CONTRATTI AGRARI BOLOGNA MEDICINA CASTEL SAN OIUETRO BUDRIO, MOLINELLA PRELAZIONE AGRARIA VENDITA TERRENO AGRICOLO
L’art. 8 legge 590\65 disciplina la prelazione dell’affittuario coltivatore diretto, secondo cui in caso di trasferimento a titolo oneroso (vendita o altro contratto) o di concessione in enfiteusi di fondi, l’affittuario coltivatore diretto, il mezzadro, il colono o il compartecipante hanno diritto di prelazione purché:
1- coltivi il fondo stesso da almeno due anni,
Quest’ultimo diritto non spetta quando:
1- l’affittuario ha comunicato che non intende rinnovare l’affitto;
2- quando il rapporto di affitto sia venuto meno per grave inadempimento o recesso del conduttore.
CASSAZIONE CIVILE, SEZIONE III, 22 GENNAIO 1999, N. 594
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. Angelo GIULIANO Dott. Giovanni Silvio COCO Dott. Francesco SABATINI
Dott. Mario FINOCCHIARO Dott. Antonio SEGRETO ha pronunciato la seguente
Presidente Consigliere Consigliere
Rel. Consigliere Consigliere
SENTENZA
sul ricorso proposto da: XXXXXX elettivamente domiciliato in Roma, via Principessa Clotilde n. 2, presso l’avv. Angelo Clarizia, difeso dall’avv. Antonio Faleppa, giusta delega in atti;
Ricorrente
contro XXXX, elettivamente domiciliato in Roma, via Tiziano n. 80, presso
l’avv. Paolo Ricciardi, difeso dall’avv. Fortunato Cacciatore, giusta delega in atti;
Controricorrente
avverso la sentenza della Corte d’appello di Salerno. Sezione specializzata agraria, n. 70/1997 del 19 dicembre 1996 – 12 febbraio 1997 (R.G. 399/1996). Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 5 novembre 1998 dal Relatore Cons. Mario Finocchiaro;
Udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Francesco Mele, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
FATTO
Con ricorso 15 marzo 1994 ROMANO Vincenzo, in persona del proprio procuratore speciale IEMMA Giovanni, premesso di essere proprietario di un fondo rustico in Battipaglia, condotto in affitto da FARABELLA Luigi, in forza di contratto in deroga stipulato ai sensi dell’art. 45 della l. 3 maggio 1982, n. 203 e avente scadenza al 10 novembre 1992, chiedeva che il tribunale di Salerno, sezione specializzata agraria, in contraddittorio con il XXXXXXX, dichiarasse cessato, alla data del 10 dicembre 1992 il contratto in questione, con condanna del XXXXXX all’immediato rilascio del fondo nonché al risarcimento dei danni per ritardata consegna del predio stesso, da liquidarsi in separato giudizio.
Costituitosi in giudizio il convenuto resisteva alle avverse pretese eccependone l’infondatezza.
Il concedente – eccepiva il XXXX- non aveva, nei termini di legge, intimato la disdetta del caso sì che il contratto inter partes si era rinnovato per altri quindici (o, almeno, 5) anni (anche tenuto presente che la disdetta inviata il 4 settembre 1992, in quanto sottoscritta non dal proprietario concedente, ma da un legale di quest’ultimo non munito di procura doveva ritenersi nulla e priva di qualsiasi effetto).
In via riconvenzionale, ancora, il convenuto chiedeva, da una parte, che fosse dichiarato che il contratto di affitto in questione sarebbe scaduto il 10 novembre 2007, dall’altra, che parte attrice fosse condannata al pagamento delle indennità di legge, per i miglioramenti apportati al fondo.
Svoltasi l’istruttoria del caso, l’adita sezione agraria con sentenza 26 gennaio – 6 maggio 1996 rigettata la domanda principale, dichiarava improponibile quelle riconvenzionali, perché non precedute dal tentativo di conciliazione di cui all’art. 46, della l. 3 maggio 1982, n. 203.
Gravata tale pronuncia da XXXXX rappresentato dal procuratore speciale IEMMA Giovanni, la Corte di appello dì Salerno, sezione specializzata agraria, con sentenza 19 dicembre 1996 – 12 febbraio 1997, in riforma della pronuncia dei primi giudici dichiarava cessato, alla data del 10 novembre 1992 il contratto inter partes, fissando, per il rilascio, il giorno 10 novembre 1997.
Per la Cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso, FARABELLA Luigi, affidato a 4 motivi. Resiste, con controricorso, illustrato da memoria, ROMANO Vincenzo.
DIRITTO
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A definizione di una complessa controversia, in essere tra le parti, in data 28 settembre 1987 – ai sensi dell’art. 45 della l. 3 maggio 1982, n. 203 – con la assistenza delle rispettive associazioni professionali di categoria, ROMANO Vincenzo (tramite il proprio procuratore speciale IEMMA Giovanni) e FARABELLA Giovanni hanno stipulato un contratto di affittanza agraria, avente ad oggetto un fondo di proprietà del concedente Romano in Battipaglia.
Tale contratto – per quanto ancora rilevante al fine del decidere – al punto 3 prevedeva, testualmente: “la durata del contratto è di anni cinque ed andrà a scadere il 10 novembre 1992, data improrogabile ed essenziale per cui il conduttore! assume solenne impegno di rilasciare il terreno libero e sgombro da persone e cose”.
I giudici di secondo grado – come osservato in parte espositiva – hanno letto, tale passaggio del contratto inter partes (sia sulla base del suo tenore letterale, sia della sua connessione con altre clausole dello stesso contratto, sia tenute presenti le particolari circostanze di fatto presenti le quali il contratto stesso venne concluso nonché l’esigenza di interpretare i contratti secondo buona fede), nel senso che le parti “esclusero la necessità della disdetta e quindi l’applicabilità dell’art. 4 della l. n. 203 del 1982 nel caso concreto” (“È il solenne impegno, avallato dai rappresentanti di categoria – si precisa in motivazione – che tronca ogni discussione sul punto”).
- Con il primo motivo il ricorrente, denunciando “violazione e falsa applicazione dell’art. 45 e 58 l. n. 203 del 1982 (art. 360 n. 3, c.p.c.)”, censura nella parte de qua la pronuncia impugnata atteso che il contratto 28 settembre 1987 “derogando espressamente soltanto alla durata ed al canone di legge, nulla dispone per il resto”, specie considerato che l’espressione sopra riportata (“data inderogabile ed essenziale”) non contiene alcuna deroga, che deve essere espressa, all’obbligo di inviare la disdetta
un anno prima, tenuto presente che è nulla una disdetta contestuale alla stipula del contratto. Deve tenersi presente – osserva ancora, sul punto, parte ricorrente – la “funzione delle associazioni rappresentative di mettere sull’avviso le parti su quanto espressamente derogato nel patto difforme della previsione legale”, atteso che “tale funzione verrebbe meno se si dovesse accettare come valida una deroga nascosta alla quale debba pervenirsi in via interpretativa”.
