FACEBOOK STALKING? QUANDO? COME?

INVIO DI MESSAGGI SMS INTEGRA ELEMENTO OGGETTIVO STALKING.

LO AFFERMA LA CORTE SUPREMA  .

ALCUNI MESSAGGI NON DESIDERATI INTEGRANO LO STALKING

STALKING : SECONDO A CORTE SUPREMA :

integra l’elemento materiale del delitto di atti persecutori la condotta di chi reiteratamente pubblica sui “social network” foto o messaggi aventi contenuto denigratorio della persona offesa

SU FACEBOOK POSSIAMO AVERE LO STALKING? PARE DI SI

– integra l’elemento materiale del delitto di atti persecutori il reiterato invio alla persona offesa di “sms” e di messaggi di posta elettronica o postati sui cosiddetti “social network” (ad esempio “facebook“), nonché la divulgazione attraverso questi ultimi di filmati ritraenti rapporti sessuali intrattenuti dall’autore del reato con la medesima (Sez. 6, n. 32404 del 16/07/2010, Distefano, Rv. 248285);
– integra l’elemento materiale del delitto di atti persecutori la condotta di chi reiteratamente pubblica sui “social network” foto o messaggi aventi contenuto denigratorio della persona offesa con riferimenti alla sfera della sua libertà sentimentale e sessuale in violazione del suo diritto alla riservatezza (Sez. 5, n. 26049 del 01/03/2019, Rv. 276131).

Si è così inteso affermare che non è tanto il mezzo attraverso il quale si diffonde la comunicazione che consente di ritenere il delitto di cui all’art. 612 bis c.p. ma è, piuttosto, il contenuto della stessa che deve costituire un comportamento concretamente vessatorio a danno della persona offesa: e così si era ritenuto nei due citati arresti, in cui l’agente aveva diffuso notizie inerenti ala sfera più intima della personalità della vittima.

  1. Del resto, lo stesso legislatore aveva modificato – con il D.L. n. 14 agosto 2013, n. 93, art. 1, comma 3, lett. a), convertito, con modificazioni, dalla L. 15 ottobre 2013, n. 119 – l’art. 612 bis c.p., comma 2, introducendovi l’ipotesi di aggravamento della pena quando il fatto sia commesso “attraverso strumenti informatici o telematici”, così, per un verso, chiarendo come il delitto possa consumarsi anche attraverso tali modalità di comunicazione e, per l’altro, affermando che, l’utilizzo delle stesse, doveva considerarsi connotato da un maggior disvalore sociale dell’atto persecutorio.

 

Corte di Cassazione

sez. V Penale, sentenza 31 marzo – 17 maggio 2021, n. 19363
Presidente Zaza – Relatore Scarlini

Ritenuto in fatto

  1. Con sentenza del 26 giugno 2020, la Corte di appello di Messina confermava la sentenza del Tribunale di Patti che aveva ritenuto G.C.F. colpevole dei delitti contestatigli ai sensi degli artt. 612 bis e 595 c.p., consumati ai danni di R.S. e M.A. , rispettivamente sindaco e presidente del consiglio comunale di (OMISSIS) , minacciandoli e molestandoli a mezzo del suo profilo Facebook, cagionando nei medesimi un perdurante stato d’ansia e un fondato timore per l’incolumità propria e dei familiari e costringendoli a mutare le abitudini di vita, e, nel contempo, offendendone la reputazione.

1.1. La Corte territoriale, in risposta ai motivi di appello, aveva osservato che:
– erano stati documentalmente accertati i continui insulti e minacce che l’imputato aveva inserito nel suo profilo facebook, rivolti nei confronti delle persone offese;
– il querelante M. aveva riferito che le minacce proferite dal prevenuto gli avevano procurato uno stato di d’ansia e di timore tale da indurlo a chiedere la protezione di una scorta;
– il querelante R. aveva affermato che lo stato d’ansia che le intimidazioni dell’imputato gli avevano procurato non era certo smentito dalle dichiarazioni pubbliche da lui rilasciate volte soltanto a rassicurare la popolazione sulla continuità del suo impegno di pubblico amministratore.

1.2. La Corte territoriale aveva pertanto concluso confermando le condanne del primo giudice, ritenendo che le minacce, gravi e ripetute, del prevenuto configurassero il delitto di atti persecutori (avendo cagionato gli eventi previsti da tale norma) e le espressioni offensive, parimenti pubblicate sul profilo del prevenuto concretassero gli elementi del contestato delitto di diffamazione (costituendo, le stesse, dei meri insulti del tutto avulsi da un concreto dissenso circa le scelte amministrative adottate dalle due persone offese, così da doversi escludere l’invocata scriminante del diritto di critica).
La Corte osservava, infine, come i precedenti penali del reo e la reiterazione dei fatti fornissero adeguata motivazione al trattamento sanzionatorio deciso dal primo giudice.
2. Propone ricorso l’imputato, a mezzo del suo difensore, articolando le proprie censure in quattro motivi.
2.1. Con il primo deduce la violazione di legge in ordine alla ritenuta sussistenza del delitto di atti persecutori.

