dubbio che l’affermazione di una responsabilità del medico verso il nato aprirebbe, per coerenza, la strada ad un’analoga responsabilità della stessa madre, che nelle circostanze contemplate dall’art. 6 l. 194/1978, benché correttamente informata, abbia portato a termine la gravidanza: dato che riconoscere il diritto di non nascere malati comporterebbe, quale simmetrico termine dei rapporto giuridico, l’obbligo della madre di abortire.

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Né può essere sottaciuto, da ultimo, il dubbio che l’affermazione di una responsabilità del medico verso il nato aprirebbe, per coerenza, la strada ad un’analoga responsabilità della stessa madre, che nelle circostanze contemplate dall’art. 6 l. 194/1978, benché correttamente informata, abbia portato a termine la gravidanza: dato che riconoscere il diritto di non nascere malati comporterebbe, quale simmetrico termine dei rapporto giuridico, l’obbligo della madre di abortire. E per quanto si voglia valorizzare un metodo antiformalista nella configurazione dell’illecito, valorizzando i principi di solidarietà ex artt. 2 e 3 della Costituzione, occorre pur sempre evitare straripamenti giudiziari influenzati dal fascino, talvolta insidioso, dei metodo casistico (case law system), nell’ambito di un sistema aperto, quale configurato nella norma generale dell’art. 2043 cod. civ. (con l’espressione introduttiva: “qualunque fatto”…) in cui non si possono operare, a priori discriminazioni tra fatti dannosi che conducono al risarcimento e fatti dannosi che lasciano le perdite a carico della vittima.

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II contrario indirizzo giurisprudenziale e dottrinario, favorevole alla riconoscibilità di una pretesa risarcitoria del nato disabile verso il medico, pur se palesi un’indubbia tensione verso la giustizia sostanziale, finisce con l’assegnare, in ultima analisi, al risarcimento del danno un’impropria funzione vicariale, suppletiva di misure di previdenza e assistenza sociale: in particolare, equiparando quoad effectum l’errore medico che non abbia evitato la nascita indesiderata, a causa di gravi malformazioni dei feto, all’errore medico che tale malformazione abbia direttamente cagionato: conclusione, che non può essere condivisa, ad onta delle fitte volute concettualistiche che la sorreggono, stante la profonda eterogeneità delle situazioni in raffronto e la sostanziale diversità dell’apporto causale nei due casi.

 

 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Sentenza 22 settembre – 22 dicembre 2015, n. 25767

(Presidente Rovelli – Relatore Spirito)

Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 15 maggio 1997 i sigg. E.F. e M.B. convenivano dinanzi al Tribunale di Lucca il prof. A.V., primario di ginecologia presso l’ospedale San F.D.P., nonché la direzione generale dell’Azienda Usi n. 2 ed il dott. A.S., primario del laboratorio delle analisi chimiche microbiologiche del predetto ospedale, esponendo

 

– che la signora B. aveva partorito in data 2 dicembre 1995 la figlia C., risultata affetta da sindrome di Down;

 

– che in precedenza, in data 5 luglio 1995, aveva eseguito esami ematochimici a scopo di indagine diagnostica prenatale, proprio al fine di identificare tale eventuale patologia;

 

– che il primario, prof. V. inviava la paziente al parto, omettendo, colposamente, ulteriori approfondimenti, resi necessari dai valori non corretti risultanti dagli esami.

 

Costituitosi ritualmente, il prof. V. negava la propria responsabilità, assumendo che i risultati degli esami non erano tali da indurre al sospetto della sindrome di Down nel feto e chiedeva di essere autorizzato a chiamare in causa la compagnia Assitalia s.p.a., presso la quale era assicurato nell’esercizio della professione.

 

Dopo il conforme provvedimento dei giudice istruttore si costituivano l’Azienda Usi n.2, il dr. A.S., nonché le Assicurazioni d’Italia s.p.a., che contestavano [a domanda sia nell’an che nel quantum debeatur.

 

Dopo lo scambio di memorie ex artt. 183- 1.84 cod. proc. civile, la causa, senza ulteriore istruttoria, veniva decisa con sentenza 13 ottobre 2003, di rigetto della domanda, con compensazione delle spese.

 

Il successivo gravame era respinto dalla Corte d’appello di Firenze con sentenza 15 maggio 2008.

 

La corte territoriale motivava C

 

– che il risarcimento del danno non conseguiva automaticamente all’inadempimento dell’obbligo di esatta informazione a carico del sanitario su possibili malformazioni del nascituro, bensì era soggetto alla prova della sussistenza delle condizioni previste dalla legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della

 

gravidanza) per ricorrere all’interruzione della gravidanza;

 

— che questa, nello spirito della legge, era consentita per evitare un pericolo per la salute della gestante e subordinata a requisiti specifici, in assenza dei quali l’aborto costituiva reato;

 

– che in particolare, dopo il novantesimo giorno di gravidanza, occorreva che la presenza di rilevanti anomalie nel feto determinasse un grave pericolo per la salute fisica o psichica della madre, su cui incombeva il relativo onere della prova (art.6 l. 194/1978);

 

– che, sul punto, gli attori non avevano fornito neppure delle specifiche allegazioni, limitandosi ad affermare che corrispondeva a regolarità causale il rifiuto della gestante, se correttamente informata, a portare a termine la gravidanza; né era ammissibile supplire al difetto di prova mediante la richiesta consulenza tecnica d’ufficio;

 

che si doveva pure negare la legittimazione attiva della figlia minore, sulla base della prospettazione di un diritto a non nascere privo di riconoscimento nell’ordinamento giuridico; come pure l’ammissibilità dei cd. aborto eugenetico, in assenza di alcun pericolo per la salute della madre, una volta esclusa ogni responsabilità del medico nella causazione della malformazione del feto.

 

Avverso la sentenza, notificata il 6 ottobre 2008, i sigg. F. e B., in proprio e quali genitori esercenti la potestà sulla figlia minore C., proponevano ricorso per cassazione, articolato in due motivi, notificato il 5 dicembre 2008.

 

Deducevano

 

1) la violazione degli articoli 1176 e 2236 cod. civ. e dell’art.6 della legge 22 maggio 1978, n. 194, nel riversare sulla gestante l’onere della prova de[ grave pericolo per la sua salute fisica o psichica dipendente dalle malformazioni del nascituro: laddove l’impedimento all’esercizio dei diritto di interrompere la gravidanza era di per sé sufficiente a integrare la responsabilità dei medico con il conseguente suo obbligo al risarcimento;

 

2) la violazione degli articoli 2, 3, 31 e 32 della Costituzione e della legge 29 luglio 1975 n. 405 nella negazione, alla figlia minore, del diritto ad un’esistenza sana e dignitosa: nella specie, compromessa dai pregiudizi correlati alla presenza di malformazioni genetiche.

 

Resistevano congiuntamente l’Azienda Usi 2 di Lucca, il dr. A.S., nonché, con distinto controricorso, il prof. A.V.

 

I ricorrenti ed il prof. V. depositavano memoria illustrativa ex art.378 cod. proc. civ.

 

La terza sezione civile, cui era stato assegnato ii ricorso, ravvisando un contrasto di giurisprudenza nei precedenti arresti di legittimità, rimetteva la causa al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle sezioni unite.

In particolare, il collegio poneva in evidenza che la tematica della cd. nascita indesiderata aveva dato luogo, in ordine alla questione dell’onere probatorio ad un primo e più risalente orientamento, secondo cui corrisponde a regolarità causale che [a gestante interrompa la gravidanza, se informata di gravi malformazioni dei feto (Cass. numero 6735/2002; Cass., sez.3, 29 luglio 2004 n. 14.488; Cass., sez.3, 4 gennaio 2010 n. 13; Cass., sez.3, 10 novembre 2010 n. 22.837; Cass., sez. 3, 13 luglio 2011 n. 15.386; cui si era contrapposta una giurisprudenza più recente, che aveva escluso tale presunzione semplice, ponendo a carico della parte attrice di allegare e dimostrare che, se informata delle malformazioni del concepito, avrebbe interrotto la gravidanza (Cass., sez.3, 2 ottobre 2012 n. 16754; Cass., sez. 3, 22 marzo 2013 n. 7269; Cass., sez.3, 10 dicembre 2013 n. 27.528; Cass., sez.3, 30 maggio 2014 n. 12.264).