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Il motivo non può trovare accoglimento. Prevede, testualmente, l’art. 45 della l. 3 maggio 1982, n. 203 (recte l’art. 23, comma 3, della l. 11 febbraio 1971, n. 11, nel testo come sostituito dall’art. 45, della l. n. 203 del 1982) “sono validi tra le parti, anche in deroga alle norme vigenti in materia di contratti agrari, gli accordi, anche non aventi natura transattiva, stipulati fra le parti con l’assistenza delle rispettive organizzazioni professionali agricole…”. È palese – giusta la formulazione letterale della norma in esame – che gli accordi in questione in tanto sono “validi” (e, quindi, non soggetti al regime di cui al precedente comma i dello stesso art. 23, della legge n. 11 del 1971, secondo cui “le rinunce e le transazioni che hanno per oggetto diritti dell’affittuario di fondi rustici! derivanti dalla presente legge e da ogni altra legge, nazionale o regionale, non sono valide”), in quanto gli accordi stessi siano stati conclusi con l’assistenza delle dette organizzazioni professionali, senza che si richieda – altresì – come invoca l’attuale ricorrente, che nel contratto sia sottolineata o in qualche modo evidenziata la “difformità” del singolo contratto, rispetto al modello legale (o la “deroga” di una particolare clausola ad un puntuale precetto legislativo). Non controverso che nella specie in occasione della sottoscrizione del contratto per cui è causa il FARABELLA era stato adeguatamente assistito dalla organizzazione professionale di appartenenza è evidente che è irrilevante che il contratto non abbia sottolineato espressamente che in realtà con la clausola in questione si derogava al precetto contenuto nell’art. 4 della l. 3 maggio 1982, n. 203. Specie tenuto presente che non risulta – nè la circostanza è stata mai dedotta dall’attuale ricorrente – che nel contesto del contratto fosse espressamente precisato, quanto alle altre clausole per stessa ammissione del FARABELLA certamente in deroga alla legge n. 203 (cioè quella relativa alla durata del contratto, nonché quella attinente il corrispettivo pattuito), che in realtà ex lege il contratto avrebbe dovuto avere una “diversa” durata, rispetto a quella concordata dalle parti, o che “diverso”, rispetto a quello legale era il canone convenuto.
In altri termini ove un contratto sia stato concluso con l’assistenza delle rispettive organizzazioni professionali ai sensi della ricordata disposizione lo stesso è valido anche quanto alle “clausole” in deroga alla disciplina legale, senza alcuna necessità di precisare – accanto ad ogni clausola – se la stessa o meno conforme alla previsione legislativa.
Nè paiono – in qualche modo – pertinenti, al fine di aderire alle conclusioni fatte proprie dal ricorrente, le considerazioni svolte in ricorso sul punto, quanto alla “funzione delle associazioni rappresentative”. In realtà la funzione di tali associazioni e dei loro rappresentanti – i quali certamente sono (o dovrebbero essere) a conoscenza di quelle che sono le norme nazionali e regionali disciplinanti la specifica materia – è proprio quella di “avvertire” i propri assistiti della “difformità” del contratto che tramite loro si sta concludendo, rispetto al modello legale (assumendo, in caso di violazione di tale dovere, le eventuali
responsabilità del caso, nei confronti dell’iscritto), ma non è richiesto, affatto, che di tale attività “informativa” debba esistere traccia nel contratto.
- Con il secondo motivo il ricorrente lamenta “violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 ss. c.c. o comunque omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia (art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.)”, atteso che: - la “comune intenzione delle parti” come emerge dal loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto evidenzia come le parti non intendessero derogare all’obbligo della disdetta (attesa la raccomandata 4 settembre 1992, nonché la corrispondenza successiva);
– il contratto non comprende che gli oggetti sui quali le parti si sono proposte di contrattare, e tra queste non rientra l’esonero della disdetta; - la clausola in questione, essendo stata predisposta sicuramente da uno dei contraenti (era il solo appellante ad avervi interesse) deve interpretarsi, nel dubbio, a favore dell’altro;
– l’equo contemperamento degli interessi delle parti data anche la particolare natura e il formalismo richiesto dalla legge per il contratto in questione, avrebbe imposto una chiara formulazione della deroga della disciplina legale. 4. Al pari della precedente la censura non coglie nel segno.
Almeno sotto tre, concorrenti. profili. 4.1. In primis non può non evidenziarsi che nella specie – contra legem e cercando di superare quelli che sono i limiti istituzionali del giudizio di legittimità il quale, contrariamente alle premesse da cui muove parte ricorrente, non è un giudizio di merito di terzo grado nel quale si sottopone all’esame di un nuovo giudice, diverso da quello che ha pronunciato in grado di appello, tutto il materiale probatorio già in atti perché lo interpreti in modo difforme – il ricorrente, lungi dal dedurre vizi, della sentenza impugnata, inquadrabili sotto il profilo di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c., si limita a sollecitare una diversa lettura del documento in atti, del tutto prescindendo dal considerare che la ricerca e la individuazione della comune volontà dei contraenti configura un tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità se (come nella specie) congruamente motivato. 4.2. Anche a prescindere da quanto precede non può tacersi, ancora, che tutte le circostanze dedotte nel motivo non paiono rilevanti, al fine del decidere e di pervenire ad una diversa conclusione della presente vertenza. Come pacifico, nella ricerca della comune intenzione delle parti (a norma dell’art. 1362 c.c.) il primo e principale strumento è costituito dalle parole ed espressioni del contratto e, qualora queste siano chiare e dimostrino una loro intima ratio, il giudice non può ricercarne una diversa, venendo così a sovrapporre la propria soggettiva opinione all’effettiva volontà dei contraenti (cfr. Cassazione. 20 novembre 1997 n. 11574; Cassazione. 20 maggio 1997 n. 4480; Cassazione. 29 aprile 1994 n. 4121). Avendo i giudici di merito dimostrato che la clausola contrattuale sub 3, quanto alla scadenza del contratto (riportata sopra) ed all’obbligo del conduttore di restituire il fondo inderogabilmente alla data pattuita, ha un significato letterale inequivoco è palese che sono irrilevanti i richiami ad altre circostanze, estranee, che – giusta l’assunto del ricorrente potrebbero condurre ad una diversa lettura della clausola stessa. 4.3. Da ultimo, infine, non può tacersi che tutte le circostanze riferite nel motivo sono state ampiamente esaminate e tenute presenti dai giudici del merito che hanno accertato. sia che la lettera del 4 settembre 1992 e la corrispondenza successiva, lungi dall’integrare una disdetta, ai sensi dell’art. 4 della l. 3 maggio 1982, n. 203, altro non
erano che un richiamo al conduttore al rispetto degli impegni assunti con il contratto in deroga, sia che le parti avevano – chiaramente – contrattato tutte le clausole e, quindi, anche quella sub 3 sulla cessazione del rapporto e sull’obbligo del conduttore di rilasciare per la data fissata il terreno libero e sgombro da persone, sia che non corrispondeva affatto a realtà che la clausola 3 (peraltro in alcun modo equivoca o di incerta lettura) fosse stata imposta dal concedente, sia – infine – la necessità di interpretare la clausola in esame secondo buona fede.
