OMICIDIO COLPOSO DELLA MADRE SENZA BIMBO NEL SEGGIOLINO
FATTO:
1. Con sentenza dell’11/6/2013 la Corte d’appello di Milano confermava quella resa in primo grado dal Tribunale della stessa città in data 4/11/2011 che aveva dichiarato J.V. Y. colpevole del delitto di omicidio colposo, aggravato dalla violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale, ai danni del proprio figlio S.E. di otto mesi e, per l’effetto, concesse le attenuanti generiche ritenute equivalenti alla contestata aggravante, l’aveva condannata alla pena (sospesa) di mesi otto di reclusione.
Secondo la ricostruzione del fatto operata dal giudice di primo grado, il 20 giugno 2009 i coniugi S.R. e J. V.Y., dopo aver passato il pomeriggio e la sera in un locale pubblico sui (OMISSIS), insieme col figlioletto E., assumendo bevande alcoliche, in quantità tale per il S. da mostrare egli all’alcoltest un tasso alcolemico del 2,23 e 2,09 g/l, a notte inoltrata (intorno alle ore 2,00), si mettevano in macchina per tornare a casa.
Alla guida si poneva il S., seduto a lato un amico della coppia, R.R.C.M., nel sedile posteriore l’imputata con il bambino. Verso le ore 2,14, mentre era in corso un violento temporale, giunto in piazzale Lodi, il conducente perdeva il controllo della macchina e andava a sbattere contro uno spartitraffico.
A causa dell’urto il piccolo veniva sbalzato dalle braccia della madre e andava a sbattere contro un corpo piatto e rigido presente all’interno dell’abitacolo, da cui riportava una lesione cranica che lo portava a morte tre giorni dopo.
Il Tribunale riteneva altresì accertato, sulla base di quanto riferito dagli agenti intervenuti sul luogo dell’incidente, che i sedili posteriori erano bensì muniti di regolari cinture di sicurezza, ma queste risultavano riverse nella parte posteriore dei sedili stessi, verso il vano del baule, e non erano perciò in uso;
il seggiolino per il bambino conseguentemente non era assicurato al sedile con la cintura di sicurezza e si presentava, peraltro, ingombro di oggetti, tra cui una gruccia appendiabiti.
DIRITTO
Mette conto a tal riguardo rammentare che la giurisprudenza di legittimità è ormai giunta da tempo a riconoscere l’applicabilità dell’istituto anche ai reati a forma libera (con riferimento ai quali si afferma che tale disposizione svolge anche una funzione incriminatrice, valendo a rendere punibili condotte atipiche, agevolatrici, incomplete, di semplice partecipazione, che per assumere concludente significato hanno bisogno di coniugarsi con altre condotte: v. Sez. 4, n. 1786 del 02/12/2008, dep. 2009, Tomaccio, Rv. 242566; Sez. 4, n. 1428 del 02/11/2011, dep. 2012, Gallina, Rv. 252940; Sez. 4, n. 36280 del 21/06/2012, Forlani, Rv.
253566; Sez. 4, n. 43083 del 03/10/2013, Redondi, Rv. 257197), precisandosi altresì che il collante richiesto tra le varie condotte per la configurazione della cooperazione è rappresentato dalla consapevolezza dell’altrui condotta, non anche del suo contenuto specifico (è sufficiente, cioè, che il soggetto sappia che nel contesto in cui si inserisce la sua condotta operano anche altri soggetti), nè del carattere colposo della stessa, quanto meno in tutti quei casi in cui il coinvolgimento integrato di più soggetti sia imposto dalla legge ovvero da esigenze organizzative connesse alla gestione del rischio o, quantomeno, sia contingenza oggettivamente definita della quale gli stessi soggetti risultino pienamente consapevoli (v. Sez. 4, n. 1786/2009, Tomaccio, cit.; Sez. 4, n. 26020 del 29/04/2009, Cipiccia, Rv. 243932; Sez. 4, n. 6215 del 10/12/2009, dep. 2010, Pappadà, Rv. 246420; Sez. 4, n. 1428/2012, Gallina, cit.; Sez. 4, n. 26239 del 19/03/2013, Gharby, Rv. 255696).
