POLIZIOTTO TRAVESTITO DA DONNA: CONSIGLIO DI STATO LIBERTA’ INDIVIDUALE….
1. – Con decreto della Polizia del 23 dicembre 2011, veniva irrogata al Sig. -OMISSIS-, nella qualità di -omissis-, la sanzione della sospensione dal servizio per un mese, con correlata deduzione di tale periodo dal computo di anzianità, perché “evidenziando gravissima mancanza di correttezza nel comportamento, pubblicava su un social network alcune foto ritraenti se stesso in abbigliamenti ed atteggiamenti inopportuni, corredate da informazioni personali di indubbia equivocità, favorendo l’accesso alla visione delle stesse senza particolari precauzioni.”. 2. – Con ricorso al TAR Lombardia il Sig. -omissis- deduceva tre motivi di impugnazione: A) violazione dell’art. 24 Cost. e art. 6 CEDU – lesione del diritto di difesa – nullità dell’istruttoria e del procedimento – mancato rispetto dei termini perentori ex artt. 19, 20 e 21 DPR 737/1981 – eccesso di potere per difetto di istruttoria, contraddittorietà e illogicità – erronea interpretazione e valutazione dei fatti e presupposti in fatto e diritto – assunzione da parte di dirigente del ruolo di istruttore e di provocatore della condotta da cui è scaturita la sanzione disciplinare oggetto di impugnativa – violazione e falsa applicazione di legge per mancata preventiva contestazione degli addebiti intervenuta solo dopo lo svolgimento di atti di indagine da parte del superiore e del funzionario istruttore in violazione dell’art. 19 DPR 737/1981; travisamento dei fatti – erroneità dei presupposti e della motivazione – assurdità, abnormità, abuso di potere, falsa applicazione e violazione di legge in riferimento della circolare n. 822/B.11399 Gab/2000 del 30.3.2000. B) violazione di legge e falsa applicazione degli artt. 2, 3, 14, 15 della Cost., nonché degli artt. 8, 10, 14 della CEDU; violazione di legge ed eccesso di potere per violazione degli artt. 20 e 22 del D. Lgs. n. 196/2003 e dell’art. 22 della l. 675/1996; violazione di legge ed eccesso di potere con riferimento all’art. 2, comma 1, lett. b) del D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 216. C) violazione e falsa applicazione degli artt. 6 e 4 del D.Lgs. 737/1981 e illogicità della decisione. Difetto di sovraesposizione e riconoscibilità del soggetto del materiale fotografico; eccesso di potere per travisamento dei fatti, erroneità dei presupposti e per abnormità del provvedimento. Difetto di motivazione. 3. – La sentenza del TAR Lombardia n. 2841/2012 rigettava il ricorso, nonostante lo stesso Tribunale avesse, con ordinanza n. 751 del 1° giugno 2012, accolto la domanda cautelare evidenziando l’illegittima pervasività e la carenza delle necessarie autorizzazioni dell’istruttoria svolta. 4. – L’appello in esame propone le censure disattese in primo grado, censurando per illogicità ed erroneità la decisione. 5. – Si è costituita in giudizio l’Amministrazione intimata, chiedendo il rigetto dell’appello. 6. – All’udienza del 3 dicembre 2013, la causa è stata trattenuta in decisione.
La libertà di espressione costituisce una delle fondamenta essenziali della società, una delle condizioni sostanziali per il suo progresso e per lo sviluppo di ogni uomo. Sotto riserva del par. 2 dell’art. 10, vale non solo per le «informazioni» o «idee» che sono favorevolmente accolte o considerate inoffensive o indifferenti, ma anche per quelle che offendono, scuotono o disturbano lo Stato o un qualunque settore della popolazione. Così richiedono il pluralismo, la tolleranza e lo spirito di apertura, senza i quali non esiste una «società democratica». Da ciò deriva, in particolare, che ogni «formalità», «condizione», «restrizione» o «sanzione» imposta in materia di libertà di espressione deve essere proporzionata allo scopo legittimo perseguito” ( CEDU n. 24 del 7.12.1976). Inoltre, sempre la Corte ha affermato che lo stesso tipo di divieto non costituisce violazione dell’articolo 10 della Convenzione, nonostante le restrizioni sull’abbigliamento ben possano integrare violazioni della libertà di espressione, in quanto “ai fini della configurabilità della violazione, deve essere inequivoco che attraverso gli abiti si voglia comunicare una specifica idea o convinzione.”
Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 3 dicembre 2013 – 21 febbraio 2014, n. 848 Presidente Cirillo – Estensore Puliatti
Fatto
1. – Con decreto della Polizia del 23 dicembre 2011, veniva irrogata al Sig. -OMISSIS-, nella qualità di -omissis-, la sanzione della sospensione dal servizio per un mese, con correlata deduzione di tale periodo dal computo di anzianità, perché “evidenziando gravissima mancanza di correttezza nel comportamento, pubblicava su un social network alcune foto ritraenti se stesso in abbigliamenti ed atteggiamenti inopportuni, corredate da informazioni personali di indubbia equivocità, favorendo l’accesso alla visione delle stesse senza particolari precauzioni.”. 2. – Con ricorso al TAR Lombardia il Sig. -omissis- deduceva tre motivi di impugnazione: A) violazione dell’art. 24 Cost. e art. 6 CEDU – lesione del diritto di difesa – nullità dell’istruttoria e del procedimento – mancato rispetto dei termini perentori ex artt. 19, 20 e 21 DPR 737/1981 – eccesso di potere per difetto di istruttoria, contraddittorietà e illogicità – erronea interpretazione e valutazione dei fatti e presupposti in fatto e diritto – assunzione da parte di dirigente del ruolo di istruttore e di provocatore della condotta da cui è scaturita la sanzione disciplinare oggetto di impugnativa – violazione e falsa applicazione di legge per mancata preventiva contestazione degli addebiti intervenuta solo dopo lo svolgimento di atti di indagine da parte del superiore e del funzionario istruttore in violazione dell’art. 19 DPR 737/1981; travisamento dei fatti – erroneità dei presupposti e della motivazione – assurdità, abnormità, abuso di potere, falsa applicazione e violazione di legge in riferimento della circolare n. 822/B.11399 Gab/2000 del 30.3.2000. B) violazione di legge e falsa applicazione degli artt. 2, 3, 14, 15 della Cost., nonché degli artt. 8, 10, 14 della CEDU; violazione di legge ed eccesso di potere per violazione degli artt. 20 e 22 del D. Lgs. n. 196/2003 e dell’art. 22 della l. 675/1996; violazione di legge ed eccesso di potere con riferimento all’art. 2, comma 1, lett. b) del D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 216. C) violazione e falsa applicazione degli artt. 6 e 4 del D.Lgs. 737/1981 e illogicità della decisione. Difetto di sovraesposizione e riconoscibilità del soggetto del materiale fotografico; eccesso di potere per travisamento dei fatti, erroneità dei presupposti e per abnormità del provvedimento. Difetto di motivazione. 3. – La sentenza del TAR Lombardia n. 2841/2012 rigettava il ricorso, nonostante lo stesso Tribunale avesse, con ordinanza n. 751 del 1° giugno 2012, accolto la domanda cautelare evidenziando l’illegittima pervasività e la carenza delle necessarie autorizzazioni dell’istruttoria svolta. 4. – L’appello in esame propone le censure disattese in primo grado, censurando per illogicità ed erroneità la decisione. 5. – Si è costituita in giudizio l’Amministrazione intimata, chiedendo il rigetto dell’appello. 6. – All’udienza del 3 dicembre 2013, la causa è stata trattenuta in decisione.
