quali, in primo luogo, la personalità, la capacità di accudimento e di educazione dei genitori, la relazione in essere con il figlio.
NEL MATRIMONIO IN UNA COPPIA VI E’ UNA INTESA PER DIVIDERSI I VARI COMPITI DELLA QUOTIDIANITA’ DOPO OGNI CONIUGE DOVRA’ FARE TUTTO DA SOLO!! CI HAI MAI PENSATO?
NEL MATRIMONIO ARRIVI A CASA, TROVI I FIGLI E LA MOGLIE, DOPO DEVI RECARTI dall’ex moglie o marito a prendere i figli, per vederli, e a volte vi sono discussioni su chi li deve tenere
l’Avv.  Sergio Armaroli di Bologna garantisce un’assistenza legale di alto profilo in tutti i settori del diritto civile, ad esempio in materia di:
risarcimento danni derivanti da rapporti contrattuali o extracontrattuali, di natura patrimoniale e non;
infortunistica stradale;
separazioni, divorzi e qualsiasi altra problematica inerente al diritto di famiglia;
1) SEPARAZIONI CONIUGI PROBLEMATICHE: 2) AFFIDO FIGLI, SU QUESTO SI LITIGA MOLTO NELLE SEPARAZIONI 3) CASA CONIUGALE 4) MUTUO EVENTUALE 5) ASSEGNO PER I FIGLI 5BIS )ASSEGNO PER IL CONIUGE 6) SPESE STRAORDINARIE 7) DIVIISONE DEI MOBILI 8) DIVISIONE CON CORRENTI E SOMME 9) RIPARTIZIONE REGALI DI NOZZE 10) AFFIDO DEL CANE 11) PAGAMENTO DELL’AUTO 12) PAGAMENTO DEBITI CONTRATTI INSIEME VERSO BANCHE O FINANZIARIE

1) SEPARAZIONI CONIUGI PROBLEMATICHE: 2) AFFIDO FIGLI, SU QUESTO SI LITIGA MOLTO NELLE SEPARAZIONI 3) CASA CONIUGALE 4) MUTUO EVENTUALE 5) ASSEGNO PER I FIGLI 5BIS )ASSEGNO PER IL CONIUGE 6) SPESE STRAORDINARIE 7) DIVIISONE DEI MOBILI 8) DIVISIONE CON CORRENTI E SOMME 9) RIPARTIZIONE REGALI DI NOZZE 10) AFFIDO DEL CANE 11) PAGAMENTO DELL’AUTO 12) PAGAMENTO DEBITI CONTRATTI INSIEME VERSO BANCHE O FINANZIARIE

La separazione non pone fine al matrimonio, né fa venir meno lo status giuridico di coniuge. Incide invece su alcuni effetti propri del matrimonio (si scioglie la comunione legale dei beni, cessano gli obblighi di fedeltà e di coabitazione). Residuano inoltre altri effetti del matrimonio, ma sono limitati o disciplinati in modo specifico (dovere di contribuire nell’interesse della famiglia, dovere di mantenere il coniuge più debole e dovere di mantenere, educare ed istruire la prole).
Diversamente dal passato, oggi la separazione può essere dichiarata per cause oggettive, cioè indipendentemente dalla colpa di uno dei due coniugi. È possibile quindi che i coniugi si separino perché avvenimenti esterni si frappongono alla coppia, perché sopraggiungono circostanze non previste, né prevedibili, al momento della celebrazione del matrimonio, perché ci si rende conto dell’esistenza di un’incompatibilità caratteriale insuperabile e, in generale, per tutti quei fatti che, usando l’espressione del legislatore, “rendono intollerabile la prosecuzione della convivenza o recano grave pregiudizio all’educazione della prole” (art. 151, 1°co. c.c.).

Avvocato civilista separazioni divorzi Malalbergo Baricella, Bentivoglio, Galliera, Minerbio, Poggio Renatico (FE), San Pietro in Casale

obbligazioni e contratti;
locazioni, compravendite, affitti di azienda;
decreti ingiuntivi ed esecuzioni
Baricella, Bentivoglio, Galliera, Minerbio, Poggio Renatico (FE), San Pietro in Casale
l’Avv.  Sergio Armaroli di Bologna garantisce un’assistenza legale di alto profilo in tutti i settori del diritto civile, ad esempio in materia di:
risarcimento danni derivanti da rapporti contrattuali o extracontrattuali, di natura patrimoniale e non;
infortunistica stradale;
separazioni, divorzi e qualsiasi altra problematica inerente al diritto di famiglia;
cause successorie, liti fra eredi, divisioni ereditarie; La separazione personale dei coniugi è un istituto regolamentato dalle norme del codice civile (artt. 150 e ss.), dal codice di procedura civile e da una serie di norme speciali.
La separazione non pone fine al matrimonio, né fa venir meno lo status giuridico di coniuge. Incide invece su alcuni effetti propri del matrimonio (si scioglie la comunione legale dei beni, cessano gli obblighi di fedeltà e di coabitazione). Residuano inoltre altri effetti del matrimonio, ma sono limitati o disciplinati in modo specifico (dovere di contribuire nell’interesse della famiglia, dovere di mantenere il coniuge più debole e dovere di mantenere, educare ed istruire la prole).
Diversamente dal passato, oggi la separazione può essere dichiarata per cause oggettive, cioè indipendentemente dalla colpa di uno dei due coniugi. È possibile quindi che i coniugi si separino perché avvenimenti esterni si frappongono alla coppia, perché sopraggiungono circostanze non previste, né prevedibili, al momento della celebrazione del matrimonio, perché ci si rende conto dell’esistenza di un’incompatibilità caratteriale insuperabile e, in generale, per tutti quei fatti che, usando l’espressione del legislatore, “rendono intollerabile la prosecuzione della convivenza o recano grave pregiudizio all’educazione della prole” (art. 151, 1°co. c.c.).
  Avvocato civilista separazioni divorzi Malalbergo Baricella, Bentivoglio, Galliera, Minerbio, Poggio Renatico (FE), San Pietro in Casale

Avvocato civilista separazioni divorzi Malalbergo Baricella, Bentivoglio, Galliera, Minerbio, Poggio Renatico (FE), San Pietro in Casale

 
  Avvocato civilista separazioni divorzi Malalbergo Baricella, Bentivoglio, Galliera, Minerbio, Poggio Renatico (FE), San Pietro in Casale

Avvocato civilista separazioni divorzi Malalbergo Baricella, Bentivoglio, Galliera, Minerbio, Poggio Renatico (FE), San Pietro in Casale

  1. obbligazioni e contratti;
  2. locazioni, compravendite, affitti di azienda;
  3. decreti ingiuntivi ed esecuzioni.
  4.  
  5. Avvocato civilista cause civili
  6. Malalbergo
  7. Baricella, Bentivoglio, Galliera, Minerbio, Poggio Renatico (FE), San Pietro in Casale
  8. Evidente punto di forza dello Studio AVVOCATO SERGIO ARMAROLI  è il possesso di competenze riferite a qualsiasi branca del diritto, che consente di fornire assistenza legale completa e di affrontare un problema di ordine giuridico nei suoi profili civilistici e penalistici.
  9. Tra le questioni trattate:
  10. separazioni, divorzi, affidamento minori, controversie ereditarie;
  11. interdizione, inabilitazione o amministrazione di sostegno; redazione di denunce o querele;
  12. difesa dell’imputato in un processo penale;
  13. difesa della vittima di reato mediante costituzione di parte civile in un processo penale.
  14. risarcimento danni da infortuni stradali o sul lavoro;
  15. malasanità e responsabilità penale del medico;
  16. recupero crediti;
  17.  
  18. Avvocato civilista eredita’ cause civili
  19.  
Malalbergo
Baricella, Bentivoglio, Galliera, Minerbio, Poggio Renatico (FE), San Pietro in Casale
 
 
Parliamo di eredi legittimi solo in quei casi in cui il defunto non abbia lasciato alcuna disposizione testamentaria, così che la ripartizione dei beni avverrà secondo i criteri stabiliti dal codice civile. Si parla in questo caso di successione legittima, e in questo contesto, sono, quindi, indicati come eredi legittimi coloro i quali sono designati destinatari dei beni, per espressa previsione della leggeProprio per rispondere alle tante differenti situazioni possibili, la legge prevede una fitta rete di criteri a cui dover fare riferimento, per poter individuare in ogni situazione chi siano gli eredi legittimi.
  1. Vediamo alcuni esempi. Superstiti al defunto:
    – Solo il coniuge: beneficia di tutto il patrimonio ereditario;
    – Il coniuge ed un solo figlio: beneficiano ciascuno di metà del patrimonio ereditario;
    – Il coniuge e due figli: beneficiano ciascuno di un terzo del patrimonio ereditario;
    – Il coniuge e più di due figli: il coniuge beneficia di un terzo e i restanti due terzi saranno divisi tra i figli in parti uguali;
    – Il coniuge e fratelli e sorelle: il coniuge beneficia dei due terzi, il restante terzo sarà diviso in parti uguali tra i fratelli e le sorelle

Originally posted 2018-08-04 16:43:37.

La Divisione dei Conti Correnti di un Defunto: Procedura e Considerazioni Legali

a info erede oggi bella

avvocato esperto successioni

La perdita di un essere caro è un momento difficile, reso ancora più complesso dalle questioni finanziarie e legali che spesso seguono. Tra queste, la divisione dei conti correnti di un defunto è un aspetto cruciale ma delicato che richiede attenzione, competenza legale e un approccio scrupoloso. In questo post, esploreremo la procedura e le considerazioni legali associate alla divisione dei conti correnti di un defunto.

EREDE RISOLVI ADESSO SUCCESSIONE LITE EREDITARIA BOLOGNA PADOVA RAVENNA VICENZA SEI PREOCCUPATO DI COME STANNO0 ANDANDO LE COSE PER LA TUA EREDITA’ E HAI PAURA CHE NON TI VENGA RICNOSCIUTA LA TUA QUOTA? BOLOGNA ,VICENZA,RAVENNA, IMOLA ,FORLI, CESENA, PADOVA,  ROVIGO EREDE RISOLVI ADESSO SUCCESSIONE LITE EREDITARIA BOLOGNA PADOVA RAVENNA VICENZA AVVOCATO SERGIO ARMAROLI 051 6447838

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  1. Identificazione dei Conti Correnti: Il primo passo è identificare tutti i conti correnti che il defunto possedeva. Questo può includere conti bancari personali, conti congiunti con il coniuge o altri titolari congiunti, conti aziendali se il defunto era imprenditore, e potenzialmente altri conti finanziari come investimenti o conti di risparmio.
  2. Notifica alle Banche e alle Istituzioni Finanziarie: Una volta identificati i conti correnti, è necessario notificare le banche e le istituzioni finanziarie della morte del titolare dell’account. Questo solitamente richiede la presentazione di una copia del certificato di morte del defunto e potrebbe comportare la chiusura temporanea dei conti.
  3. Nomina di un Esecutore Testamentario o Apertura di un’Azione Successoria: Per gestire la divisione dei conti correnti e degli altri beni del defunto, è importante nominare un esecutore testamentario o aprire un’azione successoria con il tribunale locale. L’esecutore o il curatore avrà l’autorità legale per agire nell’interesse del defunto e distribuire i suoi beni secondo le sue volontà testamentarie o le leggi sulla successione dello stato.
  4. Valutazione dei Conti e degli Asset Finanziari: Prima di procedere con la divisione dei conti correnti, è necessario valutare l’intero patrimonio finanziario del defunto. Questo include non solo i saldi dei conti correnti, ma anche altri asset finanziari come investimenti, polizze assicurative, fondi pensione e altro ancora. Una valutazione accurata aiuterà a garantire una divisione equa e conforme alle volontà del defunto o alle leggi sulla successione.
  5. 5. Pagamento di Debiti e Tasse: Prima di distribuire gli asset finanziari ai beneficiari designati, è importante soddisfare qualsiasi debito o obbligazione finanziaria del defunto. Questo potrebbe includere il pagamento di mutui ipotecari, prestiti, carte di credito e tasse fiscali. La priorità dovrebbe essere data ai debiti garantiti da beni specifici, come l’ipoteca su una casa.
  6. Distribuzione dei Fondi: Una volta soddisfatte le obbligazioni finanziarie, è possibile procedere con la distribuzione dei fondi dai conti correnti e dagli altri asset finanziari ai beneficiari designati. Questo può essere fatto in conformità con le disposizioni testamentarie del defunto o le leggi sulla successione, a seconda delle circostanze specifiche.

Considerazioni Legali e Consulenza Professionale: La divisione dei conti correnti di un defunto è un processo che richiede attenzione ai dettagli e comprensione delle leggi e delle procedure locali. È fortemente consigliabile consultare un avvocato specializzato in diritto successorio per guidare attraverso questo processo e assicurarsi che tutto sia eseguito correttamente e legalmente. Un professionista esperto può fornire consulenza personalizzata e aiutare a risolvere eventuali controversie o complessità che possono sorgere durante la divisione degli asset finanziari di un defunto.

