Incidente stradale-risarcimento danni-limitazione capacità lavorativa-postumi permanenti-danno biologico-incidente autostrada
DANNO BIOLOGICO
La previsione di risarcibilità del danno non patrimoniale nei soli casi previsti dalla legge, contenuta nella norma impugnata, sarebbe tuttavia lesiva del diritto fondamentale dell’individuo alla serenità morale, tutelato dall’art. 2 Cost., oltre ad essere fonte di inique ed ingiustificate disparità di trattamento, tali da violare il principio di eguaglianza. Sotto altro aspetto, essa avrebbe prodotto – per effetto di orientamenti giurisprudenziali nel tempo consolidatisi – ingiustificate duplicazioni risarcitorie, contrastanti con l’art. 3 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza, rispetto al tertium comparationis rappresentato dall’art. 2043 cod. civ.
Con riguardo al primo dei profili considerati, il rimettente osserva che la norma impugnata si fonderebbe, in definitiva, sull’assunto secondo cui i diritti della personalità non costituiscono elementi del patrimonio del titolare e la loro lesione non darebbe perciò luogo a risarcimento.
Siffatto assunto non potrebbe tuttavia trovare cittadinanza nell’ordinamento costituzionale, posto che tutti i diritti della personalità, nessuno escluso, ricevono tutela dagli artt. 2 e 3 Cost., come è del resto riconosciuto sia dalla giurisprudenza di legittimità e di merito sia dalla migliore dottrina. Né, d’altro canto, potrebbe sostenersi che la sofferenza morale causata dalla perdita di un prossimo congiunto non sia tutelata da alcun precetto costituzionale e quindi – non costituendo un diritto della personalità – non possa essere risarcita se non nei limiti stabiliti dall’art. 2059 cod. civ.
L’assurdità di una simile tesi, sul piano giuridico, risulterebbe – secondo il rimettente – palese ove si consideri che, secondo l’orientamento prevalente della dottrina, della giurisprudenza di legittimità e di quella costituzionale, l’art. 2 Cost. sancisce il valore assoluto della persona umana ed è norma a contenuto precettivo e non programmatico, cosicché ogni proiezione della persona nella realtà sociale sarebbe suscettibile di assurgere al rango di diritto soggettivo perfetto, con la conseguente configurabilità di una tutela risarcitoria in caso di lesione.
Non potendo dubitarsi che la famiglia sia una delle formazioni sociali nelle quali l’individuo esplica la propria personalità e che i vincoli famigliari costituiscano proiezione della persona nella realtà sociale, ne discenderebbe che i suddetti vincoli costituiscono, ex art. 2 Cost., oggetto di un diritto soggettivo perfetto. L’art. 2059 cod. civ., impedendone la risarcibilità in caso di lesione, salvo i casi previsti dalla legge, violerebbe perciò tanto l’art. 2 Cost., frustrando un diritto fondamentale, quanto l’art. 3, con riguardo al principio di eguaglianza, differenziando ingiustamente la situazione di chi perde un congiunto in conseguenza di un illecito accertato e quella di chi invece lo perde in conseguenza di un illecito presunto ex art. 2054 cod. civ.
La norma impugnata, d’altro canto, non sarebbe – ad avviso del rimettente – suscettibile di una lettura costituzionalmente orientata, così da superare il prospettato dubbio di legittimità con riferimento al canone di ragionevolezza.
In particolare, non ritiene il giudice a quo di poter condividere la tesi secondo la quale la lesione di un diritto costituzionalmente protetto sarebbe comunque risarcibile, nonostante il tenore dell’art. 2059, in base al combinato disposto dell’art. 2043 e della norma costituzionale di volta in volta violata.
In primo luogo, tale orientamento si fonda sull’assunto che l’art. 2043 sia una norma in bianco, ma siffatto assunto è stato ormai abbandonato dalla giurisprudenza delle Sezioni unite della Cassazione, con la sentenza n. 500 del 1999, nella quale il danno risarcibile è espressamente definito come la lesione dell’interesse al bene della vita al quale l’interesse leso, secondo il concreto atteggiarsi del suo contenuto, effettivamente si collega. In tale ottica la risarcibilità discende dunque dal fatto che l’interesse leso sia rilevante per l’ordinamento, a prescindere dall’esistenza di una garanzia costituzionale, e non vi è dubbio – ad avviso sempre del giudice a quo – che l’interesse alla propria serenità morale sia preso in considerazione, sotto molti aspetti, dall’ordinamento.