- Con il terzo motivo parte ricorrente, denunciando “violazione e falsa applicazione degli artt. 1418 c.c. e 58, l. n. 203 del 1982, ed omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia (art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.)” assume che comunque, ancora a voler condividere l’assunto dei giudici del merito, la corte di appello avrebbe dovuto dichiarare la nullità della clausola in questione, in applicazione del pacifico principio secondo cui è nulla, per illiceità della relativa clausola, la disdetta contenuta nello stesso contratto di affitto.
- Al pari dei precedenti il motivo non può trovare accoglimento. Giusta la puntuale previsione di cui all’art. 58, della l. 3 maggio 1982, n. 203 “tutte le norme previste dalla presente legge sono inderogabili. Le convenzioni in contrasto con esse sono nulle di pieno diritto e la loro nullità può essere rilevata anche d’ufficio, salvo il disposto degli artt. 45 e 51”. È di palmare evidenza – pertanto – non potendosi attribuire alla legge “altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo il significato delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore” (cfr., art. 12, comma 1, preleggi) , che le parti – con le forme previste dall’art. 45, comma 1 della l. 3 maggio 1982, n. 203 (cioè tramite “accordi… stipulati… con l’assistenza delle rispettive organizzazioni professionali agricole maggiormente rappresentative a livello nazionale, tramite le loro organizzazioni provinciali”, id est con l’osservanza delle disposizioni di cui all’art. 23, comma 3, l. 11 febbraio 1971, n. 11) – possono derogare a qualsiasi disposizione contenuta nella legge n. 203 del 1982, fermi i limiti posti dal comma 2 dello stesso articolo 45. Limiti costituiti. da un lato, dal divieto di stipulare contratti di mezzadria, colonia parziaria, di compartecipazione agraria, dall’altro, dal divieto di corrispondere somme per buona entrata. Non controverso che nella specie le parti, con la clausola contrattuale di cui ora si discute, non hanno nè stipulato un contratto di mezzadria (o di colonia parziaria o di compartecipazione agraria) nè, in qualche modo, previsto a carico dell’attuale ricorrente l’obbligo di corrispondere una qualche somma a titolo di “buona entrata” in favore del concedente, è palese, come anticipato, che correttamente i giudici del merito non hanno dichiarato la nullità della clausola in questione (relativa alla previsione della cessazione del contratto in assenza di qualsiasi obbligo di disdetta, a carico del concedente). Nè ancora può assumersi – come si adombra – che il divieto, per le parti, ove debitamente assistite, di introdurre deroghe alla previsione di cui all’art. 4 deriva da non meglio precisati “principi generali” o dalla “illiceità” della clausola. Giusta i principi generali (cfr., art. 1418, comma 1, c.c.) il contratto in tanto è nullo in quanto lo stesso “è contrario a norma imperative”. Non può tacersi, peraltro, la stessa disposizione, invocata dalla difesa del ricorrente, pone un limite a tale “nullità”, facendo salva l’eventualità che “la legge disponga diversamente”.
Dimostrato, come si è dimostrato sopra, che le parti di un contratto agrario, ove adeguatamente assistite, possono – nell’esercizio della loro sovrana autonomia – prevedere deroghe – salvi i limiti sopra indicati – a qualsiasi disposizione contenuta nella l. 3 maggio 1982, n. 203, è palese che deve escludersi che la clausola in questione possa definirsi “nulla” per illiceità, cioè per contrarietà a norme imperative.
Nè, ancora, è in qualche modo pertinente il richiamo, contenuto negli scritti difensivi di parte ricorrente ad una dottrina assolutamente minoritaria (e, peraltro, anteriore alla novella del 1982) o a certa giurisprudenza di merito, e di legittimità. Quanto alla prima (Trib. Sanremo 17 gennaio 1992) la stessa è stata resa non con riferimento ai contratti agrari, ma con riguardo alla l. 27 luglio 1978, n. 392, anteriormente all’entrata in vigore dell’art. 11, d.l. 11 luglio 1992, n. 333 (conv. con mod. in l. 8 agosto 1992, n. 359), cioè avendo presente un quadro normativo che non consentiva, diversamente rispetto a quanto previsto dall’art. 58 della l. 3 maggio 1982, n. 203, deroghe di sorta alla disciplina legale dei contratti di locazione di immobili urbani (cfr., infatti, la sostanziale diversità dell’art. 79, della legge 27 luglio 1978, n. 392, rispetto all’art. 58, della l. 3 maggio 1982, n. 203).
Ancora meno pertinente, al fine del decidere, è il riferimento – contenuto negli scritti di causa – a Cassazione. 25 giugno 1969, n. 2287, resa non solo con riguardo ad una legislazione totalmente diversa da quella attuale, ma avendo riguardo ad una fattispecie di fatto, totalmente estranea e in alcun modo comparabile a quella ora in esame.
In quella lontana fattispecie – in particolare – il conduttore di un fondo rustico aveva rinunciato, in occasione della sottoscrizione di un contratto dì affitto, ad una proroga ex lege del contratto che lo legava al concedente, prima ancora che la proroga stessa fosse approvata dal Parlamento e divenisse legge, per cui questa Corte ebbe a ritenere la nullità della rinuncia perché al momento di questa l’affittuario non disponeva del diritto al quale intendeva rinunciare.
