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EREDITA’ TESTAMENTO AVVOCATO PER EREDITA’ A BOLOGNA,CONSULENZE SU QUESTIONI EREDITARIE A BOLOGNA
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BOLOGNA FERRARA FORLI RAVENNA EREDITA’ TESTAMENTO AVVOCATO PER EREDITA’ A BOLOGNA,CONSULENZE SU QUESTIONI EREDITARIE A BOLOGNA
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE II
SENTENZA 10 GENNAIO 2014, N. 406
Svolgimento del processo
1. – D.F.L. , in nome e per conto della figlia minore G.A. , conveniva in giudizio davanti il tribunale di Bologna R.R. per sentire accertare la lesione della quota di legittima spettante alla G. con la condanna della convenuta alla restituzione dei beni ereditari nonché dei frutti. Deduceva che la minore G.A. era erede naturale del padre G.G. , il quale – deceduto in (OMISSIS) aveva nominato erede universale la moglie R.R. , ed alla sua morte, la figlia G.A. , per i beni residui. R.R. , costituendosi in giudizio, non contestava la qualità di erede della minore, ma negava che vi fosse una cassetta di sicurezza ed evidenziava che esisteva una sola polizza assicurativa, che era stata incassata dalla attrice;
chiedeva, quindi, che il tribunale dichiarasse il suo diritto ad ottenere sia la legittima che la disponibile sul patrimonio residuo, provvedendosi, altresì, alla formazione dell’asse ereditario ed alla sua divisione secondo legge, tenendosi contro sia di quanto già incassato dall’attrice che della esistenza di debiti che gravavano sull’eredità. A seguito del raggiungimento da parte della G. della maggior età, il processo si interrompeva e veniva proseguito dalla G. .
BOLOGNA FERRARA FORLI RAVENNA EREDITA’ TESTAMENTO AVVOCATO PER EREDITA’ A BOLOGNA,CONSULENZE SU QUESTIONI EREDITARIE A BOLOGNA
Il tribunale di Bologna, con sentenza non definitiva del 3 febbraio 1987, accertava che la G. aveva diritto di concorrere al patrimonio relitto dal padre in misura di 1/4 della piena proprietà ed in misura di 1/5 dei 5/12 assegnati in usufrutto alla R. , rigettava la domanda relativa alla polizza n.982253, stipulata dal de cuius nell’esclusivo interesse della figlia.
Con sentenza definitiva del 22 giugno 1999 il tribunale disponeva la divisione del patrimonio assegnando alla G. l’immobile sito in (omissis) , mentre erano assegnati alla convenuta gli immobili siti in (OMISSIS) e la villa in (omissis) ; condannava la R. al pagamento del conguaglio pari a lire 33.604.182 oltre rivalutazione monetaria dal 26-4-1995 con gli interessi sulla somma rivalutata mese per mese fino al saldo; condannava la convenuta, a titolo di risarcimento dei danni, per il mancato godimento dal 1975 al 31-12-1988, nella misura del 27% della somma di L. 144.315.000, al netto degli oneri fiscali, con rivalutazione ed interessi sulla somma via via rivalutata sino al saldo, precisando che l’attrice aveva limitato la propria domanda fino al 31.12.1988; quanto ai beni mobili, stabiliva che all’attrice andavano consegnate n. 135 azioni (OMISSIS) , n. 2100 azioni (omissis) , n. 300 azioni (omissis) , n. 135 azioni (OMISSIS) e n. 500 azioni (…), oltre i frutti nella misura del 27%; condannava la R. al pagamento delle spese processuali.
Con sentenza dep. il 31 ottobre 2007 la Corte di appello di Bologna riformava la decisione definitiva che era stata impugnata da entrambe le parti. In accoglimento dell’appello proposto dalla R. , riteneva che le spese di primo grado dovessero compensarsi; assegnava alla predetta anche l’immobile sito in (OMISSIS) oltre quelli attribuiti dal tribunale, ponendo a suo carico l’importo di Euro 70.000,00 a titolo di conguaglio da rivalutare dal settembre 1988 nonché al pagamento su detto importo degli interessi legali dalla pubblicazione della decisione di appello.
Per quel che ancora interessa nella presente sede, il predetto immobile sito in (…) era assegnato alla convenuta sul rilievo che, essendo la medesima titolare della maggiore quota, il criterio sancito dall’art. 720 cod. civ. andava applicato con riferimento a ogni singolo immobile facente parte dell’asse ereditario. Tenuto conto che il valore complessivo degli immobili era pari a lire 477.000.000, in considerazione delle quote di cui era titolare la G. , alla medesima spettava l’importo complessivo di lire 135.500.000,pari a Euro 70.000,00 che andava rivalutato dal momento della redazione della consulenza (settembre 1988).
Era riformata la sentenza definitiva che aveva accolto la domanda di corresponsione dei frutti relativi agli immobili detenuti dalla convenuta, sul rilievo che l’attrice non aveva offerto la prova che tali beni avessero effettivamente prodotto frutti percepiti dalla R. , posto che tale circostanza era stata contestata e indirettamente provata dalla convenuta, la quale aveva dedotto che l’immobile di (…) era stato concesso in comodato ai suoceri, quello di (omissis) era collabente e quello nel quale la moglie viveva con il de cuius (Villa di (omissis) ) costituiva la casa coniugale su cui la medesima era titolare del diritto di abitazione. Ugualmente doveva ritenersi per le azioni che non avevano dato alcuna redditività.
Nel respingere l’appello incidentale proposto dall’attrice, i Giudici confermavano la sentenza definitiva la quale aveva ritenuto che 40.000 fosse il valore e non il numero delle azioni relitte come preteso dall’attrice, essendo la diversa indicazione contenuta nella denuncia di successione conseguenza di un mero errore materiale, come si ricavava dalla documentazione prodotta dall’appellante e dalle informazioni rese dall’Istituto di credito. Nel dispositivo erano poste a carico della G. le spese relative al giudizio di appello. 2.- Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione la D.F. , quale erede di G.A. nelle more deceduta, sulla base di otto motivi illustrati da memoria. Resiste con controricorso l’intimata proponendo ricorso incidentale affidato a due motivi.