Secondariamente, la tesi cosiddetta «del combinato disposto» condurrebbe a svuotare l’art. 2059 cod. civ. di ogni contenuto, atteso che qualsiasi danno morale potrebbe astrattamente ricondursi alla lesione di un diritto costituzionalmente protetto. Ma tra una interpretatio abrogans conforme a Costituzione ed una interpretatio utilis con questa contrastante l’interprete – secondo il rimettente – dovrebbe necessariamente scegliere la seconda.
L’orientamento ermeneutico in esame porterebbe, infine, ad una irragionevole duplicazione di risarcimento nel caso in cui il fatto illecito integri gli estremi di un reato: in tal caso, infatti, il danneggiato potrebbe agire sia per il risarcimento del danno ingiusto, in base al combinato disposto degli artt. 2 Cost. e 2043 cod. civ., sia per il risarcimento del danno morale in base all’art. 2059 cod. civ.
In via dichiaratamente subordinata, il rimettente solleva poi, in riferimento all’art. 3 Cost., una diversa questione di legittimità costituzionale della stessa norma, nella parte in cui non consente la liquidazione del danno non patrimoniale nei casi in cui la responsabilità dell’offensore venga affermata – come è nel giudizio a quo – in base ad una presunzione di legge.
Il rimettente muove dalla considerazione che siffatta lettura della norma, costituente diritto vivente, nacque in un’epoca storica nella quale, vigendo l’art. 3 cod. proc. pen. del 1930, l’accertamento dell’illecito in sede civile era necessariamente subordinato all’accertamento del reato in sede penale.
L’irrisarcibilità del danno morale in caso di responsabilità presunta, quale conseguenza dell’inesistenza del reato affermata in sede penale, discenderebbe pertanto dalla preminenza logica della giurisdizione penale rispetto a quella civile.
La situazione sarebbe radicalmente mutata a seguito dell’introduzione del nuovo art. 75 cod. proc. pen., per effetto del quale l’azione risarcitoria in sede civile può avere uno svolgimento del tutto autonomo, ed un esito anche contrastante, rispetto all’eventuale azione penale che sia promossa per lo stesso fatto.
La norma impugnata si porrebbe pertanto in contrasto con l’art. 3 Cost. in quanto – «in modo irrazionale rispetto al dettato dell’art. 75 cod. proc. pen., considerato quale tertium comparationis» – nonostante la conclamata parità delle giurisdizioni, precluderebbe al danneggiato che agisca in sede civile ai fini del risarcimento del danno morale «di avvalersi di uno dei mezzi di prova più tipici e risalenti del processo civile, cioè la presunzione».
Punto di partenza, per la conformazione del sistema della responsabilità civile e dello illecito civile determinante danno ingiusto, è la storica sentenza della Corte Costituzionale del 14 giugno 1986 n. 184, che collegando la clausola generale del neminem laedere, contenuta nell’art. 2043 del codice civile, al precetto dello art. 32 della Costituzione, ha configurato la disciplina della tutela del diritto della salute, in relazione ai danni ingiusti, primari e consequenziali, che derivavano dal fatto lesivo, nella struttura tipica dello illecito civile, con le sue componenti di imputabilità soggettiva (per colpa in senso lato, inclusiva del dolo) oggettiva (per il nesso causale tra condotta ed evento) ed in relazione alla dicotomia del danno ingiusto nelle due categorie generali di danno patrimoniale e non patrimoniale.
A partire da questa decisione interpretativa e sistematica, che tuttavia non prendeva una chiara posizione sulla natura non patrimoniale del danno, mentre più chiara era la distinzione tra il danno primario (poi indicato come danno biologico o lesione della salute, dove il termine lesione indica lo evento lesivo di danno) e gli altri danni consequenziali (patrimoniali e non), il diritto vivente ha elaborato una nozione complessa di danno biologico,che include la componente della menomazione fisica e psichica (componente a prova scientifica, che esige una valutazione medico legale conforme ai principi della eziologia della scienza medica e biologica) ed una componente che attiene alla sfera della persona, e che è stata scomposta in sottovoci “storiche” quali il danno alla vita di relazione, la perdita delle qualità della vita personali in relazione al concreto vivere della persona attiva, la perdita delle qualità relazionali, sociali e lavorative.
In breve chi legga il secondo comma dell’art. 3 della Costituzione, considera il danno biologico da illecito (incluso lo illecito per fatto della circolazione) come un ostacolo allo sviluppo della persona umana e del lavoratore, che ne impedisce la effettiva partecipazione alla vita politica, economica, culturale e sociale, della comunità (fondamento costituzionale del danno biologico interrelazionale).