Ricordava, in particolare, come questa Corte di cassazione avesse inteso escludere la configurabilità del delitto di atti persecutori a mezzo di articoli giornalisti ed interventi su siti internet di natura diffamatoria (Cass. n. 48007/2016). Aggiungeva che, anche nel caso di specie (come nella vicenda sottesa alla citata pronuncia), l’imputato non aveva realizzato alcuna condotta molesta, quale il proferire minacce o l’effettuare pedinamenti o appostamenti.

2.2. Con il secondo motivo lamenta la violazione di legge ed il difetto di motivazione in relazione alla valutazione del compendio probatorio.
I necessari eventi del reato di atti persecutori erano stati ritenuti provati in base alle sole affermazioni delle persone offese, che avevano però continuato a svolgere le proprie funzioni di amministratori pubblici, così smentendo le loro stesse affermazioni al riguardo.

Sulle questioni politico-amministrative che il ricorrente aveva inteso contestare con i propri scritti, le due presunte persone offese avevano rilasciato, in più occasioni pubbliche, dichiarazioni tali da dimostrare che i suddetti interventi non li avevano affatto intimiditi.
Nè era stato deciso, a loro tutela, alcun servizio di scorta.

2.3. Con il terzo motivo denuncia, in relazione al delitto di diffamazione, la violazione di legge ed il vizio di motivazione per non essere stata riconosciuta l’esimente del diritto di critica politica.

Con i descritti interventi sul social-media, l’imputato aveva inteso contestare l’azione amministrativa portata avanti dalle due persone offese, in relazione a vicende di rilievo pubblico, il cui requisito di verità doveva essere riguardato secondo i canoni, particolarmente ampi, propri della critica di natura politica.
Ed altrettanto doveva ritenersi per la continenza delle espressioni usate (Cass. n. 317/2017).

2.4. Con il quarto motivo deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione alla dosimetria della pena.
Si erano negate le circostanze attenuanti generiche per la solo pretesa assenza di ragioni di meritevolezza. Non si era tenuto conto che i precedenti penali patiti dall’imputato erano risalenti nel tempo e riferiti a fattispecie depenalizzate.
3. Il Procuratore generale della Repubblica presso questa Corte, nella persona del sostituto Paola Filippi, ha chiesto che il ricorso venga dichiarato inammissibile.

  1. Il difensore dell’imputato ha chiesto il rinvio dell’udienza per la sua partecipazione all’astensione proclamata dall’Unione camere penali.

Considerato in diritto

  1. Preliminarmente deve osservarsi come, in mancanza della istanza di trattazione orale del processo, l’invocata astensione del difensore dal partecipare all’udienza non ha rilievo alcuno, non essendo, appunto, prevista la sua presenza alla celebrazione della medesima.

    Oltre a ciò, l’imputato risulta, a questa Corte, ancora ristretto agli arresti domiciliari, un’evenienza che non consente l’astensione del difensore ai sensi dell’art. 4 del Codice di autoregolamentazione.

    2. Quanto al contenuto delle censure formulate, il ricorso proposto nell’interesse dell’imputato G. non merita accoglimento.

    3. Sulla configurabilità di condotte moleste o minacciose veicolate tramite la rete internet la giurisprudenza di questa Corte si è già più volte pronunciata, dovendo tenere adeguato conto delle particolarità del mezzo in generale e delle caratteristiche dei singoli modi di comunicazione che la rete consente (dai siti di vere e proprie testate giornalistiche, dai blog di discussione, ai social-media che consentono dirette interazioni fra singoli utenti).

  2. Si è così affermato (con la pronuncia citata anche in ricorso) che la mera pubblicazione, ancorché reiterata, di articoli giornalistici di contenuto diffamatorio non integra il delitto di atti persecutori (Sez. 5, n. 48007 del 19/10/2016, Rv. 268462) e, ponendosi sul medesimo filone interpretativo, si è anche affermato (Sez. 5, n. 34512 del 03/11/2020, Rv. 279977) che il ricordato reato non si configura neppure mediante la pubblicazione di “post” (ovvero di singoli messaggi rivolti ad una determinata persona) su una pagina “Facebook”, liberamente accessibile a chiunque, che siano meramente canzonatori ed irridenti, in assenza del requisito della inevitabile invasività della sfera privata della vittima, attuale, invece, solo con altri mezzi (sms, e messaggi whatsapp per citare i più avanzati tecnologica mente).