Motivi della decisione
Preliminarmente il ricorso principale e quello incidentale vanno riuniti, ex art. 335 cod. proc. civ., perché sono stati proposti avverso la stessa sentenza. Va ancora rilevata la legittimazione della D.F. a proporre il presente ricorso, avendo provato la qualità di erede della figlia G.A. , nelle more deceduta, avendo prodotto il relativo certificato di morte. RICORSO PRINCIPALE. 1.1. – Il primo motivo, lamentando violazione e/o falsa applicazione dell’art. 718 e 720 cod. civ., censura la decisione gravata che, nell’assegnare alla convenuta tutti gli immobili in comunione aveva disapplicato il generale e prevalente principio della divisione in natura dei beni, quando la norma di cui all’art. 720 citato ne costituisce una deroga applicabile esclusivamente nei casi tassativamente indicati da tale norma. La Corte non aveva preso in considerazione la possibilità della formazione di singole porzioni 1.2. –
Il motivo va accolto. La sentenza, nell’attribuire anche l’immobile sito in (…) alla R., la quale in tal modo è risultata assegnataria dell’intero complesso immobiliare (gli altri due immobili le erano stati già attribuiti con la sentenza definitiva del tribunale), ha tenuto conto esclusivamente del criterio sancito dall’art. 720 cod. civ. in tema di divisione di immobili non comodamente divisibili, individuando l’assegnatario nel comunista titolare della quota maggiore su ciascuno dei beni immobili caduti in successione. Qui occorre chiarire che in tema di divisione ereditaria, a norma dell’art. 718 cod. civ., ciascun coerede ha diritto alla parte in natura dei beni mobili e immobili dell’eredità, salve le disposizioni degli articoli successivi.
In particolare, il principio è derogato fra l’altro dall’art. 720 cod. civ., che disciplina l’ipotesi in cui l’eredità comprenda beni immobili non comodamente divisibili, o il cui frazionamento recherebbe pregiudizio alle ragioni della pubblica economia o dell’igiene e la divisione dell’intero non possa effettuarsi senza il loro frazionamento : in tale ipotesi detti immobili devono preferibilmente essere compresi per intero, con addebito dell’eccedenza, nelle porzioni di uno dei coeredi aventi diritto alla quota maggiore, o anche alle porzioni di più coeredi ove questi ne richiedano congiuntamente l’attribuzione.
La deroga alla previsione dell’art. 718 cod. civ. – la cui applicazione è rimessa alla valutazione discrezionale del giudice, che, peraltro, deve adeguatamente motivarla – è riferibile esclusivamente alla ipotesi in cui singole unità immobiliari siano considerate indivisibili, non potendo trovare applicazione alle ipotesi in cui vi sia una pluralità di beni immobili, laddove è possibile procedere a un progetto che consenta l’assegnazione in natura a ciascun condividente di porzioni dei beni ereditari (Cass. 7700/1994; 25332/2011). Orbene, la sentenza impugnata ha fatto erronea applicazione di tali principi e di quanto statuito anche dalla S.C. la quale, con la decisione n. 21294/2004, richiamata dai Giudici di appello, pur facendo riferimento alla titolarità della maggior quota, aveva confermato la sentenza impugnata che aveva attribuito a ciascuno dei condividenti (o gruppo di condividenti) uno dei due immobili caduti in successione, proprio in attuazione del principio di cui all’art. 718 cod. civ.: infatti, la titolarità della quota maggioritaria sui due immobili non apparteneva al medesimo condividente (come nel caso de quo) ma a condividenti diversi nel senso che il comunista, titolare della quasi totalità delle quote di comproprietà su un fabbricato, aveva quote minime sul terreno di cui invece gli altri condividenti avevano la maggioranza. 2.1. –
Il secondo motivo, lamentando violazione e/o falsa applicazione dell’art. 728 cod. civ., censura la sentenza impugnata laddove aveva stabilito il conguaglio relativo all’immobile sito in (…) assegnato con la sentenza impugnata alla R. con riferimento alla stima compiuta dal consulente nel 1988 quando si sarebbe dovuto fare riferimento al valore di mercato del bene all’attualità, non essendo sufficiente la rivalutazione monetaria. 2.2.- Il motivo è assorbito. L’accoglimento del primo motivo – comportando la caducazione della statuizione relativa alla assegnazione dell’immobile di (…) – assorbe ogni questione circa il relativo conguaglio. 3.1..-
Il terzo motivo, lamentando violazione e/o falsa applicazione dell’art. 728 cod. civ., in via subordinata denuncia le modalità di determinazione degli interessi legali sulla somma dovuta a titolo di conguaglio, tenuto conto che gli stessi decorrono sugli importi di volta in volta maturati. 3.2.- Anche questo motivo è assorbito per le medesime considerazioni formulate sopra. 4.1.-
Il quarto motivo (omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto decisivo della controversia) censura la sentenza impugnata che, nell’escludere la esistenza di frutti mobiliari, aveva omesso di esaminare quanto era al riguardo emerso dagli elaborati peritali depositati nel procedimento di primo grado, laddove era stato determinato il valore complessivo delle rendite maturate. 4.2.-
Il motivo è fondato. La sentenza si è limitata ad affermare in modo apodittico che le azioni non avevano dato alcuna reddittività senza peraltro indicare le ragioni di tale convincimento e senza esaminare e dare conto di quanto emerso dalle risultanze processuali alle quali ha fatto cenno il ricorrente. 5.1.- Il quinto motivo, lamentando violazione e/o falsa applicazione degli artt. 718 e 720 cod. civ., censura la sentenza laddove, nell’escludere il credito relativo ai frutti derivanti dal godimento degli immobili, aveva fondato la decisione su una circostanza irrilevante ovvero la assenza di prova dell’effettiva maturazione e del percepimento dei frutti da parte della convenuta, quando il diritto deriva dalla redditività del bene goduto dal comunista fino al momento dello scioglimento della comunione. 5.2.- Il motivo è fondato nei limiti di cui si dirà. Il diritto dei comunisti alla quota dei frutti dei beni caduti in comunione trova fonte nella redditività potenziale del bene che è rimasto nell’effettivo godimento di uno solo dei comproprietari, tenuto conto che in tema di divisione immobiliare, il condividente di un immobile che durante il periodo di comunione abbia goduto del bene in via esclusiva senza un titolo giustificativo, deve corrispondere agli altri i fratti civili, quale ristoro della privazione della utilizzazione “pro quota” del bene comune e dei relativi profitti, con riferimento ai prezzi di mercato correnti dal tempo della stima per la divisione a quello della pronuncia. (Cass. n. 7881 del 2011).
