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COLPA MEDICA RISARCIMENTO DANNO AVVOCATO MALASANITA’ …

SEI VITTIMA DI UN GRAVE CASO DI MALASANITA’ A ROVIGO ? A PADOVA? A VICENZA ? A TREVISO ? A BOLOGNA ?

CHIAMA SE HAI SUBITO GRAVE DANNO DA MALASANITA’ A TREVISO ROVIGO VICENZA BOLOGNA PADOVA L’AVVOCATO ESPERTO GRAVI DANNI COLPA MEDICA, 

SE HAI SUBITO GRAVE DANNO DA MALASANITA’ A TREVISO ROVIGO VICENZA BOLOGNA PADOVA

DEVI CHIAMARE SUBITO ADESSO 051 6447838 PRENDERE APPUNTAMENTO CON L’AVVOCATO SERGIO ARMAROLI CHE HA STUDIO A BOLOGNA ,SOLO INCONTRANDOCI E DISCUTENDO LA TUA POSIZIONE POTREMMO TROVARE LA SOLUZIONE PER IL TUO GRAVE DANNO

RESPONSABILITA’ MEDICA  DANNO DA CONTATTO SOCIALE

 

Con il termine “contatto sociale” ci si vuole riferire, più in generale, alle ipotesi di rapporto contrattuale di fatto, ossia a quelle ipotesi in cui un rapporto nasce sul piano sociale e nella sua fase fisiologica e funzionale rimane sul piano del fatto e in questo dovrebbe esaurirsi, ma che, a fronte di una patologia nel rapporto, viene portato a conoscenza dell’interprete che, dovendolo tradurre sul piano del diritto, lo qualifica come rapporto di natura contrattuale. In questi casi, appunto, si parla di rapporti contrattuali di fatto, ossia di rapporti contrattuali senza che, però, vi sia un contratto in senso proprio, come ad esempio nel rapporto che si instaura tra paziente e medico che opera presso una struttura ospedaliera (pubblica o privata), con la quale ultima soltanto il paziente ha stipulato un contratto di spedalità. Al riguardo, la giurisprudenza è orientata a favore dell’applicabilità ai danni sofferti da una delle parti del modello della responsabilità contrattuale, ritenendo che tra le stesse sorga comunque un rapporto obbligatorio da “contatto sociale”. La S.C. ha, infatti, precisato che il “contatto” che si crea nel momento in cui un soggetto (il medico) esegue una prestazione (la prestazione sanitaria) cui, a rigore, non è contrattualmente tenuto nei confronti del beneficiario (il paziente) fa sorgere, in capo al primo ed a favore del secondo, veri e propri obblighi giuridici di comportamento (obblighi di protezione), di contenuto del tutto analogo rispetto a quelli che sarebbero sorti se fra le parti fosse intercorso un contratto: il “contatto sociale” fa sorgere vere e proprie obbligazioni contrattuali in assenza di contratto (Cass. 26 aprile 2010, n. 9906; Cass. 30 settembre 2009, n. 20954)

TUTELO GRAVI VITTIME DI MALASANITA’ IN TUTTA ITALIA IN MODO PARTICOLARE BOLOGNA RAVENNA FORLI RIMINI CESENA VICENZA PADOVA ROVIGO

 

Avvocato per malasanità Bologna Risarcimento pazienti

danni per errore medico

  

risarcimento-errore-medico- MALASANITA'

risarcimento-errore-medico- MALASANITA’

La responsabilità medica può derivare da molteplici situazioni, Si ha responsabilità medica quando sussiste un nesso causale tra la lesione alla salute psicofisica del paziente e la condotta dell’operatore sanitario in concomitanza o meno con le inefficienze e carenze di una struttura sanitaria.

Da una tale definizione, solo apparentemente generica in vista degli approfondimenti che seguiranno, emerge primariamente la centralità del delicato rapporto tra l’esercizio del diritto alla salute da parte del cittadino e l’espressione della professione medico-sanitaria in tutte le sue possibili declinazioni: che si svolga autonomamente o in equipe, che intervenga su una determinata patologia o sulla sua possibile insorgenza, il fine ultimo dell’attività in esame coincide con gli obiettivi del processo di guarigione dalla malattia.