Costruendo così, almeno apparentemente, un orientamento giurisprudenziale che sembrerebbe negare la stessa possibilità di intimidire con minacce o arrecare molestia a chicchessia tramite internet qualora il mezzo di comunicazione scelto non comporti un’immediata invasione della sfera privata del destinatario (dovendosi pertanto escludere quelle modalità di consultazione dei messaggi altrui che siano attivabili solo ad iniziativa del ricevente: la consultazione di un blog, la visita ad un sito, l’apertura, nei social-media, di “profili” di altri soggetti).
In realtà, in entrambe le pronunce citate (la n. 48007 del 2016 e la più recente n. 34512 del 2020) erano i fatti stessi, oggetto dei giudizi, a non costituire un idoneo presupposto per la configurabilità del delitto di atti persecutori, perché escluse le minacce che non ricorrevano, si era soltanto rilevato come i contenuti pubblicati, pur ipoteticamente diffamatori, non avessero determinato (anche per il mezzo utilizzato) alcuna concreta molestia alle presunte vittime del reato.

Tanto che, nella prima sentenza, la n. 48007 del 2016, non si negava affatto che la violazione dell’art. 612 bis c.p. avrebbe potuto attuarsi con comunicazioni veicolate tramite il social-media Facebook, ma solo nel caso in cui le medesime si fossero iscritte in un più ampio spettro di condotte, tali da configurare appunto un comportamento concretamente molesto.

  1. A fronte di tali arresti giurisprudenziali se ne rinvengono, invece, altri nei quali questa Corte ha positivamente affermato l’avvenuta consumazione del delitto di atti persecutori a mezzo di messaggi e comunicazioni diffusi tramite i social-media.


Si è, infatti, precisato che:
– integra l’elemento materiale del delitto di atti persecutori il reiterato invio alla persona offesa di “sms” e di messaggi di posta elettronica o postati sui cosiddetti “social network” (ad esempio “facebook”), nonché la divulgazione attraverso questi ultimi di filmati ritraenti rapporti sessuali intrattenuti dall’autore del reato con la medesima (Sez. 6, n. 32404 del 16/07/2010, Distefano, Rv. 248285);
– integra l’elemento materiale del delitto di atti persecutori la condotta di chi reiteratamente pubblica sui “social network” foto o messaggi aventi contenuto denigratorio della persona offesa con riferimenti alla sfera della sua libertà sentimentale e sessuale in violazione del suo diritto alla riservatezza (Sez. 5, n. 26049 del 01/03/2019, Rv. 276131).

Si è così inteso affermare che non è tanto il mezzo attraverso il quale si diffonde la comunicazione che consente di ritenere il delitto di cui all’art. 612 bis c.p. ma è, piuttosto, il contenuto della stessa che deve costituire un comportamento concretamente vessatorio a danno della persona offesa: e così si era ritenuto nei due citati arresti, in cui l’agente aveva diffuso notizie inerenti ala sfera più intima della personalità della vittima.

  1. Del resto, lo stesso legislatore aveva modificato – con il D.L. n. 14 agosto 2013, n. 93, art. 1, comma 3, lett. a), convertito, con modificazioni, dalla L. 15 ottobre 2013, n. 119 – l’art. 612 bis c.p., comma 2, introducendovi l’ipotesi di aggravamento della pena quando il fatto sia commesso “attraverso strumenti informatici o telematici”, così, per un verso, chiarendo come il delitto possa consumarsi anche attraverso tali modalità di comunicazione e, per l’altro, affermando che, l’utilizzo delle stesse, doveva considerarsi connotato da un maggior disvalore sociale dell’atto persecutorio.

  2. Si tratta, allora, di formulare il giudizio in fatto, sulla petulanza o, altrimenti, come nel caso di specie, sull’efficacia intimidatoria degli scritti (o delle registrazioni foniche o dei video) “postati” su social-media come Facebook a determinare la configurabilità del delitto di atti persecutori.

    Giudizio in cui certo acquisiscono rilievo (seppure, come detto, non di per sé risolutivo) anche i modi propri di questa particolare forma di diffusione dei messaggi.

Così, nel caso del social-media Facebook (ma anche di altri analoghe comunità virtuali), deve tenersi conto del fatto le comunicazioni possono avvenire sia inviandole al “profilo” del destinatario, sia pubblicandole sul proprio “profilo” (come è avvenuto nel caso odierno). E, in questa seconda evenienza, avrà anche rilievo l’accessibilità ai terzi del medesimo.