Diritto
1. – L’appello è fondato. 1.1. Sinteticamente, si premettono i fatti come risultanti dagli atti di causa. L’11 febbraio 2011, alle ore 12.21, il Sig. -OMISSIS- si è registrato sul social network -OMISSIS- attraverso la creazione di un profilo denominato -OMISSIS- sul sito era visionabile pubblicamente la foto di un’attrice, ma entrando vi era la possibilità di accedere ad alcune foto personali che lo ritraevano a mezzobusto in abbigliamento femminile, e di accedere, ma solo su sua autorizzazione, ad un’area privata dove erano visionabili altre foto, alcune ritraenti parti del corpo “in abiti succinti”. Sullo stesso sito, all’incirca un’ora dopo, si è collegato -OMISSIS-ovvero-OMISSIS-, incaricato dal Dirigente superiore dell’appellante, che avviava indagini su segnalazione di dipendenti, mai identificati. Il 14 febbraio, su richiesta di accesso all’album riservato “solo per pochi”, il -OMISSIS- autorizza -OMISSIS- a visionare altre foto personali, nell’area riservata del profilo, non altrimenti visionabile ( doc.13). In tale area il -OMISSIS- visiona e stampa le foto che “ritraggono una persona in biancheria intima e una solo il volto di una persona vestita che dal Dirigente è stata attribuita all’assistente -OMISSIS-”. Il 22 febbraio, quindi, il Dirigente contatta -OMISSIS-– Business Development Manager per l’Italia di -OMISSIS-, per acquisire informazioni utili ad “accertamenti amministrativi”. Dalla risposta fornita risulta l’ora in cui il profilo è stato registrato, che non erano presenti dati anagrafici e che non era possibile stabilire quando e chi ha inserito foto sul profilo; inoltre, vengono comunicati dati riservati, ossia che l’utente ha fornito in chat i suoi numeri di telefono dichiarando di trovarsi in zona San Siro, nonchè l’indirizzo di posta elettronica, il relativo indirizzo IP e i successivi IP di accesso. Il 9 marzo 2011, il Dirigente trasmette relazione al Questore e viene, quindi, avviato il procedimento disciplinare. La contestazione di addebiti del 19.4.2011 (doc. 3) attribuisce al ricorrente di aver tenuto una condotta connotata da fatti antitetici ai doveri richiesti ad un appartenente alla -OMISSIS-“sintomo di una volontà comportamentale che pur rientrando nell’ambito dell’attività privata e delle proprie abitudini sessuali, per il veicolo scelto di manifestarsi – social network -OMISSIS-,…spazio condivisibile da chiunque ed assimilabile al concetto giuridico di luogo aperto al pubblico – ha assunto consapevoli e voluti aspetti pubblici che si riflettono inevitabilmente sul prestigio delle funzioni e degli appartenenti ai ruoli dell’Amministrazione della Pubblica Sicurezza, ripercuotendosi in senso sfavorevole sul rapporto di servizio”. La contestazione, in buona sostanza, si fonda sul principio per cui mettere consapevolmente a disposizione propri dati sensibili o informazioni in generale a persone non conosciute, tramite network, equivale a renderle pubbliche e siffatto comportamento sarebbe lesivo del “decoro” dell’Amministrazione di pubblica sicurezza. Con delibera del Consiglio di disciplina del 26 ottobre 2011, richiamata per relationem nel decreto del 23 dicembre 2011 impugnato, è stata irrogata la sanzione indicata, in quanto il comportamento del militare si pone in contrasto con il decoro delle funzioni degli appartenenti ai ruoli della Pubblica sicurezza, riconducibile alla mancanza prevista dall’art. 6, n. 1 in relazione all’art. 4 n. 18 del DPR 737/1981. 1.2.- Con l’atto di appello il Sig. -OMISSIS-, oltre a dedurre una serie di illegittimità procedurali, compiute nella fase pre-istruttoria ed istruttoria, erroneamente disattese dal primo giudice, ripropone la censura di carattere sostanziale (motivo terzo), con cui denunciava che la sanzione applicata non trova ragionevole giustificazione nei fatti addebitati. Ad avviso del Collegio, la censura è fondata, nei limiti e nei termini di cui alla presente motivazione. 1.3. – Il primo giudice ha erroneamente ritenuto che la condotta posta in essere dall’appellante rientri nella fattispecie disciplinare delineata dagli artt. 4, n. 18 e 6, n. 1 DPR 737/1981. L’ipotesi disciplinare, difatti, si estrinseca in “qualsiasi altro comportamento, anche fuori dal servizio, non espressamente preveduto nelle precedenti ipotesi, comunque non conforme al decoro delle funzioni degli appartenenti ai ruoli dell’amministrazione”. La sentenza impugnata richiama una serie di precedenti giurisprudenziali che sarebbero accomunati dal considerare oggetto della sanzione condotte caratterizzate dalla “non conformità al decoro” e a “gravi mancanze attinenti alla disciplina e alle norme di contegno”. Ha ritenuto, inoltre, che sia fuorviante la valorizzazione di profili attinenti ad una presunta discriminazione