Appare del tutto irrilevante – e non potrebbe evidentemente pregiudicare gli altri comproprietari – la non utile gestione che il comunista nel possesso dei beni – il quale amministra il bene anche nell’interesse e per conto degli altri – abbia fatto, dando di sua iniziativa il bene in uso gratuito (comodato), come è avvenuto per l’immobile di XXXXX. Peraltro, la capacità del bene di produrre reddito va evidentemente compiuta in relazione allo stato in cui il bene si trovi, dovendo verificarsi se lo stesso possa essere effettivamente oggetto di utilizzazione. Nella specie, la motivazione appare insufficiente laddove non risulta compiuto alcuna effettiva indagine in merito allo stato in cui si trovava l’immobile di (OMISSIS) e in relazione alle condizioni denunciate con l’appello principale: evidentemente il giudice di rinvio dovrà compiere tale indagine. Appare invece corretto escludere l’obbligo di frutti relativamente all’immobile (villa (omissis) ), perché abitato dal coniuge abitasse al momento della morte del de cuius (circostanza che non risulta specificamente contestata) : essendo oggetto del legato ex lege a favore del coniuge superstite, l’acquisto avviene al momento dell’apertura della successione ed esclude – relativamente a esso – quindi lo stato di comunione. 6.1.- Il sesto motivo ( violazione e/o falsa applicazione dell’art. 282 cod. proc. civ.) denuncia che erroneamente la sentenza aveva fatto decorrere gli interessi compensativi sul conguaglio dalla data della sentenza di appello, dovendo gli stessi piuttosto decorrere dalla sentenza definitiva del tribunale che, essendo provvisoriamente esecutiva, aveva determinato lo scioglimento della comunione. 6.2.
Il motivo è infondato. Occorre premettere che la sentenza di appello, in accoglimento dell’impugnazione proposta dalla R. , ha determinato dalla data di pubblicazione della decisione la decorrenza degli interessi compensativi dovuti sul complessivo conguaglio liquidato (quindi anche sul conguaglio sugli immobili attribuiti con la decisione del tribunale). Al riguardo va chiarito che il principio della natura dichiarativa della sentenza di divisione opera esclusivamente in riferimento all’effetto distributivo, per cui ciascun condividente è considerato titolare, sin dal momento dell’apertura della successione, dei soli beni concretamente assegnatigli e a condizione che si abbia una distribuzione dei beni comuni tra i condividenti e le porzioni a ciascuno attribuite siano proporzionali alle rispettive quote; non opera invece, e la sentenza produce effetti costitutivi, quando ad un condividente sono assegnati beni in eccedenza rispetto alla sua quota, in quanto rientranti nell’altrui quota (Cass. 9659/200, 6653/2003). L’anticipazione in via provvisoria, ai fini esecutivi, degli effetti discendenti da statuizioni condannatorie contenute in sentenze costitutive, non è consentita, essendo necessario il passaggio in giudicato, quando la statuizione condannatoria è legata all’effetto costitutivo da un vero e proprio nesso sinallagmatico e non meramente dipendente, come appunto nella specie, in cui il diritto al conguaglio dovuto agli altri comunisti da parte dell’assegnatario sorge nel momento in cui viene a cessare lo stato di indivisione e trova fonte nell’attribuzione ad altro condividente di un bene eccedente la sua quota. 7.1.-
Il settimo motivo (violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2735 e 2733 cod. civ.) denuncia l’errore in cui sarebbe incorsa la sentenza impugnata laddove, nel confermare la decisione definitiva del tribunale sul numero di azioni cadute in successione, aveva ritenuto frutto di errore materiale la indicazione, contenuta nella denuncia di successione e nella dichiarazione formulata dalla stessa convenuta in sede di inventario, dichiarazione che, essendo stata fatta in presenza del legale rappresentane dell’attrice, avrebbe valore di confessione stragiudiziale e, come tale, di prova legale non suscettibile di essere liberamente apprezzata dal giudice. 7.2.- Il motivo è infondato. La indicazione sul numero di azioni compiuta dalla convenuta, seppure alla presenza della controparte, era stata formulata al fine di procedere alla redazione dell’inventario dei beni relitti e, dunque, non poteva integrare la confessione stragiudiziale, la quale si configura quando sia resa alla controparte la consapevole dichiarazione di un fatto a sé sfavorevole e a quella favorevole. La sentenza, con accertamento di fatto incensurabile in sede di legittimità, ha ritenuto che la indicazione era da ritenersi frutto di errore materiale, avendo verificato la effettiva consistenza delle azioni in base alle informazioni dell’Istituto di credito. 8. L’ottavo motivo che concerne la statuizione delle spese processuali è assorbito. RICORSO INCIDENTALE. 1.1. – Il primo motivo (violazione dell’art. 112 cod. proc. civ.) denuncia che la sentenza impugnata pur avendo accolto il primo motivo, con il quale era stata riconosciuta la compensazione delle spese del giudizio di primo grado aveva poi nel dispositivo condannato essa attrice al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio. 1.2.- Il motivo va disatteso. Occorre premettere che in tema di liquidazione delle spese giudiziali, il criterio della soccombenza non si fraziona secondo l’esito delle varie fasi, ma va considerato unitariamente all’esito finale della lite, senza che rilevi che in qualche grado o fase del giudizio la parte poi soccombente abbia conseguito un esito per sé favorevole ( Cass. 11599/2004, – 198880/2011; Ord. 6369/2013).