Punto di arrivo è la definizione unitaria del danno biologico per fatto illecito da circolazione, sintetica nella definizione legislativa contenuta nello art. 5 terzo comma della novella 5 marzo 2001 n. 57 (successiva ai fatti di causa, del 1995), che definisce il danno biologico in termini di lesione della integrità psicofisica della persona, suscettibile di accertamento medico legale, mantenendo nel comma successivo il criterio della personalizzazione in relazione alle condizioni soggettive del danneggiato, ed analitica negli articoli 138 e 139 dell’emanando codice delle assicurazioni, che finalmente definisce le quattro dimensioni essenziali del danno biologico, aggiungendo alle prime due (dimensione psichica e fisica a prova scientifica) la incidenza negativa sulle attività quotidiane (come danno biologico per la perdita delle qualità della vita, in concreto subito, che subito gli esistenzialisti considereranno tale) e la perdita degli aspetti dinamico relazionali della vita del danneggiato (che invece attengono alla vita esterna, non solo a rilevanza sociale, ma anche culturale e politica, inclusa la perdita della capacità lavorativa generica).
Si vuoi dire che, se lo stesso legislatore codificante, accoglie la ricostruzione pluridimensionale del danno biologico, nelle sue varie componenti, ponendo le basi per una valutazione analitica e personalizzante, anche in presenza di tabelle medico legali nazionali orientative (come si evince dalla lettura dei criteri applicativi della tabella medico legale delle micropermanenti, redatta da una Commissione interministeriale composta in prevalenza da medici ministeriali e da cattedratici della medicina legale, che reca in premessa una proposta di definizione analitica, negli stessi termini poi recepiti dal legislatore codificante), e di tabelle attuariali nazionali, tale ricostruzione logico sistematica non ha carattereinnovativo, ma ricettizio di una tradizione giurisprudenziale consolidata, che ha in certo senso tipicizzato la tutela del danno biologico da illecito, adottando parametri territorialmente uniformi per il calcolo attuariale del punto di base economico.
Ed in questo contesto anche le tabelle romane (vigenti al tempo dell’incidente) costituiscono parametri di valutazione convenzionale, di un danno da valutarsi equitativamente ai sensi del combinato disposto degli artt. 1226 e 2056 del codice civile, sempre che siano chiari e certi due momenti valutativi: a) il momento della valutazione della gravità del danno biologico (con criteri scientifici e sulla base del c.d. punto di invalidità da uno a 100 in base a tabelle medico legali nazionali, liberamente elaborate dalla medicina legale, secondo un orientamento restrittivo che riteneva primaria la perdita della validità psichica, ovvero secondo un orientamento analitico che considerava il danno biologico come pluridimensionale e personalizzato; b) il momento del calcolo del punteggio inerente alla perdita psicofisica, ed al danno biologico come dinamicamente inteso, data la sua natura di danno permanente, che si proietta nel futuro, con esiti invalidanti consolidati (e dunque suscettibili di aggravamento), con un sussidio matematico attuariale, costituito dalle tabelle dei tribunali periodicamente aggiornate e testate su una media ponderata delle decisioni risarcitorie.
Questa era la situazione e la prassi vigente presso il tribunale di Roma nel 1995, e la Cassazione, mentre non ha avuto nulla da obbiettare sui criteri scientifici di valutazione (che il giudice del merito deve tuttavia recepire criticamente, controllando che siano rispettate le acquisizioni probatorie), ha sempre precisato che l’applicazione tabellare non doveva essere mai automatica, ma congiunta ad un apprezzamento delle condizioni oggettive personalizzanti, che poi il legislatore del 2001 ha ricondotto a condizioni soggettive, ma oggetto di deduzione e di prova, utilizzando un termine solo apparentemente ambiguo, come se fosse riferito ad esigenze e preferenze rimesse al solo libero arbitrio della persona, e non all’apprezzamento prudente del giudice, (cfr. per il non automatismo e le condizioni personalizzanti: Cass. 20 luglio 1993 n. 8066, 4 marzo 1995 n. 2515, sino a Casa: 10 agosto 2002 n. 15418, Cass. 23 dicembre 2003 n. 19766 tra le tante, secondo un principio consolidato).
È di tutta evidenza che la nuova liquidazione del danno non patrimoniale si aggiunge a quella già operata dal primo giudice, per lo stesso titolo (donde la infondatezza del primo motivo).