In ordine al secondo motivo di ricorso, rilevava un contrasto ancora più marcato sulla questione della legittimazione del nato a pretendere il risarcimento del danno a carico dei medico e della struttura sanitaria: alla tesi negativa sostenuta da Cass., sez.3, 29 luglio 2004 n. 14.488; Cass., se.3, 14 luglio 2006 n. 16.123, Cass., sez.3, 11 maggio 2009 n. 10.741 faceva riscontro la contraria opinione che escludeva il requisito della soggettività giuridica dei concepito e la sua legittimazione, dopo la nascita, a far valere la violazione del diritto all’autodeterminazione della madre, causa dei proprio stato di infermità, che sarebbe mancato se egli non fosse nato (Cass., sez.3, 3 maggio 2011 n. 9700; Cass.,sez.3 2 ottobre 2012 n. 16.754).

Dopo il conforme provvedimento presidenziale, la causa passava in decisione all’udienza del 22 settembre 2015 sulle conclusioni del Procuratore generale e dei difensori in epigrafe riportate.

Motivi della decisione

Con il primo motivo, i ricorrenti deducono la violazione di legge nel riparto dell’onere della prova dei grave pericolo per la salute fisica o psichica della madre, dipendente da rilevanti malformazioni del nascituro.

Punto di partenza della relativa disamina è l’interpretazione della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria di gravidanza), che ha introdotto nel nostro ordinamento la possibilità legale di ricorrere all’aborto, legittimando l’autodeterminazione della donna a tutela della sua salute, e non solo della sua vita, pur nel rispetto di condizioni rigorose, espressione di un bilanciamento di esigenze di primaria rilevanza.

Il diniego, in linea di principio, dell’interruzione di gravidanza come strumento di programmazione familiare, o mezzo di controllo delle nascite, e “a fortiori” in funzione eugenica, emerge, infatti, inequívoco già dall’art.1, contenente l’enunciazione solenne della gerarchia dei valori presupposta dal legislatore, rivelatrice della natura eccezionale delle ipotesi permissive; fuori delle quali l’aborto resta un delitto (“Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. L’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite’).

In particolare, dopo il novantesimo giorno di gravidanza, la presenza delle condizioni ivi rigorosamente tipizzate ha non solo efficacia esimente da responsabilità penale, ma genera un vero e proprio diritto all’autodeterminazione della gestante di optare per l’interruzione della gravidanza (art.6: “L’interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, può essere praticata:

  1. a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna;
  1. b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”).

Il dettato normativo trova rispondenza assiologica nel principio costituzionale di non equivalenza tra la salvezza della madre, già persona, e quella dell’embrione, che persona deve ancora diventare (Corte cost. 18 febbraio 1975 n.20).

In questa cornice normativa, la censura dei ricorrente qui in scrutinio ripropone l’annoso problema del riparto dell’onere della prova dei predetti presupposti di legge in tema di risarcimento dei danni richiesto da nascita indesiderata (wrongful birth lawsuit. Con l’espressione wrongful life si indica, invece, la causa petendi dell’azione esercitata in proprio dal figlio: sintagmi, inaugurati sembra – dalla Appellate Cort dell’Illinois nella sentenza 3 Aprile 1963, Zepeda v. Zepeda, in un caso in cui l’attore aveva convenuto, per danni, il padre, responsabile di averlo condannato ad una vita infelice, quale figlio illegittimo).

L’impossibilità della scelta della madre, pur nel concorso delle condizioni di cui all’art.6, imputabile a negligente carenza informativa da parte dei medico curante, è fonte di responsabilità civile. La gestante, profana della scienza medica, si affida, di regola, ad un professionista, sul quale grave l’obbligo di rispondere in modo tecnicamente adeguato alle sue richieste; senza limitarsi a seguire le direttive della paziente, che abbia espresso, in ipotesi, l’intenzione di sottoporsi ad un esame da lei stessa prescelto, ma tecnicamente inadeguato a consentire una diagnosi affidabile sulla salute del feto.

Occorre però che l’interruzione sia legalmente consentita – e dunque, con riferimento al caso in esame, che sussistano, e siano accertabili mediante appropriati esami clinici, le rilevanti anomalie del nascituro e il loro nesso eziologico con un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna – giacché, senza il concorso di tali presupposti, l’aborto integrerebbe un reato; con la conseguente esclusione della stessa antigiuridicità del danno, dovuto non più a colpa professionale, bensì a precetto imperativo di legge.

Oltre a ciò, dev’essere altresì provata la volontà della donna di non portare a termine la gravidanza, in presenza delle specifiche condizioni facoltizzanti.

Sotto questo profilo, il thema probandum è costituito da un

fatto complesso; e cioè, da un accadimento composto da molteplici circostanze e comportamenti proiettati nel tempo: la rilevante anomalia dei nascituro, l’omessa informazione da parte del medico, il grave pericolo per [a salute psicofisica della donna, la scelta abortiva di quest’ultima.

In tale evenienza, può essere impossibile fornire la dimostrazione analitica di tutti gli eventi o comportamenti che concorrano a comporre la fattispecie: onde, il problema si risolve ponendo ad oggetto della prova alcuni elementi che si ritengano rappresentativi dell’insieme e dai quali sia perciò possibile derivare la conoscenza, per estrapolazione, dell’intero fatto complesso.

Nel caso in esame un aspetto particolarmente delicato – ove il convenuto non dia per pacifiche le componenti di fatto essenziali della fattispecie — è costituito dalla circostanza che la prova verte anche su un fatto psichico: e cioè, su uno stato psicologico, un’intenzione, un atteggiamento volitivo della donna, che la legge considera rilevanti.

L’ovvio problema che ne scaturisce è che del fatto psichico non si può fornire rappresentazione immediata e diretta; sicché non si vpuò dire che esso sia oggetto di prova in senso stretto. In tal caso, l’onere probatorio – senza dubbio gravoso, vertendo su un’ipotesi, e non su un fatto storico – può essere assolto tramite dimostrazione di altre circostanze, dalle quali si possa ragionevolmente risalire, per via induttiva, all’esistenza del fatto psichico che si tratta di accertare.

Il passo successivo consiste nell’applicare la concezione quantitativa o statistica della probabilità, intesa come frequenza di un evento in una serie di possibilità date: espressa dall’ormai consolidato parametro del “più probabile, che no”.

Nel caso in esame, la Corte d’appello di Firenze, confermando la decisione di primo grado, ha ritenuto che l’onere della prova di tutti presupposti della fattispecie di cui all’art.6 ricadesse sulla gestante; inclusa quindi, la prova che ella avrebbe positivamente esercitato la scelta abortiva: ciò che implica un impervio accertamento induttivo anche delle convinzioni di ordine umano, etico ed eventualmente religioso, oltre che delle condizioni di salute psico-fisica esistenti all’epoca, che avrebbero concorso a determinare l’incoercibile decisione di interrompere, o no, la gravidanza.

Ne ha poi tratto la conclusione che, in difetto di tale prova positiva, neppure la consulenza tecnica d’ufficio fosse ammissibile; e la domanda dovesse essere quindi respinta in limine.

Al riguardo, si osserva che se la premessa astratta appare esatta, dal momento che i presupposti della fattispecie facoltizzante non possono che essere allegati e provati dalla donna, ex art.2697 cod. civ. (onus incumbit ei qui dicit) – con un riparto che appare dei resto rispettoso dei canone della vicinanza della prova – si palesa manchevole, invece, l’ omessa valutazione – che sembra adombrare un’esclusione aprioristica – della possibilità di assolvere il relativo onere in via presuntiva.