Risulta, innanzitutto, evidente che, quando il messaggio sia inviato al “profilo” della persona offesa, in nulla tale comunicazione diverge da quelle veicolate con altro mezzo di diffusione (con il telefono o con i sistemi di messaggistica, quali gli sms, o, anche, per restare a quelli che si avvalgono della rete internet, whatsapp e simili, quali telegram, messenger ed altri) poiché, in questo caso, si attua una diretta invasione della sfera privata altrui.

Quando, invece, il messaggio, pur rivolto ad una determinata persona (come nel caso di specie ove non è neppure contestato che le due persone offese ne fossero i destinatari), sia pubblicato sul profilo dell’imputato se ne dovrà verificare la conoscibilità, certamente scontata quando il “profilo” sia ampiamente accessibile.

Come è avvenuto nell’odierno caso concreto in cui entrambe le persone offese erano venute a perfetta conoscenza delle espressioni “postate” dal prevenuto sul proprio “profilo” (di sicura efficacia intimidatoria, come si è detto, tanto da avere giustificato, per la loro oggettiva gravità ed attendibilità, la richiesta e l’adozione di una misura cautelare personale) visto che risulta, anche, che le avessero registrate, tanto da poterle, poi, produrre in giudizio ai fini della prova della loro esistenza.

  1. Del resto, anche se le persone offese non fossero venute a personale e diretta conoscenza dei “post” dell’imputato, soccorrerebbe il costante orientamento giurisprudenziale di questa Corte (da ultimo rappresentato dalla pronuncia Sez. 5, n. 38387 del 01/03/2017, Dardo, Rv. 271202) secondo il quale, ai fini della configurabilità del delitto di minaccia, non è necessario che le espressioni intimidatorie siano pronunciate in presenza della persona offesa, potendo quest’ultima venirne a conoscenza anche attraverso altri, in un contesto dal quale possa desumersi la volontà dell’agente di produrre l’effetto intimidatorio (e, nel caso di specie, alla luce dello stesso tenore letterale delle espressioni “postate” dal prevenuto, non sussistono margini di dubbio sul fatto che questi intendesse rivolgersi, direttamente o indirettamente, alle due odierne persone offese).

Un principio di diritto, quello appena ricordato, che deve ritenersi applicabile anche alle minacce che costituiscano l’elemento oggettivo (con uno dei conseguenti necessari eventi descritti dalla norma) del delitto di atti persecutori.

  1. Così che risultano infondati (seppure non manifestamente per la particolarità della vicenda) il primo ed il secondo motivo di ricorso, spesi sulla configurabilità in astratto ed in concreto del delitto di atti persecutori, dovendosi, anche, considerare che gli eventi, del reato, denunciati dalle due persone offese, lo stato d’ansia e di timore derivato loro dalla minacce del ricorrente, trovano adeguato riscontro, fattuale e logico, sia nella gravità delle minacce stesse, sia nella loro richiesta di essere tutelati dalla pubblica autorità preposta alla conservazione dell’ordine pubblico (ancorché a tali istanze non fosse stato dato seguito, pur essendosi, come ricordato, altrimenti e significativamente, proceduto, applicando una misura di cautela personale al prevenuto).

Irrilevante, a fronte di tali circostanze, è il fatto che una delle persone offese avesse dichiarato, in una pubblica intervista, di nulla temere, avendo egli attendibilmente affermato che, in tale occasione, aveva inteso soltanto rassicurare la cittadinanza sul regolare andamento dell’attività amministrativa (non certo intendendo disvelare al pubblico i propri comprensibili timori).

  1. Sono, invece, manifestamente infondate le censure relative alla configurabilità del delitto di diffamazione anche in considerazione dell’assunta ricorrenza della scriminante del diritto di critica.

Le espressioni riportate al capo B della rubrica costituiscono delle mere contumelie, senza che, in esse, si trovi alcun concreto riferimento ad una qualsiasi questione politica o amministrativa che le avrebbe generate.
Così che, prendendosi atto, innanzitutto, dell’assenza del requisito della continenza del linguaggio, non può neppure ipotizzarsi una qualche verifica della verità, o della verosimiglianza (e, quindi, anche del rilievo pubblico) del fatto narrato.
È pertanto inammissibile il terzo motivo di ricorso.

  1. Come è inammissibile il quarto, sul diniego delle circostanze attenuanti generiche e sulla dosimetria della pena.

Avendo, su tali punti, la Corte di merito reso una motivazione manifestamente priva di vizi logici, rilevando, per un verso, l’assenza di ragioni di meritevolezza e le precedenti condanne patite dall’imputato, e, per l’altro, la gravità e ripetitività delle condotte.
12. Al complessivo rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Il titolo del reato di cui al capo A impone l’oscuramento dei dati identificativi.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Dispone che, in caso di pubblicazione del presente provvedimento, siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.

 

 

 

 

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