Sotto nessun profilo, pertanto, la pronunzia di merito può ritenersi censurabile per ciò che attiene all’applicazione dell’art. 113 c.p., non potendo dubitarsi in particolare nè, come detto, che essa fosse stata contestata in rubrica, nè della ricorrenza in concreto nella fattispecie di tutti i requisiti descritti per la confìgurabilita di un concorso qualificato nei termini suindicati.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
(ud. 13-11-2014) 28-11-2014, n. 49735
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BRUSCO Carlo Giuseppe – Presidente –
Dott. BIANCHI Luisa – Consigliere –
Dott. BLAIOTTA Rocco Marco – Consigliere –
Dott. ZOSO Liana Maria Tere – Consigliere –
Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
J.V.Y., nata il (OMISSIS);
avverso la sentenza n. 12439/2011 CORTE APPELLO di MILANO, del 11/06/2013;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 13/11/2014 la relazione fatta dal Consigliere Dott. EMILIO IANNELLO;
udito il Procuratore Generale in persona del Dott. CARMINE STABILE che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza dell’11/6/2013 la Corte d’appello di Milano confermava quella resa in primo grado dal Tribunale della stessa città in data 4/11/2011 che aveva dichiarato J.V. Y. colpevole del delitto di omicidio colposo, aggravato dalla violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale, ai danni del proprio figlio S.E. di otto mesi e, per l’effetto, concesse le attenuanti generiche ritenute equivalenti alla contestata aggravante, l’aveva condannata alla pena (sospesa) di mesi otto di reclusione.
Secondo la ricostruzione del fatto operata dal giudice di primo grado, il 20 giugno 2009 i coniugi S.R. e J. V.Y., dopo aver passato il pomeriggio e la sera in un locale pubblico sui (OMISSIS), insieme col figlioletto E., assumendo bevande alcoliche, in quantità tale per il S. da mostrare egli all’alcoltest un tasso alcolemico del 2,23 e 2,09 g/l, a notte inoltrata (intorno alle ore 2,00), si mettevano in macchina per tornare a casa.
Alla guida si poneva il S., seduto a lato un amico della coppia, R.R.C.M., nel sedile posteriore l’imputata con il bambino. Verso le ore 2,14, mentre era in corso un violento temporale, giunto in piazzale Lodi, il conducente perdeva il controllo della macchina e andava a sbattere contro uno spartitraffico.
A causa dell’urto il piccolo veniva sbalzato dalle braccia della madre e andava a sbattere contro un corpo piatto e rigido presente all’interno dell’abitacolo, da cui riportava una lesione cranica che lo portava a morte tre giorni dopo.
Il Tribunale riteneva altresì accertato, sulla base di quanto riferito dagli agenti intervenuti sul luogo dell’incidente, che i sedili posteriori erano bensì muniti di regolari cinture di sicurezza, ma queste risultavano riverse nella parte posteriore dei sedili stessi, verso il vano del baule, e non erano perciò in uso;
il seggiolino per il bambino conseguentemente non era assicurato al sedile con la cintura di sicurezza e si presentava, peraltro, ingombro di oggetti, tra cui una gruccia appendiabiti.
L’evento era ascritto a responsabilità dell’imputata, per colpa specifica, sotto un duplice profilo: anzitutto perchè, perfettamente a conoscenza che il marito durante le ore passate con lei, aveva bevuto abbondantemente sostanze alcoliche, proprio a protezione del suo bambino, non avrebbe dovuto accettare che egli si mettesse alla guida; in secondo luogo, perchè non aveva collocato il piccolo nel suo seggiolino di sicurezza, peraltro nemmeno assicurato alle strutture fisse dell’auto mediante le apposte cinture di sicurezza, e lei stessa non aveva allacciato la cintura, trovandosi questa sul retro del sedile stesso.
Con i motivi di gravame era sostanzialmente reiterata la tesi, disattesa dal giudice di primo grado, della imprevedibilità dell’evento e della inesigibilità da parte della madre di un comportamento diverso: tesi sostenuta in ragione di una ricostruzione dei fatti secondo cui, durante il tragitto, poichè il bambino, regolarmente seduto nel seggiolino, aveva cominciato a piangere, l’imputata lo aveva preso in braccio per calmarlo, chiedendo al marito di accostare e fermarsi, in quel frangente determinandosi, in modo casuale ed imprevedibile, il tragico incidente.