E bene chiarire che non si verte in tema di presunzione legale, sia pure juris tantum: la cui consacrazione in via generale ed astratta appartiene al legislatore e che si risolve in una semplificazione della fattispecie legale, esimendo la parte dall’onere di provarne uno o più elementi integrativi, ulteriori rispetto alla premessa fattuale (non diversamente che in caso di non contestazione dei fatto, che pure comporta la relevatio ab onere probandi; pur se di quest’ultima sia dubbia l’irreversibilità: art.345, secondo comma, cod. proc. civ.). Nulla del genere ë infatti riscontrabile nella presente fattispecie, in cui il legislatore non esime in alcun modo la madre dall’onere della prova della malattia grave, fisica o psichica, che giustifichi il ricorso all’interruzione della gravidanza, nonché della sua conforme volontà di ricorrervi.

Ci si riferisce, invece, alla praesumptio hominis, rispondente ai requisiti di cui all’art. 2729 cod. civile, che consiste nell’inferenza del fatto ignoto da un fatto noto, sulla base non solo di correlazioni statisticamente ricorrenti, secondo l’id quod plerumque accidit – che peraltro il giudice civile non potrebbe accertare d’ufficio, se non rientrino nella sfera dei notorio (art.115, secondo comma, cod. proc. civ.) – ma anche di circostanze contingenti, eventualmente anche atipiche – emergenti dai dati istruttori raccolti: quali, ad esempio, il ricorso al consulto medico proprio per conoscere le condizioni di salute del nascituro, le precarie condizioni psico-fisiche della gestante, eventualmente verificabili tramite consulenza tecnica d’ufficio, pregresse manifestazioni di pensiero, in ipotesi, sintomatiche di una propensione all’opzione abortiva in caso di grave malformazione dei feto, ecc.

In questa direzione il tema d’indagine principale diventa quello delle inferenze che dagli elementi di prova possono essere tratte, al fine di attribuire gradi variabili di conferma delle ipotesi vertenti sui fatti che si tratta di accertare, secondo un criterio di regolarità causale: restando sul professionista la prova contraria che la donna non si sarebbe determinata comunque all’aborto, per qualsivoglia ragione a lei personale.

E’ da escludere, peraltro, che tale indagine debba approdare ad un’elencazione di anomalie o malformazioni che giustifichino la presunzione di ricorso all’aborto; che, proprio per il suo carattere generale e astratto, mai dissimulerebbe l’inammissibile prefigurazione giudiziale di una presunzione juris tantum.

In conclusione, la statuizione della Corte d’appello di Firenze si e arrestata a livello enunciativo del principio generale, pur esatto, del riparto dell’onere probatorio: e risulta dunque manchevole nella parte in cui omette di prendere in considerazione la possibilità di una prova presuntiva, in concreto desumibile dai fatti allegati.

La sentenza dev’essere quindi cassata sul punto; restando impregiudicato l’accertamento susseguente dell’effettivo evento di danno conseguito al mancato esercizio dei diritto di scelta, per eventuale negligenza dei medico curante, parimenti oggetto di prova. Esclusa, infatti, la configurabilità di un danno ín re ípsa – quale espressamente prospettato dai ricorrenti – occorre che la situazione di grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna , ex art.6 lett. b) l. 194/1978 (danno potenziale), si sia poi tradotto in danno effettivo, eventualmente verificabile anche mediante consulenza tecnica d’ufficio.

Esula, altresì, dal thema decidendum di questa fase di legittimità il problema dell’identificazione dell’eventuale pregiudizio, legato da vincolo causale immediato e diretto, al fatto colposo dei sanitari (artt. 1223, 2056 cod. civ.): se limitato allo stesso danno alla salute prefigurato ex ante quale causa permissiva dell’interruzione di gravidanza — restando cioè interno alla fattispecie di cui all’art.6, in considerazione della natura eccezionale della norma – o se sia esteso a tutti danni­conseguenza riconducibili, in tesi generale, all’ordinaria responsabilità aquiliana.

Con il secondo motivo i ricorrenti censurano la violazione degli articoli 2, 3, 31 e 32 della Costituzione e della legge 29 luglio 1975 n. 405, nella negazione del diritto del figlio, affetto dalla sindrome di Down, al risarcimento del danno per l’impossibilità di un’esistenza sana e dignitosa.

E’ questo il problema, senza dubbio, più delicato e controverso della fattispecie legale in esame, che ha visto contrapposti due indirizzi di pensiero, di ispirazione anche metagiuridica, contesta di .riflessioni financo filosofiche ed etico-religiose, di irriducibile antinomia: segnati spesso da accese intonazioni polemiche in una pubblicistica ideologicamente schierata, in favore o contro la presunzione jurís et de jure di preferibilità della vita, per quanto malata (problematica, che investe anche temi diversi, come quello della morte pietosa).

Anche se debba escludersi un approccio di carattere eminentemente giuspolitico – che appartiene al legislatore: spettando, per contro, al giudice l’interpretazione della disciplina vigente, sia pure nel più completo approfondimento delle potenzialità evolutive in essa insite – non e seriamente contestabile che sulla giurisprudenza pregressa, anche straniera, abbiano influito, ben oltre l’ordinario, considerazioni antropologiche e soprattutto di equità, intesa come ragionevole attenuazione e modificazione apportata alla legge in virtù di speciali circostanze.

Nucleo centrale della disamina è quello della legittimazione ad agire di chi, al momento della condotta del medico (in ipotesi, antigiuridica), non era ancora soggetto di diritto, alla luce del principio consacrato all’art.1 cod. civ. (“La capacità giuridica si acquista dal momento della nascita”), conforme ad un pensiero giuridico plurisecolare.

Natura eccezionale, a questa stregua, rivestirebbero le norme che riconoscono diritti in favore del nascituro, concepito o non concepito, subordinati all’evento della nascita (ibidem, secondo comma): quale deroga al principio generale secondo cui non può reclamare un diritto chi, alla data della sua genesi, non era ancora esistente (artt.254, 320, 462, 784), o non era più (arg. ex art.4 cod. civ.).

Di qui la definizione, nella fattispecie in esame, di diritto adespota, la cui configurazione riuscirebbe, “prima facie” in contrasto con il principio generale sopra richiamato.

L’argomento, apparentemente preclusivo in limine, non si palesa, peraltro, insuperabile; e di fatto è stato superato da quella giurisprudenza di legittimità che ha opposto che il diritto al risarcimento, originato da fatto anteriore alla nascita, diventa attuale ed azionabile dopo la nascita del soggetto.

E’ vero, in tesi generale, che l’attribuzione di soggettività giuridica è appannaggio del solo legislatore, e che la cd. giurisprudenza normativa, talvolta evocata quale fonte concorrente di diritto, violerebbe il principio costituzionale di separazione dei poteri ove non si contenesse all’interno dei limiti ben definiti di clausole generali previste nella stessa legge, espressive di valori dell’ordinamento (buona fede, solidarietà, ecc.): eventualmente riesumando la dicotomia storica tra giurisprudenza degli interessi (Interessenjurisprudenz), di ispirazione evolutiva, e giurisprudenza dei concetti (Begriffsjurisprudenz), di natura statica: entrambe, peraltro, storicamente ancorate ad una concezione positivistica del diritto.

Ma in realtà non è punto indispensabile elevare il nascituro a soggetto di diritto, dotato di capacità giuridica – contro il chiaro dettato dell’art.l cod. civ. – per confermare l’astratta legittimazione del figlio disabile ad agire per il risarcimento di un danno le cui premesse fattuali siano collocabile in epoca anteriore alla sua stessa nascita. Al fondo di tale ricostruzione dogmatica vi è, infatti, il convincimento tradizionale, da tempo sottoposto a revisione critica, che per proteggere una certa entità occorra necessariamente qualificarla come soggetto di diritto.