In conclusione, la divisione dei conti correnti di un defunto è un processo importante che richiede tempo, attenzione e competenza legale. Seguendo una procedura accurata e ottenendo la consulenza professionale necessaria, è possibile garantire una divisione equa e conforme alle volontà del defunto o alle leggi sulla successione.

Divisione delle Somme del Defunto tra gli Eredi: Una Guida Completa

La divisione delle somme del defunto tra gli eredi è un argomento complesso che richiede una combinazione di comprensione legale, sensibilità familiare e comunicazione efficace. Quando una persona muore e lascia dei beni, è essenziale seguire un processo accurato per garantire una distribuzione equa e senza conflitti tra i beneficiari designati. Questo articolo si propone di esaminare dettagliatamente i vari aspetti della divisione delle somme tra gli eredi, fornendo una guida completa per affrontare questa delicata situazione.

1. Comprendere la Volontà del Defunto

Il primo passo cruciale nella divisione delle somme del defunto è comprendere la volontà del defunto, espressa attraverso un testamento o un trust. Se il defunto ha redatto un testamento, questo documento specifica chi sono i beneficiari designati e quali beni sono destinati a ciascuno. È essenziale che tutti gli eredi e i beneficiari leggano attentamente il testamento per comprendere appieno le intenzioni del defunto.

2. Valutare gli Attivi e i Passivi dell’Eredità

Prima di procedere con la divisione delle somme, è necessario valutare gli attivi e i passivi dell’eredità. Gli attivi possono includere proprietà immobiliari, conti bancari, investimenti, veicoli e altre proprietà di valore, mentre i passivi possono includere debiti, mutui, tasse e spese funerarie. È importante ottenere una valutazione accurata di tutti gli attivi e i passivi per determinare il valore netto dell’eredità.

3. Risolvere i Debiti e gli Obblighi Finanziari

Prima di distribuire le somme tra gli eredi, è essenziale risolvere i debiti e gli obblighi finanziari del defunto. Questo potrebbe includere il pagamento di mutui residui, carte di credito, tasse e altre spese pendenti. Risolvere i debiti prima di distribuire l’eredità può aiutare a evitare controversie future e garantire una divisione equa delle somme disponibili.

4. Identificare e Comunicare con gli Eredi

Una volta comprese le volontà del defunto e valutati gli attivi e i passivi dell’eredità, è necessario identificare e comunicare con tutti gli eredi e i beneficiari designati. Questo può essere un processo complesso, specialmente se ci sono molteplici eredi o se alcuni eredi sono difficili da localizzare. È importante stabilire una comunicazione aperta e trasparente con tutti gli interessati per garantire una divisione delle somme senza intoppi.

5. Considerare le Necessità e le Aspettative degli Eredi

Durante il processo di divisione delle somme, è importante prendere in considerazione le necessità e le aspettative degli eredi. Alcuni potrebbero avere bisogno di liquidità immediata per affrontare spese urgenti, mentre altri potrebbero preferire mantenere determinati attivi per motivi emotivi o finanziari. È essenziale ascoltare attentamente le preoccupazioni e le preferenze di ciascun erede e cercare di trovare soluzioni che soddisfino le loro esigenze individuali.

6. Distribuire le Somme in Modo Equo e Trasparente

Una volta risolti i debiti e identificati gli eredi, è possibile procedere con la distribuzione delle somme. È importante farlo in modo equo e trasparente, seguendo scrupolosamente le disposizioni del testamento o del trust. Se il testamento non fornisce istruzioni specifiche sulla divisione delle somme, è necessario prendere in considerazione i desideri del defunto e le circostanze individuali degli eredi per garantire una distribuzione equa.

7. Documentare le Transazioni e Ottenere Consulenza Legale

Durante il processo di divisione delle somme, è fondamentale documentare accuratamente tutte le transazioni e le decisioni prese. Questo può includere la preparazione di ricevute, registrazioni contabili e dichiarazioni scritte da parte degli eredi confermando di aver ricevuto la loro parte dell’eredità. Inoltre, è consigliabile ottenere consulenza legale per assicurarsi che tutte le azioni siano conformi alle leggi locali e che non ci siano rischi di contestazioni legali da parte degli eredi o di altri interessati.

8. Affrontare Controversie e Disaccordi in Modo Costruttivo

Nonostante tutti gli sforzi per garantire una divisione equa e trasparente delle somme, potrebbero sorgere controversie e disaccordi tra gli eredi. In questi casi, è importante affrontare le questioni in modo costruttivo e cercare soluzioni che possano soddisfare tutte le parti coinvolte. La mediazione familiare o l’intervento di un avvocato specializzato in successioni possono essere utili per risolvere le dispute in modo rapido ed efficace.

9. Promuovere la Comunicazione e l’Armonia Familiare

Infine, è essenziale promuovere la comunicazione e l’armonia familiare durante l’intero processo di divisione delle somme del defunto. Una comunicazione aperta, rispettosa e trasparente può contribuire a prevenire conflitti e risentimenti tra gli eredi, garantendo che l’eredità venga distribuita in modo pacifico e conforme alle volontà del defunto.

In conclusione, la divisione delle somme del defunto tra gli eredi è un processo complesso che richiede attenzione ai dettagli, comprensione legale e sensibilità familiare. Seguendo i passaggi descritti sopra e adottando un approccio rispettoso e collaborativo, è possibile garantire una distribuzione equa e senza conflitti dell’eredità, preservando al contempo l’armonia familiare e il rispetto per le volontà del defunto.

ACCERTAMENTO DI PATERNITA’DANNO ENDOFAMIGLIARE TRIBUNALE BOLOGNAa info sep bella

LE DOMANDE

1) accertare e dichiarare che YY, nato il (omissis).(omissis).1971 a (omissis), (Austria), codice fiscale (omissis), residente a Bologna Via (omissis) n. (omissis), è il padre naturale di JJ, nato il (omissis).(omissis).1999 ad (omissis), residente a Pesaro (PU) Via (omissis) n. (omissis), codice fiscale (omissis), e per l’effetto:

2) condannare YY al risarcimento del danno endofamiliare, per perdita del rapporto parentale, in quell’ammontare che risulterà dovuto in corso di causa, da determinarsi eventualmente anche in via equitativa;

3) porre a carico di YY un assegno mensile quale contributo al mantenimento del figlio JJ, dell’importo di € 400,00, o quello maggiore o minore che il Tribunale riterrà di giustizia, da rivalutarsi annualmente secondo gli indici ISTAT come per legge, da corrispondersi entro il giorno 5 di ogni mese, alla sig.ra XX;

4) condannare YY al pagamento in favore della Sig.ra XX di quella somma che risulterà dovuta in corso di causa a titolo di rimborso delle spese sostenute, sin dal momento della nascita, per il mantenimento del figlio JJ;

GENITORI SEPARAZIONE ATTENZIONE MASSIMA MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA PRIVARE DELLA FUNZIONE

GENITORI SEPARAZIONE ATTENZIONE MASSIMA MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA PRIVARE DELLA FUNZIONE

DANNO ENDOFAMILIARE NEGATO PERCHE’ NON PROVATO

Circa la domanda formulata al punto 2, cioè la richiesta di condannare il convenuto “al risarcimento del danno endofamiliare, per perdita del rapporto parentale, in quell’ammontare che risulterà dovuto in corso di causa, da determinarsi eventualmente anche in via equitativa, si osserva che il convenuto, nella comparsa di costituzione tempestivamente depositata, ha contestato l’esistenza della relazione sentimentale con l’attrice e dell’allegato rapporto di paternità, cioè gli unici fatti, di quelli allegati da parte attrice, che fossero a lui noti, non potendo ritenersi che l’onere di contestazione su di lui gravante si estendesse alle conseguenze dannose della mancanza della figura paterna nella vita del figlio, pure allegate in quella sede dagli attori («L’onere di contestazione, la cui inosservanza rende il fatto pacifico e non bisognoso di prova, sussiste soltanto per i fatti noti alla parte, non anche per quelli ad essa ignoti.» Cass. Sez. 3, Sentenza n. 14652 del 18/07/2016 e successive conformi).

Pertanto parte attrice era onerata di fornire la prova delle suddette conseguenze, cioè del fatto che JJ sia cresciuto senza una figura paterna (che, in ipotesi, avrebbe anche potuto essere un eventuale nuovo compagno della madre) e di questo abbia sofferto, nonché la prova dell’allegato nesso causale con l’asserito disturbo dell’apprendimento, dal quale JJ sarebbe affetto, e con l’abbandono degli studi a 16 anni; circostanze, anche queste, meramente allegate, ma sfornite di prova.

Non è stato nemmeno allegato che la madre, né il figlio, abbiano mai cercato di mettersi in contatto col convenuto, prima dell’intervento del legale, a febbraio 2018; non è nemmeno chiaro quando e in quali circostanze la madre abbia rivelato al figlio l’identità del padre; al riguardo il teste G. D. D., nonno materno di JJ, ha dichiarato: “..solo dopo tanti anni ho saputo che il padre di JJ era vivo, quando JJ ha cominciato ad andare a scuola, l’ ho saputo da mia moglie o da mia zia, non ricordo bene. il cognome di quest’uomo l’ho saputo solo quando mi sono rivolto allo studio dell’avvocatessa Lupi. Mi sono rivolto a lei perché mio nipote voleva rintracciare il padre.“.

La Cassazione ha recentemente ribadito: «Ora, in ordine alla sussistenza dell’illecito endofamiliare dedotto in giudizio, attinente al rapporto filiale, nell’ipotesi in cui alla procreazione non segua il riconoscimento e l’assolvimento degli obblighi conseguenti alla condizione di genitore, con disinteresse, protratto nel tempo, del genitore nei confronti del figlio, deve osservarsi che la violazione dei doveri di mantenimento, istruzione ed educazione dei genitori verso la prole può integrare gli estremi dell’illecito civile, ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti, in primis l’art.30 Cost., così dandosi luogo ad un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell’art. 2059 cod. civ. esercitabile anche nell’ambito dell’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità e maternità ed anche per il periodo anteriore alla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, sorgendo, sin dalla nascita, il diritto del figlio naturale ad essere mantenuto, istruito ed educato nei confronti di entrambi i genitori (Cass. 5652/2012). Tuttavia, il mancato riconoscimento dei figli, per poter configurare un danno risarcibile, dovrà possedere i caratteri tipici dell’illecito civile.

Dovrà quindi essere causalmente determinante, colpevole e cagionare un danno ingiusto.» (Cass. 22496 del 2021).

Alla luce di quanto sopra, si ritiene che l’allegato danno endofamiliare, nel caso di specie non risulti provato e che quindi la domanda sub 2 non possa essere accolta.

RICONOSCIMENTO

Inoltre, circa la prescrizione: «La sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento, ai sensi dell’art. 277 cod. civ., e, quindi, a norma dell’art. 261 cod. civ., implica per il genitore tutti i doveri propri della procreazione legittima, incluso quello del mantenimento ex art. 148 cod. civ. La relativa obbligazione si collega allo “status” genitoriale e assume di conseguenza pari decorrenza, dalla nascita del figlio, con il corollario che l’altro genitore, il quale nel frattempo abbia assunto l’onere del mantenimento anche per la porzione di pertinenza del genitore giudizialmente dichiarato (secondo i criteri di ripartizione di cui al citato art. 148 cod. civ.), ha diritto di regresso per la corrispondente quota, sulla scorta delle regole dettate dall’art. 1299 cod. civ. nei rapporti fra condebitori solidali. Tuttavia, in considerazione dello stato di incertezza che precede la dichiarazione giudiziale di paternità naturale, il diritto al rimborso “pro quota” delle spese sostenute dalla nascita del figlio, spettante al genitore che lo ha allevato, non è utilmente esercitabile se non dal momento della sentenza di accertamento della filiazione naturale, con la conseguenza che detto momento segna altresì il “dies a quo” della decorrenza della prescrizione del diritto stesso.» (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 15756 del 11/07/2006 e successive conformi; di recente: Cass. civ., Sez. I, 31 luglio 2020, n. 16561).

Nel caso di specie, non vi è dubbio che la madre si sia sempre fatta carico, senza alcun aiuto da parte del padre, di tutte le esigenze del figlio, dalla nascita e fino all’introduzione del presente giudizio (giugno 2018), per un periodo totale di 18 anni e 9 mesi; circa il quantum, si può presuntivamente ritenere che ella abbia speso in media una somma di circa euro 500,00 mensili, comprensiva anche delle spese straordinarie, il che corrisponde, per il suddetto periodo, alla somma di euro 112.500,00, dei quali il convenuto deve quindi essere condannato a rimborsarle la metà, pari ad euro 56.250,00, già comprensivi del danno da ritardo rappresentato dalla mancato tempestivo soddisfacimento del proprio credito, subìto dalla attrice, in quanto somma liquidata con criterio equitativo; su tale somma sono dovuti gli interessi legali dalla pubblicazione della presente sentenza al saldo effettivo.