Totalmente diversa – palesemente – è la fattispecie ora in esame, atteso che in questa nel 1987 – e cioè a distanza di oltre cinque anni dalla data di entrata in vigore della l. 3 maggio 1982, n. 203 – il FARABELLA ha rinunciato al diritto di godere della “rinnovazione tacita” del contratto prevista dall’art. 4 della ricordata legge, cioè ad un diritto di cui certamente disponeva già al momento della sottoscrizione del contratto di affitto.
- Con il quarto, ed ultimo, motivo il ricorrente, denunciando “violazione e falsa applicazione degli artt. 45 e 46, l. n. 203 del 1982 (art. 360, n. 3, c.p.c.)” lamenta – infine – che la pretesa disdetta, inviatagli dal concedente il 10 settembre 1992, è contenuta nella stessa comunicazione inviata anche all’Ispettorato agrario ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 46, della l. 3 maggio 1982, n. 203, in violazione del principio, enunciato dalla SS.UU. di questa Suprema Corte regolatrice secondo cui la contestazione dell’inadempimento ex art. 5, l. 3 maggio 1982, n. 203, non può essere contenuta nella richiesta ex art. 46 della stessa legge.
- Il motivo non coglie nel segno. A prescindere da ogni altra, pur pertinente considerazione (in ordine alla diversa funzione della disdetta di cui all’art. 4 della l. 3 maggio 1982, n. 203, rispetto alla contestazione degli addebiti prevista dal successivo art. 5 della stessa legge, diversa funzione che esclude, in radice, che i principi enunciati con riguardo ad una fattispecie possano automaticamente trasferirsi all altra), non può tacersi che nella specie è rimasto accertato che il contratto inter partes è cessato, alla data del 10 novembre 1992, non a seguito della raccomandata del settembre dello stesso anno 1992 inviata dal concedente,
ma ex contractu, cioè in forza di apposita clausola contrattuale di cui si è dimostrata sopra la legittimità ed operatività. È evidente, pertanto, che è il ricorrente è carente di interesse a sollecitare che questa Corte verifichi la legittimità – o meno – di una unica comunicazione, inviata dal concedente all’affittuario, contenente sia la “disdetta” di cui all’art. 4 della l. 3 maggio 1982, n. 203, sia l’invito di cui al successivo art. 46 della stessa legge.
Ciò sotto due concorrenti profili. In primo luogo è certo – in causa – che la raccomandata del settembre 1992 non è una disdetta, ai sensi dell’art. 4 della l. 3 maggio 1982, n. 203, per cui non appare in alcun modo pertinente la deduzione in esame. In secondo luogo, infine, anche nell’eventualità l’assunto del ricorrente dovesse risultare fondato è certo che non per questo la pronuncia impugnata potrebbe essere Cassazioneata, atteso che questa ha dichiarato cessato il contratto inter partes a prescindere dalla validità o ritualità della “disdetta” del settembre 1992. 9. Risultato infondato in ogni sua parte il proposto ricorso deve rigettarsi. Sussistono giusti motivi onde disporre, tra le parti, la compensazione delle spese di questa fase del giudizio.
P.Q.M.
La Corte, rigetta il ricorso; spese compensate. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della III sezione civile della Corte di Cassazione il giorno 5 novembre 1998.
Come è stato chiarito, la norma che prevede le formalità della comunicazione, pure perseguendo finalità di interesse sociale (creazione di imprese coltivatrici moderne ed efficienti con conseguente incremento della produttività agricola), ha carattere dispositivo invece che cogente ed inderogabile (ex plurimis, Cass. 14 aprile 2000, n. 4858, Foro it., 2000, I, 2529, in motivazione); è, pertanto, rimessa all’iniziativa delle parti l’adozione di forme alternative di comunicazione, purché idonee a consentire la piena conoscenza della proposta in funzione dell’esercizio della prelazione.
Nell’ambito del principio generale di libertà delle forme si ritiene sufficiente la forma verbale, anche se sul terreno pratico l’adozione di tale forma può ingenerare difficoltà probatorie (ex plurimis, Cass. 26 gennaio 1995, n. 936, id., Rep. 1995, voce Agricoltura, n. 142), mentre nessun ostacolo deriva dal disposto dell’art. 1351 c.c. che per i contratti preliminari aventi forma scritta richiede ad substantiam la medesima forma, atteso che la comunicazione non ha valore di proposta contrattuale (Cass. 8 luglio 1991, n. 7527, id., Rep. 1991, voce cit., n. 158).
La trasmissione del preliminare di vendita unitamente alla raccomandata contenente la proposta non è imposta dall’art. 8 l. 817/71 a pena di inefficacia, sicché la comunicazione della proposta di alienazione è valida anche se non venga trasmesso il preliminare, purché sia ugualmente conseguita la finalità di consentire l’esercizio della prelazione (Cass. 21 marzo 1995, n. 3241, id., Rep. 1998, voce cit., n. 160).
Del resto, siccome le formalità sono previste nell’esclusivo interesse del coltivatore, affittuario o confinante, titolare del diritto di prelazione, e mirano a permettergli una migliore valutazione della convenienza dell’esercizio del diritto, la stessa comunicazione ed a maggior ragione la trasmissione del preliminare diventano inutili quando risulti in qualsiasi modo che per iniziativa del proprietario-venditore il coltivatore ha avuto piena conoscenza della proposta di vendita, dovendosi in questo caso ritenere realizzata la finalità della legge (ex plurimis, Cass. 8 luglio 1991, n. 7527, cit.; 8 maggio 2001, n. 6378 id., Rep. 2002, voce cit., n. 119).
Il diritto di prelazione agraria, che si esercita secondo lo schema delineato dagli art. 1326-1329 c.c. e, cioè, attraverso lo scambio della proposta e dell’accettazione, sorge per effetto della comunicazione del proprietario e non per il fatto che si è stipulato il contratto preliminare di vendita a terzi (Cass. 5 ottobre 1991, n. 10429, id., Rep. 1992, voce cit., n. 121), per cui il titolare del diritto di prelazione, che abbia ricevuto la comunicazione, non può rimandare l’esercizio del diritto al momento nel quale gli verrà data notizia del perfezionamento del preliminare, sostenendo che gli è stato comunicato semplicemente che sono pendenti trattative, e, se lo rimanda, si verifica ai suoi danni decadenza.
