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SEZIONE III CIVILE
Sentenza 10 marzo – 22 maggio 2014, n. 11364
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SALME’ Giuseppe – Presidente –
Dott. PETTI Giovanni B. – rel. Consigliere –
Dott. RUBINO Lina – Consigliere –
Dott. CARLUCCIO Giuseppa – Consigliere –
Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 24306/2008 proposto da:
P.A., C.L. (OMISSIS), considerati domiciliati ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall’avvocato OLIVIERI GIUSEPPE giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrenti –
contro
INA ASSITALIA SPA (in virtù di fusione per incorporazione di INA VITA SPA e ASSITALIA ASSICURAZIONI SPA) (OMISSIS), in persona dell’Avv. F.M. in qualità di procuratore speciale, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA VITTORIO VENETO 7, presso lo studio dell’avvocato TARTAGLIA PAOLO, che la rappresenta e difende giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
e contro
S.C.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 976/2008 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 13/03/2008 R.G.N. 4035/2005;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/03/2014 dal Consigliere Dott. GIOVANNI BATTISTA PETTI;
udito l’Avvocato GIUSEPPE OLIVIERI;
udito l’Avvocato GIOVANNI SERGES per delega;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. GOLIA Aurelio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Con citazione del novembre 1993 i genitori di P.D., P.A. e C.L. convennero dinanzi al tribunale di Napoli il ginecologo S.C. e la Congregazione Figlie di Nostra Signora del Sacro Cuore – da ora breviter CONGREGAZIONE – quale proprietaria della Clinica VILLA ALBINA – chiedendone la condanna in solido al risarcimento di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali conseguenti alla nascita del figlio malformato.
Deducevano che il ginecologo non aveva informato la gestante delle condizioni del feto così impedendo il ricorso all’aborto terapeutico.
Si costituivano i convenuti, contestando il fondamento delle domande e chiamavano in causa le assicurazioni ASSITALIA ed ASSICURAZIONI GENERALI per la CONGREGAZIONE. Si costituivano le assicurazioni e chiedevano il rigetto delle domande.
La lite era istruita con prove orali e per interpello del medico e con consulenza medico legale e allegazioni documentali.
2. Il tribunale di Napoli con sentenza 10 novembre 2004 dichiarava la responsabilità del medico e lo condannava in solido con la sua assicuratrice ASSITALIA al pagamento della somma di Euro 177.500,00 oltre interessi compensativi e corrispettivi, rigettava le domande nei confronti della CONGREGAZIONE e del suo assicuratore, compensava tra le parti le spese di lite.
3. Contro la decisione proponeva appello ASSITALIA, deducendo il dolo del medico assicurato e quindi la esclusione dalla solidarietà, chiedeva in via subordinata la condanna nei limiti del massimale di 200 milioni di lire.
I P. si costituivano chiedendo il rigetto dell’appello principale e proponevano appello incidentale chiedendo il riconoscimento del danno esistenziale e del danno patrimoniale futuro e per il p.A. anche il risarcimento dei danni patrimoniale e biologico e la condanna solidale della CONGREGAZIONE. Si costituiva la spa ASSICURAZIONI GENERALI, che proponeva appello incidentale condizionato, nel caso di accertamento della responsabilità della CONGREGAZIONE e la riduzione del quantum risarcito; si costituiva infine la CONGREGAZIONE sostenendo l’avvenuto passaggio in giudicato della sentenza nei suoi confronti.
4. La Corte di appello di NAPOLI con sentenza del 13 marzo 2008, accoglieva lo appello principale e limitatamente quello incidentale, condannando il solo medico S. al ristoro dei danni in favore dei coniugi P. PER LA SOMMA DI EURO 177.500-00 oltre interessi e spese di lite di primo grado già liquidate dal tribunale, nonchè al pagamento della somma ulteriore di Euro 50.000,00 oltre interessi corrispettivi e compensativi del ritardo del pagamento, ma negava la voce risarcitoria per il danno patrimoniale futuro chiesto dai genitori; condannava infine il medico a rifondere agli appellati le spese del grado, liquidate come in dispositivo.
5. CONTRO la decisione hanno proposto ricorso P.A. e C.L., deducendo sei motivi illustrati da memoria; i ricorrenti hanno delimitato il ricorso nei confronti del medico e della sua assicurazione, facendo acquiescenza alle statuizioni della sentenza non impugnate e scindibili per le poste risarcitorie.
Resiste INA-ASSITALIA, incorporante ASSITALIA – con controricorso, chiedendo il rigetto del ricorso e proponendo memoria.
Motivi della decisione
6. Il ricorso merita accoglimento limitatamente al sesto motivo, dovendosi rigettare gli altri, per le seguenti considerazioni.
Per chiarezza espositiva si offre la sintesi dei motivi del ricorso P. ed a seguire la confutazione in diritto e le ragioni di accoglimento del sesto motivo.
6.1. SINTESI DEI MOTIVI del ricorso P..
Nel PRIMO MOTIVO si deduce error in iudicando per violazione degli artt. 1362 e 1370 c.c., art. 1372 c.c., comma 1, art. 1917 c.c., comma 1, e art. 1932 c.c., ed a ff 5 si propone il seguente quesito “dica la Corte che la garanzia prevista dalla polizza per la responsabilità civile derivante all’assicurato a termini di legge per fatto proprio, escludendo la applicazione dello art. 1917, comma 1, ne comporta la operatività anche nel caso di condotta dolosa dello assicurato; che la esclusione della garanzia prestata dalle ASSICURAZIONI DI Italia spa è dipesa dalla qualificazione della condotta del Dott. S. come dolosa; che pertanto la prevalenza della clausola sull’art. 1917, comma 1, comporta la affermazione della garanzia assicurativa anche per i danni che il Dott. S. avesse cagionato con condotta dolosa”.
Nel SECONDO MOTIVO si deduce ancora error in iudicando per violazione e falsa applicazione dell’art. 1900 c.c., art. 1917 c.c., comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il quesito a pag 9 recita: “Dica la Corte che la esclusione della garanzia assicurativa sancita dallo art. 1917, comma 1, per i danni derivanti da fatti dolosi esige la consapevolezza di ragionare con la propria condotta un danno a terzi, sicchè la norma invocata non può essere applicata in caso di semplice coscienza della propria condotta-ritenuta dolosa dalla corte di merito-; che pertanto le Assicurazioni di Italia spa debbono essere tenute alla garanzia assicurativa per i danni patiti dai signori P. – C. in conseguenza del comportamento omissivo del Dott. S.”.
Nel TERZO MOTIVO si deduce ancora error in iudicando per violazione e falsa applicazione dell’art. 1917 c.c., comma 1, e art. 43 c.p., ed a pag 10 di pone il seguente quesito: “dica la CORTE che la ed colpa cosciente non esige la certezza dello agente sul mancato verificarsi dello evento dannoso, ma soltanto la rappresentazione dello evento come una ipotesi astratta, non concretamente realizzabile; che pertanto la condotta del dr S., non sorretta dalla consapevolezza della concreta possibilità del verificarsi dello evento dannoso deve essere qualificata come colposa, con la conseguente inapplicabilità dello esonero da responsabilità dello assicuratore a norma dello art. 1917 c.c., comma 1”.
Nel QUARTO MOTIVO si deduce error in iudicando per violazione e falsa applicazione dell’art. 1917 c.c., comma 1, e art. 43 c.p., comma 3.
IL QUESITO a ff 13 recita: “dica la Corte che a norma dell’art. 1917 c.c., comma 1, la derivazione dei danni da fatti dolosi dell’assicurato, la consapevolezza della antigiuridicità del comportamento, la previsione della concretezza del fatto dannoso, costituiscono fatti impeditivi della operatività della garanzia assicurativa, cosicchè la prova della semplice intenzionalità del comportamento non è idonea a dimostrarne il verificarsi e che pertanto il rigetto della domanda sulla base della provata consapevolezza unicamente della omissione ha erroneamente posto le conseguenze della mancata prova dei fatti impeditivi indicati a carico degli attori appellati, invece che del convenuto appellante”.
Nel QUINTO MOTIVO SI DEDUCE OMESSA 0 INSUFFICIENTE E CONTRADDITTORIA MOTIVAZIONE in ordine a fatti controversi e decisivi, che vengono indicati a ff 14 sotto due paragrafetti a e b.
SUB A. si sostiene che la valutazione da parte del medico della conseguenza – derivazione – del danno rispetto ad una condotta consapevole, ovvero lo accertamento della sua antigiuridicità, doveva essere meglio motivato, SUB B si sostiene la inadeguatezza della motivazione sul punto della rappresentazione da parte del sanitario dello evento dannoso, come conseguenza concreta della colpa omissiva. NEL SESTO MOTIVO si deduce error in iudicando per violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2056 e 2909 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., e art. 329 c.p.c., comma 2, in relazione alla mancata integrale valutazione del danno patrimoniale futuro, in relazione alla nota di irreversibilità del danno patrimoniale accertato e liquidato fino alla sentenza, ma non per l’avvenire.
QUESITO IN TERMINI A FF.17.
7. CONFUTAZIONE DEI PRIMI CINQUE MOTIVI E ACCOGLIMENTO DEL SESTO. Le prime CINQUE censure pur essendo articolate in una serie di motivi e relativi quesiti,appaiono tutte intimamente connesse, partendo da alcune asserzioni di fatto sostenute da tesi in diritto, che non attengono alla fattispecie considerata e valutata dalla CORTE DI APPELLO AI FF 5 E 6 della sua motivazione.
ORBENE le prime quattro censure che deducono errores in iudicando appaiono difformi dal modulo propositivo della regula iuris prevista dallo art. 366 bis c.p.c., poichè prospettano una fattispecie diversa da quella esaminata dai giudici del merito in relazione ad un illecito considerato nei termini tradizionali dello illecito civile di cui allo art. 2043 c.c., secondo la originaria citazione dei coniugi P. ed il devolutum in sede di appello, dove assicurato e assicuratore erano ritenuti solidali verso le parti danneggiate. La CORTE ha escluso la responsabilità dell’assicuratore, esaminando la clausola inserita nella polizza che prevede lo oggetto della assicurazione della responsabilità civile per i danni causati a terzi dal medico ginecologo, per fatto proprio connesso alla attività svolta nello esercizio della professione, ed ha interpretato tale conformazione secondo buona fede, nel senso di una previsione di garanzia per i fatti colposi e non anche per i fatti dolosi. DUNQUE la interpretazione della CORTE è logicamente connessa alla ratio legis ordinaria della assicurazione, mentre la interpretazione ribadita nei primi sei motivi, con abili illazioni dovrebbe invece condurre ad una deroga convenzionale al regime dello art. 1917 c.c., comma 1.