Si soggiunge che, sebbene non sia stata fornita la prova che il figlio abbia subìto un danno risarcibile a causa dell’assenza della figura paterna, si ritiene, comunque, che il convenuto fosse consapevole del rapporto di paternità e ciò sulla base della testimonianza di C. R., gestore di un bar frequentato da entrambe le parti all’epoca del concepimento e della nascita di JJ, teste assolutamente indifferente e pertanto attendibile, il quale, oltre a confermare l’esistenza di una relazione sentimentale fra i due, ha dichiarato che un pomeriggio, non molto tempo dopo la nascita di JJ, la XX era arrivata nel locale con una foto del bambino e l’aveva fatta vedere sia a lui che al convenuto, che si trovava nel locale; in particolare ha dichiarato: “..lei aveva la foto del bimbo e l’ha fatta vedere sia a me che a YY, io gli dissi “YY è uguale a te”, la somiglianza era evidente. Poi io mi sono allontanato mentre loro parlavano.“.

 

 

 

 

CONCLUSIONI

Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni altra istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone:

1 – Accerta e dichiara che YY, nato il (omissis).(omissis).1971 a (omissis), (Austria), codice fiscale (omissis), residente a Bologna Via (omissis) n. (omissis), è il padre di JJ, nato il (omissis).(omissis).1999 ad (omissis) [ recte : località della Sardegna ; Nota redazionale ], residente a Pesaro (PU) Via (omissis) n. (omissis), codice fiscale (omissis), con ogni conseguenza di legge;

dispone la comunicazione del presente provvedimento all’Ufficiale di Stato Civile del Comune di (omissis) [ recte : predetta località della Sardegna ; Nota redazionale ] (luogo di nascita) e di Pesaro (luogo di residenza), per quanto di competenza;

2 – dalla data della domanda, pone a carico del padre l’obbligo di contribuire al mantenimento ordinario del figlio versando entro il giorno 5 di ogni mese la somma di euro 150,00 alla madre, su conto corrente intestato alla medesima che gli verrà tempestivamente comunicato; tale somma sarà rivalutata annualmente secondo l’indice ISTAT; pone a carico di ciascuno dei genitori le spese straordinarie per i figli nella misura del 50% ciascuno; si applica il vigente Protocollo del Tribunale di Bologna, che di seguito integralmente si riporta:

spese ricomprese nel contributo ordinario al mantenimento:

 

 

 

 

 

 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO di BOLOGNA

PRIMA SEZIONE CIVILE

Il Tribunale, in composizione collegiale nelle persone dei seguenti magistrati:

dott. Bruno Perla – Presidente

dott. Silvia Migliori – Giudice

dott. Francesca Neri – Giudice Relatore

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 11231/2018

avente ad oggetto

“dichiarazione giudiziale di paternità”

promossa da:

JJ (c.f. omissis), con il patrocinio dell’avv. Danilo Del Prete e dell’avv. Laura Lupi (c.f. omissis); elettivamente domiciliato in via San Decenzio, 16 Pesaro, presso il difensore avv. Danilo Del Prete

XX (c.f. omissis), con il patrocinio dell’avv. Danilo Del Prete e dell’avv. Laura Lupi (c.f. omissis); elettivamente domiciliato in via San Decenzio, 16 Pesaro, presso il difensore avv. Danilo Del Prete

ATTORI

contro

YY (c.f. omissis), con il patrocinio dell’avv. Gabriella Cassibba, elettivamente domiciliato in via Belvedere, 10 Bologna, presso il difensore avv. Gabriella Cassibba

CONVENUTO

con l’intervento del Pubblico Ministero

INTERVENUTO

CONCLUSIONI

Parte attrice:

Voglia l’Ill.mo Giudice adito, respinta ogni contraria richiesta, eccezione e conclusione, così provvedere:

1) accertare e dichiarare che YY, nato il (omissis).(omissis).1971 a (omissis), (Austria), codice fiscale (omissis), residente a Bologna Via (omissis) n. (omissis), è il padre naturale di JJ, nato il (omissis).(omissis).1999 ad (omissis), residente a Pesaro (PU) Via (omissis) n. (omissis), codice fiscale (omissis), e per l’effetto:

2) condannare YY al risarcimento del danno endofamiliare, per perdita del rapporto parentale, in quell’ammontare che risulterà dovuto in corso di causa, da determinarsi eventualmente anche in via equitativa;

3) porre a carico di YY un assegno mensile quale contributo al mantenimento del figlio JJ, dell’importo di € 400,00, o quello maggiore o minore che il Tribunale riterrà di giustizia, da rivalutarsi annualmente secondo gli indici ISTAT come per legge, da corrispondersi entro il giorno 5 di ogni mese, alla sig.ra XX;

4) condannare YY al pagamento in favore della Sig.ra XX di quella somma che risulterà dovuta in corso di causa a titolo di rimborso delle spese sostenute, sin dal momento della nascita, per il mantenimento del figlio JJ;

5) rigettare le domande formulate da parte convenuta in quanto infondate e comunque non provate.

Vinte le spese.“.

Parte convenuta:

– nella ipotesi in cui venga riconosciuta la paternità del convenuto relativamente al Sig. YY, respingersi la richiesta di mantenimento in considerazione di quanto detto in narrativa, nonché delle condizioni economiche e di salute del Sig. YY, nonché la richiesta di risarcimento del danno da illecito endofamiliare in quanto infondate in fatto ed in diritto per tutti i motivi esposti in narrativa;

– In via subordinata: nella ipotesi in cui venga riconosciuta la paternità del convenuto relativamente al Sig. YY, respingersi la richiesta di risarcimento del danno da illecito endofamiliare in quanto infondata in fatto ed in diritto, e, nella denegatissima ipotesi in cui venga riconosciuto l’obbligo del convenuto di corresponsione del mantenimento, riconoscere l’intervenuta prescrizione delle somme oggetto di mantenimento e comunque la attuale sospensione di tale obbligo in ragione delle condizioni economiche e di salute del Sig. YY.

– In ogni caso: con vittoria di spese e dei compensi di causa, oltre agli accessori di legge, determinabili secondo il DM N 55/2014.“.

Concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione

Con atto di citazione ritualmente notificato nel mese di giugno 2018, JJ, nato a (omissis) [ recte : località della Sardegna ; Nota redazionale ] il (omissis) 1999, e XX, nata a Pesaro il (omissis).1976, entrambi residenti a Pesaro in Via (omissis) n. (omissis), allegavano che il JJ fosse figlio della XX e del convenuto YY; in particolare la XX esponeva di avere avuto una relazione sentimentale col convenuto dalla fine del 1997 sino al 1999, quando, essendo in attesa di un figlio da lui, nel mese di luglio aveva lasciato Pesaro, dove entrambi vivevano, per recarsi a partorire in Sardegna, secondo la tradizione della propria famiglia, di origine sarda, con l’accordo che sarebbe rientrata a Pesaro il prima possibile; tuttavia, una volta tornata effettivamente a Pesaro dopo poche settimane dalla nascita del figlio, apprendeva da una vicina di casa del YY che egli si era trasferito e non riusciva più a rintracciarlo, nonostante si fosse rivolta, per cercarlo, a tutti gli amici comuni; si era quindi occupata da sola di crescere il figlio, con l’aiuto dei propri genitori; allegava, in particolare:

Trovandosi priva di occupazione e con il figlio di appena quindici giorni da crescere, la sig.ra XX stabiliva la residenza propria e quella del figlio JJ presso l’abitazione dei genitori in Pesaro, sino all’anno 2008.

In tutto il periodo la sig.ra XX, pur non disponendo di una stabile occupazione, affrontava una vita sacrifici, svolgendo pesanti lavori stagionali, prendendosi cura in via esclusiva del mantenimento e della educazione del figlio.

Infatti, il sig. YY mai prendeva contattati con la sig.ra XX, non contribuiva in alcun modo alle spese necessarie al mantenimento del figlio, e neppure ne faceva la conoscenza.

Ad oggi la sig.ra XX è occupata solamente durante il periodo estivo e percepisce € 600,00 mensili circa, con cui deve far fronte anche al mutuo contratto per l’acquisto della abitazione in cui vive con il figlio JJ dall’anno 2008.

JJ, nel corso degli anni, anche a causa della totale assenza della figura paterna, ha dovuto affrontare gravi sofferenze psichiche e fisiche, sfociate peraltro in disturbi di apprendimento che si sono manifestati sin dalla età della scolarizzazione e concretatisi in difficoltà di lettura, problemi a denominare in modo rapido e corretto oggetti anche di uso comune, oppure a organizzare le sequenze di suoni nelle parole, nonché difficoltà attentive.

Detti disturbi specifici di apprendimento (cosiddetti “dsa”), con cui JJ ha dovuto convivere sin dalla tenera età, hanno portato nell’anno 2016 alla decisione di abbandonare il percorso di studio intrapreso (scuola agraria).

Attualmente, JJ frequenta un corso di termoidraulica presso il (omissis) di Pesaro, ma pur avendo raggiunto la maggiore età è privo di occupazione ed economicamente non autosufficiente: ancora oggi è la madre a provvedere in via esclusiva al suo mantenimento.

Formulava, pertanto, le domande già sopra riportate.

Si costituiva il convenuto, negando di avere mai avuto una relazione con l’attrice diversa da una semplice amicizia e negando di essere il padre del ragazzo.

In corso di causa erano assunte varie testimonianze che confermavano l’esistenza della relazione (R. L. e C. R.), pertanto era disposta ctu genetica, dalla quale emergeva con certezza la sussistenza del rapporto di paternità.

Va, pertanto, accolta la domanda formulata dagli attori al punto 1.

Circa la domanda formulata al punto 2, cioè la richiesta di condannare il convenuto “al risarcimento del danno endofamiliare, per perdita del rapporto parentale, in quell’ammontare che risulterà dovuto in corso di causa, da determinarsi eventualmente anche in via equitativa“, si osserva che il convenuto, nella comparsa di costituzione tempestivamente depositata, ha contestato l’esistenza della relazione sentimentale con l’attrice e dell’allegato rapporto di paternità, cioè gli unici fatti, di quelli allegati da parte attrice, che fossero a lui noti, non potendo ritenersi che l’onere di contestazione su di lui gravante si estendesse alle conseguenze dannose della mancanza della figura paterna nella vita del figlio, pure allegate in quella sede dagli attori («L’onere di contestazione, la cui inosservanza rende il fatto pacifico e non bisognoso di prova, sussiste soltanto per i fatti noti alla parte, non anche per quelli ad essa ignoti.» Cass. Sez. 3, Sentenza n. 14652 del 18/07/2016 e successive conformi).

Pertanto parte attrice era onerata di fornire la prova delle suddette conseguenze, cioè del fatto che JJ sia cresciuto senza una figura paterna (che, in ipotesi, avrebbe anche potuto essere un eventuale nuovo compagno della madre) e di questo abbia sofferto, nonché la prova dell’allegato nesso causale con l’asserito disturbo dell’apprendimento, dal quale JJ sarebbe affetto, e con l’abbandono degli studi a 16 anni; circostanze, anche queste, meramente allegate, ma sfornite di prova.

Non è stato nemmeno allegato che la madre, né il figlio, abbiano mai cercato di mettersi in contatto col convenuto, prima dell’intervento del legale, a febbraio 2018; non è nemmeno chiaro quando e in quali circostanze la madre abbia rivelato al figlio l’identità del padre; al riguardo il teste G. D. D., nonno materno di JJ, ha dichiarato: “..solo dopo tanti anni ho saputo che il padre di JJ era vivo, quando JJ ha cominciato ad andare a scuola, l’ ho saputo da mia moglie o da mia zia, non ricordo bene. il cognome di quest’uomo l’ho saputo solo quando mi sono rivolto allo studio dell’avvocatessa Lupi. Mi sono rivolto a lei perché mio nipote voleva rintracciare il padre.“.

La Cassazione ha recentemente ribadito: «Ora, in ordine alla sussistenza dell’illecito endofamiliare dedotto in giudizio, attinente al rapporto filiale, nell’ipotesi in cui alla procreazione non segua il riconoscimento e l’assolvimento degli obblighi conseguenti alla condizione di genitore, con disinteresse, protratto nel tempo, del genitore nei confronti del figlio, deve osservarsi che la violazione dei doveri di mantenimento, istruzione ed educazione dei genitori verso la prole può integrare gli estremi dell’illecito civile, ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti, in primis l’art.30 Cost., così dandosi luogo ad un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell’art. 2059 cod. civ. esercitabile anche nell’ambito dell’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità e maternità ed anche per il periodo anteriore alla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, sorgendo, sin dalla nascita, il diritto del figlio naturale ad essere mantenuto, istruito ed educato nei confronti di entrambi i genitori (Cass. 5652/2012). Tuttavia, il mancato riconoscimento dei figli, per poter configurare un danno risarcibile, dovrà possedere i caratteri tipici dell’illecito civile.

Dovrà quindi essere causalmente determinante, colpevole e cagionare un danno ingiusto.» (Cass. 22496 del 2021).

Alla luce di quanto sopra, si ritiene che l’allegato danno endofamiliare, nel caso di specie non risulti provato e che quindi la domanda sub 2 non possa essere accolta.