Mentre il colono o affittuario coltivatore diretto del fondo ha interesse a conoscere fin dal momento della comunicazione della proposta il nome del compratore onde poter valutare l’opportunità di esercitare il diritto di prelazione con riferimento alle qualità dello stesso, identico interesse non ha il proprietario coltivatore diretto di fondo confinante in quanto per effetto del mancato esercizio del diritto di prelazione egli non subentra in alcun rapporto giuridico con il nuovo proprietario del fondo (Cass. 19 luglio 1990, n. 7392, id., Rep. 1990, voce cit., n. 166; 14 febbraio 1987, n. 1651, id., 1987, I, 1754) ed è conseguentemente valida la comunicazione della proposta di alienazione che venga fatta al proprietario coltivatore diretto di fondo confinante senza l’indicazione del nome del terzo acquirente.
Né vale in contrario richiamarsi alla lettera dell’art. 8 l. 817/71 in quanto tale disposizione va interpretata con riguardo alla sua specifica funzione costituita dall’esigenza che il titolare del diritto di prelazione sia posto in condizione di conoscere gli elementi integrativi del progettato contratto di vendita (Cass. 14 febbraio 1987, n. 1651, cit.).
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riscatto del fondo da parte del conduttore coltivatore diretto o del proprietario di fondo confinante;
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rilascio di fondi rustici;
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indennizzo per le migliorie fondiarie;
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sequestro agrario;
recesso del socio dall’impresa familiare e dalla partecipazione in società cooperative.
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vendita di terreni agricoli ed affitto di fondi rustici;
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affitto di capannoni e stalle per allevamento del bestiame;
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cessione, a vario titolo, di aziende agricole, quote sociali ed agriturismi;
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conferimento di terreni in società;
soccida;
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vendita di terreni agricoli ed affitto di fondi rustici;
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affitto di capannoni e stalle per allevamento del bestiame;
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cessione, a vario titolo, di aziende agricole, quote sociali ed agriturismi;
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conferimento di terreni in società;
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Garantisce consulenza e assistenza giudiziale in procedure di:
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esercizio della prelazione agraria (individuando i possibili aventi diritto e l’esistenza o meno delle condizioni di legge);
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recesso da parte di soci di imprese agrarie
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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. CARBONE Vincenzo – Primo Presidente - Dott. VITTORIA Paolo – Presidente Sezione - Dott. ELEFANTE Antonino – Presidente Sezione - Dott. TRIOLA Roberto Michele – Presidente Sezione - Dott. GOLDONI Umberto – Consigliere - Dott. SALVAGO Salvatore – Consigliere - Dott. FORTE Fabrizio – Consigliere - Dott. CURCURUTO Filippo – Consigliere - Dott. TRAVAGLINO Giacomo – rel. Consigliere - ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 13088/2005 proposto da:
FERRETTI ROBERTO, elettivamente domiciliato in ROMA, 2010 VIA DELLA GIULIANA 38, presso lo studio dell’avvocato DI BATTISTA Giovanni, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato CELLA GIANLUIGI, per delega a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
REPETTI SILVIA (RPTSLV41D69H258E), BIGGI MARIA CRISTINA, BIGGI SANDRA, nella loro qualità di eredi di BIGGI GUGLIELMO, elettivamente domiciliate in ROMA, VIA GERMANICO 146, presso lo studio dell’avvocato LONGO Tommaso, che le rappresenta e difende unitamente all’avvocato DELLEPIANE RICCARDO, per delega in calce al controricorso;
FERRETTI MARCO (FRRMRC74E01C621F), elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAPRANICA 78, presso lo studio dell’avvocato MAZZETTI FEDERICO, rappresentato e difeso dall’avvocato BONGIORNO GALLEGRA PIERLUIGI, per delega a margine del controricorso;
– controricorrenti –
contro
BIGGIO BIANCA MARIA, BIGGIO CORRADO, BIGGIO CATERINA;
– intimati –
avverso la sentenza n. 227/2005 della CORTE D’APPELLO di GENOVA, depositata il 04/03/2005;
udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 06/07/2010 dal Consigliere Dott. GIACOMO TRAVAGLINO;
udito l’Avvocato Federico MAZZETTI per delega dell’avvocato Pierluigi Buongiorno Gallegra;
udito il P.M., in persona dell’Avvocato Generale Dott. IANNELLI Domenico, che ha concluso per il rigetto del ricorso. IN FATTO
Roberto Ferretti aveva esercitato, davanti al Tribunale di Chiavari, nella qualità di proprietario confinante della L. n. 817 del 1971, ex art. 7, azione di riscatto di un terreno nei confronti dell’acquirente, Marco Ferretti, lamentando la mancata notifica della proposta di alienazione prescritta dalla L. n. 590 del 1965, art. 8.
Entrambi i terreni erano di natura boschiva.
Sulla opposizione del convenuto, che aveva chiamato in causa la venditrice, il giudice di prime cure respinse la domanda. L’attore propose appello.
Il processo, interrotto per il decesso dell’alienante Biggio Luigia, fu riassunto nei confronti degli eredi Guglielmo, Bianca Maria, Corrado e Caterina.
La Corte di Appello di Genova rigettò il gravame ritenendo:
inammissibile, perché tardiva, la produzione di documenti da parte dell’appellante alla udienza di precisazione delle conclusioni;
inammissibile la prova per testi dedotta dallo stesso appellante, quanto ad un primo capitolo di prova, perché generica, quanto al secondo, perché irrilevante; infondato nel suo complesso il gravame perché, ai sensi del combinato disposto della L. 26 maggio 1965, n. 590, artt. 8 e 31, il diritto di prelazione e riscatto agrario poteva essere legittimamente riconosciuto soltanto al coltivatore del fondo (la prima delle attività considerate dall’art. 2135 cod. civ., comma 1, per definire la figura dell’imprenditore agricolo), ovvero al silvicoltore volta che la silvicoltura risultasse, peraltro, complementare o aggiuntiva alla coltivazione del fondo. Roberto Ferretti ha proposto ricorso per cassazione. Con il primo motivo, per “erronea e/o falsa, applicazione del combinato disposto della L. n. 590 del 1965, art. 8, comma 5, L. n. 817 del 1971, art. 7, comma 2, n. 2”.
Censurando la sentenza nella parte in cui esclude la prelazione del silvicoltore, ponendo al riguardo eventuale questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 3 della Carta fondamentale. Con il secondo motivo, per “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 244 c.p.c., u.c.”.
Opinando, con riferimento al capitolo di prova già articolato in sede di merito, che la qualità di coltivatore diretto costituisca circostanza di fatto, come tale dimostrabile a mezzo di testimoni. Con il terzo motivo per “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c., u.c.”.
