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BOLOGNA, NAPOLI, MILANO, RAVENNA, VICENZA ,PERUGIA ,ANCONA PESARO ,RIMINI ,ROVIGO ASSISTENZA LEGALE AVVOCATO ESPERTO PER AVERE GIUSTO DANNO
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Se l’assicurazione come spesso accade non vuol risarcire , si può chiedere che sia assegna una somma a titolo di acconto provvisionale. Infatti “l’articolo 147 del Codice delle Assicurazioni, Stato di bisogno del danneggiato prevede che gli aventi diritto al risarcimento che, a causa del sinistro, vengano a trovarsi in stato di bisogno, possono chiedere che sia loro assegnata una somma, nei limiti dei quattro quinti della presumibile entità del risarcimento che sarà liquidato con la sentenza, da imputarsi nella liquidazione definitiva del danno.BOLOGNA, NAPOLI, MILANO, RAVENNA, VICENZA ,PERUGIA ,ANCONA PESARO ,RIMINI ,ROVIGO ASSISTENZA LEGALE AVVOCATO ESPERTO PER AVERE GIUSTO DANNO
Quando risultano gravi elementi di responsabilità a carico del conducente colpevole, la parte di danno non patrimoniale per il risarcimento del danno da morte o per perdita parentale è liquidabile in tempi ragionevolmente brevi.
- Per la giurisprudenza il danno parentale è: “quel danno che va al di là del crudo dolore che la morte in sé di una persona cara, tanto più se preceduta da agonia, provoca nei prossimi congiunti che le sopravvivono, concretandosi esso nel vuoto costituito dal non potere più godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno e perciò nell’irrimediabile distruzione di un sistema di vita basato sull’affettività, sulla condivisione, sulla rassicurante quotidianità dei rapporti tra moglie e marito, tra madre e figlio, tra fratello e fratello, nel non poter più fare ciò che per anni si è fatto, nonché nell’alterazione che una scomparsa del genere inevitabilmente produce anche nelle relazioni tra i superstiti” (Cass. civ., sez III, ord., n. 9196/2018).
- Venendo alla ritenuta esclusione del danno da perdita del rapporto parentale va detto che il giudizio di fatto circa l’assenza di prova del danno dinamico – relazionale, una volta che si è premessa la non configurabilità del danno da perdita del detto rapporto, si traduce in errore di diritto perché comporta l’astratta negazione della pretesa risarcitoria, e non la mera confutazione della sua fondatezza sul piano delle circostanze di fatto. Il profilo dinamico-relazionale non è invero un quid pluris rispetto al danno da perdita da rapporto parentale, tale da incrementare la misura dell’importo risarcitorio da liquidare, ma è una componente intrinseca del danno da perdita del rapporto parentale già sul piano delle qualificazioni giuridiche. Sulla base del principio di integralità del risarcimento si deve considerare infatti il profilo dinamico-relazionale, unitamente alla sofferenza interiore patita dal soggetto, quali articolazioni costitutive del danno da perdita del rapporto parentale. La decisione va pertanto valutata sotto il profilo del giudizio di diritto.
- A questo proposito va subito rammentato che il pregiudizio da perdita del rapporto parentale rappresenta un peculiare aspetto del danno non patrimoniale e consiste non già nella mera perdita delle abitudini e dei riti propri della quotidianità, bensì nello sconvolgimento dell’esistenza, rivelato da fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita, nonché nella sofferenza interiore derivante dal venir meno del rapporto. Trattasi di danno non patrimoniale iure proprio del congiunto il quale è ristorabile in caso non solo di perdita, come erroneamente ritenuto dalla Corte territoriale, ma anche di mera lesione del rapporto parentale (Cass. 31 maggio 2003, n. 8827; 20 agosto 2015, n. 16992). Una volta riconosciuta la spettanza del danno in discorso anche nel caso di mera lesione del rapporto parentale vanno precisate le componenti di tale danno cui si è finora fatto cenno.