Quanto alla domanda sub 3 (porre a carico di YY un assegno mensile quale contributo al mantenimento del figlio JJ, dell’importo di € 400,00, o quello maggiore o minore che il Tribunale riterrà di giustizia, da rivalutarsi annualmente secondo gli indici ISTAT come per legge, da corrispondersi entro il giorno 5 di ogni mese, alla sig.ra XX), la legittimazione attiva a richiedere il versamento di un contributo al mantenimento del figlio, maggiorenne ma non ancora economicamente autosufficiente, a carico del padre, sussiste senz’altro in capo all’altro genitore convivente.

Nel caso di specie, il figlio è ancora relativamente giovane (21 anni compiuti) e sta ancora completando la sua formazione professionale, frequentando un corso presso il (omissis) di Pesaro; il convenuto avrebbe potuto facilmente verificare tale circostanza, sulla quale, invece, non ha formulato contestazioni; tali elementi inducono a ritenere congruo porre a carico del padre, dalla data della domanda, un contributo al mantenimento ordinario del figlio di euro 150,00 mensili, oltre al 50% delle spese straordinarie.

Infatti, occorre considerare che il convenuto non si trova certo in una situazione economica florida; egli, infatti, è nato il (omissis)-(omissis)-1971, è stato dichiarato invalido civile al 75% con decorrenza dal 4-1-2019, risulta iscritto al Centro per l’Impiego e proprietario del solo immobile in cui vive (un’abitazione di categoria catastale A 4 con rendita catastale di euro 418,33, acquistata nel 2011 contraendo un mutuo ipotecario, di cui non risultano con precisione le condizioni), nonché ammesso all’applicazione di tariffa agevolata per gas ed elettricità dall’aprile 2019 e per un anno, nonché ammesso al PSS, e risulta avere svolto nella propria vita lavorativa, il mestiere di animatore turistico, e poi agente di commercio, e poi di Operatore Socio Sanitario e infine di gestore di un pubblico esercizio di vendita di cibi e bevande su concessione pubblica, posto di fronte allo Stadio “(omissis)”, fino alla cessazione di tale attività avvenuta nel 2018.

D’altra parte, è anche vero che la madre del ragazzo, secondo quanto dichiarato dal padre della stessa in sede di deposizione testimoniale, risulta anche lei affetta da patologie che non le consentono di svolgere, da circa tre anni, alcuna attività lavorativa, mentre in precedenza aveva comunque sempre svolto lavori stagionali o comunque a tempo determinato, nell’agricoltura e nella ristorazione; anche lei può comunque contare sulla proprietà dell’abitazione dove vive insieme al figlio, grazie al contributo dal proprio padre, per come dal medesimo dichiarato.

Sulla richiesta di cui al punto 4, ovvero: 4) condannare YY al pagamento in favore della Sig.ra XX di quella somma che risulterà dovuta in corso di causa a titolo di rimborso delle spese sostenute, sin dal momento della nascita, per il mantenimento del figlio JJ, si rammenta che è pacifico che il diritto al regresso sorge fin dalla nascita del figlio, posto che il riconoscimento o la dichiarazione giudiziale, retroagisce a questo momento; il diritto ad ottenere il regresso può essere azionato solo dopo il passaggio in giudicato della sentenza di accertamento giudiziale della paternità; cfr. da ultimo Cass. civ. Sez. I Sent., 28/03/2017, n. 7960 che afferma: «La sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento, ai sensi dell’art. 277 c.c., e, quindi, giusta l’art. 261 c.c., implica per il genitore tutti i doveri propri della procreazione legittima, incluso quello del mantenimento ex art. 148 c.c. La relativa obbligazione si collega allo “status” genitoriale ed assume, di conseguenza, pari decorrenza, dalla nascita del figlio, con il corollario che l’altro genitore, il quale nel frattempo abbia assunto l’onere del mantenimento anche per la porzione di pertinenza del genitore giudizialmente dichiarato (secondo i criteri di ripartizione di cui al citato art. 148 c.c.), ha diritto di regresso per la corrispondente quota, sulla scorta delle regole dettate dall’art. 1299 c.c. nei rapporti fra condebitori solidali.».

Inoltre, circa la prescrizione: «La sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento, ai sensi dell’art. 277 cod. civ., e, quindi, a norma dell’art. 261 cod. civ., implica per il genitore tutti i doveri propri della procreazione legittima, incluso quello del mantenimento ex art. 148 cod. civ. La relativa obbligazione si collega allo “status” genitoriale e assume di conseguenza pari decorrenza, dalla nascita del figlio, con il corollario che l’altro genitore, il quale nel frattempo abbia assunto l’onere del mantenimento anche per la porzione di pertinenza del genitore giudizialmente dichiarato (secondo i criteri di ripartizione di cui al citato art. 148 cod. civ.), ha diritto di regresso per la corrispondente quota, sulla scorta delle regole dettate dall’art. 1299 cod. civ. nei rapporti fra condebitori solidali. Tuttavia, in considerazione dello stato di incertezza che precede la dichiarazione giudiziale di paternità naturale, il diritto al rimborso “pro quota” delle spese sostenute dalla nascita del figlio, spettante al genitore che lo ha allevato, non è utilmente esercitabile se non dal momento della sentenza di accertamento della filiazione naturale, con la conseguenza che detto momento segna altresì il “dies a quo” della decorrenza della prescrizione del diritto stesso.» (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 15756 del 11/07/2006 e successive conformi; di recente: Cass. civ., Sez. I, 31 luglio 2020, n. 16561).

Nel caso di specie, non vi è dubbio che la madre si sia sempre fatta carico, senza alcun aiuto da parte del padre, di tutte le esigenze del figlio, dalla nascita e fino all’introduzione del presente giudizio (giugno 2018), per un periodo totale di 18 anni e 9 mesi; circa il quantum, si può presuntivamente ritenere che ella abbia speso in media una somma di circa euro 500,00 mensili, comprensiva anche delle spese straordinarie, il che corrisponde, per il suddetto periodo, alla somma di euro 112.500,00, dei quali il convenuto deve quindi essere condannato a rimborsarle la metà, pari ad euro 56.250,00, già comprensivi del danno da ritardo rappresentato dalla mancato tempestivo soddisfacimento del proprio credito, subìto dalla attrice, in quanto somma liquidata con criterio equitativo; su tale somma sono dovuti gli interessi legali dalla pubblicazione della presente sentenza al saldo effettivo.

Si soggiunge che, sebbene non sia stata fornita la prova che il figlio abbia subìto un danno risarcibile a causa dell’assenza della figura paterna, si ritiene, comunque, che il convenuto fosse consapevole del rapporto di paternità e ciò sulla base della testimonianza di C. R., gestore di un bar frequentato da entrambe le parti all’epoca del concepimento e della nascita di JJ, teste assolutamente indifferente e pertanto attendibile, il quale, oltre a confermare l’esistenza di una relazione sentimentale fra i due, ha dichiarato che un pomeriggio, non molto tempo dopo la nascita di JJ, la XX era arrivata nel locale con una foto del bambino e l’aveva fatta vedere sia a lui che al convenuto, che si trovava nel locale; in particolare ha dichiarato: “..lei aveva la foto del bimbo e l’ha fatta vedere sia a me che a YY, io gli dissi “YY è uguale a te”, la somiglianza era evidente. Poi io mi sono allontanato mentre loro parlavano.“.

Le spese legali seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo, secondo i valori medi delle cause di valore compreso fra euro 26001 e 52.000, per tutte le fasi; le spese di ctu vanno compensate integralmente fra le parti, in quanto adempimento necessario a fini di giustizia.

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni altra istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone:

1 – Accerta e dichiara che YY, nato il (omissis).(omissis).1971 a (omissis), (Austria), codice fiscale (omissis), residente a Bologna Via (omissis) n. (omissis), è il padre di JJ, nato il (omissis).(omissis).1999 ad (omissis) [ recte : località della Sardegna ; Nota redazionale ], residente a Pesaro (PU) Via (omissis) n. (omissis), codice fiscale (omissis), con ogni conseguenza di legge;

dispone la comunicazione del presente provvedimento all’Ufficiale di Stato Civile del Comune di (omissis) [ recte : predetta località della Sardegna ; Nota redazionale ] (luogo di nascita) e di Pesaro (luogo di residenza), per quanto di competenza;

2 – dalla data della domanda, pone a carico del padre l’obbligo di contribuire al mantenimento ordinario del figlio versando entro il giorno 5 di ogni mese la somma di euro 150,00 alla madre, su conto corrente intestato alla medesima che gli verrà tempestivamente comunicato; tale somma sarà rivalutata annualmente secondo l’indice ISTAT; pone a carico di ciascuno dei genitori le spese straordinarie per i figli nella misura del 50% ciascuno; si applica il vigente Protocollo del Tribunale di Bologna, che di seguito integralmente si riporta:

spese ricomprese nel contributo ordinario al mantenimento:

spese necessarie alla soddisfazione delle esigenze primarie di vita dei figli: quindi vitto, alloggio, abbigliamento ordinario , mensa scolastica e spese per l’ordinaria cura della persona.

Spese straordinarie da non concordare preventivamente in quanto ritenute in via generale nell’interesse dei figli:

  • spese corrispondenti a scelte già condivise dei genitori e dotate della caratteristica della continuità, a meno che non intervengano a causa o dopo lo scioglimento dell’unione tra i genitori documentati mutamenti connessi a primarie esigenze di vita tali da rendere la spesa eccessivamente gravosa. A titolo esemplificativo : spese mediche precedute dalla scelta concordata dello specialista, ivi comprese le spese per i trattamenti e i farmaci prescritti; spese scolastiche costituenti conseguenza delle scelte concordata dai genitori in ordine alla frequenza dell’istituto scolastico; spese sportive, precedute dalla scelta concordata dello sport (ivi incluse le spese per l’acquisto delle relative attrezzature e corredo sportivo); spese ludico – ricreativo – culturali, precedute dalla scelta concordata della attività (ivi incluse le spese per l’acquisto delle relative attrezzature).
  • Campi scuola estivi , baby sitter , pre scuola e post scuola se necessitate dalle esigenze lavorative del genitore collocatario e se il genitore non collocatario, anche per tramite della rete famigliare di riferimento (nonni, etc) non offre tempestive alternative.
  • Spese necessarie per il conseguimento della patente di guida.
  • Abbonamento mezzi di trasporto pubblici.
  • Spese scolastiche di iscrizione e dotazione scolastica iniziale come da indicazione dell’istituto scolastico frequentato; uscite scolastiche senza pernottamento.
  • Visite specialistiche prescritte dal medico di base; ticket sanitari e apparecchi dentistici o oculistici ivi comprese le lenti a contatto, se prescritti; spese mediche aventi carattere d’urgenza.

Tutte le altre spese straordinarie vanno concordate tra i genitori, con le seguenti modalità.

Il genitore che propone la spesa dovrà informarne l’altro per iscritto ( raccomandata, fax o mail) anche in relazione all’entità della spesa. Il tacito consenso dell’altro genitore sarà presunto decorsi trenta giorni dalla richiesta formale se quest’ultimo non abbia manifestato il proprio dissenso per iscritto (raccomandata, fax o mail) motivandolo adeguatamente, salvo diversi accordi.

Rimborso delle spese straordinarie

Il rimborso delle spese straordinarie a favore del genitore anticipatario avverrà dietro esibizione di adeguata documentazione comprovante la spesa.

La richiesta di rimborso dovrà avvenire in prossimità dell’esborso.

Il rimborso dovrà avvenire tempestivamente dalla esibizione del documento di spesa e non oltre quindici giorni dalla richiesta, salvo diversi accordi.

La documentazione fiscale deve essere intestata ai figli ai fini della corretta deducibilità della stessa.

Gli eventuali rimborsi e/o sussidi disposti dalla Stato e/o altro Ente Pubblico o Privato per spese scolastiche e/o sanitarie relative alla prole vanno a beneficio di entrambi i genitori nella stessa proporzionale quota di riparto delle spese straordinarie.

3 – accertato il diritto dell’attrice ad ottenere dal convenuto il pagamento pro quota, in ragione del 50%, di tutte le spese, ordinarie e straordinarie, sostenute per il mantenimento del figlio, dalla nascita fino all’introduzione del presente giudizio, per l’effetto condanna il convenuto a versare all’attrice la somma di euro 56.250,00 oltre interessi legali dalla pubblicazione della presente sentenza al saldo effettivo;

4 – compensa integralmente fra le parti le spese di ctu;

5 – condanna il convenuto a rifondere all’attrice le spese legali che si liquidano in euro 545 per spese, euro 7.254 per compensi, oltre spese generali e accessori come per legge.

Così è deciso in Bologna nella camera di consiglio del 9 marzo 2022.