Occorre sottolineare pertanto che il concetto di responsabilità medica si riferisce compiutamente all’azione di un sistema composito in cui il soggetto è destinatario di prestazioni mediche di ogni tipo (diagnostiche, preventive, ospedaliere, terapeutiche, chirurgiche, estetiche, assistenziali, ecc.) svolte da medici e personale con diversificate qualificazioni, quali infermieri, assistenti sanitari, tecnici di radiologia medica, tecnici di riabilitazione, ecc.1

errata e/o ritardata diagnosi;

È di fatti lecito parlare in tali termini quando il medico:

omette di riconoscere o approfondire i sintomi associati al tumore;

omette di eseguire i test diagnostici che sarebbero stati indicati dall’esistenza dei sintomi o dei fattori di rischio del paziente;

esegue gli esami di approfondimento diagnostico in maniera non corretta o impropria;

non interpreta correttamente i risultati dei test diagnostici;

non rispetta le raccomandazioni indicate dai medici del laboratorio che ha effettuato gli esami diagnostici;

 

 

Avvocato per malasanità Bologna FORLI CESENA RIMINI FERRARA PADOVA VICENZA Risarcimento danni per errore medico

 

Sentenza 5128 /2020 : spetta al sanitario provare che non vi è stato inadempimento per un  intervento mal riuscito in cui vi fosse negligenza medica. Al sanitario spetta infatti provare che la sua opera non ha danneggiato la salute del paziente

A questo punto si potrà procedere a richiedere un risarcimento per danni da malasanità ai professionisti che sono obbligati ad avere una assicurazione che risponda di errori medici professionali. (introdotta dalla legge Gelli nel 2017 ).La situazione più grave di risarcimento danni malasanità la si ha con l’ esporre  denuncia per un decesso del malato, una morte da malasanità o un errore grave commesso in sala operatoria in ospedale che abbia causato la morte del paziente. In questi casi l’avvocato  esperto nell’affrontare vi affiancherà nel percorso del risarcimento danno malasanità.

Tramite sentenza la Corte Costituzionale (giugno 2020 n. 118 ) per la tutela dei soggetti danneggiati da danni permanenti a causa di vaccinazioni obbligatorie ha previsto un indennizzo che è riconosciuta anche ai soggetti con lesioni e infermità dell’integrità fisica permanente per motivi evidenti e connessi al vaccino non obbligatorio ma raccomandato, esempio anti epatite A.

 non suggerisce al paziente di approfondire le proprie condizioni con uno specialista.

 

Errori e superficialità del pronto soccorso ;

precoci dimissioni del paziente quando il quadro non è ancora stabilizzato;
carente assistenza post-operatoria;

infezioni ospedaliere, ho assistito cause di morte in ospedale per infezioni ospedaliere, facendo avere il giusto risacimento agli eredi

 

 

FREQUENZA DI SPECIFICHE LOCALIZZAZIONI DI INFEZIONE Le infezioni ospedaliere si distribuiscono in quattro principali localizzazioni, che rappresentano l’80% circa di tutte le infezioni osservate: il tratto urinario, le ferite chirurgiche, l’apparato respiratorio, le infezioni sistemiche (sepsi, batteriemie). Tra queste le più frequenti sono le infezioni urinarie, che da sole rappresentano il 35-40% di tutte le infezioni ospedaliere. L’importanza relativa di ciascuna localizzazione di infezione varia nel tempo, in diversi reparti e in diversi sottogruppi di pazienti. Per descrivere la frequenza di infezioni nel tempo e per specifici gruppi di pazienti, si farà riferimento al sistema di sorveglianza statunitense, perché solo in questo Paese esiste un sistema di sorveglianza delle infezioni in funzione dagli anni ’70. Il NNIS (il sistema di sorveglianza statunitense) ha rilevato negli ultimi quindici anni un cambiamento nella frequenza relativa delle localizzazioni di infezioni e della loro incidenza: all’inizio degli anni ’80,

diagnosi sbagliata o ritardata

intervento chirurgico andato male o malriuscito

intervento endoscopico sbagliato

amputazione di arto sbagliato o non necessaria

asportazione di rene sbagliato

infezione ospedaliera

errore ortopedico (protesi di anca e di ginocchio, ernia del disco)

errore medico nella diagnosi prenatale ecografica e genetica e problemi durante il parto sia naturale che cesareo

errore trasfusionale con trasmissione di infezioni come l’ epatite HCV (legge 210)

vaccinazioni inopportune e loro conseguenze

danno da chirurgia plastica e danno da medicina estetica

referto istologico sbagliato, mancata tempestiva e corretta diagnosi tumorale da errore istologico

 

 

La responsabilità medica: principi ispiratori della materia

 

 

Il rapporto paziente –  struttura sanitaria  è di tipo contrattuale (e comprende tanto la prestazione sanitaria in senso stretto, quanto le prestazioni alberghiere, la messa a disposizione del personale medico e paramedico, medicinali e attrezzature necessarie anche per eventuali complicazioni, c.d. contratto di spedalità). In tema di responsabilità civile medico -chirurgica, ove sia dedotta una responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e/o del medico per l’inesatto adempimento della prestazione sanitaria, il danneggiato deve fornire la prova del contratto e dell’aggravamento della situazione patologica (o dell’insorgenza di nuove patologie) e del relativo nesso di causalità con l’azione od omissione dei sanitari, secondo il criterio del ‘più probabile che non’, restando a carico dell’obbligato – sia esso il sanitario o la struttura – la prova che la prestazione sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile.