Criticando la pronuncia sotto molteplici profili per (presunti) errores in procedendo: perché, a suo dire, l’udienza del 23-9-2003 era di trattazione e non di precisazione delle conclusioni; perché le prove documentali devono ritenersi ammesse in appello se indispensabili ai fini della decisione (art. 345 cod. proc. civ., u.c.); perché la produzione non era stata tempestivamente contestata da controparte.
Gli eredi Biggi resistono con controricorso.
Quanto al primo motivo del ricorso principale, sostenendo la L. n. 590 del 1965, art. 8 (riconoscimento del diritto di prelazione e riscatto) sia applicabile soltanto ai coltivatori diretti e non anche ad altre categorie, quali silvicoltori allevatori e soccidari, onde la norma non potrebbe interpretarsi estensivamente atteso che la silvicoltura (così come l’allevamento e la soccida) non garantisce, rispetto alla coltivazione del fondo, la medesima finalità (“mantenere l’unità colturale delle zone agricole per un loro migliore e più omogeneo sfruttamento, contrastando la frammentazione produttiva e favorendo l’estensione territoriale delle medesime modalità di coltivazione”), sì come presupposta dal citata L. n. 590 del 1965, art. 8, potendo di converso rilevare, ai fini della prelazione, soltanto se complementare o aggiuntiva alla coltivazione. Quanto al secondo motivo, lamentando la assoluta genericità del primo capitolo di prova non ammesso, mentre, con riferimento al secondo, si rileva la inammissibilità di una prova orale avente ad oggetto una valutazione squisitamente tecnica – da demandarsi, viceversa, ad una consulenza.
Quanto al terzo motivo, contestando la legittimità della produzione di nuovi documenti nel giudizio di appello.
Marco Ferretti, nel proporre a sua volta controricorso, chiede parimenti rigettarsi il ricorso, sulla scorta di ragioni del tutto analoghe a quelle rappresentate dagli eredi Biggi.
Le parti hanno tempestivamente depositato memorie illustrative. Con ordinanza del 30 settembre 2009 la terza sezione di questa Corte ha disposto la trasmissione degli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, avendo ravvisato contrasto di giurisprudenza e questione di particolare importanza relativamente alla prelazione agraria del silvicoltore, e cioè alla tematica della applicabilità della prelazione e del successivo diritto di riscatto ex lege n. 817 del 1971 al silvicoltore “puro” ovvero al solo coltivatore che eserciti un’attività di silvicoltura complementare o aggiuntiva all’attività di coltivazione. Il primo presidente ha disposto in conformità.
IN DIRITTO
- La questione di diritto sottoposta all’esame di queste sezioni unite trova il proprio specifico fondamento normativo nelle disposizioni di legge di cui all’art. 2083 cod. civ., sulla nozione di piccoli imprenditori; all’art. 2135 cod. civ., sull’imprenditore agricolo; alla L. 26 maggio 1965, n. 590, artt. 8 e 31,
rispettivamente, sul diritto di prelazione e riscatto agrario, e sulla nozione di coltivatore diretto; alla L. 14 agosto 1971, n. 817, art. 7, sul diritto di prelazione e riscatto in favore del confinante proprietario coltivatore diretto.
- L’ordinanza interlocutoria della terza sezione ravvisa nelle sentenze nn. 3176/2003, 6581/1997 e 13022/1995 l’espressione di un primo più restrittivo indirizzo interpretativo, a mente del quale non spetterebbe al silvicoltore il diritto di prelazione e riscatto, se non quando la silvicoltura sia “complementare” o “aggiuntiva” (terminologia che, secondo quanto osservato da un’attenta dottrina, risulta affatto difforme – sul piano lessicale non meno che concettuale – da quella di attività “connessa” di cui all’art. 2135 cod. civ.) alla coltivazione del fondo. In particolare, secondo Cass. 13022 del 1995, “la L. 26 maggio 1965, n. 590, art. 8, attribuisce il diritto di prelazione e riscatto soltanto alla prima delle tre categorie indicate nell’art. 2135 cod. civ., comma 1, e cioè al solo coltivatore del fondo e non anche a chi sia dedito alla silvicoltura e all’allevamento del bestiame, salvo che una o entrambe queste due ultime attività non siano complementari alla coltivazione della terra o comunque aggiuntive rispetto alla concreta coltivazione del fondo”.
- Un secondo, opposto indirizzo, viceversa, risulta predicativo del principio di diritto secondo il quale “anche un bosco può costituire oggetto di prelazione agraria, dal momento che una azienda agraria può essere organizzata per la produzione di beni diversi da quelli che possono essere ottenuti dalla coltura di terreni seminativi”, secondo quanto opinato dalle sentenze nn. 5242 del 1984 e 7271 del 2000. In particolare, secondo la prima delle due pronunce, “un’azienda agraria può essere organizzata per la produzione di beni diversi da quelli che possono essere ottenuti dalla coltura di terreni seminativi e così può sussistere senza perdere i suoi caratteri distintivi, anche se non comprenda terreni adatti o destinati alla semina, ma terreni boscosi: conseguentemente, anche un bosco può costituire oggetto di prelazione agraria, ai sensi della L. 26 maggio 1965, n. 590, art. 8”; mentre Cass. 7271 del 2000 preciserà ulteriormente che “il taglio del bosco costituisce atto di coltivazione, trattandosi di deduzione del tutto logica in relazione alla natura del fondo stesso, pur considerato che la coltivazione di un terreno boschivo non può essere omologa a quella di fondi coltivati normalmente, in quanto il bosco necessita di tagli periodici. Essi… rappresentano certamente atto di coltivazione, giacché volti a rendere concreta l’apprensione del prodotto maturato fino a quel momento e preparare lo spazio sul terreno per il reimpianto di altre piante con la ramaglia lasciata in loco, con precisa scelta coltivatrice”.
- L’ordinanza interlocutoria svolge, al riguardo, ulteriori e autonome considerazioni: a) “la cura di un bosco o silvicoltura” è “non omologa a quella di coltivazione del terreno”; ma genera “prodotti naturali (legnami o anche frutti, quali le castagne), sicché costituisce pur sempre un’attività di coltivazione”; b) il difetto di omologia di per sè non “limita e circoscrive la portata della legge” alla coltura agricola del terreno: è lecito ritenere “che vi possano essere le condizioni perché ciò si verifichi anche in relazione alla silvicoltura”; c) la nuova definizione di imprenditore agricolo di cui all’art. 2135 cod. civ. (a seguito della riforma del D.Lgs. 18 maggio 2001, n. 228) “non consente una interpretazione restrittiva del termine coltivazione”: la silvicoltura ha invero una sua “specificità”, poiché i termini “cura” e “sviluppo”, che esprimono attività previste dall’art. 2135 cod. civ., comma 2, “sono rapportate evidentemente alla natura delle diverse categorie di produzione, siano queste agricole in senso stretto, forestali o zootecniche le quali appaiono quindi differenziate quanto alla loro intensità”; d) assume rilievo interpretativo la specificità dell’istituto della prelazione del confinante, volendo con essa il legislatore “favorire la realizzazione di un’azienda agraria di più ampie dimensioni e più efficiente sotto il profilo tecnico ed economico e produttivo mediante l’accorpamento di fondi contigui”, perché trattasi di riscatto di un bosco da parte di chi “è già proprietario di bosco confinante”.