Il Giudice Relatore

dott. Francesca Neri

Il Presidente

dott. Bruno Perla

LA CASSAZIONE SULDANNO ENDOFAMIGLIARE

, di assumersi le proprie responsabilità conseguenti al concepimento di una creatura”. 4.6 – Risulta agevole quindi constatare come, sulla base di tali emergenze processuali, la corte territoriale abbia correttamente affermato la responsabilità del D. , derivante dalla volontaria, grave e reiterata sottrazione agli obblighi tutti derivanti dal rapporto di filiazione, con conseguente risarcibilità – sia pure nei limiti della riduzione del petitum, sulla base della interpretazione della domanda così come operata dai giudici del merito, vale a dire1 con la limitazione, per ragioni che sfuggono a qualsiasi tentativo di comprensione, al pregiudizio sofferto nel periodo successivo al raggiungimento della maggiore età – dei danni di natura non patrimoniale “per la subita lesione dei fondamentali diritti della persona inerenti la qualità di figlio”. 4.7 – Le questioni che la presente vicenda pone, per le numerose implicazioni giuridiche, meriterebbero ampia disamina, inserendosi esse nella più vasta problematica della responsabilità aquiliana nei rapporti familiari che negli ultimi anni è stata interessata da una vasta rielaborazione sotto il profilo della tutela dei diritti fondamentali della persona; l’esame, tuttavia, dovrà essere, nel rispetto dell’economia del presente giudizio, limitato agli aspetti enucleati nei quesiti di diritto validamente proposti. 4.8 – Viene in primo luogo in considerazione la tesi secondo cui il riconoscimento della paternità, o, come sembra di capire, quanto meno la proposizione della relativa domanda, costituiscano il presupposto della responsabilità aquiliana scaturente dalla violazione dei doveri inerenti al rapporto di filiazione. Tale assunto è all’evidenza infondato, in quanto contrastante con il principio, costantemente affermato da questa Corte, secondo cui l’obbligo del genitore naturale di concorrere nel mantenimento del figlio insorge con la nascita dello stesso, ancorché la procreazione sia stata successivamente accertata con sentenza (Cass., 20 dicembre 2011, n. 27653; Cass., 3 novembre 2006. n. 23596), atteso che la sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento e quindi, ai sensi dell’art. 261 c.c., implica per il genitore tutti i doveri propri della procreazione legittima, incluso quello del mantenimento ai sensi dell’art. 148 c.c., ricollegandosi tale obbligazione allo status genitoriale e assumendo, di conseguenza, efficacia retroattiva (Cass., 17 dicembre 2007, n. 26576 pari decorrenza, dalla nascita del figlio (Cass., 11 luglio 2006, n. 15756; Cass., 14 maggio 2003, n. 7386; Cass., 14 febbraio 2003, n. 2196). La sussistenza di tale obbligo, raccordata alla consapevolezza del concepimento, come sopra evidenziata, esclude la fondatezza della tesi secondo cui la responsabilità del D. dovrebbe escludersi in assenza di specifiche richieste provenienti dalla S. o dal figlio. Prescindendo dal rilievo inerente all’inutilità di richieste successive dopo un rifiuto iniziale espresso in termini categorici, soccorre il principio secondo cui l’obbligo dei genitori di mantenere i figli (artt. 147 e 148 c.c.) sussiste per il solo fatto di averli generati e prescinde da qualsivoglia domanda, sicché nell’ipotesi in cui al momento della nascita il figlio sia riconosciuto da uno solo dei genitori, tenuto perciò a provvedere per intero al suo mantenimento, non viene meno l’obbligo dell’altro genitore per il periodo anteriore alla pronuncia della dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, essendo sorto sin dalla nascita il diritto del figlio naturale ad essere mantenuto, istruito ed educato nei confronti di entrambi i genitori (Cass., 2 febbraio 2006, n. 2328). 4.9 – Quanto alla dedotta insussistenza di un diritto al risarcimento del danno, per violazione del complesso dei doveri facenti capo al genitore naturale, e limitati nella presente vicenda al periodo compreso fra il raggiungimento, da parte del figlio, della maggiore età ed il conseguimento dell’autosufficienza sul piano economico, premesso che la relativa liquidazione, costituendo questione di merito, non può essere sindacata in questa sede, non essendosi per altro validamente prospettati, come sopra evidenziato, vizi motivazionali, deve ribadirsi come la violazione di obblighi cui corrispondono, nel destinatario, diritti primari della persona, costituzionalmente garantiti, comporta la sussistenza di un illecito civile certamente riconducibile nelle previsioni dell’art. 2043 c.c. e segg.. Nell’ambito di un vasto orientamento, formatosi sia in dottrina, che nella giurisprudenza, tanto di merito (Trib. Venezia, 30 giugno 2004; Corte app. Bologna, 10 febbraio 2004), quanto di legittimità (Cass., 7 giugno 2000, n. 7713; Cass., 10 maggio 2005, n. 9801, fino alla recente Cass., 15 settembre 2011, n. 18853), è stato, da tempo enucleata la nozione di illecito endofamiliare, in virtù della quale la violazione dei relativi doveri non trova necessariamente sanzione solo nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, discendendo dalla natura giuridica degli obblighi suddetti che la relativa violazione, ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti, possa integrare gli estremi dell’illecito civile e dare luogo ad un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell’art. 2059 c.c.. Il riferimento del ricorrente alla nota decisione delle Sezioni unite di questa Corte n. 26972 del 2008, proponendone una lettura riduttiva e fondata su un rilevo di carattere nominalistico, non coglie nel segno, essendosi al contrario con essa ribadito come, al di là del ricorso a varie figure di danno, diversamente denominate per meri fini descrittivi, debba affermarsi, in base a un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., la risarcibilità del pregiudizio di natura non patrimoniale, quando il fatto illecito abbia violato in modo grave diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale. Non può dubitarsi, con riferimento al caso di specie, come il disinteresse dimostrato da un genitore nei confronti di un figlio, manifestatosi per lunghi anni e connotato, quindi, dalla violazione degli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione, determini un vulnus, dalle conseguenze di entità rimarchevole ed anche, purtroppo, ineliminabili, a quei diritti che, scaturendo dal rapporto di filiazione, trovano nella carta costituzionale (in part., artt. 2 e 30), e nelle norme di natura internazionale recepite nel nostro ordinamento un elevato grado di riconoscimento e di tutela