sessuale e che la condotta in contrasto con gli obblighi di decoro debba essere rilevata in ragione “dell’oggettiva e potenziale diffusione di tali manifestazioni all’esterno, non idoneamente garantita nei cc.dd. social network”. Il giudice, sotto il profilo della prova, valorizza le ammissioni dello stesso ricorrente nel corso dell’audizione del 21.9.2011, innanzi al Consiglio di disciplina, da cui si evince che sulla home page del profilo sarebbe risultata inserita una sola foto di un’attrice famosa, ma che “cliccando col cursore sulla stessa comparivano n. 8 icone fotografiche ..le altre 5 lo ritraevano truccato, a mezzobusto” ( pag. 5). Si tratterebbe di dichiarazioni dal tenore confessorio, che confermano l’oggettiva lesività per l’intero corpo di Polizia degli effetti conseguenti al facile accesso alle fotografie riservate. 1.4. – L’appellante, di contro, deduce che l’intera condotta posta in essere si è svolta integralmente in un contesto che rientra, comunque, nello spazio riservato alla vita privata. Osserva, infatti, come non sia stato dato giusto peso alla circostanza che egli non ha pubblicato il suo cellulare, non ha inserito foto “compromettenti” in un sito web accessibile indiscriminatamente (ma solo su richiesta del provocatore in una cartella esclusivamente accessibile con sua autorizzazione); che non vi è in atti la deduzione di ulteriori contatti da parte di terzi; che non ha offerto prestazioni sessuali; che il suo status di poliziotto non è in alcun modo desumibile dal sito, atteso che non sono noti i suoi dati personali. Egli deduce altresì che gli obblighi di decoro derivanti dall’appartenenza all’amministrazione non possono legittimamente estendersi financo a limitare le lecite scelte di vita che un dipendente assume nella riservatezza della propria vita privata. 1.5. – Il Collegio osserva che erroneamente il giudice di prime cure ha ritenuto “pubbliche” le fotografie di cui trattasi, la cui capacità lesiva del decoro delle funzioni di pubblica sicurezza è comunque fortemente dubbia. Le questioni cui il collegio è stato chiamato a dare risposta sono sostanzialmente due, ossia se possa ritenersi “pubblica” la foto inserita nel profilo di un social-network, non immediatamente visibile a chiunque, ma accessibile tramite alcune specifiche operazioni e, in particolare, se lo sia la foto accessibile solo tramite autorizzazione del titolare del profilo; se possa ritenersi offensiva del decoro dell’amministrazione della pubblica sicurezza la foto, pubblicata con le dette modalità, che ritrae un dipendente in abbigliamento femminile, rendendo quindi palese la sua inclinazione sessuale, in ambiente non lavorativo. Sul primo punto, il Collegio osserva che, come emerge anche dalle dichiarazioni rese dall’agente -OMISSIS- (cfr. verbale istruttorio del 27 aprile 2011), dagli atti si evince che nella pagina di presentazione dell’utente, cui il -OMISSIS- ha avuto accesso cliccando sul nickname -OMISSIS-compariva una foto di una nota attrice con “la possibilità di visualizzare altre 8 foto”, di cui 4 sono state stampate e da cui è stata riconosciuta l’immagine del -OMISSIS-, travisato da donna. Altre foto, invece, riproducenti primi piani del ricorrente, travestito da donna, e alcune “parti di un corpo in abiti succinti”, sono state da lui visionate solo su autorizzazione dell’interessato, in area riservata “solo per pochi”. Sembra al Collegio che, ai fini della integrazione della fattispecie sanzionata, ossia della “lesione al decoro delle funzioni” o della “grave mancanza attinente alla disciplina e alle norme di contegno”, sia essenziale stabilire se le descritte modalità di accesso al profilo personale su social network possano far ritenere pubbliche le fotografie dell’interessato, “in ipotesi” offensive del riserbo e della compostezza che si confà ad un agente della Pubblica Sicurezza, sì da raggiungere un numero indefinito di soggetti. Ad avviso del collegio vanno valutate tutte le circostanze di fatto e le concrete modalità in cui si è svolta la vicenda. In questo quadro diventa risolutiva la circostanza che l’accesso al profilo personale è possibile solo a chi conosca lo username dell’interessato, il quale funziona da filtro per l’accesso, e che non può ritenersi, pertanto, indiscriminatamente visitabile da chiunque, ma rivolto essenzialmente a “conoscenti”, che abbiano appunto la “chiave” di accesso (lo username). All’apertura del profilo compariva, come già ricordato, una foto di donna non riferibile al Sig. -OMISSIS-, nonchè alcune delle altre foto, raffiguranti il mezzobusto del ricorrente ( doc. 18) erano visionabili solo dopo l’accesso; a ciò va aggiunta l’altra modalità, ossia che altre foto, che presentano “parti di corpo in abiti succinti”, queste senza