Tale tesi era disattesa dalla Corte d’appello sulla base dei seguenti rilievi:
– costituiva comunque grave imprudenza causalmente connessa all’evento l’aver permesso che alla guida dell’auto su cui saliva insieme con il suo bambino si mettesse una persona in condizioni, da lei perfettamente conosciute, di grave alterazione psichica dovuta all’assunzione di alcool;
– costituiva altresì personale negligenza inescusabile non aver controllato che il seggiolino di sicurezza per bambini fosse saldamente ancorato a parti fisse del veicolo e lo era altresì non aver assicurato se stessa con le cinture (ciò desumendosi dal fatto che nessuna delle cinture di sicurezza era attiva nella parte posteriore della vettura);
– in tale contesto era irrilevante stabilire se il piccolo fosse seduto nel seggiolino oppure si trovasse in braccio alla madre, dal momento che come detto nè l’uno nè l’altra erano assicurati con le apposite cinture, sì che comunque, qualsiasi incidente, avrebbe potuto proiettare il minore contro le strutture del veicolo;
– il pianto del bambino (peraltro tenuto, a soli sette mesi, per oltre otto ore, in un locale pubblico dove i genitori si erano volontariamente trattenuti) non avrebbe dovuto in alcun modo portare la madre a dismettere il proprio ruolo protettivo e di garanzia, non ricorrendo in tal senso alcuno stato di necessità;
– l’affermazione secondo cui “la madre non poteva umanamente prevedere che nel momento in cui prese il bimbo in grembo si potesse verificare l’urto” è errata di per sè, essendo evidente che, da un lato, un incidente di circolazione è un fatto sempre potenzialmente incombente e come tale prevedibile, dall’altro, tenere un bambino in braccio all’interno di un veicolo in marcia costituisce notoriamente comportamento altamente pericoloso per lo stesso.
2. Avverso tale sentenza propone ricorso l’imputata, per mezzo dei propri difensori, sulla base di due motivi.
2.1. Con il primo deduce violazione di legge per avere la Corte di merito erroneamente esteso ad essa ricorrente profili di colpa ascritti esclusivamente al conducente, pur in assenza di qualsiasi contestazione di cooperazione colposa.
Secondo la ricorrente l’avere i giudici di merito addebitato ad essa di aver consentito che alla guida dell’auto in cui sedeva il suo figlioletto si mettesse una persona in grave alterazione alcolica, comporta l’indebita estensione di un profilo di colpa specificamente contestato in rubrica al solo S.R. e non anche ad essa ricorrente, alla quale si contestava in imputazione solo di “aver omesso di assicurare il figlio minore durante la marcia all’apposito sistema di ritenuta”.
Osserva che peraltro si tratta di un addebito, comunque, estraneo al suo “potere decisionale e volontaristico”.
2.2. Con il secondo motivo deduce vizio di motivazione per travisamento di prova, per avere la Corte d’appello ritenuto che l’imputata non avesse assicurato nemmeno sè stessa con le cinture di sicurezza sul sedile posteriore, laddove tale circostanza risultava smentita dalle prove assunte.
Rileva, infatti, che l’ispettore Ivan Formoso, sentito in controesame all’udienza del 9/12/2010, in ordine alle condizioni in cui venne rinvenuto l’abitacolo interno della vettura, a proposito della cintura di sicurezza collocata sul sedile posteriore nel posto della trasportata, affermò che la stessa “poteva essere utilizzata” dal passeggero seduto dietro.
Soggiunge che peraltro prova che essa ricorrente indossasse la cintura di sicurezza è data dal fatto che lei fu l’unica trasportata a non riportare alcuna lesione.
Ciò posto, argomenta conclusivamente che l’addebito ad essa mosso di non aver agganciato il seggiolone dov’era trasportato il figlioletto è da considerarsi ininfluente, poichè l’incidente si è fatalmente verificato qualche attimo dopo che essa prelevò il bambino dal seggiolone per calmarlo per rassicurarlo tra le sue braccia.
A tal riguardo lamenta che la valutazione della Corte secondo cui anche tale comportamento di per sè costituisce ragione di addebito dell’evento, omette di considerare che essa, prima di prelevare il bambino dal seggiolone, non tralasciò di invitare espressamente il marito ad accostare e fermarsi, tanto che, proprio per la manovra di accostamento al marciapiede, il conducente, per la pioggia battente, non vide il cuspide e urtò contro di esso. Secondo il ricorrente, una tale richiesta, e la manovra che ne conseguì, potevano giustificare il ragionevole convincimento che, per i pochi attimi necessari ad arrestare la marcia, non vi sarebbero state conseguenze pericolose.