Sez. 1^ Civile, Sentenza n. 5652 del 10 Aprile 2012 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella – Presidente – Dott. DIDONE Antonio – Consigliere – Dott. CAMPANILE Pietro – rel. Consigliere – Dott. CRISTIANO Magda – Consigliere – Dott. SCALDAFERRI Andrea – Consigliere – ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: S.G.C.M. domiciliato in Roma, presso la cancelleria della Suprema Corte di cassazione; rappresentato e difeso, giusta procura speciale in calce al ricorso, dall’avv. ARENA LINA; – ricorrente – contro D.I. , Elettivamente domiciliato in Roma, via dei Gracchi, n. 187, nello studio dell’avv. MAGNANO GIOVANNI di San Lio; rappresentato e difeso dall’avv. Emilio Monfrini, giusta procura speciale a margine del controricorso. – controricorrente – nonché sul ricorso proposto da: D.I. come sopra rappresentato; – ricorrente in via incidentale – contro S.G.C.M. come sopra rappresentato; – controricorrente a ricorso incidentale – avverso la sentenza della Corte di appello di Catania, n. 654, depositata in data 13 maggio 2008; sentita la relazione all’udienza del 10 gennaio 2012 del consigliere Dott. Pietro Campanile; Sentito l’avv. Arena, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso; Udite le richieste del Procuratore Generale, in persona del sostituto Dott. Costantino Fucci, il quale ha concluso per il rigetto del ricorso principale e dell’incidentale; Lette le osservazioni scritte dell’avv. Arena. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO 1 – Con atto di citazione notificato in data 24 gennaio 2002 S.G. esponeva di essere figlio naturale riconosciuto di S.I. , essendo nato – il (omesso) – da una relazione della stessa con D.I. . Aggiungeva che costui, venuto a conoscenza del concepimento, aveva interrotto ogni rapporto con la donna, rifiutandosi, anche in seguito, di riconoscere il figlio e di mantenerlo, così costringendolo a un’esistenza, considerate le misere condizioni della madre, piena di stenti e di privazioni, nel corso della quale andava incontro a varie vicissitudini (come esperienze di natura penale e la contrazione del virus HIV), poi superate con la costituzione di un proprio nucleo familiare. Tanto premesso, chiedeva che il Tribunale di Catania, accertata detta filiazione naturale, disponesse a proprio favore un assegno mensile a titolo di alimenti ponendolo a carico del convenuto, condannando altresì costui a corrispondergli ” a titolo di restituzione o risarcimento del danno una somma pari all’assegno alimentare dovuto dal raggiungimento della maggiore età fino alla data della domanda”. 1.1 – Costituitosi il D. , che chiedeva il rigetto delle domande, contestando principalmente di essere il padre naturale dell’attore, il Tribunale adito, con sentenza depositata il 20 gennaio 2006, sulla base delle prove acquisite e del sostanziale rifiuto del convenuto di sottoporsi al prelievo per l’esecuzione della disposta consulenza ematologica, accoglieva lei domanda di dichiarazione di paternità; rigettava la richiesta di assegno alimentare e, in parziale aiccoglimento della pretesa risarcitoria, in considerazione del pregiudizio di natura esistenziale inerente al periodo compreso – sulla base della specifica limitazione contenuta nell’atto introduttivo del giudizio – fra il raggiungimento della maggiore età e il momento in cui non era più configurabile un obbligo di mantenimento, liquidava, in via equitativa, la somma di Euro 25.000, con interessi e rivalutazione dalla data della domanda. 1.2 – Avverso tale decisione proponeva appello il D. , eccependone in primo luogo la nullità, per omessa integrazione del contraddittorio nei confronti della propria moglie e dei suoi figli legittimi, ritenuti litisconsorti necessari, e deducendo, nel merito, l’assenza di validi elementi probatori per il riconoscimento della paternità (tenuto anche conto dei seri impedimenti che si erano verificati in occasione delle date in cui erano stati disposti i prelievi), e che, in ogni caso, non vi era stato alcun rifiuto di assistere lo S. , in quanto la madre, dopo un incontro nel corso del quale egli le aveva manifestato di ritenere di non essere il padre del bambino, non si era fatta più vedere, così radicando in lui tale convinzione. D’altra parte, lo S. , che aveva intrapreso il giudizio dopo aver superato il quarantesimo anno di età, risultava proprietario di un appartamento, titolare di pensione e coniugato con figli, uno dei quali già dedito ad attività lavorativa. Instauratosi il contraddittorio, lo S. chiedeva il rigetto dell’appello proposto dal D. , proponendo a sua volta impugnazione incidentale con cui, oltre a dolersi dell’incongruità per difetto della somma liquidata a titolo di risarcimento del danno, sosteneva che la richiesta di un assegno alimentare doveva essere interpretata come una componente del ristoro del pregiudizio, e, più precisamente, come rendita vitalizia ex art. 2057 c.. 1.3 – La Corte di appello di Catania, con la sentenza indicata in epigrafe, rigettava tanto l’appello principale quanto quello incidentale, compensando le spese processuali. Ritenuta infondata la tesi secondo cui il coniuge e i figli del D. erano da considerare litisconsorti necessari, in quanto priva di qualsiasi riscontro sul piano normativo, si osservava che il complesso delle risultanze probatorie era stato correttamente valutato nel senso del riconoscimento della paternità naturale in capo all’appellante principale. Da un lato venivano richiamati i riferimenti di natura documentale e testimoniale circa la relazione amorosa fra il D. e I..S. all’epoca del concepimento dell’appellato, non omettendosi di sottolineare i comportamenti tenuti anche dai congiunti del D. , come quello del fratello avvocato, il quale aveva consegnato la somma di lire 500.000 alla donna, dicendole di non farsi più vedere; dall’altro veniva evidenziato il carattere pretestuoso della mancata comparizione del convenuto per sottoporsi ai prelievi ematici, così tenendo un comportamento dal quale desumere, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, significativi elementi di prova. Quanto agli aspetti di natura risarcitoria, si e-sprimeva in primo luogo un giudizio di correttezza in merito all’interpretazione della domanda effettuata in primo grado, evidenziandosi il carattere di novità della richiesta di una rendita vitalizia. Ribadita l’insussistenza dei presupposti per l’attribuzione di un assegno alimentare, si confermava la statuizione inerente all’accoglimento della pretesa risarcitoria in relazione alla violazione, ritenuta consapevole, di un diritto fondamentale della persona, quale quello, facente capo al figlio, di ricevere dai propri genitori assistenza materiale e morale. Tenuto conto della limitazione della domanda al periodo successivo al raggiungimento della maggiore età dello S. , valutate anche le condizioni in cui egli concretamente versava, è le difficoltà incontrate negli anni giovanili, le vicissitudini che gli avevano minato anche la salute, si esprimeva un giudizio di congruità in relazione alla somma determinata in via equitativa dal Tribunale a titolo di ristoro del pregiudizio subito dall’attore, precisandosi, anche con riferimento a difformi interprefazioni del dispositivo di condanna emerse in sede esecutiva, che la rivalutazione ed il calcolo degli interessi legali sulla somma attribuita dovevano effettuarsi a partire dalla data della domanda. 1.4 – Per la cassazione di tale decisione lo S. propone ricorso, affidato a due motivi. Il D. si difende con controricorso, proponendo a sua volta ricorso incidentale, affidato a due motivi, cui lo S. resiste con controricorso. La difesa del ricorrente ha presentato osservazioni scritte all’esito delle conclusioni del pubblico ministero, ai sensi dell’art. 379 c.p.c., u.c.. MOTIVI DELLA DECISIONE 2 – Deve preliminarmente disporsi la riunione dei ricorsi, ai sensi dell’art. 335 c.p.c., in quanto proposti avverso la medesima decisione. 2.1 – Con il primo motivo del ricorso principale si denuncia “errata e comunque ingiusta valutazione equitativa del danno”. Si duole lo S. dell’omessa considerazione delle conseguenze della violazione dei doveri inerenti all’assistenza, alla cura, al mantenimento e all’istruzione del figlio, nonché della contraddizione consistente nella descrizione, nella sentenza impugnata, dei pregiudizi di natura esistenziale e patrimoniale subiti soprattutto durante la sua sfortunata giovinezza e della modestia dell’importo liquidato, specificandosi che la limitazione nella domanda del termine iniziale da considerare ai fini risarcitori, fatto coincidere con il raggiungimento della maggiore età, voleva “significare che il danno lamentato era un danno permanente legato alla perdita di chances per un inserimento dignitoso nella vita sociale e quindi lavorativa”. Sotto tale profilo si evidenzia che la richiesta modalità di liquidazione non costituiva, come erroneamente ritenuto dai giudici del merito, una domanda nuova. Viene quindi formulato il seguente quesito: “Postocché l’attore ha dimostrato con le prove documentali ed orali ivi compresa la mancata presentazione a rendere l’interrogatorio formale del convenuto D.I. , il risarcimento del danno patrimoniale e morale conseguente alle sofferenze inflitte e costituite dalla lesione di valori inerenti alla persona e costituzionalmente garantiti dovrà essere supportato da una motivazione congruente e logica da giustificare un risarcimento adeguato ai valori della vita contemporanea. I principi di diritto vengono attinti dall’art. 1226 c.c. e art. 2057 c.c.. La motivazione offerta dalla Corte di appello di Catania e fedelmente ricopiata da quella data dal Tribunale di Catania con la sentenza n. 136/06 non si può ritenere adeguata, coerente o proporzionata a sorreggere e giustificare il capo di sentenza con il quale è stata accordata la liquidazione del danno nella misura di Euro 25.000,00, sia perché il danno è stato limitato a pochi anni di insufficiente capacità lavorativa del figlio, mentre le prove offerte davano una visione definitiva e radicale del danno esistenziale e biologico da intendere o riferire all’intero arco della vita, sia perché tra i due momenti decisori si intravede una scissione ed una contraddizione che non si possono ricondurre al principio della valutazione equitativa del danno”. 2.2 – Con il secondo motivo si afferma che la compensazione delle spese del giudizio di secondo grado sarebbe errata ed ingiusta, con riferimento all’omessa considerazione dell’assoluta infondatezza dei motivi di appello formulati dal D. . Viene indicato il seguente; quesito di diritto: “In considerazione dell’assoluta infondatezza e pretestuosità dell’atto di impugnazione della sentenza di primo grado pronunciata dal tribunale di Catania in data 20 gennaio 2006, le spese e gli onorari del giudizio debbono essere posti a carico della parte che ha promosso il giudizio di appello ancorché l’appellato abbia proposto appello incidentale su una questione di rilevante valore morale e sociale che il giudice di primo grado aveva valutato ed accolto sia pure parzialmente”. 3 – Il ricorso principale è inammissibile. Debbono, infatti, trovare applicazione, per essere stata impugnata una sentenza depositata in data 13 maggio 2008, le disposizioni del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, (in vigore dal 2 marzo 2006 sino al 4 luglio 2009), con particolare riferimento all’art. 6, che ha introdotto l’art. 366 bis c.p.c.. Alla stregua di tali disposizioni – la cui peculiarità rispetto alla già esistente prescrizione della indicazione nei motivi di ricorso della violazione denunciata consiste nella imposizione di una sintesi originale ed autosufficiente della violazione stessa, funzionalizzata alla formazione immediata e diretta del principio di diritto al fine del miglior esercizio della funzione nomofilattica – l’illustrazione dei motivi di ricorso, nei casi di cui all’art. 360, comma 1, nn. 1, 2, 3 e 4, deve concludersi, a pena di inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto che, riassunti gli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito e indicata sinteticamente la regola di diritto applicata da quel giudice, enunci la diversa regola di diritto che ad avviso del ricorrente si sarebbe dovuta applicare nel caso di specie, in termini tali per cui dalla risposta che ad esso si dia discenda in modo univoco l’accoglimento o il rigetto del gravame. Analogamente, nei casi di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’illustrazione del motivo deve contenere (cfr. ex multis: Cass. Sez. Un. n. 20603 del 2007; Cass., n. 16002 del 2007; Cass., n. 8897 del 2008) un momento di sintesi – omologo del quesito di diritto – che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità. 3.1 – Tanto premesso, deve porsi in evidenza come il quesito relativo al primo motivo, così riflettendo, anzi, accentuando quella mescolanza di questioni di merito con pretese violazioni di legge che caratterizza l’intera illustrazione delle doglianze, e in tal modo configurando piuttosto un treno di generiche lamentazioni che una censura formulata nel rispetto dei canoni normativi, contiene, in maniera indistinta, riferimenti sia alla motivazione della decisione impugnata, sia ai principi di diritto, per il vero non perspicuamente individuati, asseritamente violati, in maniera tale da non consentire, non essendo concepibile alcuna risposta di segno positivo o negativo, di accedere all’esame delle questioni che si agitano nell’ambito di una così dolorosa vicenda. Le Sezioni unite di questa Corte hanno affermato che i quesiti di diritto imposti dall’art. 366 bis c.p.c., introdotto dal D.Lgs. n. 40 del 2006, “rispondono alla esigenza di soddisfare l’interesse del ricorrente ad una decisione della lite diversa da quella cui è pervenuta la sentenza impugnata, ed al tempo stesso, con più ampia valenza, di enucleare, collaborando alla funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, il principio di diritto applicabile alla fattispecie. Il quesito di diritto costituisce, pertanto, il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l’enunciazione del principio giuridico generale, risultando altrimenti inadeguata, e quindi – non ammissibile, l’investitura stessa del Giudice di legittimità” (per tutte, Cass. S.U. n. 3519 del 2008; n. 22640 del 2007; n. 14385 del 2007). Pertanto, ognuno dei quesiti formulati per ciascun motivo di ricorso deve consentire l’individuazione del principio di diritto che è alla base del provvedimento impugnato e, correlativamente, del diverso principio la cui auspicata applicazione ad opera di questa Corte di Cassazione possa condurre ad una decisione di segno diverso. Il quesito deve poi costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la Corte in condizione di rispondere ad esso con l’enunciazione di una regula iuris che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del Giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata. La giurisprudenza di questa Corte esclude, quindi, che possano proporsi motivi cumulativi e, comunque, che si concludano con un quesito che non permetta di riferirlo in modo chiaro ed univoco ad uno di essi (Cass. n. 5471 del 2008; n. 1906 del 2008) e che non evidenzi l’elemento strutturale della norma che si assume violata, non consistendo in una chiara sintesi logico – giuridica della questione sottoposta, formulata in termini tali per cui dalla risposta – negativa od affermativa – che ad esso si dia, discenda in modo univoco l’accoglimento od il rigetto del gravame (Cass. S.U., n. 20360 del 2007). 3.2 – Analoghe considerazioni vanno svolte in relazione al secondo motivo, non senza rilevare che la censura non sembra cogliere la ratio decidendi, fondata, ai fini della compensazione delle spese processuali, sulla reciproca soccombenza. 4 – Con il primo motivo del ricorso incidentale si denuncia violazione ed errata interpretazione dell’art. 276 c.c., ribadendosi l’eccezione di nullità per omessa integrazione del contraddittorio nei confronti della moglie e dei figli legittimi del D. . Si sostiene che nella specie ricorrerebbe un’ipotesi di litisconsorzio necessario, in quanto la sfera giuridica dei predetti soggetti sarebbe interessata dal riconoscimento di uno status diverso da quello originario derivante dall’accoglimento della domanda principale proposta dallo S. . Viene formulato il seguente quesito di diritto: “Se è vero che l’art. 276 c.c., indica come soggetto passivo dell’azione di dichiarazione giudiziale di paternità il solo presunto genitore e, solamente in mancanza di costui, i suoi eredi, non è meno vero che la tutela dello “status” di figlio legittimo possa non essere considerata altrettanto necessaria. La presenza in giudizio dei figli legittimi (anche se la norma in esame li considera contrad-dittori solo in assenza del presunto genitore) serve a tutelare il loro status, ad evitare che possa introdursi in famiglia, con conseguenti riflessi personali e patrimoniali un “presunto” figlio, specie ove il presunto genitore evita di sottoporsi alle prove ematologi che per favorire l’estraneo, per ragioni in contrasto con la famiglia legittima. Ove vi fosse collusione fra il “presunto genitore” e il “presunto figlio” ai figli legittimi non resterebbe che impugnare la sentenza ex art. 404 c.p.c.”. 4.2 – Il motivo, per come formulato, presenta vari profili di inammissibilità, in quanto, limitandosi a proporre una mera esegesi dell’art. 276 c.c. (per altro in senso difforme dal costante insegnamento di questa Corte, secondo cui, in base al chiaro disposto dell’art. 276 c.c., comma 1, legittimato passivo nel giudizio per l’accertamento della paternità naturale è il presunto genitore, ovvero, in caso di mancanza di questo, i suoi soli eredi, mentre la posizione di altri soggetti, portatori di interessi patrimoniali o non patrimoniali contrari all’accertamento della filiazione è disciplinata dal secondo comma della stessa disposizione, che attribuisce loro la legittimazione a contraddire alla domanda intervenendo nel processo, e non anche quella ad essere citati in giudizio come contraddittori necessari (Cass., Sez. Un., 3 novembre 2005, n. 21287, in motivazione; Cass., 28 aprile 1993, n. 8915; 17 febbraio 1987, n. 1693), non indica quale principio risulta applicato dalla corte territoriale e la diversa regula iuris ritenuta corretta (Cass., Sez. un., 20 maggio 2010, n. 12339), ne’, soprattutto, gli elementi concreti della fattispecie, ragion per cui qualsiasi risposta non consentirebbe la risoluzione della controversia. 4.3 – Con il secondo motivo del ricorso incidentale si denuncia: “Errato condannatorio per danni non patrimoniali – danno esistenziale subito dallo S. . Carenza del presupposto essenziale per addebito della responsabilità e, quindi, violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3. Errata valutazione delle prove acquisite e, quindi, violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5. Inconcepibilità del danno definito esistenziale”. Vengono formulati i seguenti quesiti di diritto: “Dica la Corte se può addebitarsi al genitore naturale la responsabilità del mancato contributo al mantenimento di un presunto figlio naturale, se nessuna richiesta di accertamento della paternità è stata esercitata dal genitore che ha la potestà sul minore, e ciò dalla nascita del presunto figlio sino al raggiungimento della maggiore età, ed anche dopo da parte del figlio divenuto maggiorenne? Può addebitarsi responsabilità al presunto genitore che non ha ricevuto alcuna formale richiesta per il riconoscimento del presunto figlio e ciò per oltre 40 anni e che, quindi, non si è sottratto ad alcun obbligo di mantenimento, essendo inesistente la prova (o comunque t l’accertamento in corso) della paternità. Può emettersi condanna al risarcimento del danno “esistenziale” – per il periodo dal raggiungimento della maggiore età alla data di inizio dell’azione di accertamento della paternità – nel caso in esame promossa dopo 43 anni dalla nascita – a carico del presunto padre e, quindi, in assenza di alcun obbligo al mantenimento (elemento soggettivo per la declaratoria di responsabilità) e senza fornire la prova del danno in violazione dell’art. 2059 c.c. – tanto più che dopo un anno dal raggiungimento della maggiore età il presunto figlio si è sposato, costituendo autonomo nucleo familiare, acquisendo per donazione materna una casa, di abitazione – e, quindi, esistendo agli atti la prova della inesistenza del preteso danno esistenziale, in ogni caso non addebitatile al presunto padre che, dopo l’iniziale richiesta informale di riconoscimento, nulla ha più saputo circa la vita di relazione del presunto figlio. I principi di diritto elaborati dalla giurisprudenza circa il danno esistenziale riguardano lo status di figlio già riconosciuto e non uno status accertato ex post (nel caso in esame dopo 40 anni)”. 4.4 – Deve preliminarmente rilevarsi come, a fronte di un motivo che contiene rilievi sia in merito alle valutazioni giuridiche operate nella decisione impugnata che alla motivazione della stessa, viene proposto un quesito di diritto, articolato in più punti, che attiene esclusivamente alla violazione o all’interpretazione delle norme applicate dal giudice del merito. Deve pertanto trovare applicazione il principio secondo il quale è ammissibile il ricorso per cassazione nel quale si denunzino con un unico articolato motivo d’impugnazione vizi di violazione di legge e di motivazione in fatto, qualora lo stesso si concluda con una pluralità di quesiti, ciascuno dei quali contenga un rinvio all’altro, al fine di individuare su quale fatto controverso vi sia stato, oltre che un difetto di motivazione, anche un errore di qualificazione giuridica del fatto (Cass., Sez. Un., 31 marzo 2009, n. 7770). Attesa, quindi, l’ammissibilità del ricorso per Cassazione che denunzi con unico motivo vizi di violazione di legge e di motivazione in fatto (Cass., sez. 1^, 18 gennaio 2008, n. 976), ogni censura deve ritenersi ammissibile nella parte in cui sia corredata da un idoneo quesito o dall’indicazione del fatto controverso, nei termini più volte ribaditi da questa Corte. Nel caso in esame, pertanto, il motivo deve ritenersi ammissibile nella parte in cui risultano formulati, quanto alle violazioni di legge, validi quesiti di diritto, mentre deve rilevarsi l’inammissibilità delle censure attinenti a vizi della motivazione, in quanto non sorrette da una corretta illustrazione di quel momento di sintesi, omologo del quesito di diritto, richiesto dalla consolidata giurisprudenza di questa Corte, come sopra richiamata. 4.5 – Deve pertanto ritenersi non più controvertibile la ricostruzione della vicenda così come operata dalla corte territoriale, sia con riferimento all’accertamento della paternità naturale, per il vero non adeguatamente contestata, sia in relazione agli aspetti, di certo rilevanti in materia aquiliana, di natura psicologica, nel senso che, come si legge nella decisione impugnata, il D. era “ben a conoscenza dell’esistenza del figlio”, del quale si era totalmente disinteressato “nonostante, quanto meno fino a una certa epoca, avesse ricevuto specifiche richieste, da parte della S. , di assumersi le proprie responsabilità conseguenti al concepimento di una creatura”. 4.6 – Risulta agevole quindi constatare come, sulla base di tali emergenze processuali, la corte territoriale abbia correttamente affermato la responsabilità del D. , derivante dalla volontaria, grave e reiterata sottrazione agli obblighi tutti derivanti dal rapporto di filiazione, con conseguente risarcibilità – sia pure nei limiti della riduzione del petitum, sulla base della interpretazione della domanda così come operata dai giudici del merito, vale a dire1 con la limitazione, per ragioni che sfuggono a qualsiasi tentativo di comprensione, al pregiudizio sofferto nel periodo successivo al raggiungimento della maggiore età – dei danni di natura non patrimoniale “per la subita lesione dei fondamentali diritti della persona inerenti la qualità di figlio”. 4.7 – Le questioni che la presente vicenda pone, per le numerose implicazioni giuridiche, meriterebbero ampia disamina, inserendosi esse nella più vasta problematica della responsabilità aquiliana nei rapporti familiari che negli ultimi anni è stata interessata da una vasta rielaborazione sotto il profilo della tutela dei diritti fondamentali della persona; l’esame, tuttavia, dovrà essere, nel rispetto dell’economia del presente giudizio, limitato agli aspetti enucleati nei quesiti di diritto validamente proposti. 4.8 – Viene in primo luogo in considerazione la tesi secondo cui il riconoscimento della paternità, o, come sembra di capire, quanto meno la proposizione della relativa domanda, costituiscano il presupposto della responsabilità aquiliana scaturente dalla violazione dei doveri inerenti al rapporto di filiazione. Tale assunto è all’evidenza infondato, in quanto contrastante con il principio, costantemente affermato da questa Corte, secondo cui l’obbligo del genitore naturale di concorrere nel mantenimento del figlio insorge con la nascita dello stesso, ancorché la procreazione sia stata successivamente accertata con sentenza (Cass., 20 dicembre 2011, n. 27653; Cass., 3 novembre 2006. n. 23596), atteso che la sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento e quindi, ai sensi dell’art. 261 c.c., implica per il genitore tutti i doveri propri della procreazione legittima, incluso quello del mantenimento ai sensi dell’art. 148 c.c., ricollegandosi tale obbligazione allo status genitoriale e assumendo, di conseguenza, efficacia retroattiva (Cass., 17 dicembre 2007, n. 26576 pari decorrenza, dalla nascita del figlio (Cass., 11 luglio 2006, n. 15756; Cass., 14 maggio 2003, n. 7386; Cass., 14 febbraio 2003, n. 2196). La sussistenza di tale obbligo, raccordata alla consapevolezza del concepimento, come sopra evidenziata, esclude la fondatezza della tesi secondo cui la responsabilità del D. dovrebbe escludersi in assenza di specifiche richieste provenienti dalla S. o dal figlio. Prescindendo dal rilievo inerente all’inutilità di richieste successive dopo un rifiuto iniziale espresso in termini categorici, soccorre il principio secondo cui l’obbligo dei genitori di mantenere i figli (artt. 147 e 148 c.c.) sussiste per il solo fatto di averli generati e prescinde da qualsivoglia domanda, sicché nell’ipotesi in cui al momento della nascita il figlio sia riconosciuto da uno solo dei genitori, tenuto perciò a provvedere per intero al suo mantenimento, non viene meno l’obbligo dell’altro genitore per il periodo anteriore alla pronuncia della dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, essendo sorto sin dalla nascita il diritto del figlio naturale ad essere mantenuto, istruito ed educato nei confronti di entrambi i genitori (Cass., 2 febbraio 2006, n. 2328). 4.9 – Quanto alla dedotta insussistenza di un diritto al risarcimento del danno, per violazione del complesso dei doveri facenti capo al genitore naturale, e limitati nella presente vicenda al periodo compreso fra il raggiungimento, da parte del figlio, della maggiore età ed il conseguimento dell’autosufficienza sul piano economico, premesso che la relativa liquidazione, costituendo questione di merito, non può essere sindacata in questa sede, non essendosi per altro validamente prospettati, come sopra evidenziato, vizi motivazionali, deve ribadirsi come la violazione di obblighi cui corrispondono, nel destinatario, diritti primari della persona, costituzionalmente garantiti, comporta la sussistenza di un illecito civile certamente riconducibile nelle previsioni dell’art. 2043 c.c. e segg.. Nell’ambito di un vasto orientamento, formatosi sia in dottrina, che nella giurisprudenza, tanto di merito (Trib. Venezia, 30 giugno 2004; Corte app. Bologna, 10 febbraio 2004), quanto di legittimità (Cass., 7 giugno 2000, n. 7713; Cass., 10 maggio 2005, n. 9801, fino alla recente Cass., 15 settembre 2011, n. 18853), è stato, da tempo enucleata la nozione di illecito endofamiliare, in virtù della quale la violazione dei relativi doveri non trova necessariamente sanzione solo nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, discendendo dalla natura giuridica degli obblighi suddetti che la relativa violazione, ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti, possa integrare gli estremi dell’illecito civile e dare luogo ad un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell’art. 2059 c.c.. Il riferimento del ricorrente alla nota decisione delle Sezioni unite di questa Corte n. 26972 del 2008, proponendone una lettura riduttiva e fondata su un rilevo di carattere nominalistico, non coglie nel segno, essendosi al contrario con essa ribadito come, al di là del ricorso a varie figure di danno, diversamente denominate per meri fini descrittivi, debba affermarsi, in base a un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., la risarcibilità del pregiudizio di natura non patrimoniale, quando il fatto illecito abbia violato in modo grave diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale. Non può dubitarsi, con riferimento al caso di specie, come il disinteresse dimostrato da un genitore nei confronti di un figlio, manifestatosi per lunghi anni e connotato, quindi, dalla violazione degli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione, determini un vulnus, dalle conseguenze di entità rimarchevole ed anche, purtroppo, ineliminabili, a quei diritti che, scaturendo dal rapporto di filiazione, trovano nella carta costituzionale (in part., artt. 2 e 30), e nelle norme di natura internazionale recepite nel nostro ordinamento un elevato grado di riconoscimento e di tutela. 5 – In considerazione della reciproca soccombenza vanno compensate le spese processuali relative al presente giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte riunisce i ricorsa; dichiara inammissibile il ricorso principale, rigetta l’incidentale. Dichiara interamente compensate le spese processuali relative al presente giudizio di legittimità. Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Prima Civile, il 10 gennaio 2012. Depositato in Cancelleria il 10 aprile 2012