- Ai fini di tale precisazione va richiamata la più recente ed ormai consolidata giurisprudenza di questa Corte (tra le altre, Cass. 901/2018 e 7513/2018) in tema di risarcimento del danno alla persona, ed in particolare i seguenti principi.
- 1) Sul piano del diritto positivo, l’ordinamento riconosce e disciplina (soltanto) le fattispecie del danno patrimoniale (nelle due forme del danno emergente e del lucro cessante: art. 1223 c.c.) e del danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.; art. 185 c.p.).
- 2) La natura unitaria ed onnicomprensiva del danno non patrimoniale, secondo l’insegnamento della Corte costituzionale e delle sezioni unite della S.C. (Corte cost. 233/2003; Cass. ss.uu. 26972/2008) deve essere interpretata, sul piano delle categorie giuridiche (anche se non sotto quello fenomenologico) rispettivamente nel senso:
- a) di unitarietà rispetto a qualsiasi lesione di un interesse o valore costituzionalmente protetto e non suscettibile di valutazione economica;
- b) di onnicomprensività intesa come obbligo, per il giudice di merito, di tener conto, a fini risarcitori, di tutte le conseguenze (modificative in pejus della precedente situazione del danneggiato) derivanti dall’evento di danno, nessuna esclusa, con il concorrente limite di evitare duplicazioni attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici, procedendo, a seguito di articolata, compiuta ed esaustiva istruttoria, ad un accertamento concreto e non astratto del danno, all’uopo dando ingresso a tutti i necessari mezzi di prova, ivi compresi il fatto notorio, le massime di esperienza, le presunzioni.
- 3) Nel procedere all’accertamento ed alla quantificazione del danno risarcibile, il giudice di merito, alla luce dell’insegnamento della Corte costituzionale (sentenza 235/2014, punto 10.1 e ss.) e del recente intervento del legislatore sugli artt. 138 e 139 Codice delle assicurazioni come modificati dall’art. 1, comma 17, della legge 4 agosto 2017, n. 124 – la cui nuova rubrica (“danno non patrimoniale”, sostituiva della precedente, “danno biologico”), ed il cui contenuto consentono di distinguere definitivamente il danno dinamico-relazionale causato dalle lesioni da quello morale – deve congiuntamente, ma distintamente, valutare la reale fenomenologia della lesione non patrimoniale, e cioè tanto l’aspetto interiore del danno sofferto (cd. danno morale, sub specie del dolore, della vergogna, della disistima di sé, della paura, della disperazione) quanto quello dinamico-relazionale (destinato ad incidere in senso peggiorativo su tutte le relazioni di vita esterne del soggetto).
- 4) Nella valutazione del danno alla salute, in particolare – ma non diversamente che in quella di tutti gli altri danni alla persona conseguenti alla lesione di un valore/interesse costituzionalmente protetto (Cass. 8827-8828/2003; Cass. ss.uu. 6572/2006; Corte cost. 233/2003) – il giudice dovrà, pertanto, valutare tanto le conseguenze subite dal danneggiato nella sua sfera morale – che si collocano nella dimensione del rapporto del soggetto con se stesso – quanto quelle incidenti sul piano dinamico-relazionale della sua vita (che si dipanano nell’ambito della relazione del soggetto con la realtà esterna, con tutto ciò che, in altri termini, costituisce “altro da se”).
- 5) In presenza d’un danno permanente alla salute, la misura standard del risarcimento prevista dalla legge o dal criterio equitativo uniforme adottato dagli organi giudiziari di merito (oggi secondo il sistema c.d. del punto variabile) può essere aumentata, nella sua componente dinamico-relazionale, solo in presenza di conseguenze dannose del tutto anomale, eccezionali ed affatto peculiari: le conseguenze dannose da ritenersi normali e indefettibili secondo l’id quod plerumque accidit (ovvero quelle che qualunque persona con la medesima invalidità non potrebbe non subire) non giustificano alcuna personalizzazione in aumento del risarcimento.