SE NE DEDUCE che i primi quattro motivi del ricorso sono inammissibili, poichè nella sintesi descrittiva si discostano dalla valutazione logica e coerente data dai giudici del merito nella interpretazione della polizza e della sua clausola che assicurava la responsabilità civile della condotta di un ginecologo, che spesso opera in condizioni di emergenza ed a rischio di errore involontario o per complicanza non prevedibile o non prevenibile secondo lo stato dell’arte medica ed i mezzi a disposizioni.
LA CORTE INVECE ACCERTA la fattispecie del dolo all’interno della colpa civilmente rilevante, come coscienza e volontà di porre in essere una situazione certa di parto di un feto malformato, costretto ad una sopravvivenza incerta, ma certamente lesiva in misura gravissima della salute e della stessa dignità di persona e con conseguenze patrimoniali disastrose, per è e per gli sventurati genitori. IL DOLO civile, ancorchè posto in essere con una riserva mentale di obbiezione di coscienza, che viene in essere solo in corso di causa e non è mai stata manifestata ai genitori di D. non ha nulla a che vedere con le connessioni per analogia con i precetti della colpa o del dolo penalmente rilevanti. QUI SIAMO NEL CAMPO DELLA IMPUTABILITA’ SOGGETTIVA PER COLPA IN SENSO LATO, e la interpretazione della polizza, del suo oggetto, e della responsabilità secondo buona fede, appartiene ad una quaestio voluntatis che non appare sindacabile in questa sede di legittimità.
IL QUINTO MOTIVO che propone un vizio di motivazione è inammissibile essendo privo del quesito di fatto, riproponendo sotto forma di censura inappropriata in parte le tesi già esposte nei precedenti motivi.
7.2. ACCOGLIMENTO DEL SESTO MOTIVO. Il sesto motivo risulta fondato come error in iudicando, ancorchè sia errato ritenere che si sia formato un giudicato interno sulla parte della liquidazione data, sino al momento della sentenza, come un ristoro equo inclusivo anche dello incerto avvenire.
La CORTE di appello dopo aver dato atto della invalidità pressocchè totale subita da D. sin dal momento della nascita e del dato della irreversibilità di tali gravissime menomazioni, al ff 9 della sentenza accorda alla madre, a decorrere dal fatto e sino alla data della sentenza, un contributo pari a 5000 Euro annue, per la assistenza prestata e la presumibile limitazione della attività lavorativa, mentre nulla può pretendere il marito, che pure è convivente e partecipe, sia per gli affetti che per la solidarietà familiare.
L’ERRORE giuridico compiuto dalla CORTE DI APPELLO attiene alla iniquità dei criteri liquidatori di un danno patrimoniale certo e permanente, posto che la solidarietà familiare come è proseguita sino al tempo del decidere, proseguirà per il resto della vita sino a quando i genitori sopravvivranno. NON può dunque riconoscersi giuridicamente corretta la somma riduttiva liquidata come retribuzione di un danno patrimoniale emergente e da lucro cessante, in una condizione dove l’assistenza al menomato non può essere che continua con sacrifici economici rilevanti, che fanno carico non solo alla madre ma anche la padre, convivente e presente.
La prova del danno economico si desume in via presentiva e secondo un criterio di equità solidale e sociale e non può ricondursi ad un modesto obolo temporaneo. (VEDI tra le ultime CASS 23 APRILE 2013 N. 9779 E 9 MAGGIO 2011 N 10108, E PER IL PRINCIPIO ASSIOMATICO LE SSUU 11 novembre 2008 n.26972).
La Cassazione è con rinvio alla CORTE DI APPELLO DI NAPOLI in diversa composizione, che provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione e provvederà alla liquidazione integrale del danno patrimoniale per il rilevante impegno economico sostenuto dai genitori, considerando e la gravità della invalidità e l’impegno continuo di assistenza ed i sacrifici e le perdite economiche, secondo ragionevoli presunzioni.
P.Q.M.
ACCOGLIE IL SESTO MOTIVO DI RICORSO, rigetta gli altri, cassa e rinvia anche per le spese alla corte di appello di NAPOLI in diversa composizione.
Così deciso in Roma, il 10 marzo 2014.
Depositato in Cancelleria il 22 maggio 2014.
Mancata diagnosi di tumore incurabile: sì a danno da perdita di chances
Cassazione civile , sez. III, sentenza 23.05.2014 n° 11522
La Cassazione torna ad occuparsi di danno da perdita di chances, rilevando che l’omessa diagnosi di un processo morboso terminale, sul quale sia possibile intervenire soltanto con un intervento cosiddetto palliativo, non idoneo a guarire ma quanto meno ad alleviare le sofferenze, può determinare un danno al paziente che nelle more non può fruire nemmeno delle cure palliative e deve sopportare le conseguenze del processo morboso.
Il paziente entra in ospedale per un intervento al ginocchio, niente di particolarmente serio. Prima dell’intervento il chirurgo ortopedico lo sottopone ad una serie di esami di routine. Uno di questi esami è una radiografia toracica, dalla quale si evince la assai probabile presenza di una massa tumorale nei polmoni, tanto che si consigliava di approfondire gli accertamenti mediante una TAC. Purtroppo l’ortopedico procede nel suo lavoro senza tenere minimamente in considerazione la cosa e senza disporre ulteriori indagini.
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atto di citazione per responsabilità medica
responsabilità medica per errata diagnosi
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SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE IV PENALE
Sentenza 12-27 febbraio 2014, n. 9695
(Presidente Brusco – Relatore Iannello)
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 18/10/2012 la Corte d’Appello di Catania, in riforma della sentenza di primo grado, assolveva, per insussistenza del fatto, S.A. dal delitto p. e p. dagli artt. 590, commi 1 e 2, e 583, comma 2 n. 1, cod. pen., a lui ascritto per aver cagionato, per colpa medica consistita nella esecuzione di inappropriata manovra (c.d. manovra di Kristeller) sulla paziente C.F. durante il parto, il distacco intempestivo della placenta e le conseguenti gravissime lesioni riportate dal bambino: fatto avvenuto in (omissis).
Premetteva la Corte doversi dare per acquisito, sulla scorta dell’istruttoria espletata nel giudizio di primo grado, che:
le lesioni gravissime riportate dal bambino sono state direttamente causate da un distacco intempestivo di placenta;
l’imputato ha effettivamente eseguito durante il parto la manovra suddetta, ha cioè esercitato una o più spinte sull’addome della partoriente con la mano prima e poi con il braccio sebbene non risultasse che la testa del bambino avesse già impegnato il canale del parto, e dunque in un momento in cui quella manovra non era consigliabile;
la partoriente non presentava alcuno dei fattori di rischio individuati dalla letteratura medica come possibile causa, in alternativa ad eventi di natura traumatica, del distacco di placenta.
Ciò premesso i giudici d’appello osservavano tuttavia che tale ultima circostanza “determina che la probabilità che si verifichi un distacco intempestivo di placenta si attesta intorno allo 0,5%” e che pertanto “non potendo stabilirsi con un grado di certezza ma soltanto con un elevato grado di probabilità logica che, in difetto di esercizio della pressione sull’addome della partoriente da parte dell’imputato, il distacco di placenta non si sarebbe verificato, non può affermarsi al di là di ogni ragionevole dubbio la responsabilità penale dell’imputato per il reato oggetto di contestazione”.
Pervenivano pertanto alla pronuncia assolutoria per la ritenuta mancanza di prova certa di un nesso di causalità tra la condotta dell’imputato e le lesioni personali gravissime riportate dal bambino.
2. Avverso tale sentenza propongono ricorso per cassazione le parti civili, deducendo violazione di legge e mancanza e contraddittorietà della motivazione.
Deducono in sintesi che, con motivazione erronea e contraddittoria, la Corte d’Appello, pur avendo dato atto della mancanza nel caso concreto di ipotizzabili fattori causali alternativi associati al parto (quali ipertensione in gravidanza, pluriparità, pregresso parto cesareo, rottura prematura della membrana, trombofilia congenita o acquisita, etc.), ha omesso di individuare la condotta dell’imputato (ossia la pur accertata esecuzione di manovra di Kristeller) quale unico possibile antecedente causale dell’evento lesivo.
Rilevano che, a giustificazione del proprio convincimento sul punto, i giudici hanno fatto uso di una erronea nozione di nesso causale, contrastante con quella ormai acquisita in dottrina e giurisprudenza, in particolare a seguito della sentenza Franzese delle Sezioni Unite del 2002.
Considerato in diritto
3. Il ricorso si appalesa fondato e merita accoglimento nei sensi di cui in dispositivo.
Emerge evidente dai passaggi della motivazione sopra riportati l’errore concettuale in cui incorre la corte di merito e la conseguente contraddizione in termini rappresentata dall’esclusione del nesso causale che in realtà proprio in forza degli elementi fattuali dati per certi nella stessa sentenza e dell’elevata probabilità logica assegnata al ragionamento che da essi per via induttiva consentiva di risalire alla spiegazione causale ipotizzata risultava già implicitamente accertato.
È la stessa Corte d’Appello invero a evidenziare, peraltro del tutto correttamente alla stregua delle emergenze processuali di cui si da conto in motivazione, che i fatti accertati consentono di stabilire “con un elevato grado di probabilità logica” che “in difetto di esercizio della pressione sull’addome della partoriente da parte dell’imputato, il distacco di placenta non si sarebbe verificato”.
Ebbene la Corte non si è avveduta che proprio tale rilievo in sé implica l’accertamento del nesso causale tra condotta ed evento richiesto, ai sensi dell’art. 40 cod. pen., per l’affermazione della penale responsabilità dell’imputato, di tal che la successiva considerazione contenuta in sentenza secondo cui, su tali premesse, a tale affermazione non è possibile pervenire (nella pur certa sussistenza dell’elemento soggettivo: colpa medica ravvisabile nella esecuzione della descritta manovra in mancanza delle condizioni che soltanto l’avrebbero consentita), rappresenta nient’altro che una contraddizione in termini.
