LICENZIAMENTO PER GIUSTA CAUSA PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO
In base alla disciplina della legge del 15 luglio 1996 n.604, dello Statuto dei lavoratori e della legge 11 maggio 1990 n.108 (Disciplina dei licenziamenti individuali), il datore di lavoro può licenziare un dipendente solo se ricorre una giusta causa o ungiustificato motivo o un licenziamento collettivo.
LICENZIAMENTO PER GIUSTA CAUSA PER GIUSTIFICATO MOTIVO LICENZIAMENTO PER GIUSTA CAUSA PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO
Con sentenza dell’8 marzo 2010 la Corte d’appello di Torino ha confermato la sentenza del Tribunale di Biella che aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento di A.T. intimato in data 13/9/2007 per giusta causa dalla società Casa di Cura San Giorgio srl presso la quale la ricorrente lavorava dal 1 ottobre 2001 come caposala, con consequenziale licenziamento ordine di reintegra e condanna al risarcimento del danno determinato in 7 mensilità.
La società aveva contestato alla lavoratrice di non essere in possesso dei titoli necessari per lo svolgimento delle mansioni di caposala, l’erronea compilazione del registro stupefacenti e resistenza di un conflitto di interessi in quanto era membro del consiglio di amministrazione della Cooperativa Arti e Servizi che aveva in appalto la manutenzione delle aree verdi della Casa di Cura.
La Corte territoriale ha rilevato, con riferimento al mancato possesso da parte della lavoratrice del titolo di infermiera professionale ma quello di vigilatrice di infanzia che la abilitava a svolgere le mansioni di capo sala unicamente in un reparto pediatrico, che nessun illecito poteva essere imputato alla lavoratrice in quanto pur in assenza del diploma di infermiera professionale l’assunzione come caposala e il successivo svolgimento delle sole mansioni amministrative connesse a tale qualifica non era circostanza che potesse integrare giusta causa di licenziamento in assenza di false attestazioni della lavoratrice circa il possesso dei titoli professionali ed anzi in presenza dell’esalta conoscenza dei fatti da parte del datore di lavoro fin da epoca anteriore all’assunzione. In ordine alla contestazione circa i numerosi errori nella compilazione del registro di carico e scarico degli stupefacenti e nell’ omissione dei doverosi controlli circa la regolare tenuta del registro, la Corte ha rilevato che tutti i testi avevano confermato che lo scarico degli stupefacenti veniva annotato sul registro dall’infermiere che somministrava la sostanza, controfirmato dal medico che l’aveva prescritto, controllato dalla A. e firmato dal direttore sanitario; che inoltre le anomalie formali del registro erano note alla Asl che non le aveva sanzionate, mentre non vi era prova che presso la Casa di Cura si fosse mai verificata un’effettiva mancata corrispondenza tra giacenze reali e giacenze risultanti dal registro.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Sentenza 9 giugno 2014, n. 12884
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LAMORGESE Antonio – Presidente –
Dott. BRONZINI Giuseppe – Consigliere –
Dott. D’ANTONIO Enrica – rel. Consigliere –
Dott. TRIA Lucia – Consigliere –
Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 6785-2011 proposto da:
CASA DI CURA SAN GIORGIO S.R.L. C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA GIUNONE REGINA 1, presso lo studio dell’avvocato CARLEVARO ANSELMO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato ARAGONA SERGIO, giusta delega in atti;
– ricorrente –
contro
A.T. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FLAMINIA 109, presso lo studio dell’avvocato BERTOLONE BIAGIO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato MONACIS LUCIA, giusta delega in atti;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 56/2010 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 08/03/2010 r.g.n. 744/2009;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 01/04/2014 dal Consigliere Dott. ENRICA D’ANTONIO;
udito l’Avvocato CARLEVARO ANSELMO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
Con sentenza dell’8 marzo 2010 la Corte d’appello di Torino ha confermato la sentenza del Tribunale di Biella che aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento di A.T. intimato in data 13/9/2007 per giusta causa dalla società Casa di Cura San Giorgio srl presso la quale la ricorrente lavorava dal 1 ottobre 2001 come caposala, con consequenziale ordine di reintegra e condanna al risarcimento del danno determinato in 7 mensilità.