Motivi della decisione
3. Entrambe le censure poste a fondamento del ricorso si appalesano aspecifiche oltre e prima che manifestamente infondate.
Nessuna di esse, infatti, coglie le vere rationes decidendi della sentenza impugnata, come sopra compendiate ed entrambe finiscono con il contrapporvi rilievi critici inconducenti e, comunque, palesemente privi di fondamento.
Quanto alla prima, in particolare, è manifestamente destituito di fondamento l’assunto secondo cui l’avere addebitato all’imputata di aver consentito che alla guida dell’auto in cui sedeva con il suo figlioletto si mettesse persona in grave stato di alterazione derivante dall’assunzione di alcol, comporta l’indebita estensione di un profilo di colpa esclusivamente ascrivibile a quest’ultimo.
E’ agevole al contrario rilevare che il profilo di colpa ascritto all’imputata, anche se connesso con quello relativo alla posizione del coniuge, se ne distingue nettamente, non rimproverandosi ad essa di essersi posta alla guida in grave stato di alterazione alcolica ma piuttosto di aver consentito che sull’auto viaggiasse il figlio, ovviamente affidato anche alla sua custodia, nella consapevolezza, piena e in sè incontestata, che alla guida del mezzo vi fosse soggetto in quelle condizioni.
Tale condotta realizza di per sè certamente una grave violazione degli obblighi di custodia, diligente e prudente, direttamente su di essa gravanti e sul piano causale anche un contributo direttamente rilevante nella determinazione dell’evento, che è quanto basta a configurare una condotta colposa concorrente come tale di per sè fonte di responsabilità per l’agente ai sensi dell’art. 41 c.p., comma 1.
Ciò toglie ogni rilevanza alla censura, pure incidentalmente introdotta in ricorso, relativa alla mancata contestazione di una cooperazione colposa.
E’ appena il caso, dunque, di rilevare al riguardo che trattasi di critica comunque anch’essa manifestamente infondata, dal momento che la sussistenza di una cooperazione colposa risulta in realtà espressamente contestata in rubrica ed è altresì fondatamente configurabile nella fattispecie.
Mette conto a tal riguardo rammentare che la giurisprudenza di legittimità è ormai giunta da tempo a riconoscere l’applicabilità dell’istituto anche ai reati a forma libera (con riferimento ai quali si afferma che tale disposizione svolge anche una funzione incriminatrice, valendo a rendere punibili condotte atipiche, agevolatrici, incomplete, di semplice partecipazione, che per assumere concludente significato hanno bisogno di coniugarsi con altre condotte: v. Sez. 4, n. 1786 del 02/12/2008, dep. 2009, Tomaccio, Rv. 242566; Sez. 4, n. 1428 del 02/11/2011, dep. 2012, Gallina, Rv. 252940; Sez. 4, n. 36280 del 21/06/2012, Forlani, Rv.
253566; Sez. 4, n. 43083 del 03/10/2013, Redondi, Rv. 257197), precisandosi altresì che il collante richiesto tra le varie condotte per la configurazione della cooperazione è rappresentato dalla consapevolezza dell’altrui condotta, non anche del suo contenuto specifico (è sufficiente, cioè, che il soggetto sappia che nel contesto in cui si inserisce la sua condotta operano anche altri soggetti), nè del carattere colposo della stessa, quanto meno in tutti quei casi in cui il coinvolgimento integrato di più soggetti sia imposto dalla legge ovvero da esigenze organizzative connesse alla gestione del rischio o, quantomeno, sia contingenza oggettivamente definita della quale gli stessi soggetti risultino pienamente consapevoli (v. Sez. 4, n. 1786/2009, Tomaccio, cit.; Sez. 4, n. 26020 del 29/04/2009, Cipiccia, Rv. 243932; Sez. 4, n. 6215 del 10/12/2009, dep. 2010, Pappadà, Rv. 246420; Sez. 4, n. 1428/2012, Gallina, cit.; Sez. 4, n. 26239 del 19/03/2013, Gharby, Rv. 255696).