La riforma, anche parziale, della sentenza di primo grado comporta la caducazione delle consequenziali statuizioni relative alle spese processuali che il giudice deve di ufficio liquidare in base all’esito complessivo della lite; ove, invece, la decisione di primo grado sia confermata, la regolamentazione delle spese di primo grado potrà essere oggetto di riesame soltanto nel caso in cui la parte soccombente abbia proposto uno specifico motivo di gravame. Ciò premesso, la cassazione della sentenza di appello comporta l’assorbimento della censura circa la decisione sulle statuizioni sulle spese, posto che sarà il giudice di rinvio a doversi pronunciare sulle spese di primo grado – peraltro oggetto di specifico motivo di appello – e di gravame secondo l’esito della controversia. 2.1.- Il secondo motivo (omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione) deduce che la sentenza, pur avendo con la motivazione chiarito che il conguaglio era stabilito per tutti gli immobili caduti in successione, nel dispositivo aveva attribuito tale somma per il solo immobile di (…). 2.2.- Il motivo è infondato. Nell’ordinario giudizio di cognizione, l’esatto contenuto della pronuncia va individuato non alla stregua del solo dispositivo, bensì integrando questo con la motivazione nella parte in cui la medesima rivela l’effettiva volontà del giudice. Ne consegue che, in assenza di un vero e proprio contrasto tra dispositivo e motivazione, è da ritenere prevalente la statuizione contenuta in una di tali parti del provvedimento che va, quindi, interpretato in base all’unica statuizione che, in realtà, esso contiene. Nella specie, deve peraltro escludersi il contrasto denunciato laddove il riferimento contenuto nel dispositivo agli immobili già attribuiti alla convenuta con la sentenza definitiva del tribunale consente di comprendere che il conguaglio era determinato per l’intero asse immobiliare e non solo con riferimento all’immobile di (…). Il ricorso incidentale va rigettato.
Pertanto, vanno accolti il primo, il quarto, il quinto – per quanto in motivazione – motivo del ricorso principale; vanno rigettati il sesto e il settimo mentre sono assorbiti il secondo, il terzo e l’ottavo. La sentenza va cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio, anche per le spese della presente fase, ad altra sezione della Corte di appello di Bologna.
P.Q.M.
Riunisce i ricorsi; accoglie il primo, il quarto e il quinto, per quanto in motivazione, del ricorso principale, assorbiti il secondo, il terzo e l’ottavo, rigetta il sesto e il settimo; rigetta il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese della presente fase, ad altra sezione della Corte di appello di Bologna.
Cass. Civ., Sez. II, 10 marzo 2014, n. 5527
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 2 maggio 1995, R.D. conveniva in giudizio, dinnanzi al
Tribunale di Cassino….. ed esponeva che il fratello …., deceduto in …., aveva disposto del suo
patrimonio in favore delle convenute con testamento pubblico ricevuto il 16 novembre 1992,
ore 18,50, presso la Clinica …. dal notaio G. ….. di Cassino; che al momento in cui aveva
sottoscritto il testamento, il fratello era incapace di testare, in quanto privo della capacità di
intendere e di volere per lo stato di grave infermità da cui era affetto; che nel testamento non
risultava indicata, da parte del notaio, la grave ed evidente difficoltà di —- dichiarato nullo o
comunque annullato, ai sensi dell’art. 591 c.c., e che venisse ordinato alle convenute il rilascio
dei beni immobili indicati nel testamento in favore di esso attore, nella sua qualità di erede
legittimo, con condanna delle convenute al risarcimento dei danni, da quantificarsi in separato
giudizio.
Costituitesi le convenute, che chiedevano il rigetto della domanda, e intervenuto in causa con
comparsa dell’aprile 1998 G. M., figlio di …., sorella premorta del de cuius, il quale aderiva alle
richieste dell’attore, l’adito Tribunale, all’esito della espletata istruttoria, rigettava la domanda
e condannava il … e il …. al pagamento, in solido, delle spese processuali.
Avverso tale sentenza, il G. proponeva appello con atto di citazione notificato alle originarie
convenute e a ….. e ….. vedova …, quali eredi dell’attore —-. nel frattempo deceduto; si
costituivano sia la … che la .. e le …, contestando il gravame, nonchè ……….), quali eredi di ..
G., che invece aderivano alla impugnazione principale.
Con sentenza depositata il 24 ottobre 2006, la Corte d’appello di Roma rigettava l’appello.
La Corte capitolina rigettava innanzitutto il motivo di gravame concernente la esclusione, da
parte del Tribunale, della sussistenza, in capo al de cuius, di una situazione di incapacità
naturale.
Richiamata la giurisprudenza di questa Corte sulla interpretazione dell’art. 591 cod. civ., la
Corte territoriale rilevava che il Tribunale, con motivazione adeguata e supportata dalle
conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, aveva ritenuto che non vi fosse prova sufficiente
della incapacità d intendere e di volere del testatore, non potendosi sostenere che la demenza
senile arteriosclerotica diagnosticata al de cuius solo in occasione della visita per il
riconoscimento della indennità di accompagnamento circa tre mesi dopo la sottoscrizione del
testamento (16 novembre 1992), fosse tale da escludere completamente la capacità del
testatore di autodeterminarsi al momento della sottoscrizione del testamento pubblico.