Nella liquidazione del danno morale, provocato dalla morte di un prossimo congiunto, il giudice di merito deve procedere con valutazione equitativa, tenendo conto delle perdite affettive e della compromissione dell’integrità familiare (Cass. 28407 del 2008).
Nella liquidazione del danno non patrimoniale derivante da fatto illecito il giudice di merito deve, in ogni caso, tener conto delle effettive sofferenze patite dall’offeso, della gravità dell’illecito di rilievo penale e di tutti gli elementi della fattispecie concreta, in modo da rendere la somma liquidata adeguata al particolare caso concreto ed evitare che la stessa rappresenti un simulacro di risarcimento.
In tal modo ha proceduto la Corte territoriale, la quale ha opportunamente differenziato la posizione della vedova del P. da quella dei figli, tenendo conto della posizione di ciascuno, dell’età del defunto e di quella dei superstiti.
Per quanto riguarda la mancata indicazione del valore matematico prescelto dalla Corte territoriale, al fine della liquidazione del danno non patrimoniale, è appena il caso di ricordare che nella quantificazione del danno morale la valutazione di tale voce di danno, dotata di logica autonomia in relazione alla diversità del bene protetto, che pure attiene ad un diritto inviolabile della persona ovvero all’integrità morale, quale massima espressione della dignità umana, desumibile dall’art. 2 della Costituzione in relazione all’art. 1 della Carta di Nizza, contenuta nel Trattato di Lisbona, ratificato dall’Italia con legge 2 agosto 2008 n. 190, deve tener conto delle condizioni soggettive della persona umana e della concreta gravità del fatto, senza che possa quantificarsi il valore dell’integrità morale come una quota minore proporzionale al danno alla salute, dovendo dunque escludersi la adozione di meccanismi semplificativi di liquidazione di tipo automatico.
DANNO CAPACITA’ LAVORATIVA
Da epoca risalente è stato chiarito che il danno biologico, ovverosia la perdita della capacità lavorativa generica, è ben distinto dal danno che si riflette sul piano economico reddituale perché in tal caso occorre aver riguardo alla capacità di guadagno e non alla gravità dell’inabilità (ex multis, Cass. Civ., 19 gennaio 1999, n. 475; Cass. Civ., 11 maggio 1999, n. 4653 cui si è allineata la giurisprudenza successiva).
L’aggettivazione “specifica” ha la finalità di indicare il riferimento all’attività lavorativa realmente svolta dal soggetto, rapportata al reddito da essa prodotta. Infatti, consiste nella contrazione ( attuale o potenziale) dei redditi dell’infortunato, determinata da lesioni subite, in quanto dopo la lesione ed a causa di essa:
- a) se la vittima percepiva un reddito, non è più in grado di percepire il medesimo reddito di cui godeva prima del sinistro;
- b) nel caso in cui non fosse percettore di reddito non può più aspirare ad ottenere quel livello reddituale che avrebbe verosimilmente raggiunto in assenza della lesione;
Occorre però sottolineare che nei casi in cui la percentuale di invalidità permanente si presenta elevata, tale da rendere altamente probabile, se non addirittura certa, la menomazione della capacità lavorativa specifica e il danno che necessariamente da essa consegue, i giudici procedono all’accertamento presuntivo della perdita patrimoniale liquidando mediante criteri equitativi (Cass. Civ., sez. III, 23 agosto 2011, n. 17514). Da tempo si afferma, infatti, che i postumi permanenti di piccola entità, non essendo idonei ad incidere sulla capacità di guadagno, non pregiudicano la capacità lavorativa e “rientrano”, invece, nel danno biologico come menomazione della salute psicofisica della persona (Cass. Civ., 20 luglio 1993 n. 8066). Il che non significa che il danno biologico “assorba” anche la menomazione della generale attitudine al lavoro (Cass. 22 gennaio 1998 n. 605), giacché al danno alla salute resta pur sempre estranea la considerazione di esiti pregiudizievoli sotto il profilo dell’attitudine a produrre guadagni attraverso l’impiego di attività lavorativa; piuttosto, allorquando il grado di invalidità non consenta, per la sua entità o per il non attuale esercizio di attività lavorativa da parte del soggetto leso, una valutazione prognostica e, dunque, l’apprezzamento del lucro cessante, va privilegiato un meccanismo di liquidazione ( quello del danno alla salute) capace di cogliere nella sua totalità il pregiudizio subito dal soggetto nella sua integrità psico-fisica (Cass. Civ., sez. III, 24 febbraio 2011, n. 4493).