Originally posted 2022-06-09 10:04:19.

eredità legittima in presenza di testamento, divisione ereditaria quota legittima figli quota legittima fratelli

Art. 536 del codice civile. Legittimari. Le persone a favore delle quali la legge riserva una quota di eredità o altri diritti nella successione sono: il coniuge, i figli legittimi, i figli naturali, gli ascendenti legittimi.  Ipotesi 2: eredità dello zio con testamento. Lo zio era tenuto a lasciare alla moglie, la quota di legittima pari a 1/2 del patrimonio. Poteva liberamente disporre con testamento, dei restanti 1/2, concedendoli anche a terzi, amici conoscenti. Il fratello ed i nipoti non hanno diritto alla quota di legittima.

Art. 536 del codice civile. Legittimari. Le persone a favore delle quali la legge riserva una quota di eredità o altri diritti nella successione sono: il coniuge, i figli legittimi, i figli naturali, gli ascendenti legittimi.  Ipotesi 2: eredità dello zio con testamento. Lo zio era tenuto a lasciare alla moglie, la quota di legittima pari a 1/2 del patrimonio. Poteva liberamente disporre con testamento, dei restanti 1/2, concedendoli anche a terzi, amici conoscenti. Il fratello ed i nipoti non hanno diritto alla quota di legittima.

Art. 536 del codice civile. Legittimari.
Le persone a favore delle quali la legge riserva una quota di eredità o altri diritti nella successione sono: il coniuge, i figli legittimi, i figli naturali, gli ascendenti legittimi. 

Ipotesi 2: eredità dello zio con testamento.
Lo zio era tenuto a lasciare alla moglie, la quota di legittima pari a 1/2 del patrimonio. Poteva liberamente disporre con testamento, dei restanti 1/2, concedendoli anche a terzi, amici conoscenti.
Il fratello ed i nipoti non hanno diritto alla quota di legittima.

Art. 540 del codice civile. Riserva a favore del coniuge.
A favore del coniuge è riservata la metà del patrimonio dell’altro coniuge, salve le disposizioni dell’articolo 542 per il caso di concorso con i figli. 

Nel caso di successione legittima, sono eredi i parenti più vicini alla persona scomparsa, escludendo dalla successione i parenti più lontani. I parenti possono essere in linea retta (padre – figlio; nonno – nipote): in questo caso le persone discendono direttamente l’una dall’altra, oppure in linea collaterale (fratelli; zio – nipote);in questo caso pur avendo un ascendente comune, le persone non discendono l’una dall’altra.
La legge italiana prevede che siano successibili il coniuge, i discendenti, gli ascendenti e gli altri parenti fino al sesto grado.

STUDIO LEGALE BOLOGNA AVVOCATO SERGIO ARMAROLI

Art. 536 del codice civile. Legittimari. Le persone a favore delle quali la legge riserva una quota di eredità o altri diritti nella successione sono: il coniuge, i figli legittimi, i figli naturali, gli ascendenti legittimi.  Ipotesi 2: eredità dello zio con testamento. Lo zio era tenuto a lasciare alla moglie, la quota di legittima pari a 1/2 del patrimonio. Poteva liberamente disporre con testamento, dei restanti 1/2, concedendoli anche a terzi, amici conoscenti. Il fratello ed i nipoti non hanno diritto alla quota di legittima.

eredità legittima in presenza di testamento, divisione ereditaria quota legittima figli quota legittima fratelli

art. 557 c.c.   soggetti che possono chiedere la riduzione: la riduzione delle donazioni (c.c.809) e delle disposizioni lesive della porzione di legittima non può essere domandata che dai  legittimari dai loro eredi aventi causa  (il legatario – l’acquirente a titolo gratuito – titolo oneroso) (c.c.537 e seguenti).

Essi non possono rinunziare a questo diritto, finché vive il donante né con dichiarazione espressa, né prestando il loro assenso alla donazione (c.c. 458).

I donatari e i legatari non possono chiedere la riduzione, né approfittarne. Non possono chiederla né approfittarne nemmeno i creditori del defunto, se il legittimario avente diritto alla riduzione ha accettato con il beneficio d’inventario (c.c.484 e seguenti).

La quota di riserva

La legge fissa l’entità della quota (di cui non si può disporre a titolo di liberalità) di riserva distinguendo a seconda della persona dei legittimari, non avendo essi diritto sempre alla stessa quota.

Inoltre la legge si preoccupa anche di definire le quote in caso di concorso di più legittimari.

Per accertare la lesione della quota di riserva deve essere determinato il valore della massa ereditaria, quello della quota disponibile e quello della quota di legittima; in tale contesto occorre quindi procedere alla formazione dell’asse ereditario ed alla determinazione dei suo valore al momento dell’apertura della successione, poi alla detrazione dal “relictum” dei debiti, ed alla riunione fittizia, ovvero meramente contabile, tra attivo e “donatum”, costituito dai beni di cui sia stato disposto a titolo di donazione, da stimare, in relazione ai beni immobili ed ai beni mobili, secondo il loro valore al momento dell’apertura della successione (artt. 747 e 750 c.c.), e con riferimento al valore nominale, quanto alle donazioni in denaro (art. 751 c.c.); infine si determinano la quota disponibile e la quota indisponibile sulla massa risultante dalla somma tra il valore del “relictum” al netto dei debiti ed il valore del “donatum”.