dubbio più suscettibili di urtare la riservatezza ed il pudore, erano visionabili solo su specifica autorizzazione dell’interessato. In nessun caso, né nella parte “pubblica” del profilo, né nell’area “privata”, era riconoscibile lo status di poliziotto, né era reso pubblico il nome, il recapito o altri dati personali. La comunicazione, dunque, anche se utilizza un mezzo (internet) che si rivolge al pubblico, si svolge in “luogo” non aperto a tutti, ma riservato, essendo l’accesso al profilo personale possibile solo a chi conosce lo username dell’interessato, come dire, per esempio, in ambito diverso dalla rete, il suo indirizzo di casa e il suo nome, o tutt’al più conosce alcuni elementi selezionati dallo stesso (interessi, città di abitazione, categorie preferenziali di interlocutori, etc.) in grado di far risalire al suo profilo. A maggior ragione, la riservatezza delle immagini è garantita per quelle inserite nell’area “per pochi”, la cui visione necessita di specifica autorizzazione dell’interessato, successiva all’accesso. Pur non disconoscendo che chiunque eserciti la propria libertà di espressione si assume «doveri e responsabilità», la cui ampiezza dipende dalla sua situazione e dai mezzi tecnici che utilizza, il Collegio ritiene che, nella fattispecie, la comunicazione rientra nelle legittime manifestazioni della libertà di espressione, in quanto afferisce esclusivamente alla vita privata del ricorrente, e si svolge in modo da proteggere sufficientemente il proprio ruolo professionale, fuori dall’ambiente di lavoro e di riferimenti anche casuali allo stesso. 1.6 – Rimanendo ancora alla prima delle due questioni che la delicata vicenda pone, per il collegio va preso seriamente in considerazione quanto il primo giudice ha ritenuto a proposito del fatto che la valutazione della “pubblicità” debba essere svolta “oggettivamente” e “potenzialmente”. Va premesso che in una materia così delicata, nella quale si confrontano interessi parimenti importanti e di rango costituzionale – per un verso, la libertà di espressione e il diritto alla “vita privata”, per altro verso, interessi pubblici afferenti alla sicurezza dei cittadini ed al buon andamento dell’amministrazione che la garantisce,- non si possa rinunciare, anzi va fatta con scrupolo maggiore, alla verifica se in concreto vi sia una oggettiva pubblicità, potenzialmente lesiva dell’ordine di appartenenza del militare sanzionato. Orbene, nel caso di specie, a ben vedere, va esclusa anche la potenziale lesività del corpo di appartenenza, in quanto le foto (semmai volesse ritenersi idonea a tal fine la modalità di comunicazione utilizzata) sono rimaste sempre nel dominio delle parti del presente processo, in quanto il profilo dell’appellante non era stato visionato da altro utente se non dal Sig. -OMISSIS- fino al 14 febbraio (com’è evidente dal doc. 18 depositato, dove l’indice di accesso al sito è indicato “molto basso”= 0) ed è stato cancellato il successivo 28 febbraio; nè vi è agli atti la deduzione o la prova della consultazione da parte di terzi. Tanto più che la pericolosità deve valutarsi in concreto e non in astratto. 1.7 – Quanto alla seconda questione che si pone, a parte quanto testé osservato, il Collegio avanza qualche dubbio circa la portata lesiva delle fotografie del ricorrente, visionabili sulla parte liberamente accessibile del suo profilo. In altri termini, a parte l’eclusione in concreto della integrazione della fattispecie disciplinarmente rilevante, sorge il problema se il costume della società attuale, di cui il giudice deve essere interprete nell’applicazione di clausole generali, consideri offensivo per il decoro dell’amministrazione, e se sia qualificabile come “condotta connotata da fatti antitetici ai doveri richiesti ad un appartenente alla -OMISSIS-l’immagine di travestimento femminile, che palesa l’inclinazione omosessuale, utilizzata nella vita privata, in ambiente non lavorativo e senza riferimenti all’attività lavorativa svolta. Ma, soprattutto, va valutato se ciò possa costituire efficace strumento di ricatto per quei militari che ammettono la propria inclinazione sessuale, che è poi alla base della norma incriminatrice e della giusta cautela mostrata in proposito dall’amministrazione militare. 