Questa Corte ha già da tempo negato, pur se in ipotesi di danno provocato al feto durante il parto, che l’esclusione de[ diritto al risarcimento possa affermarsi su[ solo presupposto che il fatto colposo si sia verificato anteriormente alla nascita: definendo erronea la concezione che, a tal fine, ritiene necessaria la sussistenza di un rapporto intersoggettivo ab origine tra danneggiante e danneggiato. Ed ha concluso che, una volta accertata l’esistenza di un rapporto di causalità tra un comportamento colposo, anche se anteriore alla nascita, ed il danno che ne sia derivato al soggetto che con la nascita abbia acquistato la personalità giuridica, sorge e dev’essere riconosciuto in capo a quest’ultimo il diritto al risarcimento ( Cass., sez.3, 22 novembre 1993, n. 11503).

Tenuto conto dei naturale relativismo dei concetti giuridici, alla tutela del nascituro si può pervenire, in conformità con un indirizzo dottrinario, senza postularne la soggettività – che è una tecnica di imputazione di diritti ed obblighi – bensì considerandolo oggetto di tutela (Corte costituzionale 18 febbraio 1975 n. 27; Cass., sez.3, maggio 2011 n. 9700; Cass. 9 maggio 2000, n. 5881).

Tale principio informa espressamente diverse norme dell’ordinamento. Così, l’art.1, primo comma, legge 19 febbraio 2004 n.40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) annovera tra i soggetti tutelati anche il concepito (“AI fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla in fertilità umana è consentito il ricorso alla procreazione medicalmente assistita, alle condizioni e secondo le modalità previste dalla presente legge, che assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito”). Analogo concetto è riflesso nell’art.1 della stessa legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza), qui in esame, che retrodata la tutela della vita umana anteriormente alla nascita (“Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio). Anche la legge 29 luglio 1975 n.405 (Istituzione dei consultori familiari) afferma l’esigenza di proteggere la salute del concepito (art.1: “Il servizio di assistenza alla famiglia e alla maternità ha come scopi…: c) la tutela della salute della donna e del prodotto del concepimento’). Infine, nell’ambito della stessa normativa codicistica, l’art.254 prevede il riconoscimento dei figlio nato fuori del matrimonio anche quando questi sia solo concepito, ma non ancora nato.

Entro questa cornice dogmatica si può dunque concludere per l’ammissibilità dell’azione dei minore, volta al risarcimento di un danno che assume ingiusto, cagionatogli durante la gestazione. Tesi, che del resto neppure collide con la teoria della causalità, posto che è ben possibile che tra causa ed evento lesivo intercorra una cesura spazio-temporale, tale da differire il relativo diritto al ristoro solo al compiuto verificarsi dell’effetto pregiudizievole, purché senza il concorso determinante di concause sopravvenute ( cfr. art.41 cod. pen.).

Qui la particolarità risiederebbe nel fatto che i[ medico sia, in ipotesi, l’autore mediato del danno, per aver privato la madre di una facoltà riconosciutale dalla legge, tramite una condotta omissiva che si ponga in rapporto diretto di causalità con la nascita indesiderata; e la soluzione verrebbe, in tal modo, ad essere identica alla diversa ipotesi della responsabilità del medico verso il nato disabile per omessa comunicazione ai genitori della pericolosità di un farmaco somministrato per stimolare l’attività riproduttiva (Cass 11 maggio 2009 n. 10741), o di una malattia della gestante suscettibile di ripercuotersi sulla salute del feto.

Se dunque l’astratta riconoscibilità della titolarità di un diritto (oltre che della legittimazione attiva) del figlio handicappato non trova un ostacolo insormontabile nell’anteriorità del fatto illecito alla nascita, giacché si può essere destinatari di tutela anche senza essere soggetti dotati di capacità giuridica ai sensi dell’art.1 cod. civile, occorre scrutinare a fondo il contenuto stesso del diritto che si assume leso ed il rapporto di causalità tra condotta del medico ed evento di danno. G

Sotto il primo profilo, in un approccio metodologico volto a mettere tra parentesi tutto ciò che concretamente non è indispensabile, per cogliere l’essenza di ciò che si indaga, si deve partire dal concetto di danno-conseguenza, consacrato all’art.1223 cod. civile e riassumibile, con espressione empirica, nell’avere di meno, a seguito dell’illecito. In siffatta ricostruzione dogmatica, il danno riuscirebbe pertanto legato alla stessa vita del bambino; e l’assenza di danno alla sua morte

Ed è qui che la tesi ammissiva, in subiecta materia, incorre in una contraddizione insuperabile: dal momento che il secondo termine di paragone, nella comparazione tra le due situazioni alternative, prima e dopo l’illecito, è la non vita, da interruzione igitur hominum causa omne ius constitutum sit … “: D. 1, 5, 2., Hermogenianus, libro primo iuris epitomarum ).

Il supposto interesse a non nascere, com’è stato detto efficacemente in dottrina, mette in scacco il concetto stesso di danno. Tanto più che di esso si farebbero interpreti unilaterali i genitori nell’attribuire alla volontà dei nascituro il rifiuto di una vita segnata dalla malattia; come tale, indegna di essere vissuta (quasi un corollario estremo dei cd. diritto alla felicità).

L’ordinamento non riconosce, per contro, il diritto alla non vita: cosa diversa dal cd. diritto di staccare la spina, che comunque presupporrebbe una manifestazione positiva di volontà ex ante (testamento biologico). L’accostamento, non infrequente, tra le due fattispecie è fallace; oltre a non tener conto dei limiti connaturali al ragionamento analogico, soprattutto in tema di norme eccezionali.

Né vale invocare il diritto di autodeterminazione della madre, leso dalla mancata informazione sanitaria, ai fini di una propagazione intersoggettiva dell’effetto pregiudizievole (Cass., sez. 3, 3 maggio 2011, n. 9700). La formula, concettualmente fluida ed inafferrabile, pretende di estendere al nascituro una facoltà che è concessa dalla legge alla gestante, in presenza di rigorose condizioni – progressivamente più restrittive nel tempo – posta in relazione di bilanciamento con un suo diritto già esistente alla salute personale, che costituisce il concreto termine di paragone positivo: bilanciamento, evidentemente non predicabile, in relazione al nascituro, con una situazione alternativa di assoluta negatività.

In senso contrario, qualche voce in dottrina, non senza echi giurisprudenziali, adduce l’apparente antinomia tra la progressiva estensione del credito risarcitorio in favore del padre (Cass., sez.3, 10 maggio 2002 n. 6735) e dei germani (Cass., sez.3, 2 ottobre 2012 n. 16.754) ed il perdurante diniego opposto al figlio, primo interessato dalle patologie prese in considerazione dalla norma: argomento, suggestivo ed impressionistico, ma di nessun pregio giuridico, restando ad un livello di costatazione empirica, senza adeguato apprezzamento delle diverse premesse in diritto.

A prescindere da una disamina approfondita, estranea al presente thema decidendum, della tesi estensiva sopra menzionata, per saggiarne la solidità argomentativa, sia in ordine ai presupposti oggettivi – se, cioè, sia, o no, necessario che i parenti (che nessuna voce in capitolo hanno in ordine alla scelta abortiva), possano godere, di fatto, di un trattamento probatorio perfino più favorevole che non la madre, perché esenti dall’onere di provare lo stesso pericolo per la propria salute contemplato dall’art.6 I. cit. – e soggettivi – in quanto non onerati dell’omologa prova della loro condivisione dell’opzione abortiva – valore dirimente ha il rilievo che solo per i predetti soggetti, e non pure per il nato malformato, si può configurare una danno-conseguenza, apprezzabile tramite comparazione tra due situazioni soggettive omogenee: la qualità della vita prima e dopo la nascita del bambino handicappato.

In una decisione che investa diritti fondamentali della persona umana, diventa, al riguardo, rilevante anche l’analisi comparatistica, mediante richiamo di precedenti attinti dall’esperienza maturata in ordinamenti stranieri, culturalmente vicini ed informati al più assoluto rispetto dei diritti della persona.

