LICENZIAMENTO GIUSTA CAUSA
caratterizzato dal disprezzo della lavoratrice per il proprio lavoro
SEZIONE LAVORO
Sentenza 9 gennaio – 24 marzo 2015, n. 5878 (Presidente Lamorgese – Relatore Bandini)
Svolgimento del processo
D.P.M. impugnò il licenziamento per giusta causa intimatole dalla Confidi Mutualcredito soc. coop. per avere denominato alcuni file di lavoro con le locuzioni “merda” e “nuova merda“; radicatosi il contraddittorio il Giudice adito respinse il ricorso, ma la Corte d’Appello dell’Aquila, con sentenza del 9.6-11.8.2011, in accoglimento del gravame della lavoratrice, dichiarò l’illegittimità del licenziamento, con applicazione della tutela reale. A sostegno del decisum la Corte territoriale – osservò che la condotta della D.P., per quanto censurabile sotto il profilo della correttezza, non costituiva un’infrazione della disciplina del lavoro tanto grave, sia soggettivamente che oggettivamente, da ledere in maniera irreparabile la componente fiduciaria, essendo risultata episodica l’indicata sgradevole denominazione di documenti di lavoro, che non evidenziava un manifesto e ripetuto disprezzo al decoro e all’immagine aziendale, né poteva annoverarsi nella fattispecie dell’insubordinazione; non essendo emersi altri abusi nell’utilizzo dei beni aziendali affidati alla lavoratrice, la vicenda, valutata nella sua complessità, non giustificava, sotto il profilo della congruità, l’adozione della massima sanzione espulsiva, potendo la condotta agita essere punita con una sanzione di tipo conservativo. Avverso l’anzidetta sentenza della Corte territoriale, la Confidi Mutualcredito soc. coop. ha proposto ricorso per cassazione fondato su ufi tre motivi. L’intimata D.P.M. ha depositato procura, partecipando alla discussione.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo la ricorrente, denunciando violazione dell’art. 2119 cc, nonché vizio di motivazione, deduce che la Corte territoriale era addivenuta “alla incoerente conclusione che il fatto non si fosse verificato“, risultando comunque la sentenza impugnata contraddittoria e illogica rispetto all’acquisito corredo probatorio. Con il secondo motivo, denunciando violazione dell’art. 2119 cc, la ricorrente si duole che la Corte territoriale abbia sminuito l’esatta portata del fatto sotto il profilo oggettivo, caratterizzato dal disprezzo della lavoratrice per il proprio lavoro, e non abbia considerato che la condotta censurata era intervenuta a pochi mesi di distanza dall’inizio del rapporto lavorativo e a seguito di una precedente contestazione disciplinare per altri fatti. Con il terzo motivo, denunciando vizio di motivazione, la ricorrente si duole che la Corte territoriale abbia omesso di motivare sull’eccezione di giudicato implicito sul capo relativo all’affermazione di responsabilità della lavoratrice, che non aveva impugnato la pronuncia di primo grado relativamente al fatto, contestando soltanto la gravità della sanzione applicata. I tre mezzi, tra loro connessi, possono essere esaminati congiuntamente. 2. Deve anzitutto rilevarsi che, contrariamente a quanto dedotto dalla ricorrente, la Corte territoriale ha riconosciuto la sussistenza della condotta nella sua materialità; né, conseguentemente, appare fondata la deduzione della violazione del giudicato interno relativamente all’accertamento del fatto storico su cui la vicenda si incentra. 2.1 Quanto testé osservato esclude altresì la sussistenza di vizi motivazionali relativi alla ricostruzione delle circostanze fattuali oggetto di giudizio, che la Corte territoriale ha colto nella loro effettiva materialità (rilevando, altresì, che la condotta addebitata era stata implicitamente ammessa dalla stessa lavoratrice). Risulta poi inammissibile il profilo di doglianza afferente alla dedotta mancata considerazione di un precedente disciplinare, del quale la ricorrente, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, non specifica i concreti accadimenti che lo avrebbero determinato, così da rendere impossibile qualsivoglia valutazione circa la sua eventuale pertinenza e rilevanza in relazione agli addebiti che hanno condotto al licenziamento impugnato. 2.2 Secondo la giurisprudenza di questa Corte (cfr, ex plurimis, fra le più recenti, Cass., nn. 5095/2011; 6498/2012), la giusta causa di licenziamento, quale fatto “che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto“, è una nozione che la legge – allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo – configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e sindacabile in cassazione a condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di incoerenza rispetto agli “standards”, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale. Il fatto addebitato, nei suoi risvolti oggettivi e soggettivi, quali accertati dalla Corte territoriale con motivazione immune da vizi logici, si connota oggettivamente come disdicevole e passibile di sanzione disciplinare (come la stessa sentenza impugnata, del resto, riconosce), ma non configura gli estremi della insubordinazione, né quelli di una specifica inottemperanza alle mansioni affidate alla lavoratrice, né è in sé idoneo a ledere concretamente l’immagine della Società datrice di lavoro e dei suoi organi; rimane, in sostanza, nell’ambito di una condotta volgare e certamente non commendevole, ma non assurge a gravità ed importanza tale da ledere, in termini di irrimediabilità, il rapporto fiduciario e da giustificare quindi la sanzione espulsiva. 2.3 Nei distinti profili in cui si articolano, i motivi svolti vanno dunque disattesi. 3. In definitiva il ricorso va rigettato. Le spese, liquidate come in dispositivo sulla base della condotta defensionale effettivamente espletata, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione delle spese, che liquida in Euro 1.600,00 (milleseicento), di cui Euro 1.500,00 (millecinquecento) per compensi, oltre spese generali 15% e accessori come per legge.
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