- 6) Nel caso di lesione della salute, costituisce, pertanto, duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione del danno biologico – inteso, secondo la stessa definizione legislativa, come danno che esplica incidenza sulla vita quotidiana del soggetto e sulle sue attività dinamico relazionali – e del danno cd. esistenziale, appartenendo tali cd. “categorie” o cd. “voci” di danno alla stessa area protetta dalla norma costituzionale (l’art. 32 Cost.).
- 7) Non costituisce duplicazione risarcitoria, di converso, la differente ed autonoma valutazione compiuta con riferimento alla sofferenza interiore patita dal soggetto in conseguenza della lesione del suo diritto alla salute, come stabilito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 235 del 2014, punto 10.1 e ss. (ove si legge che la norma di cui all’art. 139 c.s.a. non è chiusa anche al risarcimento del danno morale”), e come oggi normativamente confermato dalla nuova formulazione dell’art. 138 del C.d.A., alla lettera e introdotto dalla legge di stabilità del 2016.
- 8) In assenza di lesione della salute, ogni vulnus arrecato ad un altro valore/interesse costituzionalmente tutelato andrà specularmente valutato e accertato, all’esito di compiuta istruttoria, e in assenza di qualsiasi automatismo (volta che, nelle singole fattispecie concrete, non è impredicabile, pur se non frequente, l’ipotesi dell’accertamento della sola sofferenza morale o della sola modificazione in pejus degli aspetti dinamico-relazionali della vita), il medesimo, duplice aspetto, tanto della sofferenza morale, quanto della privazione/diminuzione/modificazione delle attività dinamico-relazionali precedentemente esplicate dal soggetto danneggiato (in tal senso, già Cass. ss.uu. 6572/2006).
- 9) Costituisce, pertanto, un evidente paralogismo sul plano fenomenologico, prima ancora che giuridico (come, oggi, anche normativamente confermato dalla riforma degli artt. 138 e 139 C.d.A.), quello secondo cui il danno sarebbe costituito, in una dimensione di impredicabile unità, “dalla sofferenza del non poter più fare”, perché la più superficiale della disamina delle conseguenze di una grave lesione di un diritto costituzionalmente tutelato, come quello alla relazione parentale, consente ictu oculi di affermare, in alcuni casi, che, nonostante la intensa sofferenza morale, questa non incida, in tutto o in parte, sulle attività dinamico-relazionali del soggetto leso, appartenendo ad una diversa dimensione dell’essere persona.
- La liquidazione finalisticamente unitaria del danno alla persona (non diversamente da quella prevista per il danno patrimoniale) avrà pertanto il significato di attribuire al soggetto una somma di danaro che tenga conto del pregiudizio complessivamente subito tanto sotto l’aspetto della sofferenza interiore (cui potrebbe assimilarsi, in una suggestiva simmetria legislativa, il danno emergente, in guisa di vulnus “interno” arrecato al patrimonio del creditore), quanto sotto quello dell’alterazione/modificazione peggiorativa della vita di relazione in ogni sua forma e considerata in ogni suo aspetto, senza ulteriori frammentazioni nominalistiche (danno idealmente omogeneo al cd. “lucro cessante” quale proiezione “esterna” del patrimonio del soggetto).