La giurisprudenza riguardante azioni di danni per wrongful birth e wrongful life si è formata innanzitutto presso le corti statunitensi. C

II primo caso in termini sembra essere quello deciso dalla New Jersey Supreme Court 6 marzo 1967 Gleitman v. Cosgrove, in cui furono respinte sia la domanda della madre contro il medico curante, che aveva trascurato la pericolosità della rosolia della gestante — sotto il profilo che l’aborto era, all’epoca, un reato (soppresso dalla pronuncia della Supreme Court 22 Gennaio 1973 Roe – nome di fantasia, a tutela della privacy — v. Wade, con una maggioranza di sette giudici a due), sia quella dei figlio nato malato: proprio con l’argomento, destinato a diventare tralatizio, che era improponibile un confronto tra vita con malattia e non vita.

Sulla scia del precedente, le Corti superiori nella maggior parte degli stati degli U.S.A. hanno respinto le richieste risarcitorie dei figli handicappati, accogliendo invece quella dei genitori (cfr. New Jersey Supreme Court 26 giugno 1979, Berman v. Allan); con sporadiche eccezioni in singoli stati ( California Court of Appeal 1980 Curlender v. Bio Science Laboratories e, parzialmente, California Supreme Court Turpin v. Sortini, 1982 ), e (Harbeson v. Parke-Davies Inc. 6 gennaio 1983).

Anche in Germania, si è negato il risarcimento al figlio handicappato ( BGH, 18 gennaio 1983); così come in Inghilterra (London Court of Appeal 19 febbraio 1982, Sachen McKay v. Essex Health Authority.

Alla luce di questi cenni sommari, si può enucleare una tendenza generale a ritenere compensabile la penosità delle difficoltà cui il nato andrà incontro nel corso della sua esistenza, a cagione di patologie in nessun modo imputabili eziologicamente a colpa medica, mediante interventi di sostegno affidati alla solidarietà generale; e dunque, nella sede appropriata alla tutela di soggetti diversamente abili e bisognosi di sostegno per cause di qualsivoglia natura, anche diversa da quella in esame.

Ed al riguardo nulla è più significativo dell’evoluzione normativa seguita in Francia alla pronuncia della Cour de Cassation, assemblée plénière, 17 novembre 2000, sul cd. affaire Perruche che aveva riconosciuto il diritto al risarcimento ex delicto ad un nato affetto da grave malattia, non diagnosticata durante la gravidanza (in difformità dalle conclusioni del P.G., sull’impossibilità di ravvisare un danno nella stessa vita, espresse, per via apagogica, con sintesi icastica: “Le dommage c’est la vie et l’absence de dommage c’est la mort: La mort devient ainsi une valeur préférable à la vie”). Con la « Loi relative aux droits de malades et à la qualité du système de santé » 4 marzo 2002 n. 2002-303 (cd. Loi Kouchner, dal nome dei ministro della salute proponente Bernar Kouchner), si sono infatti perentoriamente riaffermati i canoni tradizionali – con il crisma del primato della legge – prescrivendo che nessuno può far valere un pregiudizio derivante dal solo fatto della nascita e che la persona nata con un handicap dovuto a colpa medica può ottenerne il risarcimento quando l’atto colposo ha provocato direttamente o ha aggravato l’handicap, o non ha permesso di prendere misure in grado di attenuarlo (Art.1 del titolo »Solidarité envers les personnes handicapées» : «Nul ne peut se prévaloir d’un préjudice du seul fait de sa naissance. La personne née avec un handicap dû à une faute médicale peut obtenir la réparation de son préjudice lorsque l’acte fautif a provoqué directement le handicap ou l’a aggravé, ou n’a pas permis de prendre les mesures susceptibles de l’atténuer»). Legge, la cui espressa retroattività — censurata dapprima dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo con due arresti assunti all’unanimità dai 17 giudici della Grande Chambre (sent. 6 ottobre 2005 in cause Maurice c. Francia e Draon c. Francia) e poi dichiarata illegittima, in parte qua ( Conseil constitutionel 11 giugno 2010), appare, all’evidenza, significativa della volontà dei legislatore di risanare la cesura giurisprudenziale tra un indirizzo tradizionale, fondato su pilastri dogmatici e concettuali di plurisecolare vigenza, e la dirompente deviazione (definita, da parte della dottrina, perfino come arrêt de provocation ) segnata dalla sentenza della Suprema Corte, ponendo a carico della solidarietà nazionale l’assistenza dei nati handicappati.

In quest’ottica, viene meno anche il fondamento della tesi che àncora la sussistenza del credito risarcitorio ai cd. doveri di protezione, di cui sarebbe beneficiario il nascituro: figura primamente elaborata dalla dottrina tedesca ( Schutzpflichte), che riconosce a parenti, o conviventi, anche per ragioni di lavoro, a contatto con la controparte contrattuale, una tutela più intensa, di natura contrattuale (Vertraege mit Schutzwirkung fuer Dritte), che non quella propria della generalità dei terzi, che possono valersi, invece, della sola azione aquiliana. Sulla scorta di tale ricostruzione concettuale, si sostiene che se il contratto tra la madre ed il medico ha effetti protettivi verso i terzi (Cass., sez.3, 29 luglio 2004 n. 14488, che tuttavia nega il diritto del figlio al risarcimento), non sarebbe coerente escluderne il bambino: facile inferenza che, se vale a giustificare la titolarità del credito risarcitorio ex contractu da parte dei nato affetto da anomalie cagionate direttamene dal sanitario, non supera, ancora una volta, l’ostacolo dell’inesistenza.di un danno-conseguenza per effetto della mancata interruzione della gravidanza.

Né può essere sottaciuto, da ultimo, il dubbio che l’affermazione di una responsabilità del medico verso il nato aprirebbe, per coerenza, la strada ad un’analoga responsabilità della stessa madre, che nelle circostanze contemplate dall’art. 6 l. 194/1978, benché correttamente informata, abbia portato a termine la gravidanza: dato che riconoscere il diritto di non nascere malati comporterebbe, quale simmetrico termine dei rapporto giuridico, l’obbligo della madre di abortire. E per quanto si voglia valorizzare un metodo antiformalista nella configurazione dell’illecito, valorizzando i principi di solidarietà ex artt. 2 e 3 della Costituzione, occorre pur sempre evitare straripamenti giudiziari influenzati dal fascino, talvolta insidioso, dei metodo casistico (case law system), nell’ambito di un sistema aperto, quale configurato nella norma generale dell’art. 2043 cod. civ. (con l’espressione introduttiva: “qualunque fatto”…) in cui non si possono operare, a priori discriminazioni tra fatti dannosi che conducono al risarcimento e fatti dannosi che lasciano le perdite a carico della vittima.

II contrario indirizzo giurisprudenziale e dottrinario, favorevole alla riconoscibilità di una pretesa risarcitoria del nato disabile verso il medico, pur se palesi un’indubbia tensione verso la giustizia sostanziale, finisce con l’assegnare, in ultima analisi, al risarcimento del danno un’impropria funzione vicariale, suppletiva di misure di previdenza e assistenza sociale: in particolare, equiparando quoad effectum l’errore medico che non abbia evitato la nascita indesiderata, a causa di gravi malformazioni dei feto, all’errore medico che tale malformazione abbia direttamente cagionato: conclusione, che non può essere condivisa, ad onta delle fitte volute concettualistiche che la sorreggono, stante la profonda eterogeneità delle situazioni in raffronto e la sostanziale diversità dell’apporto causale nei due casi.

Non senza soppesare altresì il rischio di una reificazione dell’uomo, la cui vita verrebbe ad essere apprezzabile in ragione dell’integrità psico-fisica: deriva eugenica, certamente lontanissima dalla teorizzazione dottrinaria del cd. diritto di non nascere, ma che pure ha animato, ad es., il dibattito oltralpe, provocando reazioni nella sensibilità dell’associazionismo rappresentativo dei soggetti handicappati, anteriormente all’approvazione della legge Kouchner sopra citata. Ed una chiara negazione che la vita di un bambino disabile possa mai considerarsi un danno – sul presupposto implicito che abbia minor valore di quella di un bambino sano – è pure contenuta nella sentenza 28 maggio 1993 della Corte Costituzionale federale tedesca (BVerfGE 88, 203).