Sotto nessun profilo, pertanto, la pronunzia di merito può ritenersi censurabile per ciò che attiene all’applicazione dell’art. 113 c.p., non potendo dubitarsi in particolare nè, come detto, che essa fosse stata contestata in rubrica, nè della ricorrenza in concreto nella fattispecie di tutti i requisiti descritti per la confìgurabilita di un concorso qualificato nei termini suindicati.
Prima ancora deve però ribadirsi che, come detto, il ricorso a tale ipotesi normativa si rivela ultroneo rispetto alle esigenze qualificatorie poste dalla fattispecie, non potendo, invero, dubitarsi nemmeno della tipicità della” romlotta commissiva ascritta alla ricorrente e della sua autonoma efficacia causale rispetto all’evento, e della conseguente possibilità di configurare tra essa e quella ascritta al coniuge un concorso di condotte colpose indipendenti, già come tale pienamente sussumibile anche nella previsione di cui all’art. 41 c.p., comma 1, senza alcun riflesso pratico per quel che riguarda l’affermazione della penale responsabilità e il trattamento sanzionatorio.
L’imputata, infatti, come detto, ha da un lato posto in essere una condotta certamente dotata di efficacia causale rispetto all’evento (sia perchè ha lasciato che il proprio figlio viaggiasse sull’auto condotta da soggetto in grave stato di alterazione psichica e nella piena consapevolezza di tale condizione, sia per non averlo assicurato al seggiolino e alle cinture durante tutte le fasi del tragitto) e connotata anche, sul piano soggettivo, dalla violazione di elementari regole di prudenza e diligenza, oltre che di specifiche regole di condotta imposte dal cod. strada (art. 172, comma 10), che essa – quale genitrice responsabile, anche in quello specifico contesto, al pari dell’altro genitore, della custodia del minore – era direttamente tenuta ad osservare.
4. Rimane assorbito l’esame della seconda censura, anche della quale può nondimeno rilevarsi il carattere aspecifico, in quanto inidonea a incidere sulle ragioni di fondo, ben rimarcate dalla Corte di merito, degli ulteriori profili di addebito ascritti alla ricorrente.
Come s’è detto, infatti, si rimprovera alla ricorrente anche: a) di non aver sistemato il bambino nell’apposito seggiolino munito di cinture di sicurezza; b) di averlo incautamente tenuto in braccio.
E’ evidente che, rispetto a tali ragioni di addebito, le tesi difensive reiterate in ricorso, oltre a risolversi nella mera prospettazione di una diversa valutazione degli elementi di prova, inammissibile in questa sede, si appalesano in ogni caso ininfluenti, non valendo in alcuna misura a confutare la logicità e la correttezza in punto di diritto del convincimento anche sul punto espresso dal giudice a quo.
Quand’anche, infatti, fosse vero che il bambino era stato inizialmente regolarmente sistemato nell’apposito seggiolino munito del sistema di ritenuta e quand’anche fosse vero che anche l’imputata aveva allacciato le cinture di sicurezza (contrariamente al convincimento ragionevolmente esposto e coerentemente argomentato in sentenza e come tale pertanto insindacabile nella presente sede), rimarrebbe comunque ascrivibile a grave negligenza, oltre che a colpa specifica per inosservanza di specifiche regole di cautela direttamente gravanti sulla persona tenuta alla sorveglianza (art. 172 C.d.S., comma 10) l’aver preso in braccio il piccolo quando ancora la vettura era in movimento.
Tale condotta, in sè incontestata, ha poi di fatto assunto una indiscutibile efficacia causale rispetto al tragico evento e rende inlnfluente ogni valutazione sul se, nei frangenti immediatamente precedenti, la stessa regola di condotta fosse stata invece osservata.
Nè alcuna efficacia valenza esimente può attribuirsi alle circostanze addotte dalla ricorrente (pianto del bambino, invito rivolto al conducente a fermarsi) e ciò per le ragioni già compiutamente esposte in sentenza (e sopra riferite), sostanzialmente ignorate in ricorso.
5. Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile.
Tenuto conto della sentenza della Corte Costituzionale n. 186 del 13/06/2000, e rilevato che non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, alla declaratoria di inammissibilità segue, a norma dell’art. 616 c.p.p., l’onere delle spese del procedimento e del versamento di una somma, in favore della Cassa delle Ammende, determinata – avuto riguardo al grado di colpa ravvisabile – come da dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 13 novembre 2014.
Depositato in Cancelleria il 28 novembre 2014
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