- In definitiva, il danno da perdita del rapporto parentale viene a configurarsi come un danno di natura non patrimoniale che un soggetto subisce, in conseguenza dell’attività illecita posta in essere da un terzo ai danni di altra persona legata alla prima da un rapporto di natura familiare e/o affettiva, il che ha determinato lo stravolgimento di un sistema di vita che trovava le sue fondamenta nell’affetto e nella quotidianità di tale rapporto, nonché una sofferenza interiore derivante dal venir meno dello stesso (Cass. civ., sez. III, n. 23469/2018; Cass. civ., sez. III, n. 901/2018; Cass. civ., sez. III, n. 7513/2018)
- L’ 11 novembre 2008 n. 26972, la casdsazione ha precisato il danno da perdita del rapporto parentale, quale forma di danno non patrimoniale, rientra in una “nozione unitaria che comprende il danno da lesione di diritti fondamentali della persona costituzionalmente tutelati, tra i quali è primario il diritto all’esplicazione della propria personalità mediante lo sviluppo dei propri legami affettivi e familiari, quale bene fondamentale della vita, protetto dal combinato disposto degli artt. 2, 29 e 30 della Costituzione”. Tuttavia, in giurisprudenza si è precisato che “il danno non patrimoniale da uccisione di un congiunto, quale tipico danno-conseguenza, non coincide con la lesione dell’interesse (ovvero non è in re ipsa) e, pertanto, deve essere allegato e provato da chi chiede il relativo risarcimento, anche se, trattandosi di un pregiudizio proiettato nel futuro, è consentito il ricorso a valutazioni prognostiche ed a presunzioni sulla base di elementi obbiettivi che è onere del danneggiato fornire” (Cass. civ., sez. III, n. 907/2018).
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Col primo motivo (“violazione e falsa applicazione dell’art. 75 C.P.C.”), la ricorrente si duole che non sia stata dichiarata l’estinzione del giudizio civile a seguito della costituzione di parte civile della Cr. e del S. nel procedimento penale contro due medici dell’Ospedale, costituzione che era avvenuta successivamente all’instaurazione del procedimento civile e che aveva comportato la riproposizione in sede penale delle stesse domande risarcitorie avanzate in ambito civile.
Al riguardo, la Corte di Appello ha osservato che non v’era “prova della sussistenza di alcuna delle condizioni che ai sensi dell’art. 75 c.p.p. legittimano la sospensione del giudizio civile”, rilevando – fra l’altro – che la Azienda non aveva provato di essere parte del procedimento penale in veste di responsabile civile.
1.1. Il motivo è infondato.
Invero, l’art. 75 c.p.p. – che individua i criteri di coordinamento tra il processo civile e quello penale- prevede specifiche eccezioni alla regola dell’autonomia dei due procedimenti, che presuppongono tutte l’identità fra le parti del giudizio civile e quelle del processo penale.
Non ricorre dunque alcuna di tali eccezioni quando l’azione civile sia stata (preventivamente o successivamente) promossa contro un soggetto estraneo al procedimento penale, come nel caso in esame, in cui la USL non risulta citata o intervenuta in tale processo come responsabile civile (cfr. Cass. n. 17608/2013 e Cass. n. 6185/2009): ne consegue che la Corte di merito ha correttamente escluso l’estinzione del giudizio civile promosso nei confronti della USL, non ricorrendo le condizioni per derogare alla regola generale dell’autonomia dei due procedimenti.
2. Il secondo motivo (“violazione e falsa applicazione degli artt. 101 e 102 CPC, nonché degli artt. 145 e 164 CPC”) censura la sentenza per avere escluso la nullità della notifica dell’atto di citazione e per aver ritenuto che il contraddittorio non dovesse essere integrato nei confronti dei sanitari che avevano materialmente operato (da considerare litisconsorti necessari).
2.1. Entrambe le censure sono infondate.
La Corte ha dato atto che l’avviso di ricevimento relativo alla notificazione dell’atto di citazione reca il timbro dell’Ufficio Protocollo Generale dell’Azienda convenuta, individuando così un elemento che non consente di ipotizzare il lamentato vizio di notifica.
Va poi escluso che i sanitari dipendenti della USL, benché possibili responsabili in solido, siano anche litisconsorti necessari, giacché la solidarietà passiva da luogo a rapporti scindibili, senza che ricorra un’ipotesi di litisconsorzio necessario passivo (cfr. Cass. n. 8413/2014).
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Suprema Corte di Cassazione
sezione III
sentenza 19 giugno 2015, n. 12717
Svolgimento del processo
Cr.Va. e S.L. convennero in giudizio l’Azienda ASL Roma (…) per sentirla condannare al risarcimento dei danni subiti per il fatto che il loro primo figlio era nato morto, assumendo che ciò era dipeso dalla condotta dei sanitari dell’Ospedale di (…), che avevano ricoverato la partoriente soltanto quando la gravidanza era giunta quasi al decimo mese di gestazione ed avevano ritardato i necessari interventi.