Adito da F.P. , istante per il risarcimento dei danni patiti a seguito di un incidente stradale verificatosi il 22 gennaio 2001 sull’autostrada Milano – Venezia, il Tribunale di Milano, preso atto della assenza di contestazione in ordine all’esclusiva responsabilità del conducente del veicolo proprietà della Minerva Autotrasporti, assicurata con la Winterthur s.p.a., condannò in solido la società di trasporti e la compagnia di assicurazioni al pagamento della somma di circa 237 mila Euro in favore dell’attore. La corte di appello di Milano, investita dei gravami hinc et inde proposti, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ridusse a 111 mila Euro la somma dovuta al F. , riformando integralmente il capo di sentenza che gli aveva riconosciuto, a titolo di lucro cessante per mancato guadagno futuro per postumi permanenti limitativi della sua capacità lavorativa specifica, la somma di 100.000 Euro, e parzialmente (da 40 mila a 35 mila Euro) quello relativo alla liquidazione del danno da inabilità temporanea. La sentenza è stata impugnata da F.P. con ricorso per cassazione sorretto da due motivi. Le parti intimate (Minerva e Winterthur) non hanno svolto attività difensiva in questa sede.
. Il quesito di diritto che ne conclude l’esposizione è il seguente: Dica la Corte se, ai fini della quantificazione del danno da lucro cessante da inabilità temporanea, il giudice, in applicazione dell’art. 2056 secondo comma e. e. debba previamente valutare se la particolare attività del danneggiato possa svolgersi in presenza di un residuo di inabilità o richieda invece la completa guarigione e se, al verificarsi della seconda ipotesi, il danno debba essere quantificato per ogni giorno in eguale misura prescindendo dal periodo e dal grado di inabilità. La doglianza è infondata. Essa si infrange, difatti, sul corretto impianto motivazionale adottato dal giudice d’appello nella parte in cui (ff. 9 ss. della sentenza impugnata) ha ritenuto di operare, in via presuntiva, una ricostruzione dello stato di salute del F. e della sua conseguente inabilità al lavoro con riguardo tanto al periodo di totale inattività (30 giorni) quanto a quello di attività ridotta del 75% (60 giorni), quanto ancora a quello di attività ridotta del 50% (75 giorni). Trattasi di valutazione di merito correttamente motivata e pertanto sottratta, ipso facto, al vaglio del giudice di legittimità.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III CIVILE
sentenza 23 settembre 2014, n. 20003
I fatti
Adito da F.P. , istante per il risarcimento dei danni patiti a seguito di un incidente stradale verificatosi il 22 gennaio 2001 sull’autostrada Milano – Venezia, il Tribunale di Milano, preso atto della assenza di contestazione in ordine all’esclusiva responsabilità del conducente del veicolo proprietà della Minerva Autotrasporti, assicurata con la Winterthur s.p.a., condannò in solido la società di trasporti e la compagnia di assicurazioni al pagamento della somma di circa 237 mila Euro in favore dell’attore. La corte di appello di Milano, investita dei gravami hinc et inde proposti, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ridusse a 111 mila Euro la somma dovuta al F. , riformando integralmente il capo di sentenza che gli aveva riconosciuto, a titolo di lucro cessante per mancato guadagno futuro per postumi permanenti limitativi della sua capacità lavorativa specifica, la somma di 100.000 Euro, e parzialmente (da 40 mila a 35 mila Euro) quello relativo alla liquidazione del danno da inabilità temporanea. La sentenza è stata impugnata da F.P. con ricorso per cassazione sorretto da due motivi. Le parti intimate (Minerva e Winterthur) non hanno svolto attività difensiva in questa sede.