Per superare gli ostacoli frapposti all’affermazione al supposto diritto a non nascere se non sano – ignoto al vigente ordinamento – i ricorrenti prospettano, altresì, nell’ambito dei secondo motivo, una concorrente ragione di danno da valutare sotto il profilo dell’inserimento dei nato in un ambiente familiare nella migliore delle ipotesi non preparato ad accoglierlo.

Al riguardo, occorre notare, in via preliminare, che di tale allegazione non v’è traccia nella sentenza impugnata; onde, si deve ritenere, in difetto di critica specifica alla sua mancata disamina, che essa sia formulata per la prima volta nel presente ricorso per cassazione. E tuttavia, essa non è, perciò stesso, inammissibile, risolvendosi in una mera argomentazione, volta dare fondamento alla medesima domanda, invariata nei suoi elementi essenziali costitutivi, svolta ab initio: come tale, immune da preclusioni.

Nel merito, essa si rivela peraltro un mimetismo verbale del cd. diritto a non nascere se non sani; e va quindi incontro alla medesima obiezione dell’incomparabilità della sofferenza anche da mancanza di amore familiare, con l’unica alternativa ipotizzabile, rappresentata dell’ interruzione della gravidanza.

Si deve dunque ritenere che l’argomentazione, se vale a confutare la tesi, peraltro già respinta, della irrisarcibilità di un danno senza soggetto non ancora nato al momento della condotta dalla colposa del medico (cd. diritto adespota), si palesa dei tutto inidonea, per contro, a sormontare l’impossibilità di stabilire un nesso causale tra quest’ultima e le sofferenze psicofisiche cui il figlio è destinato nel corso la sua vita. Oltre al fatto di postulare un’ irruzione dei diritto in un campo da sempre rimastogli estraneo, mediante patrimonializzazione dei sentimenti, in una visione pan­risarcitoria dalle prospettive inquietanti.

II ricorso dev’essere dunque accolto limitatamente al primo motivo con rinvio alla corte d’appello di Firenze, in diversa composizione, per un nuovo giudizio, in relazione alla censura accolta, nonché per le spese della presente fase di legittimità.

P.Q.M.

– Accoglie il primo motivo e rigetta il secondo;Cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia la causa alla Corte d’Appello di Firenze, in diversa composizione, per un nuovo giudizio ed anche per il regolamento delle spese della fase di legittimità.

ASTI SEI VITTIMA DI MALASANITA’ ?RISARCIMENTO DA DANNO MEDICO ,MEDICO CHE SBAGLIA, COLPA MEDICA, RISARCIMENTO PER ERRORE MEDICO, RISARCIMENTO PER DANNO PRONTO SOCCORSO, DANNO –

VERCELLI SEI VITTIMA DI MALASANITA’ ?RISARCIMENTO DA DANNO MEDICO ,MEDICO CHE SBAGLIA, COLPA MEDICA, RISARCIMENTO PER ERRORE MEDICO, RISARCIMENTO PER DANNO PRONTO SOCCORSO, DANNO –

ALESSANDRIA SEI VITTIMA DI MALASANITA’ ?RISARCIMENTO DA DANNO MEDICO ,MEDICO CHE SBAGLIA, COLPA MEDICA, RISARCIMENTO PER ERRORE MEDICO, RISARCIMENTO PER DANNO PRONTO SOCCORSO, DANNO –

CUNEO SEI VITTIMA DI MALASANITA’ ?RISARCIMENTO DA DANNO MEDICO ,MEDICO CHE SBAGLIA, COLPA MEDICA, RISARCIMENTO PER ERRORE MEDICO, RISARCIMENTO PER DANNO PRONTO SOCCORSO, DANNO –

ASTI SEI VITTIMA DI MALASANITA’ ?RISARCIMENTO DA DANNO MEDICO ,MEDICO CHE SBAGLIA, COLPA MEDICA, RISARCIMENTO PER ERRORE MEDICO, RISARCIMENTO PER DANNO PRONTO SOCCORSO, DANNO –

NOVARA SEI VITTIMA DI MALASANITA’ ?RISARCIMENTO DA DANNO MEDICO ,MEDICO CHE SBAGLIA, COLPA MEDICA, RISARCIMENTO PER ERRORE MEDICO, RISARCIMENTO PER DANNO PRONTO SOCCORSO, DANNO –

LUGO SEI VITTIMA DI MALASANITA’ ?RISARCIMENTO DA DANNO MEDICO ,MEDICO CHE SBAGLIA, COLPA MEDICA, RISARCIMENTO PER ERRORE MEDICO, RISARICMENTO PER DANNO PRONTO SOCCORSO, DANNO –

VICENZA SEI VITTIMA DI MALASANITA’ ?RISARCIMENTO DA DANNO MEDICO ,MEDICO CHE SBAGLIA, COLPA MEDICA, RISARCIMENTO PER ERRORE MEDICO, RISARCiMENTO PER DANNO PRONTO SOCCORSO, DANNO –

BOLOGNA SEI VITTIMA DI MALASANITA’ ?RISARCIMENTO DA DANNO MEDICO ,MEDICO CHE SBAGLIA, COLPA MEDICA, RISARCIMENTO PER ERRORE MEDICO, RISARCIMENTO PER DANNO PRONTO SOCCORSO, DANNO –

responsabilità medica civile

responsabilità medica contrattuale

responsabilità medica risarcimento danni

responsabilità medica citazione

responsabilità medica penale

responsabilità medica nesso di causalità

responsabilità medica prescrizione

responsabilità medica contrattuale o extracontrattuale

La prima cosa da sapere è che per richiedere un risarcimento per danni da errore medico ci sono 10 anni di prescrizione dall’ultimo certificato. La seconda è che in caso di riconoscimento della responsabilità da parte dell’operatore sanitario si ha diritto al rimborso di tutte le spese sostenute conseguenti al danno.