3.1. In proposito, è il caso di rammentare che, secondo i principi affermati nella sentenza Franzese (Sez. U, n. 30328 del 10/07/2002, Rv. 222138), al fine di stabilire la sussistenza del nesso di causalità, occorre un duplice controllo:
posta in premessa una spiegazione causale dell’evento sulla base di una legge statistica o universale di copertura sufficientemente valida e astrattamente applicabile al caso concreto, occorre successivamente verificare, attraverso un giudizio di alta probabilità logica, l’attendibilità, in concreto, della spiegazione causale così ipotizzata. Bisogna cioè verificare sulla base delle evidenze processuali che, ipotizzandosi come avvenuta l’azione doverosa omessa o al contrario non compiuta la condotta commissiva assunta a causa dell’evento, esclusa l’interferenza di decorsi causali alternativi, l’evento, con elevato grado di credibilità razionale, non si sarebbe verificato, oppure sarebbe avvenuto molto dopo, o avrebbe comunque avuto minore intensità lesiva.
Appare chiaro pertanto che il giudizio di elevata probabilità logica non definisce il nesso causale in sé e per sé (che, sul piano sostanziale, resta invero legato alla rigorosa nozione dettata dalla teoria condizionalistica recepita nel nostro ordinamento dall’art. 40 cod. pen., sia pur temperata dai correttivi della c.d. causalità umana) ma piuttosto il criterio con il quale procedere all’accertamento probatorio di tale nesso causale, il quale (criterio), non diversamente da quanto accade per l’accertamento di ogni altro elemento costitutivo del reato, deve consentire di fondare, all’esito di un completo e attento vaglio critico di tutti gli elementi disponibili, un convincimento sul punto (positivo o negativo che sia) dotato di un elevato grado di credibilità razionale.
Per dirla secondo efficace definizione dottrinale “la probabilità logica alla quale è interessato il giudice non è quella del sapere nomologico utilizzato per la spiegazione del caso, bensì attiene ai profili inferenziali della verifica probatoria condotta in chiave induttiva, cioè alla luce delle emergenze del caso concreto”.
Per converso, e in ciò sta probabilmente l’equivoco in cui è incorsa la corte territoriale, ai fini della prova giudiziaria della causalità, decisivo non è il coefficiente percentuale più o meno elevato (vicino a 100 o a 90 o a 50, etc.) di probabilità frequentistica desumibile dalla legge di copertura utilizzata; ciò che conta è potere ragionevolmente confidare nel fatto che la legge statistica in questione trovi applicazione anche nel caso concreto oggetto di giudizio, stante l’alta probabilità logica che siano da escludere fattori causali alternativi, di tal che, in presenza di un elevato grado di credibilità razionale dell’ipotesi privilegiata, ben può ritenersi consentito per la spiegazione causale dell’evento fare impiego di leggi o criteri probabilistico statistici con coefficienti percentuali anche medio bassi; per contro, ove la valutazione degli elementi di prova acquisiti non consentano di assegnare ad es. per l’impossibilità di escludere ragionevolmente nel caso concreto l’intervento di fattori causali diversi un elevato grado di ‘ credibilità razionale alla spiegazione causale ipotizzata, quest’ultima non può essere affermata anche se riconducibile a leggi di copertura dotate di frequenza statistica tendenzialmente pari a 100.
L’errore della corte territoriale sta dunque nell’aver presupposto che il criterio di elevata probabilità logica, nel quale si sostanza il ragionamento induttivo inferenziale circa la sussistenza del nesso causale (e l’esclusione di altri ipotizzagli fattori) possa o debba esprimersi in termini percentuali e, correlativamente, l’aver riferito ad esso, intendendolo come fattore che osta alla credibilità razionale del risultato cui esso conduce, la percentuale di frequenza statistica assegnata ad altri fattori in astratto ipotizzabili (nel caso concreto la percentuale dello 0,5% che, in mancanza di alcuno dei fattori di rischio individuati dalla letteratura come possibile causa del distacco di placenta, quest’ultimo possa nondimeno verificarsi per cause naturali).
Ed invece, come è stato affermato in dottrina, la probabilità logica “ha come carattere fondamentale (quello) di non ricercare la determinazione quantitativa delle frequenze relative di classi di eventi, ma di razionalizzare l’incertezza relativa all’ipotesi su un fatto riconducendone il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma (o di prova) disponibili in relazione a quell’ipotesi”.
La probabilità logica, dunque, come criterio di giudizio per la ricostruzione del fatto nel caso concreto, è un concetto che non designa una frequenza statistica, ma piuttosto “un rapporto di conferma tra un’ipotesi e gli elementi che ne fondano l’attendibilità”.
Né può essere diversamente, posto che come è stato sottolineato mentre le leggi di copertura riguardano classi di dati, la certezza processuale richiesta si riferisce al caso concreto. Mentre dunque è spesso possibile disporre di un risultato statistico per la legge di copertura che si ritiene governare il fenomeno, è quasi sempre impossibile riferire questo dato al caso concreto da accertare perché la sua non riproducibilità ne fa un evento unico che non tollera inquadramenti statistici su base percentuale.
Insomma le percentuali statistiche possono valere a delimitare l’ambito di applicazione della legge scientifica e possono essere utili come punto di partenza per quanto riguarda l’applicazione della legge al caso concreto. Avendo peraltro esse un’efficacia esclusivamente prognostica, porle a base o a contenuto del ragionamento probatorio circa la sussistenza del nesso causale nel caso concreto rischia di trasformare tale giudizio in una valutazione ex ante, mentre la causalità va sempre accertata ex post con riferimento all’evento concretamente verificatosi.
Con riferimento invece al grado di inferenza probatoria richiesto a supporto del giudizio di fatto sulla spiegazione causale nel caso concreto “non è sensato cristallizzare in precise entità numeriche la probabilità esigibile: la valutazione va piuttosto fatta caso per caso, tenendo conto di tutte le circostanze concrete ed in particolare… considerando il numero e la consistenza delle assunzioni tacite contenute nelle premesse del ragionamento causale”.
Su tale piano probatorio processuale “può solo richiedersi che il grado di conferma sia alto, o elevato”, senza che in ciò possa vedersi un vulnus del principio di legalità, “dovendo la stessa determinatezza delle fattispecie essere interpretata in rapporto al problema concreto da risolvere”.
Del resto, non è fuor di luogo rammentare che non ad altro può tendere un giudizio di verità o certezza processuale, restando invece fuori delle possibilità dell’esperienza umana che è pur sempre una esperienza storica e relativa l’obiettivo della certezza assoluta o verità materiale.
In proposito avvertiva oltre cinquant’anni fa autorevole dottrina che “la pretesa di conseguire una verità totale o assoluta… è fuori delle reali e concrete possibilità umane e può essere concepita o come realtà divina, oppure come estremo limite tendenziale, astratta creazione dell’intelletto o simbolo operativo (come l’infinito matematico). La verità alla quale l’uomo può aspirare e della quale vive, come verità umana, appunto, è di necessità parziale e (o) relativa, concretamente (storicamente) condizionata ed implica limitazioni e scelte, compiute più o meno coscientemente. E dentro tale limite si mantiene sia che si tratti di verità scientifica, empirica o storica”. Conseguentemente “nel campo dell’esperienza giuridica… non ha senso una verità che stia fuori dalle istituzioni giuridiche che la storia umana ha foggiate, e se codesta verità si qualifica giuridica, per essere collegata al tipo di esperienza a cui va riferita, non vuoi dire che si tratti di una (finta) verità, rispetto ad una (astratta) verità (vera), bensì dell’unica verità che si può (e si deve) aspirare a realizzare in quel campo di esperienza. Sulla base di queste considerazioni, è lecito affermare che i limiti posti all’indagine del giudice si traducono in metodi di ricerca (della verità), in altrettanti canoni e precetti tecnici di metodologia ermeneutica…”.
3.2. Alla luce delle considerazioni che precedono appare pertanto evidente come nella specie null’altro o nulla di più poteva pretendersi, per giungere alla conferma, con elevato grado di credibilità razionale, dell’ipotesi causale prospettata nel capo d’imputazione, se non proprio quel giudizio di elevata probabilità logica che la Corte d’appello ha chiaramente espresso e che pertanto di per sé ben poteva portare, a conferma peraltro della sentenza di primo grado, all’affermazione della responsabilità penale dell’imputato.
Né può dubitarsi che tale giudizio di elevato grado di probabilità logica non sia correttamente e coerentemente formato sulla base delle evidenze probatorie che la stessa Corte d’appello pur non manca di evidenziare, quale in particolare:
a) l’accertata genesi ipossica della encefalopatia neonatale che ha colpito il piccolo nato nelle condizioni descritte;
b) l’accertata errata adozione di manovra ostetrica (manovra di Kristeller) in condizioni che non la consentivano, nel senso appunto di renderla estremamente pericolosa per il bambino (in ciò come detto dovendosi ravvisare in dubbio profilo di colpa medica consistita nella grave inosservanza di protocollo medico);
c) l’accertata mancanza di altri ipotizzabili fattori causali, associati alla gravidanza o al parto.
In tale contesto, essendo l’unico antecedente accertato dell’evento dannoso l’esecuzione della detta errata manovra ostetrica, in presenza di una legge di copertura che certamente la indica come idonea a cagionare l’evento in forza di una elevata probabilità statistica, una volta accertata la mancanza nel caso concreto di altri fattori causali noti nella letteratura e ragionevolmente ipotizzabili, congruo e logicamente persuasivo (ossia, per l’appunto, dotato di elevata probabilità logica) è il ragionamento che coordinando tali evidenze e rapportandole alla detta legge di copertura conduce al risultato dell’affermazione (della prova) della responsabilità penale dell’imputato: risultato al quale dunque si addice in tali condizioni il giudizio di elevato grado di credibilità razionale.