L’azione di simulazione da parte del legittimario di una vendita dissimulante una donazione è finalizzata proprio alla riduzione delle disposizioni lesive della sua quota di legittima, quindi anche delle donazioni ai sensi dell’art. 555 c.c., e che la fondatezza o meno dell’azione di riduzione è legata necessariamente alla determinazione della porzione disponibile ex art. 556 c.c.

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Questa quota, che corrisponde a una frazione aritmetica del patrimonio ereditario, è detta di riserva o legittima; mentre al resto del patrimonio ereditario, del quale il de cuius poteva liberamente disporre per atto di liberalità, si dà il nome di quota disponibile.

Le Sezioni Unite [4] con la pronuncia del 2006 hanno affermato che in tema di successione necessaria l’individuazione della quota di riserva spettante alle singole categorie di legittimari ed ai singoli legittimari appartenenti alla medesima categoria deve essere effettuata sulla base della situazione esistente al momento dell’apertura della successione e non di quella che si viene a determinare per effetto del mancato esperimento, per rinunzia o prescrizione, dell’azione di riduzione da parte di qualcuno dei legittimari.

Successivamente la medesima Cassazione ha affermato che, ai fini della determinazione della porzione disponibile e delle quote riservate ai legittimari, occorre avere riguardo alla massa costituita da tutti i beni che appartenevano al de cuius  al momento della morte – al netto dei debiti –  maggiorata del valore dei beni donati in vita dal defunto, senza che possa distinguersi tra donazioni anteriori o posteriori al sorgere del rapporto da cui deriva la qualità di legittimario.

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condizione fondamentale per chiedere la riduzione delle donazioni o delle disposizioni lesive della porzione di legittima, è soltanto quella di essere tra le persone indicate nell’art. 557 c.c., e, cioè, di rivestire la qualità di legittimario, mentre la condizione stabilita dall’art. 564, comma 1, della preventiva accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario, vale soltanto per il legittimario che rivesta in pari tempo la qualità di erede (v. sent. 5 ottobre 1974 n. 2621). Ora, il legittimario totalmente pretermesso, proprio perché pretermesso dalla successione, non acquista per il solo fatto dell’apertura della successione, ovvero per il solo fatto della morte del de cuius, né la qualità di erede, né la titolarità dei beni ad altri attribuiti: potendo acquistare i suoi diritti solo dopo l’esperimento delle azioni di riduzione o di annullamento del testamento, ovvero dopo il riconoscimento dei suoi diritti di legittimario. Come opportunamente ha evidenziato la dottrina e la giurisprudenza anche di questa Corte, una totale pretermissione del legittimario può aversi sia nella successione testamentaria, che nella successione ab intestato, il legittimario sarà pretermesso: a) nella successione testamentaria se il testatore ha disposto a titolo universale dell’intero asse a favore di altri, in base alla considerazione che, a norma dell’art. 457, 2 co., c.c., questi non è chiamato all’eredità fino a quando l’istituzione testamentaria di erede non venga ridotta nei suoi confronti, e b) nella successione ab intestato, qualora il de cuius si sia spogliato in vita dell’intero suo patrimonio con atti di donazione, considerato che per l’assenza di beni relitti, il legittimario viene a trovarsi nella necessità di esperire l’azione di riduzione a tutela della situazione di diritto sostanziale che la legge gli riconosce (in tal senso da ultimo Cass. n. 19527 del 2005). Di qui, l’ulteriore conseguenza che il legittimario pretermesso, sia nella successione testamentaria, che in quella ab intestato, che impugna per simulazione un atto compiuto dal ‘de cuius’ a tutela del proprio diritto alla reintegrazione della quota di legittima, agisce in qualità di terzo e non in veste di erede, condizione che acquista, solo in conseguenza del positivo esercizio dell’azione di riduzione, e come tale non è tenuto alla preventiva accettazione dell’eredità con beneficio di inventario.

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esistono due forme di successione:

  • successione testamentaria: se la persona deceduta aveva fatto testamento, l’eredità si devolve alla persona indicata nel testamento;

  • successione legittima: se la stessa non aveva fatto testamento, l’eredità si devolve ai suoi parenti indicati dalla legge, in questo caso è importante il rapporto di parentela con il defunto. Il dossier si propone di trattare e affrontare in maniera semplice e chiara la disciplina.

Originally posted 2018-07-09 11:32:31.

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La successione ereditaria è quella pratica che si apre a seguito del decesso di una persona: l’ AVVOCATO SERGIO ARMAROLI si distingue per professionalità e attenzione ad ogni aspetto legislativo, seguendo il cliente e vigilando sul corretto svolgimento di ogni proceduta.

L’avvocato Sergio Armaroli Bologna  si occupa in particolare di assistenza legale e consulenza nella redazione di testamenti, in questioni ereditarie, in tutte quelle pratiche che hanno come materia le successioni.

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Nel diritto civile è disciplinata l’ipotesi l’ipotesi di accettazione espressa, quando la volontà di essere erede viene manifestata in modo diretto, con un atto formale.

cosa è e perchè deve essere fatta.

L’accettazione tacita consiste nel compimento di un atto (es: trasferimento del bene ereditario, mutuo con ipoteca su bene ereditario, etc.) “che presuppone necessariamente la volontà di accettare (l’eredità)” .

Quando si apre una successione i beneficiari (“chiamati all’eredità”) non sono automaticamente eredi: se vogliono possono accettare (o rinunziare).

Quando nell’eredità sono compresi beni immobili l’accettazione (espressa o tacita) deve essere registrata e deve essere trascritta presso i Pubblici Registri Immobiliari.

La presentazione della denunzia di successione presso l’Agenzia delle Entrate non determina mai accettazione dell’eredità essendo solo adempimento di obblighi fiscali (pagamento imposte di successione).Nella giurisprudenza della corte di cassazione, è stato talvolta affermato un principio, apparentemente diverso da quello recepito dalla giurisprudenza più recente. Tale principio, richiamato dalla Corte d’appello ai fine di giustificare la decisione, è formulato in questo modo: “in tema di delazione dell’eredità, non vi è luogo alla successione legittima agli effetti dell’art. 457 c.c., comma 2, in presenza di disposizione testamentaria a titolo universale, sia pur in forma di istituzione ex re certa, tenuto conto della forza espansiva della stessa per i beni ignorati dal testatore o sopravvenuti” (Cass., S.U., n. 17122/2018; conf. n. 12158/2015). Il principio sembra negare, sulla scia di autorevoli opinioni sostenute in dottrina, la possibilità del concorso fra l’erede legittimo e l’istituito ex re, che sarebbe l’unico erede in virtù della forza espansiva implicita nel riconoscimento della qualifica ereditaria.

La quota di riserva è intangibile ed infatti l’art. 549 c.c., dispone: “il testatore non può imporre pesi o condizioni sulla quota spettante ai legittimari, salva l’applicazione delle norme contenute nel titolo IV di questo libro”.

Secondo una parte della dottrina la sanzione del divieto è quella propria degli atti vietati, cioè la nullità (art. 1418 c.c., comma 1), opponibile dal solo legittimario e non rilevabile d’ufficio.

La dottrina chiarisce che la norma deve essere valutata in funzione inversa ai presupposti dell’azione di riduzione, cioè in funzione dei casi in cui la lesione non è prodotta da una “disposizione eccedente la quota di cui il defunto poteva disporre”, ma da una disposizione non autonoma (clausola) che accede all’attribuzione della legittima diminuendola vel in quantitate vel in tempore.

Mentre la “lesione di legittima”, nel senso in cui se ne parla con riferimento all’azione di riduzione, è sempre eventuale, a seguito e risultato di operazioni propriamente intese alla determinazione della legittima, le disposizioni con il quali il testatore intende gravare la legittima, disponendo sulla quota pesi o condizioni, si rilevano già di per sè, e non solo eventualmente, lesive.

Il divieto si applica tanti ai “pesi o condizioni” che incidono sull’oggetto di un’istituzione di erede o di un legato disposto dal testatore, quanto a quelli che vengono da lui imposti sulla quota spettante al legittimario come erede ab intestato; sempre che – e nella misura in cui – essi gravino appunto sulla legittima. Se il testatore abbia istituito erede il legittimario in una quota maggiore, che comprende tutta o parte della disponibile, il peso e la condizione saranno validi per l’eccedenza, subordinatamente all’esito del calcolo generale della legittima di cui all’art. 556 c.c.. Si ha qui un tipico esempio di esigenza di determinazione della legittima non coordinata all’esperimento dell’azione di riduzione (cfr. Cass. 12317/2019; n. 837/1986). E’ stata ritenuta lecita la condizione apposta dal testatore alla istituzione di un legittimario oltre il limite della quota di legittima, anche se questa condizione abbia ad oggetto la rinuncia a conseguire la quota di legittima di una diversa eredità (Cass. n. 12936/1993).

accettazione eredità

Questo non avviene sempre in modo Palese in quanto ci sono delle ipotesi di accettazione tacita di eredità: questa si verifica quando la persona chiamata all’eredità accettazione tacita eredità compie un atto che implica necessariamente la volontà di accettare l’eredità, e che tale soggetto non potrebbe compiere se non nella sua qualità di erede. Talw ipotesi è detta accettazione tacita eredità

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n tale contesto deve essere letto l’art. 480 c.c. che stabilisce il termine di decorrenza della prescrizione decennale del diritto di accettare l’eredità in ogni caso dal giorno dell’apertura della successione, e, in caso di istituzione condizionale, dal giorno in cui si verifica la condizione, senza porre quindi alcuna distinzione con riferimento al tipo di devoluzione; ai sensi del terzo comma della suddetta norma, poi, quando i primi chiamati abbiano accettato l’eredità, ma successivamente vengono rimossi gli effetti dell’accettazione, il suddetto termine non corre per gli ulteriori chiamati, decorrendo quindi dal giorno in cui costoro hanno la possibilità giuridica di accettare.

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La conferma della scelta del legislatore di stabilire un termine decennale di prescrizione del diritto di accettazione dell’eredità decorrente dal giorno dell’apertura della successione sia in caso di successione legittima che testamentaria (fatte salve le espresse eccezioni previste dallo stesso art. 480 c.c.) è offerta dall’art. 483 c.c. che, dopo aver disposto al primo comma che l’accettazione dell’eredità non si può impugnare se viziata da errore, prevede al secondo comma che ‘se si scopre un testamento del quale non si aveva notizia al tempo dell’accettazione, l’erede non è tenuto a soddisfare i legati scritti in esso oltre il valore dell’eredità, o con pregiudizio della porzione legittima che gli è dovuta’.

Invero tale disposizione – dalla quale si evince che, una volta accettata l’eredità, non si pone più un problema di prescrizione del diritto di accettazione della stessa in base ad un testamento scoperto successivamente – attribuisce rilievo ad un testamento che sia stato rinvenuto a distanza di tempo dall’apertura della successione in quanto, temperando il rigore di quanto sancito al primo comma, ne prevede l’efficacia senza che esso debba essere accettato, sia nell’ipotesi che detto testamento sia più favorevole per il chiamato (qualora gli attribuisca una quota maggiore di eredità o altri beni) sia nell’ipotesi opposta, stabilendo il principio del limite dell’obbligo di soddisfare i legati entro il valore della dell’eredità; pertanto la norma in esame esclude due autonomi diritti di accettazione dell’eredità, in quanto, se così fosse, l’erede sarebbe tenuto a soddisfare i legati previsti nel testamento scoperto successivamente soltanto a seguito dell’accettazione di tale testamento; invece l’obbligo per l’erede di soddisfare i legati, sia pure nei limiti sopra enunciati, a seguito della scoperta di un testamento di cui non si aveva conoscenza al tempo dell’accettazione dell’eredità – e quindi il dettato legislativo secondo il quale l’accettazione sulla base della originaria delazione resta valida, ma alla prima successione si sovrappone quella testamentaria nei termini suddetti – inducono logicamente alla conclusione che l’accettazione è unica indipendentemente dal titolo della chiamata, conformemente all’orientamento consolidato di questa Corte secondo cui il vigente ordinamento non contempla due distinti ed autonomi diritti di accettazione dell’eredità, derivanti l’uno dalla devoluzione testamentaria e l’altro dalla legittima, ma prevede (con riguardo al patrimonio relitto dal defunto, quale che ne sia il titolo della chiamata) un unico diritto di accettazione che, se non viene fatto valere, si prescrive nel termine di dieci anni decorrente dal giorno dell’apertura della successione (Cass. 25-1-1983 n. 697; Cass. 18-10-1988 n. 5666; Cass. 16-2-1993 n. 1933; Cass. 22-9-2000 n. 12575).

Deve a tal punto essere esaminata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 480 secondo comma c.c. sollevata in via subordinata nella memoria di costituzione di nuovi difensori dell’A. del 10-5-2010 per contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione.

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Originally posted 2018-07-08 17:34:15.

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