1.8. – A proposito dell’ultimo profilo testé indicato, il collegio rileva come correttamente nella sentenza impugnata si faccia riferimento alla ricattabilità dell’appellante a causa dell’episodio incriminato. Premesso che molti aspetti della vita personale di un individuo possono essere oggetto di manipolazione e usati a fini distorti, non sembra particolarmente esposto in tal senso l’agente di polizia per il fatto di palesare la propria identità sessuale con le modalità descritte. La circostanza che, in concreto, sia da escludere l’avvenuta diffusione pubblica delle immagini rafforza l’inconcludenza anche di questo rilievo. E’ utile premettere altresì che l’idea di “decoro” appartiene alla “morale”, che varia nel tempo e nello spazio, specialmente nella nostra epoca caratterizzata da una rapida e costante evoluzione delle opinioni circa la vita sessuale delle persone. Il concetto di “decoro”, invero, dal punto di vista giuridico, è una clausola indeterminata ed elastica, la definizione dei cui confini è affidata all’interprete in un determinato contesto storico-sociale, e che risente dell’evoluzione dei costumi e della cultura, tanto che la condotta che poteva essere avvertita come contraria al sentimento pubblico della decenza e offensiva per la sensibilità e moralità sociale alcuni decenni or sono, oggi ha mutato la sua portata lesiva essendo tollerata o accettata dalla coscienza sociale. In conformità con il disposto di cui agli artt. 2 e 3 della Costituzione, la vita sessuale è riconosciuta come condizione dell’uomo degna di tutela, in quanto riguarda l’identità della persona e il diritto alla realizzazione della propria personalità, e secondo l’art. 10 della Convenzione dei diritti dell’Uomo rientra nella libertà di espressione la possibilità di palesare opinioni e comportamenti che rivelano l’inclinazione sessuale. Come afferma da tempo la CEDU, “La libertà di espressione costituisce una delle fondamenta essenziali della società, una delle condizioni sostanziali per il suo progresso e per lo sviluppo di ogni uomo. Sotto riserva del par. 2 dell’art. 10, vale non solo per le «informazioni» o «idee» che sono favorevolmente accolte o considerate inoffensive o indifferenti, ma anche per quelle che offendono, scuotono o disturbano lo Stato o un qualunque settore della popolazione. Così richiedono il pluralismo, la tolleranza e lo spirito di apertura, senza i quali non esiste una «società democratica». Da ciò deriva, in particolare, che ogni «formalità», «condizione», «restrizione» o «sanzione» imposta in materia di libertà di espressione deve essere proporzionata allo scopo legittimo perseguito” ( CEDU n. 24 del 7.12.1976). Inoltre, sempre la Corte ha affermato che lo stesso tipo di divieto non costituisce violazione dell’articolo 10 della Convenzione, nonostante le restrizioni sull’abbigliamento ben possano integrare violazioni della libertà di espressione, in quanto “ai fini della configurabilità della violazione, deve essere inequivoco che attraverso gli abiti si voglia comunicare una specifica idea o convinzione.” ( Kara c/ regno Unito 22.10.1998). Sicchè, per il diritto vivente, il travestimento in abiti femminili non può, quindi, qualificarsi in sé “indecoroso” se l’atteggiamento assunto non consiste in pose sconvenienti o contrastanti col comune senso del pudore, del rispetto della propria o altrui persona. Orbene, per il collegio ciò vale anche se trattasi di agente di pubblica sicurezza, che agisce nella sfera della sua vita privata, senza riconoscibilità del suo status e senza alcun riferimento all’amministrazione di appartenenza. Infatti, proprio in virtù del cambiamento dei costumi, l’inclinazione sessuale, anche degli appartenenti alle forze dell’ordine, non costituisce materia di ricatto o di possibili ritorsioni specifiche, o almeno non più di altri aspetti della vita della persona. E ciò vale anche nell’ipotesi in cui, ma nel caso di specie è stato già escluso, coloro i quali sono venuti in contatto con l’agente di polizia vengano successivamente a sapere del suo status. 2. – In conclusione, l’appello va accolto e, per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, va accolto il ricorso di primo grado con l’annullamento del provvedimento impugnato. 3. – Le spese di giudizio si compensano tra le parti, attesa la novità delle questioni trattate. 4.- In conformità all’art. 52 del D.Lgs. 30.6.2003, n. 196, il collegio dispone che venga omessa l’indicazione delle generalità e di altri dati identificativi dell’ interessato riportati sulla sentenza A tal fine, da mandato alla Segreteria, all’atto del deposito della sentenza, di apporre e sottoscrivere anche con timbro la seguente annotazione, ai sensi dell’art. 52, comma 3, del D.Lgs. 30.6.2003, n. 196: ‘In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi del ricorrente’.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, accoglie il ricorso di primo grado e annulla il provvedimento impugnato. Spese compensate. In conformità all’art. 52 del D.Lgs. 30.6.2003, n. 196, si dispone che venga omessa l’indicazione delle generalità e di altri dati identificativi del ricorrente riportati sulla sentenza. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
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