Motivi della decisione
Il ricorso è fondato limitatamente al suo primo motivo. Con entrambi i motivi, si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2056, 1223, 1226, 2691, 2121, 2728, 2729 c.c. e 113 c.p.c.; insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia in relazione all’art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.. La prima censura attiene al mancato riconoscimento, da parte della Corte di appello, del danno da lucro cessante per riduzione della capacità lavorativa specifica. Il motivo si conclude con la formulazione del seguente motivo di diritto: Dica la Corte se, secondo il disposto dell’art. 2065 secondo comma c.c., il danno da lucro cessante possa essere riconosciuto allorché sussista documentazione idonea a dimostrare la riduzione concreta del guadagno futuro anche quando la CTU espletata nei precedenti gradi di giudizio non attesti la riduzione della capacità lavorativa sotto il profilo medico-legale; dica altresì la Corte se la prova della riduzione futura della capacità di guadagno possa essere dimostrata solo attraverso le dichiarazioni dei redditi riferite agli anni successivi al verificarsi del sinistro oppure anche per il tramite di altra documentazione idonea a dimostrare o far comunque presumere che il guadagno futuro sarà in concreto inferiore a quello degli anni antecedenti il sinistro. Il motivo è fondato. Risultano circostanze di fatto accertate e non contestate: 1) Che il ricorrente svolgesse attività di venditore televisivo di oggetti d’arte e di antiquariato; 2) Che tale attività fosse svolta in diretta, per diverse ore consecutive; 3) Che la necessità di memorizzare i dettagli relativi agli oggetti da vendere costituisse parte integrante e caratterizzante detta attività; 4) Che, all’esito dell’incidente occorsogli, il F. accusasse la persistenza di significativi sintomi invalidanti, quali vertigini, sensazione di ansia in locali stretti, deficit di concentrazione e di memoria; 5) Che, in data 1.2.2002, la società Telemarket – con la quale il F. collaborava in via esclusiva all’epoca del sinistro come libero professionista – ebbe a comunicargli con lettera la propria decisione di avvalersi della sua collaborazione per un periodo ridotto rispetto al periodo precedente l’incidente, a causa “delle non perfette condizioni fisiche, tali da impedire di utilizzare la sua professionalità e la sua nota capacità espositiva, risultando evidente che, pur a mesi di distanza dal sinistro, le sue condizioni psico-fisiche non risultavano del tutto migliorate, tanto da impedirgli di svolgere la abituale mole di lavoro”; 6) Che, conseguentemente, la società di televendita aveva deciso di utilizzare il F. per un periodo ridotto (non più di tre trasmissioni settimanali), limitando ai soli orari notturni tale impiego. Alla luce di tali emergenze processuali, apodittica ed insufficiente appare la motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui, formulando un’ipotesi di tipo presuntivo del tutto svincolata dalla realtà di fatto concretamente emersa nella fattispecie concreta, discorre di “possibilità, per l’attore, di prosecuzione immutata del proprio lavoro presso Telemarket ovvero per altre televisioni commerciali ovvero per clienti privati”. Speculare insufficiente appare ancora la motivazione nella parte in cui ancora alla (sola) mancata produzione delle dichiarazioni dei redditi degli anni 2001 e 2002 la possibilità di prova della contrazione degli introiti, poiché la valutazione prognostica del pregiudizio economico proiettantesi nel futuro consente anche di avvalersi di presunzioni semplici (quali quelle poc’anzi indicate, nella specie non contrastate ovvero contraddette da prove diverse o contrarie specularmene addotte ex adverso), salva determinazione equitativa del quantum risarcitorio in assenza di prova certa offertone dalla parte istante. Con la seconda censura si lamenta la illegittimità della riduzione del risarcimento operata dalla Corte di appello rispetto alla pronuncia di primo grado con riferimento ai danni riferibili al periodo di inabilità temporanea patita dal F. . Il quesito di diritto che ne conclude l’esposizione è il seguente: Dica la Corte se, ai fini della quantificazione del danno da lucro cessante da inabilità temporanea, il giudice, in applicazione dell’art. 2056 secondo comma e. e. debba previamente valutare se la particolare attività del danneggiato possa svolgersi in presenza di un residuo di inabilità o richieda invece la completa guarigione e se, al verificarsi della seconda ipotesi, il danno debba essere quantificato per ogni giorno in eguale misura prescindendo dal periodo e dal grado di inabilità. La doglianza è infondata. Essa si infrange, difatti, sul corretto impianto motivazionale adottato dal giudice d’appello nella parte in cui (ff. 9 ss. della sentenza impugnata) ha ritenuto di operare, in via presuntiva, una ricostruzione dello stato di salute del F. e della sua conseguente inabilità al lavoro con riguardo tanto al periodo di totale inattività (30 giorni) quanto a quello di attività ridotta del 75% (60 giorni), quanto ancora a quello di attività ridotta del 50% (75 giorni). Trattasi di valutazione di merito correttamente motivata e pertanto sottratta, ipso facto, al vaglio del giudice di legittimità.
P.Q.M.
La corte accoglie il primo motivo di ricorso, rigetta il secondo, cassa la sentenza impugnata e rinvia il procedimento alla Corte di appello di Milano in altra composizione. Nulla per le spese del giudizio di cassazione, non avendo la parte intimata svolto attività difensiva in questa sede.
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