La società aveva contestato alla lavoratrice di non essere in possesso dei titoli necessari per lo svolgimento delle mansioni di caposala, l’erronea compilazione del registro stupefacenti e resistenza di un conflitto di interessi in quanto era membro del consiglio di amministrazione della Cooperativa Arti e Servizi che aveva in appalto la manutenzione delle aree verdi della Casa di Cura.
La Corte territoriale ha rilevato, con riferimento al mancato possesso da parte della lavoratrice del titolo di infermiera professionale ma quello di vigilatrice di infanzia che la abilitava a svolgere le mansioni di capo sala unicamente in un reparto pediatrico, che nessun illecito poteva essere imputato alla lavoratrice in quanto pur in assenza del diploma di infermiera professionale l’assunzione come caposala e il successivo svolgimento delle sole mansioni amministrative connesse a tale qualifica non era circostanza che potesse integrare giusta causa di licenziamento in assenza di false attestazioni della lavoratrice circa il possesso dei titoli professionali ed anzi in presenza dell’esalta conoscenza dei fatti da parte del datore di lavoro fin da epoca anteriore all’assunzione. In ordine alla contestazione circa i numerosi errori nella compilazione del registro di carico e scarico degli stupefacenti e nell’ omissione dei doverosi controlli circa la regolare tenuta del registro, la Corte ha rilevato che tutti i testi avevano confermato che lo scarico degli stupefacenti veniva annotato sul registro dall’infermiere che somministrava la sostanza, controfirmato dal medico che l’aveva prescritto, controllato dalla A. e firmato dal direttore sanitario; che inoltre le anomalie formali del registro erano note alla Asl che non le aveva sanzionate, mentre non vi era prova che presso la Casa di Cura si fosse mai verificata un’effettiva mancata corrispondenza tra giacenze reali e giacenze risultanti dal registro.
La Corte pertanto ha concluso che non poteva essere addossato alla A. in qualità di caposala la responsabilità dell’esatta compilazione e corretta tenuta del registro che competevano invece per legge al dirigente medico e al direttore sanitario.
Con riferimento alla terza contestazione circa il conflitto di interessi a causa della duplice veste di dipendente della Casa di cura e di amministratore di una Cooperativa che operava per la Casa di cura, la Corte ha rilevato che la carica di consigliere di amministrazione della Cooperativa era onoraria. non remunerata, senza potere di firma dei contratti della cooperativa e che mancava pertanto la prova che la ricorrente avesse concorso ad assumere qualsiasi decisione in ordine all’esecuzione dell’appalto per la manutenzione delle aree verdi della Casa di Cura o che avesse tratto un vantaggio dalla conclusione dell’appalto o della sua esecuzione.
Infine circa la richiesta di conversione del licenziamento per giusta causa in licenziamento per giustificato motivo una volta accertata la mancanza del titolo richiesto dalla legge per l’esercizio della professione di infermiera la Corte ha rilevato l’inammissibilità di tale modifica stante l’immutabilità dei motivi del licenziamento.
Con riferimento all’eccezione sollevata dalla Casa di cura circa l’aliunde perceplum ha affermato che dall’interrogatorio e dalla documentazione era già emersa l’attività svolta dalla lavoratrice ed i compensi percepiti.
Avverso la sentenza ricorre la Casa di Cura formulando cinque motivi.
Resiste la lavoratrice depositando controricorso.
Motivi della decisione
Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione del R.D. n. 1265 del 1934, art. 137, nonchè dell’art. 2106 c.c.
Richiama la normativa che impone per assumere l’incarico di caposala di essere in possesso del diploma di infermiera professionale, normativa dalla quale emergeva la differenza rispetto al titolo posseduto dalla lavoratrice di vigilatrice d’infanzia, limitata all’assistenza dei minori. Lamenta che la Corte non ha adeguatamente valutato la gravità del mancato possesso da parte della A. del titolo idoneo previsto dalla legge per la qualifica di capo sala.
Con il secondo motivo denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4.