  1. la lesione del diritto ad esprimere il c.d.consenso informato da parte del medico si verifica per il sol fatto che egli tenga una condotta che lo porta al compimento sulla persona del paziente (in ipotesi anche senza un’ingerenza fisica, potendo trattarsi di atti medici che si risolvano in una intromissione nella sfera psico-fisica del paziente ed assumano quindi efficienza su di essa senza alcuna materialità, cioè anche soltanto tramite attività persuasiva costituente atto medico, come nel caso dell’intervento eseguito da un medico psichiatra) di atti medici senza avere acquisito il suo consenso.
  1. Il c.d. danno evento cagionato da tale condotta è, sotto tale profilo, rappresentato dallo stesso estrinsecarsi dell’intervento sulla persona del paziente senza la previa acquisizione del consenso, cioè, per restare al caso dell’intervento chirurgico, dall’esecuzione senza tale consenso dell’intervento sul corpo del paziente. Il danno-evento in questione risulta, dunque, dalla tenuta di una condotta omissiva seguita da una condotta commissiva.
  1. Il danno conseguenza, quello che l’art. 1223 c.c., indica come perdita o mancato guadagno, è, invece, rappresentato dall’effetto pregiudizievole che la mancanza dell’acquisizione del consenso e, quindi, il comportamento omissivo del medico, seguito dal comportamento positivo di esecuzione dell’intervento, ha potuto determinare sulla sfera della persona del paziente, considerata nella sua rilevanza di condizione psico-fisica posseduta prima dell’intervento, la quale, se le informazioni fossero state date, l’avrebbe portata a decidere sul se assentire la pratica medica.
  1. Un primo effetto è intuitivo: poichè l’informazione sull’atto medico da eseguirsi e sulle sue conseguenze, una volta data al paziente, avrebbe posto costui nella condizione di decidere se autorizzare o non autorizzare il medico all’esecuzione dell’intervento proposto e poichè tra i contenuti possibili concreti che l’esercizio di tale potere di determinazione può assumere vi può essere sia la scelta di restare nelle condizioni che secondo il medico imporrebbero l’intervento anche se pregiudizievoli (se del caso anche usque ad supremum exitwn), sia la scelta di riflettere e di determinarsi successivamente, sia e soprattutto quella di rivolgersi altrove, cioè ad altro medico, prima di determinarsi, è palese che un effetto della condotta di omissione dell’informazione seguita dall’esecuzione dell’atto medico, che integra danno conseguenza, si individua nella preclusione della possibilità di esercitare tutte tali opzioni.
  1. Preclusione che integra danno conseguenza perchè si concreta nella privazione della libertà del paziente di autodeterminarsi circa la sua persona fìsica. Libertà che, costituendo un bene di per sè, quale aspetto della generica libertà personale, viene negata e, quindi, risulta sacrificata irrimediabilmente, sì che si configura come “perdita” di un bene personale.
  1. Nel caso di atto medico costituito da intervento chirurgico si verificano, peraltro secondo un criterio di assoluta normalità, anche ulteriori danni conseguenza.
  1. Si tratta:
  1. della sofferenza e della contrazione della libertà di disporre di sè stesso, psichicamente e fisicamente, patite dal paziente in ragione dello svolgimento sulla sua persona dell’esecuzione dell’intervento durante la sua esecuzione e nella relativa convalescenza;
  1. della diminuzione che lo stato del paziente subisce a livello fisico per effetto dell’attività demolitoria, che abbia eliminato, sebbene a fini terapeutici, parti del corpo ed eventualmente le funzionalità di esse: poichè tale diminuzione avrebbe potuto verificarsi solo se assentita sulla base dell’informazione dovuta e si è verificata in mancanza di essa si tratta di conseguenza oggettivamente dannosa, che si deve apprezzare come danno conseguenza indipendentemente dalla sua utilità rispetto al bene della salute del paziente, che è bene diverso dal diritto di autodeterminarsi rispetto alla propria persona, ancorchè in modo di riflesso incidente sul bene della salute.
  1. Non solo: con riferimento alla possibilità che, se il consenso fosse stato richiesto, la facoltà di autodeterminazione avrebbe potuto indirizzarsi nel rivolgersi per l’intervento medico altrove, qualora si riveli che sarebbe stata possibile in relazione alla patologia l’esecuzione di altro intervento vuoi meno demolitorio vuoi anche solo determinativo di minore sofferenza, si verifica anche un danno conseguenza rappresentato da vere e proprie “perdita”, questa volta relative proprio ad aspetti della salute del paziente.
  1. 2.4.4. Tanto chiarito, risulta evidente che la circostanza che l’intervento medico non preceduto da acquisizione di consenso sia stato, in ipotesi, risolutivo della patologia che il paziente presenta non è idonea di per sè ad eliminare i danni conseguenza così individuati.
  1. Ciò è di tutta evidenza nel caso delle perdite di cui s’è appena detto. E’ infatti palese che il beneficio tratto dall’esecuzione dell’intervento in queste ipotesi non “compensa” la perdita della possibilità di eseguirne uno meno demolitorio e nemmeno uno che, se eseguito da altri, avrebbe provocato meno sofferenza.
  1. Ma è non meno evidente che, anche qualora l’intervento eseguito si riveli l’unico possibile e, quindi, che, se fosse stato eseguito altrove o successivamente, esso avrebbe dovuto avere identica consistenza ed identici effetti, la verificazione del beneficio derivante dalla sua esecuzione in ogni caso non potrebbe in alcun modo compensare almeno la “perdita” della possibilità di scegliere di non sottoporsi all’intervento. Possibilità che è preservata dal diritto al consenso informato.
  1. Non solo:, quando pure l’intervento eseguito fosse stato l’unico possibile e, tuttavia, la situazione non fosse stata tale che, per avere esso esito favorevole e risolutivo della patologia, la sua esecuzione avesse dovuto seguire in tempi ristretti e tali da non consentire uno spatium deliberarteli finalizzato all’acquisizione, da parte del paziente, di ulteriori informazioni sulla sua effettiva indispensabilità ed anche in funzione dell’indirizzarsi altrove per la sua esecuzione, la stessa circostanza che al paziente sia rimasta preclusa la possibilità di fruire di tali possibilità e, quindi, anche di beneficiare dell’apporto positivo che la loro fruizione avrebbe avuto sul grado di predisposizione psichica a subire l’intervento e le sue rilevanti conseguenze, si configura come danno conseguenza che in alcun modo è eliso dall’esito positivo dell’intervento: la preclusione di tali possibilità di autodeterminarsi e di beneficiare della diminuzione della sofferenza psichica conseguente all’autodeterminazione in alcun modo risultano compensate dall’esito favorevole dell’intervento. La ragione è di tutta evidenza: tale esito favorevole avrebbe potuto comunque essere conseguito all’esito di una situazione psichica del paziente, che, in quanto determinata dalla constatazione che anche altrove le si consigliava lo stesso intervento e che, dunque, esso si presentava veramente ineluttabile, meglio sarebbe stata predisposta ad accettare le conseguenze demolitorie dell’intervento. Detta situazione psichica risulta ben diversa da quella in cui il paziente si viene a trovare “a sorpresa” ex post soltanto quando constata gli effetti dell’intervento eseguito senza il suo consenso informato e si domanda se si sarebbe potuto fare altrimenti e se egli stesso avrebbe potuto scegliere diversamente, compresa la possibilità di non fare. Si tratta di situazione psichica mancata che nel suo oggettivo carattere dannoso non è in alcun modo eliminata: ciò per l’assorbente ragione che l’esito favorevole dell’intervento avrebbe potuto dispiegare i suoi effetti anche se quella situazione si fosse potuta verificare, onde il danno derivante dal fatto che essa è stata impedita, non risulta in alcun modo inciso.
  1. 2.5. Le svolte considerazioni evidenziano allora l’erroneità della sentenza impugnata là dove ha attribuito all’esito risolutivo della patologia dell’intervento eseguito il valore di elidere la lesione del diritto al consenso informato.
  1. L’elisione di tale lesione è frutto della mancata percezione in iure dell’esatta consistenza della fattispecie astratta di violazione del diritto al consenso informato con riferimento alla struttura del relativo illecito ed alla distinzione fra danno evento e danno conseguenza ad essa riferibili.
  1. Alla stregua del ragionamento svolto dalla corte aquilana ogni intervento medico eseguito senza previa acquisizione del consenso informato, pur possibile (e con ciò, naturalmente, si vuole escludere la problematica degli interventi eseguiti in situazione in cui l’acquisizione del consenso non è possibile per lo stato di incoscienza del paziente), si dovrebbe considerare non lesivo del diritto alla prestazione del consenso, nè sul piano contrattuale, dove il rapporto si iscriva in tale cornice, nè su quello extracontrattuale, purchè la scelta terapeutica fosse l’unica possibile per ovviare alla patologia esistente e l’intervento sia poi riuscito in tal senso. L’attività di ingerenza del medico sulla persona del paziente risulterebbe lecita sul piano civilistico sempre in ragione della sua utilità per la salute.