La Corte d’appello dava anche atto delle seguenti circostanze:
che il testatore era stato ricoverato il …; che in quell’occasione non erano emersi elementi
significativi di una patologie incidenti sulle facoltà cerebrali superiori; che peraltro si era
determinato un repentino deterioramento di tali facoltà, verosimilmente, secondo la
valutazione del c.t.u., per effetto dell’anestesia praticata in occasione di un intervento
chirurgico;
che in data … si era ritenuto necessario sottoporre il paziente ad una TAC cerebrale. Tuttavia,
se pure questi fatti potevano essere sintomatici della insorgenza di problematiche di ordine
neuropsichiatrico, confermate dalla terapia praticata, non potevano di per sè essere ritenuti
significativi per formulare un giudizio di incapacità di intendere e di volere, non essendo
emerso dall’esame strumentale alcun dato significativo al riguardo.
In sostanza, non poteva ritenersi che uno stato di incapacità fosse già in atto prima del 16
novembre 1992, con conseguente onere delle convenute di provare che il testamento era stato
sottoscritto in un lucido intervallo. D’altra parte non erano state articolate prove o prodotti
documenti ulteriori rispetto a quelli relativi al periodo successivo al testamento, utili al fine di
provare la pregressa insorgenza di una infermità mentale a carattere intermittente o ricorrente
come la demenza arteriosclerotica. In questo senso non poteva ritenersi significativa neanche
la diagnosi formulata il … di involuzione senile, non implicando la stessa il completo
decadimento delle facoltà intellettive superiori del soggetto.
In questo contesto la Corte d’appello, pur consapevole che lo stato di sanità mentale del
testatore attestato dal notaio che aveva redatto il testamento pubblico, potesse essere
contestato con qualsiasi mezzo di prova e non con la querela di falso, rilevava che l’appellante
si era limitato a sollecitare il rinnovo della consulenza tecnica d’ufficio; richiesta, questa, che
non poteva essere accolta non emergendo elementi tali da indurre a dissentire dalle
conclusioni del c.t.u. Se carenze vi erano state, queste erano riferibili agli elementi acquisiti,
non anche alle valutazioni espresse dal c.t.u..
La Corte d’appello rigettava poi il secondo motivo di gravame, con il quale si era rilevato che
dall’esame del testamento emergeva con evidenza la grave difficoltà del testatore nel
sottoscrivere l’atto, risultando la scheda firmata due volte, consecutivamente, in modo più che
incerto e sbilenco, e si era contestata la mancata dichiarazione di nullità del testamento ai
sensi dell’art. 603 cod. civ., non avendo il … dichiarato la causa della difficoltà di sottoscrizione.
In proposito, la Corte territoriale ricordava che il Tribunale aveva osservato che il testamento
era stato sottoscritto sia pure verosimilmente – con una certa difficoltà dal testatore, e che
tuttavia tale difficoltà era circoscritta alla linearità della firma; e ribadiva che la circostanza non
integrava comunque la grave difficoltà da cui discende l’obbligo della dichiarazione da parte del
testatore e quello del notaio di farne menzione prima della lettura dell’atto, atteso che in
entrambi i casi la sottoscrizione ” …..” era chiaramente comprensibile.
Per la cassazione di questa sentenza ha proposto ricorso G. M. sulla base di tre motivi; ha
resistito con controricorso ..; non hanno svolto attività difensiva gli intimati ……
Entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
1. – Con il primo motivo di ricorso, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art.
591 c.c., anche in relazione all’art. 2697 c.c. e ss., e art. 2727 c.c. e ss., nonchè omessa,
insufficiente e contraddittoria motivazione.
Il ricorrente ricorda che nella prima relazione il c.t.u. aveva osservato che il 6 novembre 1992,
prima della redazione del testamento, un accertamento strumentale aveva rilevato come lo
stress dell’evento, e più probabilmente un effetto dell’anestesia, avessero provocato un
generale indebolimento delle funzioni cerebrali, tanto da ridurre in modo drammatico la validità
psico-fisica del …
Ricorda altresì che il ….. era stato redatto il testamento, e cioè quando quest’ultimo era ancora
degente presso la Casa di cura ….), e mostrava chiaramente i segni di un decadimento
vorticoso del proprio stato psico-fisico. Ricorda, infine, che il .. il R. era stato sottoposto a
visita per l’accertamento dell’invalidità civile, ed era stato trovato affetto da demenza senile
arteriosclerotica.
Nella relazione resa a seguito di richiesta di chiarimenti il c.t.u. aveva poi precisato che l’esame
del 6 novembre si era reso necessario per un improvviso quanto inaspettato deterioramento
del quadro clinico e soprattutto neuropsichiatrico, culminato tre mesi dopo in una diagnosi di
demenza senile arteriosclerotica.
Il ricorrente sostiene quindi che, sulla scorta delle stesse relazioni del c.t.u., doveva ritenersi
certo che il 19 novembre il R. era affetto da demenza senile e che in data … era stata eseguita
una TAC cerebrale per un improvviso deterioramento del quadro neuropsichiatrico, che ne
aveva ridotto in modo drammatico la validità psico-fisica. In tale contesto, la circostanza non
pienamente provata era quella relativa allo stato del R. il giorno della sottoscrizione del
testamento. Peraltro, soccorreva in proposito il principio per cui, accertata l’incapacità di
intendere e di volere di un soggetto in due momenti prossimi nel tempo, per il periodo
intermedio vi è una presunzione di incapacità, con conseguente inversione dell’onere della
prova.
In ciò dovrebbe ravvisarsi, ad avviso del ricorrente, la violazione di legge, in relazione alla
quale viene formulato il seguente quesito di diritto: “Dica l’Ecc.ma Corte di Cassazione se,
accertata l’incapacità di intendere e di volere in due determinati periodi, tra loro prossimi nel
tempo (nella specie circa tre mesi), per il periodo intermedio la sussistenza della predetta
incapacità deve ritenersi assistita da presunzione iuris tantum, con conseguente inversione
dell’onere della prova, nel senso che deve essere colui che vi ha interesse a dimostrare che il
de cuius ha agito in una fase di lucido intervallo”.
Con riferimento al denunciato vizio di motivazione il ricorrente evidenzia il fatto controverso,
costituito dalla sussistenza della capacità di intendere e di volere di R.M. al momento di testare
e individua il difetto motivazionale nella mancata valutazione della incapacità del testatore
esistente sia prima che dopo la redazione del testamento.
2. – Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 591 cod.
civ., in relazione all’art. 2727 c.c. e ss., nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria
motivazione. La Corte d’appello, sostiene il ricorrente, avrebbe violato le regole in tema di
presunzione, essendo stati provati numerosi elementi dal chiaro valore indiziario nel senso
della incapacità del R. al momento della sottoscrizione del testamento.
Il ricorrente formula il seguente quesito di diritto: “Dica l’Ecc.ma Corte di Cassazione se, ai fini
della prova dell’incapacità di intendere e di volere, ai sensi dell’art. 591 c.c., lo stato di sanità
mentale del testatore, ancorchè ritenuto dal notaio che redige il testamento pubblico, può
essere contestato con qualsiasi mezzo di prova, ed anche a mezzo di presunzioni semplici, a
condizione che il fatto ignoto da provare (la capacità di intendere e di volere del testatore al
momento del testamento) sia desunto da una pluralità di fatti noti gravi, precisi ed
univocamente convergenti nella dimostrazione della sussistenza del fatto ignoto (nella specie, i
fatti noti erano rappresentati da tutti gli eventi indicati al punto II.1 del presente motivo, tra i
quali il preesistente morbo di Parkinson, i presupposti e l’esito della TAC cerebrale, la diagnosi
di involuzione senile e di demenza senile”. Il ricorrente indica altresì il fatto controverso,
consistente nella sussistenza della capacità di intendere e di volere di ……….al momento di
testare e individua il difetto motivazionale in ciò che la Corte d’appello ha, da un lato,
riconosciuto che lo stato si sanità mentale del testatore poteva essere provato con qualsiasi
mezzo e, dall’altro, ha omesso di analizzare la potenziale valenza presuntiva degli elementi di
fatto evidenziati.
3. – Con il terzo motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 603 c.c.,
comma 3, in relazione all’art. 606 c.c., comma 2, nonchè di tutte le disposizioni in materia di
nullità e annullamento del testamento.
Il ricorrente si duole del fatto che la Corte d’appello, pur avendo dato atto della grande
difficoltà manifestata dal testatore nella sottoscrizione del testamento pubblico, non ne abbia
tratto le conseguenze in punto di nullità o annullabilità del testamento, non avendo il R.
dichiarato le ragioni della difficoltà e non avendo il notaio annotato alcunchè a tale proposito.
A conclusione del motivo il ricorrente formula il seguente quesito di diritto: “Dica l’Ecc.ma
Corte di Cassazione se la grave difficoltà a sottoscrivere il testamento, di cui è parola nel terzo
comma dell’art. 603 c.c., si riferisce anche all’ipotesi della sottoscrizione che, pur se leggibile,
per le caratteristiche morfologiche del tratto d’inchiostro, nonchè per le circostanze ambientali
in occasione delle quali essa è apposta, possa far sorgere il sospetto di non essere primamente
rispondente all’intima volontà del testatore (nel caso di specie, si trattava di sottoscrizione dal
tratto palesemente incerto ed ondeggiante, apposta due volte, e raccolta dal notaio in costanza
del ricovero del testatore in una clinica)”.
4. – Il primo e il secondo motivo, che per ragioni di connessione possono essere esaminati
congiuntamente, sono infondati.
4.1. – Occorre premettere che nella giurisprudenza di questa Corte è consolidato il principio per
cui “l’annullamento di un testamento per incapacità naturale del testatore postula l’esistenza
non già di una semplice anomalia o alterazione delle facoltà psichiche ed intellettive del de
cuius, bensì la prova che, a cagione di una infermità transitoria o permanente, ovvero di altra
causa perturbatrice, il soggetto sia privo in modo assoluto, al momento della redazione
dell’atto di ultima volontà, della coscienza dei propri atti ovvero della capacità di
autodeterminarsi, con il conseguente onere, a carico di chi quello stato di incapacità assume, di
provare che il testamento fu redatto in un momento di incapacità di intendere e di volere
(Cass. n. 9081 del 2010). Invero, posto che lo stato di capacità costituisce la regola e quello di
incapacità l’eccezione, spetta a colui che impugna il testamento dimostrare la dedotta
incapacità, salvo che il testatore non risulti affetto da incapacità totale e permanente, nel qual
caso è compito di chi vuole avvalersi del testamento dimostrare che esso fu redatto in un
momento di lucido intervallo” (Cass. n. 8079 del 2005; Cass. n. 9508 del 2005).
4.2. Tanto rilevato, occorre evidenziare come la censura, specificamente svolta nel primo
motivo, muova da una premessa – quella che fosse accertata in data anteriore al 16 novembre
1992 la incapacità di intendere e di volere del testatore – che la Corte d’appello ha invece
motivatamente ritenuto insussistente. Le argomentazioni del ricorrente, ancorchè sviluppate
con puntuale riferimento agli accertamenti tecnici desumibili dalle produzioni documentali
effettuate nei giudizi di merito e dalle relazioni del c.t.u., sollecitano, in realtà, un diverso
apprezzamento di tale circostanza di fatto. Il che è inammissibile in questa sede.
Del resto, se è vero che “quando un giudizio deve necessariamente risultare dall’esame
coordinato di numerosi elementi, come nel caso di giudizio sulla capacita di intendere e di
volere della persona defunta (al fine di riconoscere o meno la sua capacita di testare), il
problema se il giudice del merito abbia o meno motivato adeguatamente va esaminato con
riferimento all’insieme di tali elementi e con riguardo al complesso delle difese rispettivamente
dedotte dalle parti contrapposte” e che “l’eventuale silenzio della motivazione su taluni degli
elementi citati non può essere considerato omesso esame di punti decisivi qualora, nel suo
complesso, il giudizio risulti adeguatamente e concretamente giustificato nè si possa affermare
che senza quel silenzio la decisione avrebbe potuto essere diversa” (Cass. n. 2407 del 1981),
non può qui non sottolinearsi la congruità della motivazione della sentenza impugnata con
riferimento a tutte le circostanze dedotte dal ricorrente a sostegno della tesi della sussistenza
di una situazione di incapacità naturale già in epoca antecedente alla data della redazione del
testamento, e, nella specie, con riferimento alla data del …..