Rileva che la Corte aveva emesso una pronuncia in violazione dell’art. 112 c.p.c. in quanto la ricorrente in primo grado si era limitata a dedurre il pieno possesso dei requisiti e titoli di legge per l’espletamento delle mansioni. La Corte d’appello invece aveva posto a base della decisione circostanze del tutto diverse non ritualmente dedotte in causa e cioè il mancato esercizio di attività infermieristiche da parte della lavoratrice e la mancata attestazione da parte della A. circa la qualifica non posseduta.
Con il terzo motivo la ricorrente denuncia violazione della L. n. 604 del 1966, art. 3. Lamenta la mancata conversione del licenziamento per giusta causa in licenziamento per giustificato motivo oggettivo sul presupposto dell’immutabilità dei motivi del licenziamento.
Osserva che risultava ampiamente accertata la mancanza dei titoli per lo svolgimento della mansione di caposala e che tale mancanza costituiva il più rilevante degli addebiti e dunque ben avrebbe la Corte potuto procedere d’ufficio alla conversione del relativo provvedimento di licenziamento in giustificato motivo oggettivo.
Con il quarto motivo la Casa di Cura denuncia vizio di motivazione.
Censura la sentenza della Corte, avendo fornito una motivazione solo apparente, nella parte in cui non aveva addotto ragioni di sorta in merito alla pacifica mancanza del titolo professionale.
Quanto poi all’esclusione di qualsiasi responsabilità della lavoratrice circa la tenuta del registro degli stupefacenti rileva che la Corte si era limitata a riportare alcune deposizioni anche qui senza valutarne la contraddittorietà e comunque senza valutare l’accertata ed evidente cattiva gestione del registro.
Quanto al conflitto di interessi, lamenta che la Corte aveva omesso di prendere in considerazione i numerosi elementi che emergevano ed in particolare che la A. partecipava alla Cooperativa dal 2002, che dall’unica dichiarazione dei redditi depositata relativa al 2007 emergeva un reddito di Euro 80.000 di cui Euro 40.000 derivanti da lavoro autonomo, sicuramente provenienti da soggetti terzi e presumibilmente dalla Cooperativa e che il richiamo alle prove testimoniali risultava del tutto inadeguato ad escludere la sussistenza del conflitto di interessi.
Con il quinto motivo la ricorrente denuncia vizio di motivazione in merito all’aliunde perceptum. Lamenta il rigetto dell’ordine di esibizione e di richiesta di informazioni riproposto in appello e sul quale la Corte non aveva motivato.
Le censure, congiuntamente esaminate in quanto connesse, sono infondate.
Circa la mancanza del titolo di infermiera professionale la Corte ha rilevato che la A., come pacificamente ammesso dalla lavoratrice, era priva di detto diploma; che all’epoca dell’assunzione il datore di lavoro era consapevole dei titoli posseduti dalla stessa (laurea in psicologia e diploma di vigilatrice di infanzia), come ampiamente dimostrato dall’istruttoria svolta e richiamata dalla Corte; che fu assunta con qualifica di caposala per svolgere mansioni amministrative e non infermieristiche e che di fatto aveva svolti) solo dette mansioni amministrative. La Corte ha, altresì, precisato che la A. non si era mai qualificata come infermiera professionale e che mai aveva svolto le relative mansioni richiamando a tal proposito le dichiarazioni dei testi.
La ricorrente ha eccepito che il colpevole o doloso esercizio della mansione di caposala con la consapevolezza di non possedere il titolo costituiva un illecito e rileva che la legge, allorchè sanziona l’esercizio abusivo di una professione, non richiede affatto nè la spendita dell’abilitazione, nè il verificarsi di un danno, ma soltanto il mero esercizio dell’attività in mancanza dei categorici requisiti di legge.
I rilievi non sono fondati in relazione alla presente fattispecie in cui risulta ampiamente motivato dalla Corte che la A. non ha svolte) mansioni infermieristiche in ordine alle quali il titolo posseduto la abilitava a svolgere attività solo nel settore della pediatria.
Non è, pertanto, censurabile quanto affermato dalla Corte secondo cui non sussisteva alcun illecito nei confronti del datore di lavoro atteso che l’assunzione come capo sala e lo svolgimento delle sole mansioni amministrative protrattosi per sei anni, l’assenza di false attestazioni ed anzi la conoscenza da parte del datore di lavoro dei titoli professionali posseduti escludeva, sotto tale profilo. la sussistenza di un fatto idoneo a giustificare il licenziamento.