- Nel presente giudizio, il dato cronologico può essere cosi riassunto: il terreno era stato venduto con atto del 15 dicembre 1999, registrato il successivo giorno 22 e trascritto il 5 gennaio 2000, mentre il riscatto era stato esercitato dal confinante con atto di citazione notificato il 3 gennaio 2001. La vicenda processuale ricade, pertanto, in epoca antecedente alla L. 5 marzo 2001, n. 57 – la quale, agli artt. 7 e 8, ha, rispettivamente, previsto la delega, disciplinandone principi e criteri, per la regolamentazione dei settori dell’agricoltura, foreste, pesca e acquacoltura – e ai conseguenti D.Lgs. 18 maggio 2001, n. 226 (“Orientamento e modernizzazione del settore della pesca e dell’acquacoltura”), D.Lgs. 18 maggio 2001, n. 227 (“Orientamento e modernizzazione del settore forestale”) e D.Lgs. 18 maggio 2001, n. 228 (“Orientamento e rimodernizzazione del settore agricolo”), quest’ultimo contenente, all’art. 1, l’intera riscrittura dell’art. 2135 cod. civ., (contenente a sua volta, come è noto, la definizione
dell’imprenditore agricolo).
- La questione di diritto oggetto del presente giudizio e sottoposta all’esame di queste sezioni unite è pertanto destinata ad essere regolamentata, ratione temporis, alla luce dell’originaria formulazione dell’art. 2135, ciò che non appare senza conseguenze sul piano dell’applicazione precettiva della norma (ferma restando la possibilità di interpretarla evolutivamente) perché va esclusa l’applicazione retroattiva tanto della suindicata riforma quanto del disposto del D.Lgs. 29 marzo 2004, n. 99 (il cui art. 1, in tema di “imprenditore agricolo professionale”, poi modificato dal D.Lgs. 27 maggio 2005, n. 101, è stato definito in dottrina “una vera e propria rivoluzione in tema di operatori agricoli e di benefici accordati a questi ultimi, soprattutto per quanto concerne la progressiva equiparazione dell’imprenditore agricolo in possesso di determinati requisiti al coltivatore diretto … realizzando una radicale modernizzazione del settore agricolo”).
- Non pare seriamente revocabile in dubbio la chiara propensione, scaturente dalle ricordate novelle legislative, a legittimare il secondo indirizzo interpretativo, se ancora sì consideri che la Legge Delega n. 57 del 2001, art. 8, comma 1, lett. b), prescrive la “equiparazione degli imprenditori della silvicoltura, dell’acquacoltura e della pesca a quelli agricoli”, con ciò affermando un criterio direttivo di carattere generale la cui applicazione potrebbe non illegittimamente estendersi, sia pur in via interpretativa (e giammai retroattiva) alla norma della L. 26 maggio 1965, n. 590, art. 31, comma 1, che definisce come coltivatori diretti “coloro che direttamente ed abitualmente si dedicano alla coltivazione dei fondi ed all’allevamento ed al governo del bestiame, sempreché la complessiva forza lavorativa del nucleo familiare non sia inferiore ad un terzo di quella occorrente per la normale necessità della coltivazione del fondo e per l’allevamento ed il governo del bestiame”.
- L’orientamento dominante della giurisprudenza di questa corte, contrario all’applicazione della prelazione agraria al silvicoltore, si fonda sulle seguenti argomentazioni: a) la L. 26 maggio 1965, n. 590, art. 31, prevede ai propri fini applicativi, tra cui la prelazione agraria, disciplinata dall’art. 8, la figura del “coltivatore diretto” (espressamente contemplata da quest’ultimo articolo), considerando coltivatore diretto “chi direttamente ed abitualmente si dedica alla coltivazione del fondo ed all’allevamento ed al governo del bestiame”; b) proprio dal confronto con il succitato art. 8, il cui comma 1, contempla, ai fini del diritto di prelazione, il solo coltivatore diretto, prelazione e riscatto vanno riconosciuti soltanto alla prima delle tre categorie indicate nell’art. 2135 c.c., comma 1, e cioè al coltivatore del fondo, e non anche a chi sia dedito alla silvicoltura e all’allevamento del bestiame, fatto salvo il caso che siano complementari alla coltivazione; c) ai fini dell’esercizio del diritto di prelazione o di riscatto, pertanto, la categoria dei coltivatori diretti non coincide con quella di piccolo imprenditore agricolo disciplinata nel codice civile, in quanto comprensiva soltanto di quei coltivatori diretti che dedichino abitualmente la propria attività lavorativa allo sfruttamento della redditività della terra, con esclusione di coloro che esercitano esclusivamente le altre attività agricole, come i silvicoltori, gli allevatori e i soccidari” (così, con dovizia dia argomentazioni, Cass. n. 3170 del 2003). 9. È convincimento di queste sezioni unite, di converso, che, alla luce di quanto sinora esposto, risulti, di converso, del tutto legittima una interpretazione della L. n. 590 del 1965, art. 8, che, valorizzando l’oggetto – dell'”attività di coltivazione” – giacché la cura di un bosco tende anch’essa alla produzione di prodotti naturali – e conseguentemente assimilandola, in quanto anch’essa “attività di coltivazione”, a quella svolta dall’agricoltore, giunga a predicare l’applicabilità dei diritti di prelazione e riscatto anche al silvicoltore.