4.3. – Inoltre, non può non essere evidenziata la circostanza che il ricorrente ha omesso di
prendere in considerazione una ulteriore specificazione contenuta nella sentenza impugnata. La
Corte d’appello, proprio dando atto della difficoltà di accertare la sussistenza dello stato di
incapacità di intendere e di volere del … al momento della sottoscrizione del testamento, ha
rilevato come le parti interessate a far valere la detta incapacità non avessero articolato alcuna
prova ulteriore volta a confortare la tesi della incapacità in epoca anteriore alla sottoscrizione
del testamento, essendosi limitate a produrre documentazione relativa ad un periodo
successivo al 16 novembre 1992 e a sollecitare una nuova consulenza tecnica d’ufficio, laddove
il problema non riguardava la valutazione degli elementi acquisiti, quanto piuttosto una
necessaria integrazione degli elementi di valutazione; integrazione istruttoria che, secondo il
non censurato apprezzamento della Corte d’appello, non è stata effettuata dalle parti
interessate.
4.4. – Le considerazioni sin qui svolte valgono anche ad escludere la fondatezza del secondo
motivo, atteso che, una volta escluso che gli elementi di valutazione in possesso del consulente
dimostrassero in modo inequivoco la presenza di una condizione di incapacità di intendere e di
volere in epoca anteriore al 16 novembre 1992, non appare ravvisabile alcun vizio nella
motivazione con la quale la Corte territoriale è pervenuta a ritenere non raggiunta la prova
della incapacità di intendere e di volere del testatore a quella data.
In sostanza, la Corte d’appello ha fatto puntuale applicazione della giurisprudenza di questa
Corte, atteso che, in presenza di una prova della incapacità di intendere e di volere del
testatore alla data del febbraio 1993, ma in assenza di una prova, anche presuntiva, della
esistenza della incapacità naturale del testatore in epoca anteriore al 16 novembre 1992, ha
ritenuto che non operasse la deroga in tema di onere probatorio, continuando lo stesso a
gravare in capo alla parte che mirava a far affermare la incapacità e non anche sul beneficiario
delle disposizioni testamentarie.
5. – Il terzo motivo è infondato.
Questa Corte, anche di recente, ha avuto modo di affermare che “l’obbligo del notaio di
menzionare, prima della lettura del testamento pubblico, ai sensi dell’art. 603 c.c., comma 3, e
delle connesse disposizioni della L. 16 febbraio 1913, n. 89, la dichiarazione del testatore che
si trovi in grave difficoltà di firmare l’atto, sussiste solamente nell’ipotesi che il testatore non
sottoscriva il documento e non già anche nel caso in cui, sia pure con grave difficoltà, egli
apponga effettivamente la sua firma. Infatti, la formalità della dichiarazione e della menzione
costituisce un equipollente della sottoscrizione mancante, mirante ad attestare che
l’impedimento dichiarato, e realmente esistente, è l’unica causa per cui non si sottoscrive e ad
evitare che la mancanza di firma possa essere intesa come rifiuto di assumere la paternità del
contenuto dell’atto” (Cass. n. 2743 del 2012; in senso conforme, Cass. n. 2123 del 1953). In
motivazione, nella citata sentenza si è rilevato che “la formalità della dichiarazione e della
menzione costituisce infatti un equipollente della sottoscrizione mancante: l’osservanza di essa
è prescritta per attestare che l’impedimento dichiarato, e realmente esistente, è l’unica causa
per cui non si sottoscrive, e ad evitare che la mancanza di firma possa essere intesa come
rifiuto di assumere la paternità del contenuto dell’atto”. Orbene, poiché nella specie è pacifico
che il testatore ha apposto effettivamente la sua firma per due volte, la formalità della
dichiarazione del de cuius e della menzione del notaio non era necessaria, e ciò assorbe ogni
indagine sul se la difficoltà nell’esecuzione della sottoscrizione sussistesse e se essa fosse
connotata dal requisito della gravità. Correttamente, pertanto, la Corte territoriale, nel
confermare la sentenza di primo grado, ha escluso la denunciata nullità del testamento.
6. – Il ricorso va dunque rigettato. In applicazione del principio della soccombenza, il ricorrente
deve essere condannato al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di
legittimità, che liquida in Euro 5,000,00 per compensi, oltre ad Euro 200,00 per esborsi e agli
accessori di legge.
Depositato in Cancelleria il 10 marzo 2014
Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 20 marzo – 16 aprile 2014, n. 8876
Presidente Forte – Relatore Didone
Ragioni in fatto e in diritto della decisione
1.- C.R. convenne il 27.03.1990 dinanzi al Tribunale di Salerno la moglie N.A. – dalla quale si era separato consensualmente il 13.5.1983 – e l’avvocato Di Fluri Vittoria, curatrice speciale del minore C.S., nato il 23.7.1982, nei cui confronti propose il disconoscimento di paternità, avendo verificato attraverso alcuni esami ematologici la fondatezza del sospetto dell’adulterio della moglie.
Il Tribunale rigettò la domanda, essendo rimasta senza effetto l’indagine genetico-ematologica, per il rifiuto della N. di sottoporre sè ed il minore ai necessari prelievi.
La Corte di appello di Salerno, con sentenza del 16.4.2002, confermò la decisione di primo grado.
Con sentenza n. 4175 del 2007 la Corte di cassazione accolse il ricorso proposto da C.R. rilevando che la Corte Costituzionale con sentenza del 6.7.2006 n. 266 aveva dichiarato illegittimo l’art. 235 c.c., comma 1, n. 3, nella parte in cui, ai fini dell’azione di disconoscimento della paternità, subordinava l’esame delle prove tecniche da cui risulta che il figlio presenta caratteristiche genetiche o del gruppo sanguigno incompatibili con quelle del presunto padre, alla previa dimostrazione dell’adulterio della moglie.