  1. Si ricorda, al riguardo che l’origine e, quindi, la doverosa dimensione funzionale e le implicazioni del consenso informato bene sono state delineate da Cass. n. 21748 del 2007, nel senso che: “Il consenso informato costituisce, di norma, legittimazione e fondamento del trattamento sanitario: senza il consenso informato l’intervento del medico è, al di fuori dei casi di trattamento sanitario per legge obbligatorio o in cui ricorra uno stato di necessità, sicuramente illecito, anche quando è nell’interesse del paziente; la pratica del consenso libero e informato rappresenta una forma di rispetto per la libertà dell’individuo e un mezzo per il perseguimento dei suoi migliori interessi. Il consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma – atteso il principio personalistico che anima la nostra Costituzione (la quale vede nella persona umana un valore etico in sè e guarda al limite del “rispetto della persona umana” in riferimento al singolo individuo, in qualsiasi momento della sua vita e nell’integralità della sua persona, in considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofìche che orientano le sue determinazioni volitive) e la nuova dimensione che ha assunto la salute (non più intesa come semplice assenza di malattia, ma come stato di completo benessere fisico e psichico, e quindi coinvolgente, in relazione alla percezione che ciascuno ha di sè, anche gli aspetti interiori della vita come avvertiti e vissuti dal soggetto nella sua esperienza) – altresì di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale”.
  1. Si rammenta, altresì, che la già citata Cass. n. 2847 del 2010, ha avuto modo di rimarcare innanzitutto che, “secondo la definizione della Corte costituzionale (sentenza n. 438 del 2008, sub. n. 4 del “Considerato in diritto”) il consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi nell’art. 2 Cost., che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli artt. 13 è 32 Cost., i quali stabiliscono rispettivamente che “la libertà personale è inviolabile” e che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”.
  1. Afferma ancora la Consulta che numerose norme internazionali (che è qui superfluo richiamare ancora una volta) prevedono esplicitamente la necessità del consenso informato del paziente nell’ambito dei trattamenti medici. La diversità tra i due diritti è resa assolutamente palese dalle elementari considerazioni che, pur sussistendo il consenso consapevole, ben può configurarsi responsabilità da lesione della salute se la prestazione terapeutica sia tuttavia inadeguatamente eseguita; e che la lesione del diritto all’autodeterminazione non necessariamente comporta la lesione della salute, come accade quando manchi il consenso ma l’intervento terapeutico sortisca un esito assolutamente positivo (è la fattispecie cui ha avuto riguardo Cass. pen., sez. un., n. 2437 del 2009, concludendo per l’inconfigurabilità del delitto di violenza privata). Nel primo caso il consenso prestato dal paziente è irrilevante, poichè la lesione della salute si ricollega causalmente alla colposa condotta del medico nell’esecuzione della prestazione terapeutica, inesattamente adempiuta dopo la diagnosi. Nel secondo, la mancanza di consenso può assumere rilievo a fini risarcitori, benchè non sussista lesione della salute (cfr. Cass., nn. 2468/2009) o se la lesione della salute non sia causalmente collegabile alla lesione di quel diritto, quante volte siano configurabili conseguenze pregiudizievoli (di apprezzabile gravità, se integranti un danno non patrimoniale) che siano derivate dalla violazione del diritto fondamentale all’autodeterminazione in se stesso considerato (cfr., con riguardo al caso di danno patrimoniale e non patrimoniale da omessa diagnosi di feto malformato e di conseguente pregiudizio della possibilità per la madre di determinarsi a ricorrere all’interruzione volontaria della gravidanza, la recentissima Cass., n. 13 del 2010 e le ulteriori sentenze ivi richiamate)”.
  1. 2.8. Sempre la sentenza n. 2847 del 2010 – immediatamente di seguito alla riportata motivazione e con considerazioni che evidenziavano già il profilo strutturale dell’illecito da lesione del diritto al consenso informato, siccome lo si è delineato nei precedenti paragrafi – ha poi, osservato che: “Viene anzitutto in rilievo il caso in cui alla prestazione terapeutica conseguano pregiudizi che il paziente avrebbe alternativamente preferito sopportare nell’ambito di scelte che solo a lui è dato di compere.
  1. Non sarebbe utile a contrastare tale conclusione il riferimento alla prevalenza del bene “vita” o del bene “salute” rispetto ad altri possibili interessi, giacchè una valutazione comparativa degli interessi assume rilievo nell’ambito del diritto quando soggetti diversi siano titolari di interessi confliggenti e sia dunque necessario, in funzione del raggiungimento del fine perseguito, stabilire quale debba prevalere e quale debba rispettivamente recedere o comunque rimanere privo di tutela; un “conflitto” regolabile ab externo è, invece, escluso in radice dalla titolarità di pur contrastanti interessi in capo allo stesso soggetto, al quale soltanto, se capace, compete la scelta di quale tutelare e quale sacrificare. Così, a titolo meramente esemplificativo, non potrebbe a priori negarsi tutela risarcitoria a chi abbia consapevolmente rifiutato una trasfusione di sangue perchè in contrasto con la propria fede religiosa (al caso dei Testimoni di Geova si sono riferite, con soluzioni sostanzialmente opposte, Cass., nn. 23676/2008 e 4211/2007), quand’anche gli si sia salvata la vita praticandogliela, giacchè egli potrebbe aver preferito non vivere, piuttosto che vivere nello stato determinatosi; così, ancora, non potrebbe in assoluto escludersi la risarcibilità del danno non patrimoniale da acuto o cronico dolore fisico (sul punto cfr. Cass., n. 23846/2008) nel caso in cui la scelta del medico di privilegiare la tutela dell’integrità fisica del paziente o della sua stessa vita, ma a prezzo di sofferenze fisiche che il paziente avrebbe potuto scegliere di non sopportare, sia stata effettuata senza il suo consenso, da acquisire in esito alla rappresentazione più puntuale possibile del dolore prevedibile, col bilanciamento reso necessario dall’esigenza che esso sì a prospettato con modalità idonee a non ingenerare un aprioristico rifiuto dell’atto terapeutico, chirurgico o farmacologico. E nello stesso ambito dovrebbe inquadrarsi il diritto al risarcimento per la lesione derivata da un atto terapeutico che abbia salvaguardato la salute in un campo a discapito di un secondario pregiudizio sotto altro pure apprezzabile aspetto, che non sia stato tuttavia adeguatamente prospettato in funzione di una scelta consapevole del paziente, che la avrebbe in ipotesi compiuta in senso difforme da quello privilegiato dal medico. Viene, in secondo luogo, in rilievo la considerazione del turbamento e della sofferenza che deriva al paziente sottoposto ad atto terapeutico dal verificarsi di conseguenze del tutto inaspettate perchè non prospettate e, anche per questo, più difficilmente accettate.
  1. L’informazione cui il medico è tenuto in vista dell’espressione del consenso del paziente vale anche, ove il consenso sia prestato, a determinare nel paziente l’accettazione di quel che di non gradito può avvenire, in una sorta di condivisione della stessa speranza del medico che tutto vada bene; e che non si verifichi quanto di male potrebbe capitare, perchè inevitabile. Il paziente che sia stato messo in questa condizione – la quale integra un momento saliente della necessaria “alleanza terapeutica” col medico – accetta preventivamente l’esito sgradevole e, se questo si verifica, avrà anche una minore propensione ad incolpare il medico. Se tuttavia lo facesse, il medico non sarebbe tenuto a risarcirgli alcun danno sotto l’aspetto del difetto di informazione (salva la sua possibile responsabilità per avere, per qualunque ragione, mal diagnosticato o mal suggerito o male operato; ma si tratterebbe – come si è già chiarito – di un aspetto del tutto diverso, implicante una “colpa” collegata all’esecuzione della prestazione successiva). Ma se il paziente non sia stato convenientemente informato, quella condizione di spirito è inevitabilmente destinata a realizzarsi, ingenerando manifestazioni di turbamento di intensità ovviamente correlata alla gravità delle conseguente verificatesi e non prospettate come possibili. Ed è appunto questo il danno non patrimoniale che, nella prevalenza dei casi, costituisce l’effetto del mancato rispetto dell’obbligo di informare il paziente.
  1. Condizione di risarcibilità di tale tipo di danno non patrimoniale è che esso varchi la soglia della gravità dell’offesa secondo i canoni delineati dalle sentenze delle Sezioni unite nn. da 26972 a 26974 del 2008, con le quali s’è stabilito che il diritto deve essere inciso oltre un certo livello minimo di tollerabilità, da determinarsi dal giudice nel bilanciamento tra principio di solidarietà e di tolleranza secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico. Non pare possibile offrire più specifiche indicazioni”.
  1. 2.9. Ancora di recente si possono ricordare come mosse dalla stessa logica le considerazioni di Cass. n. 19731 del 2014.

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