Il fatto che la letteratura scientifica dia conto dell’esistenza di una percentuale dello 0,5% di casi in cui il distacco di placenta si riscontri per cause naturali non meglio precisate, distinte dei fattori associati prima indicati (ed esclusi nel caso concreto), non assume rilievo sul piano del ragionamento probatorio e, dunque, della elevata probabilità logica (la quale resterebbe tale anche se mancasse tale dato statistico), ma semmai sul piano della valutazione della validità scientifica della legge indicata a copertura della ipotizzata spiegazione causale.
Appare evidente tuttavia che trattasi di un dato pressoché insignificante e certamente inidoneo a revocare in dubbio la teoria scientifica della spiegazione causale ipotizzata nella specie: ossia quella secondo cui l’evento dannoso sia da ricondurre causalmente alla errata manovra ostetrica, tanto più che non viene nemmeno precisato se il dato statistico (dello 0,5%) riferito a cause non meglio precisate si riferisca anche ad ipotesi in cui risultava eseguita la detta manovra ostetrica.
3.3. Fuori luogo è al riguardo il richiamo al principio dell’oltre il ragionevole dubbio.
Questo infatti segna il limite del ragionamento probatorio, non il requisito di validità della legge scientifica di copertura. Rappresenta nient’altro che, a contrario, la verifica del grado di probabilità logica attribuibile al ragionamento inferenziale con cui il giudice ricollega, sulla base delle prove raccolte, il fatto concreto alla ipotizzata spiegazione causale. Ed invero, intanto tale ragionamento può ritenersi dotato di elevato grado di probabilità logica ed in grado pertanto di supportare il convincimento della sussistenza del nesso causale con “elevato grado di credibilità razionale”, in quanto non permanga un “dubbio ragionevole” (ossia, non meramente congetturale) che l’evento possa essere stato determinato da una causa diversa.
Invocare pertanto il principio dell’oltre il ragionevole dubbio per determinare la validità della legge di copertura, significa confondere il piano processuale con quello sostanziale.
Né ad una diversa conclusione sul punto può indurre la modifica introdotta dall’art. 5 della legge 6 febbraio 2006, n. 46, mediante la sostituzione del comma 1 dell’art. 533 del codice di procedura penale con la disposizione secondo cui “il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato al di là di ogni ragionevole dubbio”.
Secondo l’opinione prevalente in giurisprudenza, tale novella non ha avuto sul punto un reale contenuto innovativo, non avendo introdotto un diverso e più restrittivo criterio di valutazione della prova, essendosi invece limitata a codificare un principio già desumibile dal sistema, in forza del quale il giudice può pronunciare sentenza di condanna solo quando non ha ragionevoli dubbi sulla responsabilità dell’imputato.
La novella, dunque, non avrebbe inciso sulla funzione di controllo del giudice di legittimità che rimarrebbe limitata alla struttura del discorso giustificativo del provvedimento, con l’impossibilità di procedere alla rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della sentenza e dunque di adottare autonomamente nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (v., in tal senso, tra le ultime pronunce, Sez. 5, n. 10411 del 28/01/2013, Viola, Rv. 254579, la quale ha precisato, in senso evidentemente conforme all’impostazione sopra accolta, che tale regola di giudizio impone al giudice di giungere alla condanna solo se è possibile escludere ipotesi alternative dotate di razionalità e plausibilità; cfr. anche in tal senso Sez. 1, n. 41110 del 24/10/2011, Javad, Rv. 251507).
4. In accoglimento del ricorso, deve pertanto pervenirsi all’annullamento della sentenza impugnata.
Trattandosi tuttavia di ricorso della sola parte civile e quindi di controversia di natura esclusivamente risarcitoria, si impone il rinvio degli atti al competente giudice civile, ai sensi dell’art. 622 cod. proc. pen.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello.
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SEZIONI UNITE PENALI
Sentenza 10 luglio 2002 – 11 settembre 2002 n. 30328
(Presidente N. Marvulli – Relatore G. Canzio) Ritenuto in fatto
1.- Il Pretore di Napoli con sentenza del 28.4.1999 dichiarava il dott. S. F. colpevole del reato di omicidio colposo (per avere, in qualità di responsabile della XVI divisione di chirurgia dell’ospedale (omissis) – dove era stato ricoverato dal 9 al 17 aprile 1993 P. C., dopo avere subito il 5 aprile un intervento chirurgico d’urgenza per perforazione ileale -, determinato l’insorgere di una sepsi addominale da ‘clostridium septicum’ che cagionava il 22 aprile la morte del paziente) e, con le attenuanti generiche, lo condannava alla pena di mesi otto di reclusione, oltre il risarcimento del danno a favore della parte civile da liquidarsi in separato giudizio, alla quale assegnava a titolo di provvisionale la somma di lire 70.000.000. Il giudice di primo grado, all’esito di un’attenta ricostruzione della storia clinica del C., riteneva fondata l’ipotesi accusatoria, secondo cui l’imputato non aveva compiuto durante il periodo di ricovero del paziente una corretta diagnosi né praticato appropriate cure, omettendo per negligenza e imperizia di valutare i risultati degli esami ematologici, che avevano evidenziato una marcata neutropenia ed un grave stato di immunodeficienza, e di curare l’allarmante granulocitopenia con terapie mirate alla copertura degli anaerobi a livello intestinale, autorizzando anzi l’ingiustificata dimissione del paziente giudicato ‘in via di guarigione chirurgica’. Diagnosi e cura che, se doverosamente realizzate, sarebbero invece state, secondo i consulenti medico-legali e gli autorevoli pareri della letteratura scientifica in materia, idonee ad evitare la progressiva evoluzione della patologia infettiva letale ‘con alto grado di probabilità logica o credibilità razionale’. La Corte di appello di Napoli con sentenza del 14.6.2000 confermava quella di primo grado, ribadendo che il dott. F., in base ai dati scientifici acquisiti, si era reso responsabile di omissioni che “… sicuramente contribuirono a portare a morte il C. …”, sottolineando che “… se si fosse indagato sulle cause della neutropenia e provveduto a prescrivere adeguata terapia per far risalire i valori dei neutrofili, le probabilità di sopravvivenza del C. sarebbero certamente aumentate …” ed aggiungendo che era comunque addebitabile allo stesso la decisione di dimettere un paziente che “… per le sue condizioni versava invece in quel momento in una situazione di notevole pericolo …”. 2.- Avverso tale decisione hanno proposto ricorso per Cassazione i difensori dell’imputato deducendo: - violazione di legge, in relazione agli artt. 135, 137, 138 e 142 c.p.p., per asserita nullità di alcuni verbali stenotipici di udienza privi di sottoscrizione del pubblico ufficiale che li aveva redatti; - violazione di legge, in relazione agli arti 192, 546, 530 c.p.p. e 40, 41, 589 c.p., e manifesta illogicità della motivazione quanto all’affermazione di responsabilità, poiché non erano state dimostrate la direzione del reparto ospedaliero e la posizione di garante in capo all’imputato, né, in particolare, l’effettiva causalità delle addebitate omissioni di diagnosi e cura e della disposta dimissione del paziente rispetto alla morte di quest’ultimo, in difetto di reali complicanze del decorso post-operatorio e in assenza di dati precisi sulla patologia di base della perforazione dell’ileo e sull’insorgere della sindrome infettiva da clostridium septicum , rilevandosi altresì che, per il mancato esperimento dell’esame autoptico, non era certo né altamente probabile, alla stregua di criteri scientifici o statistici, che gli ipotetici interventi medici, asseritamente omessi, sarebbero stati idonei ad impedire lo sviluppo dell’infezione letale e ad assicurare la sopravvivenza del C., - violazione degli artt. 546 e 603 c.p.p. e mancanza di motivazione in ordine alla richiesta difensiva di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale mediante perizia medico-legale sul nesso di causalità; - violazione degli artt. 546 c.p.p. e 133 c.p. per omesso esame del motivo di appello relativo alla richiesta riduzione della pena. Con successiva memoria difensiva il ricorrente ha dedotto altresì la sopravvenuta estinzione del reato per prescrizione. 3.- La Quarta Sezione della Corte di Cassazione, con ordinanza del 7.2.-16.4.2002, premesso che, nonostante l’intervenuta estinzione del reato per prescrizione, permaneva l’attualità della decisione sul ricorso, agli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza di condanna concernenti gli interessi civili, rimetteva il ricorso alle Sezioni Unite sul rilievo dell’esistenza di un ormai radicale contrasto interpretativo, formatosi all’interno della stessa Sezione, in ordine alla ricostruzione del nesso causale tra condotta omissiva ed evento, con particolare riguardo alla materia della responsabilità professionale del medico-chirurgo. Al più recente orientamento, secondo il quale é richiesta la prova che un diverso comportamento dell’agente avrebbe impedito l’evento con un elevato grado di probabilità ‘prossimo alla certezza’, e cioè in una percentuale di casi ‘quasi prossima a cento’, si contrappone l’indirizzo maggioritario, che ritiene sufficienti ‘serie ed apprezzabili probabilità di successo’ per l’impedimento dell’evento. Il Primo Presidente con decreto del 26.4.2002 ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite fissando per la trattazione l’odierna udienza pubblica.