Il Tribunale accolse la domanda, condannando la ASL al risarcimento dei danni, quantificati in oltre 500.000,00 Euro in favore dell’attrice ed in oltre 100.000,00 Euro in favore del S. .
La Corte di Appello di Roma ha rigettato i motivi di gravame con cui era stata dedotta la nullità della notificazione dell’atto introduttivo del giudizio nei confronti della ASL (rimasta contumace in primo grado), era stata lamentata la mancata integrazione del contraddittorio nei confronti dei sanitari ed era stata posta la questione della sospensione del processo civile in attesa della definizione del procedimento penale a carico di due medici (in cui entrambi gli attori si erano costituiti parte civile); nel merito, ha confermato la pronuncia di condanna, pur modificando le somme liquidate, col riconoscimento di importi prossimi a 360.000,00 Euro in favore di ciascuno degli attori.
Ricorre per cassazione l’Azienda Unità Sanitaria Locale Roma (…), affidandosi a cinque motivi illustrati da memoria; resistono la Cr. e il S. a mezzo di unico controricorso.
Motivi della decisione
- Col primo motivo (“violazione e falsa applicazione dell’art. 75 C.P.C.”), la ricorrente si duole che non sia stata dichiarata l’estinzione del giudizio civile a seguito della costituzione di parte civile della Cr. e del S. nel procedimento penale contro due medici dell’Ospedale, costituzione che era avvenuta successivamente all’instaurazione del procedimento civile e che aveva comportato la riproposizione in sede penale delle stesse domande risarcitorie avanzate in ambito civile.
Al riguardo, la Corte di Appello ha osservato che non v’era “prova della sussistenza di alcuna delle condizioni che ai sensi dell’art. 75 c.p.p. legittimano la sospensione del giudizio civile”, rilevando – fra l’altro – che la Azienda non aveva provato di essere parte del procedimento penale in veste di responsabile civile.
1.1. Il motivo è infondato.
Invero, l’art. 75 c.p.p. – che individua i criteri di coordinamento tra il processo civile e quello penale- prevede specifiche eccezioni alla regola dell’autonomia dei due procedimenti, che presuppongono tutte l’identità fra le parti del giudizio civile e quelle del processo penale.
Non ricorre dunque alcuna di tali eccezioni quando l’azione civile sia stata (preventivamente o successivamente) promossa contro un soggetto estraneo al procedimento penale, come nel caso in esame, in cui la USL non risulta citata o intervenuta in tale processo come responsabile civile (cfr. Cass. n. 17608/2013 e Cass. n. 6185/2009): ne consegue che la Corte di merito ha correttamente escluso l’estinzione del giudizio civile promosso nei confronti della USL, non ricorrendo le condizioni per derogare alla regola generale dell’autonomia dei due procedimenti.
2. Il secondo motivo (“violazione e falsa applicazione degli artt. 101 e 102 CPC, nonché degli artt. 145 e 164 CPC”) censura la sentenza per avere escluso la nullità della notifica dell’atto di citazione e per aver ritenuto che il contraddittorio non dovesse essere integrato nei confronti dei sanitari che avevano materialmente operato (da considerare litisconsorti necessari).
2.1. Entrambe le censure sono infondate.
La Corte ha dato atto che l’avviso di ricevimento relativo alla notificazione dell’atto di citazione reca il timbro dell’Ufficio Protocollo Generale dell’Azienda convenuta, individuando così un elemento che non consente di ipotizzare il lamentato vizio di notifica.
Va poi escluso che i sanitari dipendenti della USL, benché possibili responsabili in solido, siano anche litisconsorti necessari, giacché la solidarietà passiva da luogo a rapporti scindibili, senza che ricorra un’ipotesi di litisconsorzio necessario passivo (cfr. Cass. n. 8413/2014).