- Questa intrepretazione muove dal recupero attraverso la possibile rilevazione, nell’attività di silvicoltura, dell’esistenza di una azienda agraria. (stante il richiamo al concetto di organizzazione, specificato dall’art. 2555 cod. civ.) – della nozione di piccolo imprenditore (art. 2083 cod. civ.), volta che si ritenga assimilabile, sotto l’aspetto ontologico, l’attività del silvicoltore a quella del coltivatore diretto del fondo, e trae linfa – oltre che dall’esigenza di una lettura evolutiva delle norme applicabili alla luce dei successivi e non equivoci interventi legislativi – dall’equiparazione formale tra l’una e l’altra figura professionale contenuta nell’art. 2135 cod. civ., come perspicuamente rilevato da una (pur risalente) giurisprudenza di questa corte (Cass. n. 154 8 dell’11 giugno 1963), predicativa, proprio con riferimento alla silvicoltura, del principio secondo il quale che “un’azienda agraria può essere organizzata per la produzione di beni diversi da quelli che possono essere ottenuti dalla coltura di terreni seminativi, con la conseguenza … che essa può sussistere e non perdere i suoi caratteri distintivi, anche se essa non comprenda terreni adatti e destinati alla semina, ma terreni boscosi”. 11. A medesima conclusione può non infondatamente pervenirsi anche laddove, soltanto in considerazione della valorizzazione, sotto il profilo ontologico e naturale, dell’oggetto dell'”attività di coltivazione” come cura, di un bosco ai fini di produzione di prodotti naturali, si legittimi un procedimento ermeneutico di assimilazione della silvicoltura alla coltivazione del fondo, onde sostenere l’applicabilità alla prima della prelazione della L. n. 590 del 1965, art. 8, in virtù della specificità di tale norma, ovvero indipendentemente, ed anche in contrario, all’effettiva qualità di imprenditore del coltivatore (e cioè a prescindere dalle norme di cui agli artt. 2082, 2083 e 2135). La corretta esegesi del sintagma “attività di coltivazione” come attività svolta con la terra e sulla terra, da una parte, e, dall’altra, l’esigenza di tutela aziendale nel campo dell’imprenditoria agricola lato sensu intesa appaiono legittimamente e soddisfacentemente coniugabili, pertanto, con la configurabilità della prelazione del silvicoltore, potendo gli stessi i boschi costituire l’oggetto di un rapporto agrario.
- Nè rilievo decisivo può attribuirsi all’obiezione, pur mossa in dottrina, secondo la quale la prelazione non potrebbe essere riconosciuta in favore di chi sia dedito alla silvicoltura o all’allevamento esclusivo del bestiame in ragione della finalità della legge speciale di favorire la riunione nella stessa persona della qualità di proprietario del fondo e di coltivatore dello stesso, trattandosi, evidentemente, di una argomentazione a sfondo meramente soggettivo, sì come fondata sulle qualità del prelazionario, e che, invero, può ragionevolmente confutarsi adducendo ragioni di tipo oggettivo incentrate piuttosto sul concetto e sull’interpretazione del termine “fondo”, poiché, come altra dottrina acutamente rileva, il bosco altro non è che un fondo di terra, sicuramente suscettibile, se non trattato come bene intangibile, di una forma di coltivazione intesa come cura del “bene” bosco in quanto destinato a produrre frutti e servizi di natura agricola (quali legname, castagne, olii, resine, estratti naturali come il tannino, ecc.).
- Non senza considerare che la stessa teoria soggettiva, posta a fondamento dell’esclusione della prelazione per il silvicoltore, pare specularmente idonea, per opposta considerazione, a condurre alla sua configurabilità, ove si ponga mente alla qualificazione di imprenditore per la quale, stante la necessità di adoperare la originaria formulazione dell’art. 2135 cod. civ., l’adozione di una interpretazione soltanto evolutiva conduce ad un più che ragionevole adeguamento del dettato dalla L. 26 maggio 1965, n. 590, artt. 8 e 31 (oltre che della L. 14 agosto 1971, n. 817, art. 7), al dettato dell’art. 2135, che, viceversa, la qualifica di silvicoltore contiene, dovendosi ritenere, ancora in consonanza con un’attenta dottrina, inerente al concetto stesso di silvicoltura la considerazione che essa richiede un’attività imprenditoriale organica e funzionale al ciclo naturale del bosco, onde la impredicabilità della tesi per cui anche un’irrazionale coltivazione rientrerebbe nella medesima attività.
- Sulla condivisibile premessa, evidenziata in linea più generale da una recente giurisprudenza, della necessità dell’esistenza, sul fondo, di una vera e propria impresa (Cass. n. 2044 del 29 gennaio 2010 e n. 1712 del 27 gennaio 2010) ritengono queste sezioni unite che la prelazione spetti al silvicoltore esercente, esclusivamente o principalmente, attività di silvicoltura, con il solo limite, per la prelazione del confinante, che i terreni da vendere e quello del prelazionario, siano entrambi boschivi.
- A tale conclusione il collegio ritiene, in definitiva, di poter pervenire sulla base tanto (sul piano soggettivo) di una interpretazione letterale/evolutiva delle norme, attribuendo al silvicoltore, per il tipo di attività svolta e della funzione e scopi perseguiti, la qualifica di coltivatore diretto, quanto (sul piano oggettivo) di una analisi incentrata piuttosto sull’immobile, attribuendo anche ai boschi la qualifica di “fondo”, in quanto espressione di una natura irredimibilmente agricola sotto il profilo della utilizzazione e destinazione. Non senza considerare, da ultimo – attraverso una interpretazione di tipo estesivo/evolutivo condotta su di un più ampio piano sistematico – la qualificazione di imprenditore, mediante il raccordo delle norme della L. n. 590 del 1965, artt. 8 e 31 e L. n. 817 del 1971, art. 7, all’art. 2135 cod. civ. (anche vecchia formulazione) che, viceversa, la qualifica di silvicoltore contiene. Sulla base della nozione di imprenditore (art. 2082 c.c.), difatti, l’equiparazione contenuta nell’art. 2135 c.c. tra “selvicoltore” e “coltivatore” consente di ricomprendere la qualifica di selvicoltore nella definizione di piccolo imprenditore di cui all’art. 2083 c.c., rilevante perché caratterizzata dalla medesima finalità della definizione dell’art. 31, cui rapportare, per legittimare la prelazione, l’attività di coltivazione del fondo (e dunque anche di selvicoltura) menzionata dal citato art. 8, comma 1.
- Il ricorso è pertanto accolto quanto al suo primo motivo, in esso assorbiti le rimanenti ragioni di doglianza. La sentenza è conseguentemente cassata e il procedimento rinviato alla corte di appello di Genova che, in altra composizione, provvederà anche alla regolamentazione delle spese del presente giudizio. P.Q.M.
La corte accoglie il ricorso, cassa e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla corte di appello di Genova in altra composizione.
Così deciso in Roma, il 6 luglio 2010.
Depositato in Cancelleria il 14 aprile 2011
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