Considerato in diritto
1.- Il problema centrale del processo, sollevato sia dal ricorrente che dalla Sezione remittente, ha per oggetto l’esistenza del rapporto causale fra la condotta (prevalentemente omissiva) addebitata all’imputato e l’evento morte del paziente e, di conseguenza, la correttezza logico-giuridica della soluzione ad esso data dai giudici di merito. E’ stata sottoposta all’esame delle Sezioni Unite la controversa questione se “in tema di reato colposo omissivo improprio, la sussistenza del nesso di causalità fra condotta omissiva ed evento, con particolare riguardo alla materia della responsabilità professionale del medicochirurgo, debba essere ricondotta all’accertamento che con il comportamento dovuto ed omesso l’evento sarebbe stato impedito con elevato grado di probabilità ‘vicino alla certezza’, e cioè in una percentuale di casi ‘quasi prossima a cento’, ovvero siano sufficienti, a tal fine, soltanto ‘serie ed apprezzabili probabilità di successo’ della condotta che avrebbe potuto impedire l’evento”. Sul tema si sono delineati due indirizzi interpretativi all’interno della Quarta Sezione della Corte di Cassazione: al primo orientamento, tradizionale e maggioritario (ex plurimis, Sez. IV, 7.1.1983, Melis, rv. 158947; 2.4.1987, Ziliotto, rv. 176402; 7.3.1989, Prinzivalli, rv. 181334; 23.1.1990, Pasolini, rv. 184561; 13.6.1990, D’Erme, rv. 185106; 18.10.1990, Oria, rv. 185858; 12.7.1991, Silvestri, rv. 188921; 23.3.1993, De Donato, rv. 195169; 30.4.1993, De Giovanni, rv. 195482; 11.11.1994, Presta, rv. 201554), che ritiene sufficienti ‘serie ed apprezzabili probabilità di successo’ per l’azione impeditiva dell’evento, anche se limitate e con ridotti coefficienti di probabilità, talora indicati in misura addirittura inferiore al 50%, si contrappone l’altro, più recente, per il quale é richiesta la prova che il comportamento alternativo dell’agente avrebbe impedito l’evento lesivo con un elevato grado di probabilità ‘prossimo alla certezza’, e cioè in una percentuale di casi ‘quasi prossima a cento’ (Sez. IV, 28.9.2000, Baltrocchi, rv. 218777; 29.9.2000, Musto; 25.9.2001, Covili, rv. 220953; 25.9.2001, Sgarbi, rv. 220982; 28.11.2000, Di Cintio, rv. 218727). Ritiene il Collegio che, per pervenire ad una soluzione equilibrata del quesito, sia necessario procedere, in via prioritaria, ad una ricognizione dello statuto della causalità penalmente rilevante, con particolare riguardo alla categoria dei reati omissivi impropri ed allo specifico settore dell’attività medico-chirurgica. 2.- Nell’ambito della scienza giuridica penalistica può dirsi assolutamente dominante l’interpretazione che, nella lettura degli artt. 40 e 41 del codice penale sul rapporto di causalità e sul concorso di cause, fa leva sulla ‘teoria condizionalistica’ o della ‘equivalenza delle cause’ (temperata, ma in realtà ribadita mediante il riferimento, speculare e in negativo, alla ‘causalità umana’ quanto alle serie causali sopravvenute, autonome e indipendenti, da sole sufficienti a determinare l’evento: art. 41 comma 2). E’ dunque causa penalmente rilevante (ma il principio stabilito dal codice penale si applica anche nel distinto settore della responsabilità civile, a differenza. di quanto avviene per il diritto anglosassone e nordamericano) la condotta umana, attiva o omissiva che si pone come condizione ‘necessaria’ – conditio sine qua non – nella catena degli antecedenti che hanno concorso a produrre il risultato, senza la quale l’evento da cui dipende l’esistenza del reato non si sarebbe verificato. La verifica della causalità postula il ricorso al ‘giudizio controfattuale’, articolato sul condizionale congiuntivo ‘se … allora …’ (nella forma di un periodo ipotetico dell’irrealtà, in cui il fatto enunciato nella protasi è contrario ad un fatto conosciuto come vero) e costruito secondo la tradizionale ‘doppia formula’, nel senso che: a) la condotta umana `è’ condizione necessaria dell’evento se, eliminata mentalmente dal novero dei fatti realmente accaduti, l’evento non si sarebbe verificato; b) la condotta umana ‘non è’ condizione necessaria dell’evento se, eliminata mentalmente mediante il medesimo procedimento, l’evento si sarebbe egualmente verificato. Ma, ferma restando la struttura ipotetica della spiegazione causale, secondo il paradigma condizionalistico e lo strumento logico dell’astrazione contro il fatto, sia in dottrina che nelle più lucide e argomentate sentenze della giurisprudenza di legittimità, pronunciate in riferimento a fattispecie di notevole complessità per la pluralità e l’incertezza delle ipotesi esplicative dell’evento lesivo (Sez. IV, 24.6.1986, Ponte, rv. 174511-512; Sez. N, 6.12.1990, Bonetti, rv. 191788; Sez. IV, 31.10.1991, Rezza, rv. 191810; Sez. IV, 27.5.1993, Rech, rv. 196425; Sez. IV, 26.1.1998, P.G. in proc. Viviani, rv. 211847), si è osservato che, in tanto può affermarsi che, operata l’eliminazione mentale dell’antecedente costituito dalla condotta umana, il risultato non si sarebbe o si sarebbe comunque prodotto, in quanto si sappia, ‘già da prima’, che da una determinata condotta scaturisca, o non, un determinato evento. E la spiegazione causale dell’evento verificatosi hic et nunc, nella sua unicità ed irripetibilità, può essere dettata dall’esperienza tratta da attendibili risultati di generalizzazione del senso comune, ovvero facendo ricorso (non alla ricerca caso per caso, alimentata da opinabili certezze o da arbitrarie intuizioni individuali, bensì) al modello generalizzante della sussunzione del singolo evento, opportunamente ri-descritto nelle sue modalità tipiche e ripetibili, sotto ‘leggi scientifiche’ esplicative dei fenomeni. Di talché, un antecedente può essere configurato come condizione necessaria solo se esso rientri nel novero di quelli che, sulla base di una successione regolare conforme ad una generalizzata regola di esperienza o ad una legge dotata di validità scientifica – ‘legge di copertura’ -, frutto della migliore scienza ed esperienza del momento storico, conducano ad eventi ‘del tipo’ di quello verificatosi in concreto. Il sapere scientifico accessibile al giudice è costituito, a sua volta, sia da leggi `universali’ (invero assai rare), che asseriscono nella successione di determinati eventi invariabili regolarità senza eccezioni, sia da leggi `statistiche’ che si limitano ad affermare che il verificarsi di un evento è accompagnato dal verificarsi di un altro evento in una certa percentuale di casi e con una frequenza relativa, con la conseguenza che quest’ultime (ampiamente diffuse nei settori delle scienze naturali, quali la biologia, la medicina e la chimica) sono tanto più dotate di ‘alto grado di credibilità razionale’ o ‘probabilità logica’, quanto più trovano applicazione in un numero sufficientemente elevato di casi e ricevono conferma mediante il ricorso a metodi di prova razionali ed empiricamente controllabili. Si avverte infine che, per accertare l’esistenza della condizione necessaria secondo il modello della sussunzione sotto leggi scientifiche, il giudice, dopo avere ri-descritto il singolo evento nelle modalità tipiche e ripetibili dell’accadimento lesivo, deve necessariamente ricorrere ad una serie di ‘assunzioni tacite’ e presupporre come presenti determinate ‘condizioni iniziali’, non conosciute o soltanto congetturate, sulla base delle quali, ‘ceteris paribus’, mantiene validità l’impiego della legge stessa. 3.- La definizione di causa penalmente rilevante ha trovato coerenti conferme anche nelle più recenti acquisizioni giurisprudenziali (Sez. fer., 1.9.1998, Casaccio, rv. 211526; Sez. IV, 28.9.2000, Baltrocchi, cit.; 29.9.2000, Musto, cit.; 25.9.2001, Covili, cit.; 25.9.2001, Sgarbi, cit.; 20.11.2001, Turco; 28.11.2000, Di Cintio, cit.; 8.1.2002, Trunfio; 23.1.2002, Orlando), le quali, nel recepire l’enunciata struttura logica della spiegazione causale, ne hanno efficacemente valorizzato la natura di elemento costitutivo della fattispecie di reato e la funzione di criterio di imputazione dell’evento lesivo. Dello schema condizionalistico integrato dal criterio di sussunzione sotto leggi scientifiche sono state sottolineate, da un lato, la portata tipizzante, in ossequio alle garanzie costituzionali di legalità e tassatività delle fonti di responsabilità penale e di personalità della stessa (Cost., artt. 25, comma 2 e 27, comma 1), e dall’altro, nell’ambito delle fattispecie causalmente orientate, la funzione selettiva delle condotte rilevanti e per ciò delimitativa dell’area dell’illecito penale. In questo senso, nonostante i limiti epistemologici dello statuto della causalità nel rapporto fra eventi svelati dalla fisica contemporanea e le critiche di avversa dottrina, la persistente fedeltà della prevalente scienza giuridica penalistica al classico paradigma condizionalistico (v. lo Schema Pagliaro del 1992 di delega per un nuovo codice penale, sub art. 10, ma soprattutto l’articolata elaborazione del Progetto Grosso del 2001 di riforma della parte generale del codice penale, sub artt. 13 e 14) non solo appare coerente con l’assetto normativo dell’ordinamento positivo, ma rappresenta altresì un momento irrinunciabile di garanzia per l’individuazione della responsabilità nelle fattispecie orientate verso la produzione di un evento lesivo. Il ricorso a generalizzazioni scientificamente valide consente infatti di ancorare il giudizio controfattuale, altrimenti insidiato da ampi margini di discrezionalità e di indeterminatezza, a parametri oggettivi in grado di esprimere effettive potenzialità esplicative della condizione necessaria, anche per i più complessi sviluppi causali dei fenomeni naturali, fisici, chimici o biologici. E non è privo di significato che dalla quasi generalità dei sistemi giuridici penali europei (‘conditio sine qua non’) e dei paesi anglosassoni (‘causa but for’) siano condivise le ragioni di determinatezza e legalità delle fattispecie di reato che il modello condizionalistico della spiegazione dell’evento garantisce, in considerazione della funzione ascrittiva dell’imputazione causale. 4.