3. Il terzo e il quarto motivo -che si esaminano congiuntamente- investono il merito dell’affermazione della responsabilità della U.S.L. e prospettano violazione e falsa applicazione dell’art. 1218 e. e. in riferimento all’art. 360, comma 1, nn. 4) e 5) C.P.C- (terzo motivo), nonché erronea valutazione e falsa applicazione degli artt. 1176, 1218 e 2236 c.c. in relazione all’art. 360, comma 1, nn. 3) e 5) C.P.C., (quarto motivo).
La ricorrente assume che nessuna responsabilità poteva essere ascritta “all’Azienda Sanitaria come tale né ad un suo organo rappresentativo o dipendente, per fatti di cui sono stati ritenuti responsabili esclusivi i medici dell’Ospedale di (…) e non le strutture o i responsabili dell’Azienda”, rilevando – inoltre – che “l’unica ipotesi plausibile è che la morte del feto sia avvenuta per causa improvvisa e non prevedibile”; afferma, altresì, che “perché potesse ricondursi all’Azienda Sanitaria o all’ente ospedaliero la responsabilità per negligenza del medico e/o del primario, ai sensi dell’art. 2236 cod. civ. occorreva provare il dolo o la colpa grave del prestatore d’opera, specie nel caso in esame ove la prestazione medica implicava la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà”.
3.1. Le censure sono infondate nella parte in cui la ricorrente si discosta dal pacifico orientamento secondo cui la U.S.L. risponde (ex art. 1228 c.c.) per il fatto imputabile alle proprie strutture e ai propri dipendenti; sono inoltre inammissibili nella parte in cui sollecitano una diversa valutazione dei fatti (anche circa l’individuazione delle cause del decesso) in difetto della prospettazione di specifici vizi motivazionali.
4. Col quinto motivo (“motivazione insufficiente, lacunosa e contraddittoria nella determinazione del quantum debeatur in relazione al danno riflesso – violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 e 2059 cod. civ. con riferimento all’art. 360 n. 5 CPC”), la ricorrente si duole che la Corte abbia “esosamente calcolato il danno morale subito dai coniugi Cr. – S. ” e assume che il “danno riflesso” (che individua nel “pregiudizio e la sofferenza della vittima a seguito di un comportamento illecito inquadrabile come reato”) avrebbe dovuto essere richiesto soltanto ai medici che avevano commesso il reato e che erano stati condannati in sede penale; si duole, infine, che la Corte abbia liquidato il danno “prescindendo totalmente dalle tabelle applicate dal Tribunale di Roma e dal Tribunale di Milano per tali fattispecie e da qualsiasi riferimento alle condizioni reddituali medie dei cittadini e degli stessi attori in giudizio”.
4.1. A prescindere dalla confusa individuazione della categoria del ‘danno riflesso’ (quello liquidato è un danno non patrimoniale per il figlio nato morto, oltre che per il pregiudizio biologico accertato in capo a ciascun attore), le censure sono infondate nella parte in cui pretendono di vanificare gli effetti della responsabilità gravante sulla USL per il fatto dei propri dipendenti, che si estende – ovviamente – ad ogni profilo di danno patrimoniale e non patrimoniale che sia conseguenza immediata e diretta dell’evento di danno causato dall’operato dei sanitari.
4.2. È, invece, fondata la censura relativa alla quantificazione del risarcimento.
Sul punto, la sentenza impugnata risulta insufficientemente motivata in quanto, dopo aver affermato che non v’era motivo per diversificare la posizione della madre da quella del padre e dopo aver premesso che “le somme liquidate dal Tribunale di Velletri sono entrambe molto lontane da quelle desumibili dalla… giurisprudenza”, non ha adeguatamente spiegato la ragione per cui ha applicato i valori elaborati per la perdita di un figlio all’ipotesi della morte di un feto (pur maturo e prossimo alla nascita) e, per di più, ha dichiarato di dover applicare una ‘maggiorazione’ sulla base di considerazioni (“avendo il caso di specie caratteristiche di speciale odiosità per l’ostinata ed irritante inerzia dei sanitari che è stata la causa di un evento così drammatico”) che finiscono con l’attribuire al risarcimento una funzione ‘punitiva’, che è del tutto estranea al nostro ordinamento.