Deve rilevarsi, inoltre, che come è noto, la valutazione della gravità degli addebiti e della loro idoneità ad integrare giusta causa di licenziamento si risolve in un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito, il quale per stabilire in concreto l’esistenza di una giusta causa di licenziamento, tale da comportare una grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed in particolare di quello fiduciario, deve valutare da un lato la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all’intensità dell’elemento intenzionale, dall’altro la proporzionalità fra i fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare, definitivamente espulsiva (cfr. ex plurimis Cass. 4 giugno 2002 n. 8107) Non sussiste. inoltre, la violazione dell’art. 112 c.p.c. considerato che la A. ha sempre affermato di avere il diploma di vigilatrice pediatrica e non quello di infermiera professionale. e, comunque, di essere abilitata a svolgere le mansioni di fatto assegnatele. Spetta del resto al datore di lavoro fornire la prova della fondatezza delle contestazioni e della loro gravità tale da giustificare il licenziamento.
La sentenza impugnata non è altresì censurabile per aver ritenuto inammissibile la conversione dei licenziamento per giusta causa in licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Questa Corte ha ritenuto ammissibile la conversione del licenziamento per giusta causa in licenziamento per giustificato motivo soggettivo. Si è affermato, infatti, (cfr Cass. n. 837/2008, n. 27104 2006) che la giusta causa e il giustificato motivo soggettivo di licenziamento costituiscono mere qualificazioni giuridiche di comportamenti ugualmente idonei a legittimare la cessazione del rapporto di lavoro, l’uno con effetto immediato e l’altro con preavviso, con il conseguente potere del giudice – e senza violazione del principio generale di cui all’art. 112 cod. proc. civ. – di valutare un licenziamento intimato per giusta causa come licenziamento per giustificato motivo soggettivo (fermo restando il principio dell’immutabilità della contestazione e persistendo la volontà del datore di risolvere il rapporto), attribuendo al fatto addebitato al lavoratore la minore gravità propria di quest’ultimo tipo di licenziamento.
Nella specie. tuttavia, la società ricorrente ha chiesto la conversione in licenziamento per giustificato motivo oggettivo i cui presupposti sono del tutto diversi da quelli per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, oltre a richiedere la sussistenza della prova, da fornirsi dal datore di lavoro, dell’impossibilità di una diversa collocazione del lavoratore.
Non sussiste, inoltre, vizio di motivazione della sentenza impugnata in quanto la Corte ha analizzato in modo esauriente i fatti contestati.
La Corte d’Appello ha valutato correttamente il comportamento della lavoratrice con giudizio immune da vizi che investendo una questione di merito sfuggono al sindacato della Cassazione, fa ricorrente si limita a proporre una diversa valutazione dei fatti formulando in definitiva una richiesta di duplicazione del giudizio di merito, senza evidenziare contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata o lacune così gravi da risultare detta motivazione sostanzialmente incomprensibile o equivoca. Costituisce principio consolidato che “Il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando cosi liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge. Ne consegue che il preteso vizio di motivazione sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente dei mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione”. (Cass. n. 2357 del 07/02/2004; n. 7846 del 4/4/2006; n. 20455 del 21/9/2006; n. 27197 del 16/12/2011).
Anche, con riferimento al quinto motivo, la Corte ha adeguatamente motivato le ragioni della quantificazione del danno in base alla documentazione prodotta del tutto esaustiva al fine di accertare eventuali corrispettivi ricevuti dalla A. una volta cessato il rapporto di lavoro con la Casa di Cura rendendo del tutto superflue ulteriori indagini meramente esplorative suggerite dalla ricorrente.
Per le considerazioni che precedono il ricorsi) va rigettato con condanna della ricorrente a pagare le spese del presente giudizio.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a pagare le spese del presente giudizio liquidate in Euro 100,00 per esborsi ed Euro 4000,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 1 aprile 2014.
Depositato in Cancelleria il 9 giugno 2014
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