- Nel prendere atto che nel caso in esame si verte in una fattispecie di causalità (prevalentemente) omissiva attinente all’attività medico-chirurgica, è da porre in evidenza innanzi tutto l’essenza normativa del concetto di `omissione’, che postula una relazione con un modello alternativo di comportamento attivo, specifico e imposto dall’ordinamento. Il ‘reato omissivo improprio’ o ‘commissivo mediante omissione’, che è realizzato da chi viola gli speciali doveri collegati alla posizione di garanzia non impedendo il verificarsi dell’evento, presenta una spiccata autonomia dogmatica, scaturendo esso dall’innesto della clausola generale di equivalenza causale stabilita dall’art. 40, comma 2, cod. pen. sulle disposizioni di parte speciale che prevedono le ipotesi-base di reato commissivo orientate verso la produzione di un evento lesivo, suscettive così di essere convertite in corrispondenti ipotesi omissive: autonomia che, per l’effetto estensivo dell’area della punibilità, pone indubbi problemi di legalità e determinatezza della fattispecie criminosa. Ma la presenza nei reati omissivi impropri, accanto all’equivalente normativo della causalità, di un ulteriore, forte, nucleo normativo, relativo sia alla posizione di garanzia che agli specifici doveri di diligenza, la cui inosservanza fonda la colpa dell’agente, tende ad agevolare una prevaricazione di questi elementi rispetto all’ordinaria sequenza che deve muovere dalla spiegazione del nesso eziologico. Di talché, con particolare riferimento ai settori delle attività medico-chirurgiche, delle malattie professionali, delle alterazioni ambientali e del danno da prodotto, dall’erosione del paradigma causale nell’omissione, asseritamente motivata con l’incertezza costitutiva e con i profili altamente ipotetici della condizionalità, a fronte della pluralità e inconoscibilità dei fattori interagenti, trae alimento la teoria della ‘imputazione oggettiva dell’evento’. Questa é caratterizzata dal riferimento alla sufficiente efficacia esplicativa del fenomeno offerta dalla mera ‘possibilità’ o anche da inadeguati coefficienti di probabilità salvifica del comportamento doveroso, espressa in termini di ‘aumento – o mancata diminuzione – del rischio’ di lesione del bene protetto o di diminuzione delle chances di salvezza del medesimo bene (vita, incolumità fisica, salute, ambiente), di cui si esalta lo spessore primario e rilevante. Pure in assenza, cioè, dell’accertamento rigoroso che, qualora si fosse tenuta da parte dell’agente la condotta doverosa e diligente (ad esempio, in materia di responsabilità medica: diagnosi corretta, terapia adeguata e intervento tempestivo), il singolo evento di danno non si sarebbe verificato o si sarebbe comunque verificato, ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva. Orbene, la più recente e citata giurisprudenza di legittimità ha reagito a questa riduttiva lettura della causalità omissiva ed ha segnato una netta evoluzione interpretativa – che le Sezioni Unite condividono -, soprattutto nel settore dell’attività medico-chirurgica (Sez. fer., Casaccio; Sez. IV, Baltrocchi, Musto, Di Cintio, Turco, Trunfio, Orlando), delle malattie professionali (Sez. IV, Covili) e degli infortuni sul lavoro (Sez. IV, Sgarbi), convenendo che anche per i reati omissivi impropri resta valido il descritto paradigma unitario di imputazione dell’evento. Pur dandosi atto della peculiarità concettuale dell’omissione (è tuttora controversa la natura reale o meramente normativa dell’efficienza condizionante di un fattore statico negli sviluppi della catena causale), si osserva che lo statuto logico del rapporto di causalità rimane sempre quello del ‘condizionale controfattuale’, la cui formula dovrà rispondere al quesito se, mentalmente eliminato il mancato compimento dell’azione doverosa e sostituito alla componente statica un ipotetico processo dinamico corrispondente al comportamento doveroso, supposto come realizzato, il singolo evento lesivo, hic et nunc verificatosi, sarebbe, o non, venuto meno, mediante un enunciato esplicativo `coperto’ dal sapere scientifico del tempo. Considerato che anche la spiegazione della causalità attiva ricorre a controfattuali ipotetici, il citato indirizzo interpretativo ha dunque ridimensionato la tesi per la quale la verifica giudiziale della condizionalità necessaria dell’omissione pretenderebbe un grado di `certezza’ meno rigoroso rispetto ai comuni canoni richiesti per la condotta propria dei reati commissivi, osservando anzi che l’affievolimento della nozione di causa penalmente rilevante finisce per l’accentuare nei reati omissivi impropri, pur positivamente costruiti in riferimento a ipotesi-base di reati di danno, il disvalore della condotta, rispetto alla quale l’evento degrada a mera condizione obiettiva di punibilità e il reato di danno a reato di pericolo. Con grave violazione dei principi di legalità, tassatività e tipicità della fattispecie criminosa e della garanzia di responsabilità personale (Cost., art. 25, comma 2 e 27, comma 1), per essere attribuito all’agente come fatto proprio un evento `forse’, non `certamente’, cagionato dal suo comportamento. 5.- Superato quell’orientamento che si sostanzia in pratica nella `volatilizzazione’ del nesso eziologico, il contrasto giurisprudenziale segnalato dalla Sezione remittente verte, a ben vedere, sui criteri di determinazione e di apprezzamento del valore probabilistico della spiegazione causale, domandandosi, con particolare riferimento ai delitti omissivi impropri nell’esercizio dell’attività medico-churgica, quale sia il grado di probabilità richiesto quanto all’efficacia impeditiva e salvifica del comportamento alternativo, omesso ma supposto come realizzato, rispetto al singolo evento lesivo. Non é messo dunque in crisi lo statuto condizionalistico e nomologico della causalità, bensì la sua concreta verificabilità processuale: ciò in quanto i confini della ‘elevata o alta credibilità razionale’ del condizionamento necessario, postulata dal modello di sussunzione sotto leggi scientifiche, non sono affatto definiti dalla medesima legge di copertura. Dalle prassi giurisprudenziali nel settore indicato emerge che il giudice impiega largamente, spesso tacitamente, generalizzazioni del senso comune, massime d’esperienza, enunciati di leggi biologiche, chimiche o neurologiche di natura statistica ed anche la più accreditata letteratura scientifica del momento storico. Di talché, secondo un primo indirizzo interpretativo, le accentuate difficoltà probatorie, il valore meramente probabilistico della spiegazione e il paventato deficit di efficacia esplicativa del classico paradigma, quando si tratti di verificare profili omissivi e strettamente ipotetici del decorso causale, legittimerebbero un affievolimento dell’obbligo del giudice di pervenire ad un accertamento rigoroso della causalità. In considerazione del valore primario del bene giuridico protetto in materia di trattamenti terapeutici e chirurgici, dovrebbe pertanto riconoscersi appagante valenza persuasiva a ‘serie ed apprezzabili probabilità di successo’ (anche se `limitate’ e con ridotti coefficienti, talora indicati in misura addirittura inferiore al 50%) dell’ipotetico comportamento doveroso, omesso ma supposto mentalmente come realizzato, sull’assunto che ‘quando è in gioco la vita umana anche poche probabilità di sopravvivenza rendono necessario l’interverto del medico’. Le Sezioni Unite non condividono questa. soluzione, pure rappresentativa del tradizionale, ormai ventennale e prevalente orientamento della Sezione Quarta (cfr. ex plurimis, almeno a partire da Sez. IV, 7.1.1983, Melis, le citate sentenze Ziliotto, Prinzivalli, Pasolini, D’Erme, Oria, Silvestri, De Donato, De Giovanni, Presta) poiché, com’è stato sottolineato dall’opposto, più recente e menzionato indirizzo giurisprudenziale (Sez. fer., Casaccio; Sez. IV, Baltrocchi, Musto, Di Cintio, Covili, Sgarbi, Turco, Trunfio, Orlando), con la tralaticia formula delle ‘serie ed apprezzabili probabilità di successo’ dell’ipotetico intervento salvifico del medico si finisce per esprimere coefficienti di `probabilità’ indeterminati, mutevoli, manipolabili dall’interprete, talora attestati su standard davvero esigui: così sovrapponendosi aspetti deontologici e di colpa professionale per violazione del principio di precauzione a scelte politico-legislative dettate in funzione degli scopi della repressione penale ed al problema, strutturalmente distinto, dell’accertamento degli elementi costitutivi della fattispecie criminosa tipica. Né va sottaciuto che dall’esame della giurisprudenza di settore emerge che in non pochi casi, sebbene qualificati in termini di causalità omissiva per mancato impedimento dell’evento, non si è tuttavia in presenza di effettive, radicali, omissioni da parte del medico. Infatti, talora si verte in tema di condotte commissive colpose, connotate da gravi errori di diagnosi e terapia, produttive di per sé dell’evento lesivo, che è per ciò sicuramente attribuibile al soggetto come fatto proprio; altre volte trattasi di condotte eterogenee e interagenti, in parte attive e in parte omissive per la mancata attivazione di condizioni negative o impeditive. Ipotesi queste per le quali, nella ricostruzione del fatto lesivo e nell’indagine controfattuale sull’evitabilità dell’evento, la giurisprudenza spesso confonde la componente omissiva dell’inosservanza delle regole cautelari, attinente ai profili di `colpa’ del garante, rispetto all’ambito – invero prioritario della spiegazione e dell’imputazione causale. 6.- E’ stato acutamente osservato in dottrina che il processo tende con le sue regole ad esercitare un potenziale dominio sulle categorie del diritto sostantivo e che la laboriosità del procedimento di ricostruzione probatoria della tipicità dell’elemento oggettivo del reato coinvolge la tenuta sostanziale dell’istituto, oggetto della prova, scardinandone le caratteristiche dogmatiche e insidiando la tipicità della fattispecie criminosa. Ma pretese difficoltà di prova, ad avviso delle Sezioni Unite, non possono mai legittimare un’attenuazione del rigore nell’accertamento del nesso di condizionamento necessario e, con essa, una nozione `debole’ della causalità che, collocandosi ancora sul terreno della teoria, ripudiata dal vigente sistema penale; dell’ ‘aumento del rischio’, finirebbe per comportare un’abnorme espansione della responsabilità per omesso impedimento dell’evento, in violazione dei principi di legalità e tassatività della fattispecie e della garanzia di responsabilità per fatto proprio. Deve tuttavia riconoscersi che la definizione del concetto di causa penalmente rilevante si rivela significativamente debitrice nei confronti del momento di accertamento processuale, il quale resta decisivo per la decodificazione, nei termini effettuali, dei decorsi causali rispetto al singolo evento, soprattutto in presenza dei complessi fenomeni di ‘causazione multipla’ legati al moderno sviluppo delle attività. Il processo penale, passaggio cruciale ed obbligato della conoscenza giudiziale del fatto di reato, appare invero sorretto da ragionamenti probatori di tipo prevalentemente inferenziale-induttivo che partono dal fatto storico copiosamente caratterizzato nel suo concreto verificarsi (e dalla formulazione della più probabile ipotesi ricostruttiva di esso secondo lo schema argomentativo dell’ ‘abduzione’), rispetto ai quali i dati informativi e giustificativi della conclusione non sono contenuti per intero nelle premesse, dipendendo essi, a differenza dell’argomento `deduttivo’, da ulteriori