Quanto al primo profilo, va considerato che il danno non patrimoniale non può che essere liquidato in via equitativa e che tale valutazione ha da tempo trovato un utile parametro di riferimento nelle note tabelle che sono state elaborate dagli uffici giudiziari per assicurare una tendenziale omogeneità di trattamento fra situazioni analoghe; com’è noto, al fine di assicurare il massimo grado di uniformità, questa Corte è poi pervenuta a riconoscere alle tabelle elaborate dal Tribunale di Milano valenza generale di “parametro di conformità della valutazione equitativa del danno biologico alle disposizioni di cui agli artt. 1226 e 2056 cod. civ., salvo che non sussistano in concreto circostanze idonee a giustificarne l’abbandono” (Cass. n. 12408/2011).
Con specifico riferimento al danno per perdita del rapporto parentale, le tabelle milanesi prevedono – con riferimento ai vari possibili rapporti di parentela – una forbice che, nel caso di danno subito dal genitore per la morte di un figlio, oscillava (nell’edizione 2011, applicabile al momento in cui venne emessa la sentenza impugnata) fra 154.350,00 e 308.700,00 Euro; per quanto emerge dai “criteri orientativi” che illustrano la tabella, tale forbice consente di tener conto di tutte le circostanze del caso concreto, ivi compresa la “qualità ed intensità della relazione affettiva che caratterizzava il rapporto parentale con la persona perduta”.
Se ciò è vero, deve allora ritenersi che, anche a voler assimilare – come ha fatto la Corte romana – la situazione del feto nato morto al decesso di un figlio, non può tuttavia non considerarsi che per il figlio nato morto è ipotizzabile soltanto il venir meno di una relazione affettiva potenziale (che, cioè, avrebbe potuto instaurarsi, nella misura massima del rapporto genitore-figlio, ma che è mancata per effetto del decesso anteriore alla nascita), ma non anche di una relazione affettiva concreta sulla quale parametrare il risarcimento all’interno della forbice di riferimento.
Con queste premesse, non può non rilevarsi che la Corte di merito ha omesso di motivare adeguatamente in ordine all’applicazione tout court dei valori tabellari previsti per la perdita del rapporto parentale e al riconoscimento di un importo che si attesta sui valori più elevati della forbice risarcitoria.
Quanto al secondo profilo, non appare corretta la motivazione che giustifica la scelta di applicare una maggiorazione con la “speciale odiosità” del fatto: premesso, infatti, che “è incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto dei danni punitivi” (Cass. n. 1781/2012, che precisa: “il diritto al risarcimento del danno conseguente alla lesione di un diritto soggettivo non è riconosciuto con caratteristiche e finalità punitive – restando estranea al sistema l’idea della punizione e della sanzione del responsabile civile ed indifferente la valutazione a tal fine della sua condotta – ma in relazione all’effettivo pregiudizio subito dal titolare del diritto leso”), deve ritenersi che la gravità della condotta può – tutt’al più – assumere rilevanza indiretta nella misura in cui abbia aggravato le conseguenze dell’illecito (come nel caso di aggravamento della sofferenza psichica che ne abbia risentito il danneggiato), ma non è idonea a giustificare – di per sé sola – un incremento dell’importo risarcitorio.
Il quinto motivo va dunque accolto, nei termini che precedono, con conseguente cassazione della sentenza sul punto.
5. La Corte di rinvio provvedere anche sulle spese di lite.
P.Q.M.
la Corte, rigettati gli altri motivi, accoglie il quinto per quanto di ragione, cassa in relazione ad esso e rinvia, anche per le spese di lite, alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione.
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