La Corte di appello di Salerno, con sentenza in data 7.5.2010, pronunciando in sede di rinvio, ha accolto la domanda di disconoscimento proposta da C.R., ordinando all’Ufficiale dello Stato civile di attribuire a S. il cognome della madre e – per quanto ancora rileva in questa sede – ha dichiarato inammissibile – perché nuova – la domanda proposta da C.S. di mantenimento del cognome C. ai sensi dell’art. 45 DPR n. 396/2000.
Contro la sentenza di appello C.S. e Adriana N. hanno proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi.
Non hanno svolto difese gli intimati.
2.1.- Con il primo motivo di ricorso i ricorrenti denunciano la violazione dell’art. 95 DPR n. 396/2000. Deducono che prima della sentenza della Corte costituzionale del 2006 nessuna indagine ematologica sarebbe stata possibile e la domanda di disconoscimento non avrebbe potuto superare la fase preliminare rivolta all’accertamento dell’adulterio. Talché non vi era alcuna necessità di proporre la domanda di mantenimento del cognome. Il ricorrente deduce di essere divenuto – nelle more del giudizio – ingegnere chimico affermato a livello internazionale utilizzando il cognome C., che non rappresenta un identificativo inscindibilmente connesso con la famiglia dell’autore del disconoscimento né è collegato con casato particolarmente illustre. Sarebbe applicabile lo jus superveniens.
2.2.- Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano la violazione dell’art. 394 C.P.C. nonché vizio di motivazione. Deducono che l’art. 394 c.p.c. consente in sede di conclusioni le modifiche rese necessarie dalla sentenza della Cassazione e che solo a seguito della sentenza della Corte costituzionale e delle modifiche apportate dal Legislatore gli era consentito proporre la domanda di mantenimento del cognome.
3.- Entrambi i motivi di ricorso – esaminabili congiuntamente – sono infondati.
Ve rilevato, infatti, che la Corte costituzionale, sin dal 1994 (Corte cost., 3 febbraio 1994, n. 13) ha osservato che, posto che nella disciplina giuridica del nome confluiscono esigenze di natura sia pubblica che privata, ove si accerti che il cognome già attribuito ad un soggetto non è quello spettantegli per legge in base allo ‘status familiae’, l’interesse pubblico a garantire la fede del registro degli atti dello stato civile è soddisfatto mediante la rettifica dell’atto riconosciuto non veritiero, ma non può condurre a sacrificare l’interesse individuale a conservare il cognome mantenuto fino a quel momento nella vita di relazione e divenuto ormai segno distintivo dell’identità personale, tutelata dall’art. 2 Cost.; tanto più che, nel caso in cui la rettifica riguardi persona in età avanzata con discendenti, la negazione dell’interesse individuale finirebbe col pregiudicare lo stesso interesse generale alla certa e costante identificazione delle persone. Pertanto, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo – per contrasto con l’art. 2 Cost. – l’art. 165 del r. d. 9 luglio 1939 n. 1238, nella parte in cui non prevedeva che, quando la rettifica degli atti dello stato civile, intervenuta per ragioni indipendenti dal soggetto cui si riferisce, comportava il cambiamento del cognome, il soggetto stesso potesse ottenere dal giudice il riconoscimento del diritto a mantenere il cognome originariamente attribuitogli ove questo fosse ormai da ritenersi autonomo segno distintivo della sua identità personale.
L’art. 95, comma 3, del DPR 3 novembre 2000, n. 396 ha codificato il principio enunciato con la pronuncia della Corte costituzionale, prevedendo che nell’ipotesi di rettificazione di atti dello stato civile «l’interessato può comunque richiedere il riconoscimento del diritto al mantenimento del cognome originariamente attribuitogli se questo costituisce ormai autonomo segno distintivo della sua identità personale».
Pertanto, sin dal 1994, nel corso del giudizio di primo grado, invocando lo jus superveniens costituito dalla pronuncia della Corte costituzionale, il C. (costituito a mezzo di curatore speciale) avrebbe potuto formulare la domanda diretta al mantenimento del cognome. Ciò a prescindere dalle probabilità di accoglimento dell’azione di disconoscimento e per l’ipotesi di positivo esperimento della stessa.
Dunque, la possibilità di formularla non è dipesa dalla pronuncia della Corte costituzionale sull’art. 235 c.c. né dalla pronuncia della Cassazione.
E’ errato, peraltro, il presupposto dal quale muovono i ricorrenti: cioè l’impossibilità per il C. di richiedere l’applicazione dell’art. 95, comma 3, cit. per effetto del formarsi del giudicato sull’inammissibilità della domanda proposta in questo giudizio.
Per converso, deve essere ricordato che nel processo civile, l’irregolarità nell’introduzione di una domanda, sanzionata dall’ordinamento con l’invalidità ostativa ad una pronunzia nel merito, non è vizio che attenga all’esistenza dei presupposti di un diritto o di una azione; pertanto, in caso di omessa pronunzia nel merito su una domanda dichiarata inammissibile per vizio nella sua introduzione o notificazione, la parte interessata può denunziare l’omissione in sede di gravame, previa impugnazione della declaratoria d’inammissibilità o del rigetto in rito, ovvero coltivare la domanda in separato giudizio, posto che la rinunzia implicita alla pretesa, correlabile al mancato esperimento del gravame, ha valore meramente processuale e non sostanziale; ne consegue che, in quest’ultimo caso, non possono essere fondatamente opposte né una preclusione derivante dalla mancata impugnazione della precedente sentenza per la dichiarata inammissibilità o per il rigetto in rito, né una preclusione da giudicato sulla domanda (Sez. 1, n. 13614/2010).
Il ricorso, dunque, deve essere rigettato.
P.Q.M.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 20 marzo 2014
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