elementi conoscitivi estranei alle premesse stesse. D’altra parte, lo stesso modello condizionalistico orientato secondo leggi scientifiche sottintende il distacco da una spiegazione di tipo puramente deduttivo, che implicherebbe un’impossibile conoscenza di tutti gli antecedenti sinergicamente inseriti nella catena causale e di tutte le leggi pertinenti da parte del giudice, il quale ricorre invece, nella premessa minore del ragionamento, ad una serie di ‘assunzioni tacite’, presupponendo come presenti determinate ‘condizioni iniziali’ e ‘di contorno’, spazialmente contigue e temporalmente continue, non conosciute o soltanto congetturate, sulla base delle quali, ‘ceteris paribus’, mantiene validità l’ impiego della legge stessa. E, poiché il giudice non può conoscere tutte le fasi intermedie attraverso le quali la causa produce il suo effetto, né procedere ad una spiegazione fondata su una serie continua di eventi, l’ipotesi ricostruttiva formulata in partenza sul nesso di condizionamento tra condotta umana e singolo evento potrà essere riconosciuta fondata soltanto con una quantità di precisazioni e purché sia ragionevolmente da escludere l’intervento di un diverso ed alternativo decorso causale. Di talché, ove si ripudiasse la natura preminentemente induttiva dell’accertamento in giudizio e si pretendesse comunque una spiegazione causale di tipo deterministico e nomologico-deduttivo, secondo criteri di utopistica ‘certezza assoluta’, si finirebbe col frustrare gli scopi preventivo-repressivi del diritto e del processo penale in settori nevralgici per la tutela di beni primari. Tutto ciò significa che il giudice, pur dovendo accertare ex post, inferendo dalle suddette generalizzazioni causali e sulla base dell’intera evidenza probatoria disponibile, che la condotta dell’agente ‘è’ (non ‘può essere’) condizione necessaria del singolo evento lesivo, è impegnato nell’operazione ermeneutica alla stregua dei comuni canoni di ‘certezza processuale’, conducenti conclusivamente, all’esito del ragionamento probatorio di tipo largamente induttivo, ad un giudizio di responsabilità caratterizzato da ‘alto grado di credibilità razionale’ o ‘conferma’ dell’ipotesi formulata sullo specifico fatto da provare: giudizio enunciato dalla giurisprudenza anche in termini di ‘elevata probabilità logica’ o ‘probabilità prossima alla – confinante con la certezza’. 7.- Orbene, il modello nomologico può assolvere nel processo penale allo scopo esplicativo della causalità omissiva tanto meglio quanto più è alto il grado di probabilità di cui l’explanans è portatore, ma non è sostenibile che si elevino a schemi di spiegazione del condizionamento necessario solo le leggi scientifiche universali e quelle statistiche che esprimano un coefficiente probabilistico ‘prossimo ad 1’, cioè alla ‘certezza’, quanto all’efficacia impeditiva della prestazione doverosa e omessa. rispetto al singolo evento. Soprattutto in contesti, come quello della medicina biologica e clinica, cui non appartengono per definizione parametri di correlazione dotati di tale valore per la complessa rete degli antecedenti già in fieri, sui quali s’innesta la condotta omissiva del medico, per la dubbia decifrabilità di tutti gli anelli della catena ezio-patogenetica dei fenomeni morbosi e, di conseguenza, per le obiettive difficoltà della diagnosi differenziale, che costruisce il nodo nevralgico della criteriologia medico-legale in tema di rapporto di causalità. E’ indubbio che coefficienti medio-bassi di probabilità cal. frequentista per tipi di evento, rivelati dalla legge statistica (e ancor più da generalizzazioni empiriche del senso comune o da rilevazioni epidemiologiche), impongano verifiche attente e puntuali sia della fondatezza scientifica che della specifica applicabilità nella fattispecie concreta. Ma nulla esclude che anch’essi, se corroborati dal positivo riscontro probatorio, condotto secondo le cadenze tipiche della più aggiornata criteriologia medico-legale, circa la sicura non incidenza nel caso di specie di altri fattori interagenti in via alternativa, possano essere utilizzati per il riconoscimento giudiziale del necessario nesso di condizionamento. Viceversa, livelli elevati di probabilità statistica o schemi interpretativi dedotti da leggi di carattere universale (invero assai rare nel settore in esame), pur configurando un rapporto di successione tra eventi rilevato con regolarità o in numero percentualmente alto di casi, pretendono sempre che il giudice ne accerti il valore eziologico effettivo, insieme con l’ irrilevanza nel caso concreto di spiegazioni diverse, controllandone quindi 1′ `attendibilità’ in riferimento al singolo evento e all’evidenza disponibile. 8.- In definitiva, con il termine ‘alta o elevata credibilità razionale’ dell’accertamento giudiziale, non s’intende fare riferimento al parametro nomologico utilizzato per la copertura della spiegazione, indicante una mera relazione quantitativa entro generi di eventi ripetibili e inerente come tale alla struttura interna del rapporto di causalità, bensì ai profili inferenziali della verifica probatoria di quel nesso rispetto all’evidenza disponibile e alle circostanze del caso concreto: non essendo consentito dedurre automaticamente – e proporzionalmente – dal coefficiente di probabilità statistica espresso dalla legge la conferma dell’ipotesi sull’esistenza del rapporto di causalità. La moderna dottrina che ha approfondito la teoria della prova dei fatti giuridici ha infatti precisato che; mentre la ‘probabilità statistica’ attiene alla verifica empirica circa la misura della frequenza relativa nella successione degli eventi (strumento utile e talora decisivo ai fini dell’indagine causale), la ‘probabilità logica’, seguendo l’incedere induttivo del ragionamento probatorio per stabilire il grado di conferma dell’ipotesi formulata in ordine allo specifico fatto da provare, contiene la verifica aggiuntiva, sulla base dell’intera evidenza disponibile, dell’attendibilità dell’impiego della legge statistica per il singolo evento e della persuasiva e razionale credibilità dell’accertamento giudiziale (in tal senso, cfr. anche Cass., Sez. IV, 5.10.1999, Hariolf, rv. 216219; 30.3.2000, Camposano, rv. 219426; 15.11.2001, Puddu; 23.1.2002, Orlando, cit.). Si osserva in proposito che, se nelle scienze naturali la spiegazione statistica presenta spesso un carattere quantitativo, per le scienze sociali come il diritto – ove il relatum è costituito da un comportamento umano – appare, per contro, inadeguato esprimere il grado di corroborazione dell’explanandum e il risultato della stima probabilistica mediante cristallizzati coefficienti numerici, piuttosto che enunciare gli stessi in termini qualitativi. Partendo dunque dallo specifico punto di vista che interessa il giurista, le Sezioni Unite, nel condividere le argomentate riflessioni del P.G. requirente, ritengono, con particolare riguardo ai decorsi causali ipotetici, complessi o alternativi, che rimane compito ineludibile del diritto e della conoscenza giudiziale stabilire se la postulata connessione nomologica, che forma la base per il libero convincimento del giudice, ma non esaurisce di per se stessa la verifica esplicativa del fenomeno, sia effettivamente pertinente e debba considerarsi razionalmente credibile, sì da attingere quel risultato di ‘certezza processuale’ che, all’esito del ragionamento probatorio, sia in grado di giustificare la logica conclusione che, tenendosi l’azione doverosa omessa, il singolo evento lesivo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe inevitabilmente verificato, ma (nel quando) in epoca significativamente posteriore o (per come) con minore intensità lesiva. D’altra parte, poiché la condizione ‘necessaria’ si configura come requisito oggettivo della fattispecie criminosa, non possono non valere per essa gli identici criteri di accertamento e di rigore dimostrativo che il giudizio penale riserva a tutti gli elementi costitutivi del fatto di reato. Il procedimento logico, invero non dissimile dalla sequenza del ragionamento inferenziale dettato in tema di prova indiziaria dall’art. 192 comma 2 c.p.p. (il cui nucleo essenziale è già racchiuso, peraltro, nella regola stabilita per la valutazione della prova in generale dal primo comma della medesima disposizione, nonché in quella della doverosa ponderazione delle ipotesi antagoniste prescritta dall’art. 546, comma 1 lett. e c.p.p.), deve condurre, perché sia valorizzata la funzione ascrittiva dell’imputazione causale, alla conclusione caratterizzata da un ‘alto grado di credibilità razionale’, quindi alla ‘certezza processuale’, che, esclusa l’interferenza di decorsi alternativi, la condotta omissiva dell’imputato, alla luce della cornice nomologica e dei dati ontologici, è stata condizione ‘necessaria’ dell’evento, attribuibile per ciò all’agente come fatto proprio. Ex adverso, l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza probatoria, quindi il plausibile e ragionevole dubbio, fondato su specifici elementi che in base all’evidenza disponibile lo avvalorino nel caso concreto, in ordine ai meccanismi sinergici dei plurimi antecedenti, per ciò sulla reale efficacia condizionante della singola condotta omissiva all’interno della rete di causazione, non può non comportare la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio stabilito dall’art. 530 comma 2 c.p.p., secondo il canone di garanzia ‘in dubio pro reo’. E non, viceversa, la disarticolazione del concetto di causa penalmente rilevante che, per tale via, finirebbe per regredire ad una contraddittoria nozione di `necessità’ graduabile in coefficienti numerici. 9.- In ordine al problema dell’accertamento del rapporto di causalità, con particolare riguardo alla categoria dei reati omissivi impropri ed allo specifico settore dell’attività medico-chirurgica, devono essere pertanto enunciati, ai sensi dell’art. 173.3 n. att. c.p.p., i seguenti principi di diritto. a) Il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica – universale o statistica -, si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa impeditiva dell’evento hic et nunc, questo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva. b) Non é consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, così che, all’esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso l’interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con ‘alto o elevato grado di credibilità razionale’ o ‘probabilità logica’. c) L’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio. Va infine ribadito che alla Corte di Cassazione, quale giudice di legittimità, è assegnato il compito di controllare retrospettivamente la razionalità delle argomentazioni giustificative – la cd. giustificazione esterna – della decisione, inerenti ai dati empirici assunti dal giudice di merito come elementi di prova, alle inferenze formulate in base ad essi ed ai criteri che sostengono le conclusioni: non la decisione, dunque, bensì il contesto giustificativo di essa, come esplicitato dal giudice di merito nel ragionamento probatorio che fonda il giudizio di conferma dell’ipotesi sullo specifico fatto da provare. 10.- Alla luce dei principi di diritto sopra affermati, occorre ora passare all’esame della fattispecie concreta sottoposta all’attenzione di questa Corte e valutare la correttezza logico-giuridica dell’apparato argomentativo dei giudici di merito a sostegno dell’affermazione di responsabilità dell’imputato. Premesso che la motivazione della sentenza impugnata s’integra con quella di condanna di – primo grado, siccome espressamente richiamata, rileva il Collegio che questa ha adeguatamente affrontato, sia in fatto che in diritto, il problema dell’esistenza del nesso di condizionamento risolvendolo in senso affermativo. Il dott. S. F. era stato chiamato a rispondere del reato di omicidio colposo, in qualità di responsabile della XVI divisione di chirurgia dell’ospedale (omissis) – dove era stato ricoverato dal 9 al 17 aprile 1993 P. C., dopo avere subito il 5 aprile un intervento chirurgico d’urgenza per perforazione ileale -, per avere determinato l’insorgere di una sepsi addominale da ‘clostridium septicum’ che aveva cagionato il 22 aprile la morte del paziente. Si addebitava all’imputato di non avere compiuto durante il periodo di ricovero una corretta diagnosi e quindi consentito un’appropriata terapia, omettendo per negligenza e imperizia di valutare i risultati degli esami ematologici che evidenziavano una persistente neutropenia e di sollecitare la consulenza internistica prescritta dopo l’intervento chirurgico per accertare l’eziologia della perforazione dell’ileo, anzi autorizzando, senza alcuna prescrizione, la dimissione del paziente, giudicato in via di guarigione chirurgica. La storia clinica del C. risulta esaurientemente e analiticamente ricostruita nei seguenti termini. Il C., ricoverato il 4 aprile 1993 presso il reparto di chirurgia d’urgenza dell’ospedale (omissis) per forti dolori addominali, venne operato il giorno successivo e l’intervento indicò un’infezione in atto da ‘perforazione dell’ileo lenticolare’, suturata mediante corretta enterrorafia. Restando incerta la causa della non comune patologia e preoccupanti i risultati degli esami emocromocitometrici effettuati il 4 e il 6 aprile (i quali evidenziavano nella formula leucocitaria una marcata neutropenia e con essa una condizione di immunodepressione del paziente) furono disposti esame di Widal Wright (eseguito con esito negativo per l’indicazione tifoidea), consulenza internistica (mai eseguita) e terapia antibiotica a largo spettro. Trasferito il 9 aprile nella XVI divisione chirurgica diretta dal dott. F., il C. continuò la terapia antibiotica e iniziò a sfebbrare il 12 aprile, senza esser sottoposto ad ulteriori esami di alcun tipo. Il dott. F., rilevato che il paziente era apirettico, il 14 aprile sospese la terapia antibiotica e dispose un nuovo emocromo, che evidenziò il giorno successivo il persistere di una gravissima neutropenia, ma, ciò nonostante, il 17 aprile dimise il C. giudicandolo ‘in via di guarigione chirurgica’ senza alcuna prescrizione. Il 19 aprile il C. accusò forti dolori addominali e, ricoverato il 20 aprile, venne nuovamente operato il giorno successivo mediante laparatomia e drenaggio di microascessi multipli; il referto microbiologico indicò esito positivo per ‘anaerobi e sviluppo di clostridium septicum’. All’esito di un terzo intervento chirurgico eseguito il 22 aprile il C. morì a causa di ‘sepsi addominale da clostridium septicum’, un batterio anaerobico non particolarmente aggressivo, che si sviluppa e si propaga però, determinando anemia acuta ed emolisi, allorché l’organismo dell’uomo è debilitato e immunodepresso per gravi forme di granulocitopenia. Il Pretore, con l’ausilio della prova testimoniale e medico-legale (richiamando altresì autorevoli e concordi pareri della letteratura scientifica internazionale nel campo della medicina interna), identificava nella ‘neutropenia’ l’immediato antecedente causale dell’aggressione del ‘clostridium’ e del processo settico letale; escludeva, indipendentemente dall’origine della perforazione ileale, ogni correlazione fra l’intervento chirurgico e i fattori patogenetici dell’evento infausto; sottolineava come il paziente, dopo la chiusura dell’ulcera ileale, fosse stato sottoposto solo a terapia antibiotica a largo spettro, senza essere indagato sul piano internistico ed ematologico, benché la consulenza internistica fosse stata sollecitata e gli accertamenti ematologici avessero evidenziato l’insorgenza di una marcata neutropenia, con conseguente minorata difesa immunitaria. Rilevava pertanto che, se le cause della neutropenia e del conseguente, grave, stato anergico da immunodepressione fossero stati correttamente diagnosticati (unitamente alle indagini necessarie a chiarire l’eziologia della non comune perforazione ileale) e se l’allarmante granulocitopenia fosse stata curata con terapie mirate alla copertura degli anaerobi a livello intestinale, fino a far risalire i valori dei neutrofili al di sopra della soglia minima delle difese immunitarie, si sarebbe evitata la progressiva evoluzione della patologia infettiva letale da ‘clostridium septicum’ e si sarebbe pervenuti ad un esito favorevole ‘con alto grado di probabilità logica o credibilità razionale’. Così ricostruito il nesso causale secondo il modello condizionalistico integrato dalla sussunzione sotto leggi scientifiche, il Pretore, definita altresì puntualmente la posizione apicale del dott. F. nell’ambito della divisione chirurgica ove il paziente era stato ricoverato nella fase post-operatoria e individuate precise note di negligenza e di imperizia nei menzionati comportamenti omissivi e nell’improvvida dimissione dello stesso, concludeva affermando la responsabilità dell’imputato per la morte del C.. La Corte di appello di Napoli, pur argomentando impropriamente e contraddittoriamente in termini che sembrano più coerenti con il lessico della disattesa teoria dell’aumento del rischio (“… se si fosse indagato sulle cause della neutropenia e provveduto a prescrivere adeguata terapia per far risalire i valori dei neutrofili, le probabilità di sopravvivenza del C. sarebbero certamente aumentate …”), confermava la prima decisione, richiamandone i contenuti motivazionali e ribadendo che, in base ai dati scientifici acquisiti, all’imputato erano addebitabili, oltre l’ingiustificata dimissione del paziente, gravi omissioni sia di tipo diagnostico che terapeutico, le quali “… sicuramente contribuirono a portare a morte il C. …”. Pertanto, poiché le statuizioni dei giudici di merito risultano sostanzialmente rispondenti alle linee interpretative sopra enunciate in tema di rapporto di causalità e trovano adeguata base giustificativa in una motivazione, in fatto, immune da vizi logici, il giudizio critico e valutativo circa il positivo accertamento, ‘con alto grado di probabilità logica o credibilità razionale’, dell’esistenza del nesso di condizionamento necessario fra la condotta (prevalentemente omissiva) del medico e la morte del paziente resta incensurabile nel giudizio di legittimità e i \A rilievi del ricorrente si palesano privi di fondamento. 11.- L’ordinanza della Sezione remittente dà atto che il delitto di omicidio colposo per il quale si procede è estinto per prescrizione, in quanto il decesso del C. risale al 22 aprile ” 1993 ed è quindi ampiamente trascorso il termine di sette anni e sei mesi. Da un lato, l’accertamento della causa estintiva del reato si palesa prioritario e immediatamente operativo rispetto alla questione in rito della nullità ‘relativa’ dei verbali stenotipici di udienza (Sez. Un., 28.11.2001, Cremonese, rv 22051 l; Sez. Un., 27.2.2002, Conti, rv. 221403), nonché rispetto alle invero generiche e subvalenti censure del ricorrente circa pretesi vizi motivazionali dell’impugnata sentenza, in punto di direzione della divisione ospedaliera e titolarità della posizione di garanzia, di colpa professionale e di dosimetria della pena. D’altra parte, la compiuta valutazione critica, con esito negativo, del più serio e argomentato motivo di gravame, riguardante l’affermazione di responsabilità dell’imputato quanto alla prova dell’effettivo nesso di causalità fra le condotte – prevalentemente omissive – addebitategli e l’evento morte del paziente, consente a questa Corte, nell’annullare senza rinvio la sentenza impugnata in conseguenza dell’avvenuta estinzione del reato per prescrizione, di confermarne (ai sensi dell’art. 578 c.p.p. e secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità) le statuizioni relative ai capi concernenti gli interessi civili: e cioè, la condanna generica dell’imputato al risarcimento del danno, nonché al pagamento di una somma liquidata a titolo di provvisionale e delle spese di costituzione e difesa a favore della parte civile.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione, a Sezioni Unite, annulla senza rinvio la sentenza impugnata per essere il reato estinto per prescrizione; conferma le statuizioni concernenti gli interessi civili.
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Se hai subito un danno per responsabilità medica, o per colpa medica, chiama l’avvocato Sergio Armaroli. Errori medici, colpa medica,danno da struttura sanitaria. Voglio precisare come la materia della responsabilità medica sia una delle più tormentate in ambito giudiziario, e nei tribunali. Non é come può sembrare o come qualcuno pensa che ogni volta che un intervento chirurgico va male, o ogni volta che un medico sbaglia una diagnosi vi sia per forza la responsabilità contrattuale dello stesso medico. Responsabilità medica a Bologna Teniamo presente e questo in pochi lo dicono che la medicina non é una scienza esatta e purtroppo ancora oggi le conoscenze umane sono assai limitate. Spesso perché venga in sede civile riconosciuto a un paziente il risarcimento danni da responsabilità medica occorre dimostrare la cd “colpa grave ” del medico ,che consiste nel dimostrare che lo stesso ha fatto un “errore grossolano”. A Questo proposito occorre richiamare una sentenza della Suprema Corte numero 11440 del 1997 che stabilisce che il medico chirurgo chiamato a risolvere un caso di particolare complessità, il quale cagioni un danno a causa della propria imperizia, é responsabile solo se versa in dolo od in colpa grave ai sensi dell’art 2236 cc . L’avvocato Sergio Armaroli da anni assiste pazienti che hanno subito danni per responsabilità medica ed é a disposizione per la valutazione del vostro danno.
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