Il rapporto che lega la struttura sanitaria (pubblica o privata) al paziente ha fonte in un contratto obbligatorio atipico, denominato contratto di ‘spedalità’ o di ‘assistenza sanitaria’, che si perfeziona anche sulla base di fatti concludenti, rappresentati dall’accettazione del malato presso la struttura. La responsabilità risarcitoria della struttura sanitaria per l’inadempimento ovvero per l’inesatto adempimento delle prestazioni dovute in base al contratto di spedalità è sussumibile entro l’archetipo della responsabilità da inadempimento ex art. 1218 c.c..

In materia di responsabilità medica, la responsabilità dell’ente per il fatto commesso dai medici ausiliari, trova fondamento nell’art. 1228 c.c. secondo il quale, nella materia in oggetto, la struttura sanitaria che si avvale dell’opera di terzi risponde dei fatti dolosi e colposi commessi da questi.

Tribunale Benevento, 28/05/2021, n.1110

Aggravamento della patologia ed omissione dei sanitari

In tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, incombe sul paziente che agisce per il risarcimento del danno l’onere di provare il nesso di causalità tra l’aggravamento della patologia (o l’insorgenza di una nuova malattia) e l’azione o l’omissione dei sanitari, mentre, ove il danneggiato abbia assolto a tale onere, spetta alla struttura dimostrare l’impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, provando che l’inesatto adempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile con l’ordinaria diligenza.

Tribunale Lecce sez. I, 03/05/2021, n.1266

Il nesso causale tra l’evento e l’inadempimento

In tema di responsabilità medica, il paziente danneggiato deve provare l’esistenza non solo del danno, ma anche la sua eziologia, ossia il contratto e l’aggravamento della patologia, ovvero l’insorgenza di nuove malattie e il nesso causale tra l’evento e l’inadempimento addebitati al sanitario (di cui la struttura risponde ex art. 1228 c.c.); graverà invece sul medico (ovvero la struttura sanitaria) l’onere di provare che la prestazione sia stata eseguita in maniera diligente e che gli esiti peggiorativi o la patologia insorta sono stati determinati da un evento imprevisto ed imprevedibile.

Tribunale Torino sez. IV, 15/03/2021, n.1258

Cosa deve provare la struttura sanitaria?

In applicazione dei principi sul riparto dell’onere probatorio in materia di responsabilità sanitaria elaborati dalla Suprema Corte, secondo cui spetta al paziente provare il nesso di causalità fra l’aggravamento della situazione patologica (o l’insorgenza di nuove patologie) e la condotta del sanitario, mentre alla struttura sanitaria compete la prova di aver adempiuto esattamente la prestazione o la prova della causa imprevedibile ed inevitabile dell’impossibilità dell’esatta esecuzione, con riferimento specifico alle infezioni nosocomiali, spetterà alla struttura provare di: aver adottato tutte le cautele prescritte dalle vigenti normative e dalle leges artis, al fine di prevenire l’insorgenza di patologie infettive; dimostrare di aver applicato i protocolli di prevenzione delle infezioni nel caso specifico.

 

 

La struttura che nell’adempimento della propria obbligazione si avvale dell’opera di medici eventualmente anche scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa, risponderà delle loro condotte dolose o colpose ai sensi degli artt. 1218 e 1228 c.c.

 

parimenti contrattuale è il rapporto paziente – medico libero professionista (in questo caso il medico agisce nell’adempimento di una obbligazione contrattualmente assunta con il paziente).

 

Cassazione civile sez. III, 09/07/2020, n.14615

Il rapporto contrattuale tra il paziente e la struttura sanitaria o il medico esplica i suoi effetti tra le sole parti del contratto, sicché l’inadempimento della struttura o del professionista genera responsabilità contrattuale esclusivamente nei confronti dell’assistito, che può essere fatta valere dai suoi congiunti “iure hereditario”, senza che questi ultimi, invece, possano agire a titolo contrattuale “iure proprio” per i danni da loro patiti. In particolare, non è configurabile, in linea generale, in favore di detti congiunti, un contratto con effetti protettivi del terzo, ipotesi che va circoscritta al contratto concluso dalla gestante con riferimento alle prestazioni sanitarie afferenti alla procreazione che, per la peculiarità dell’oggetto, è idoneo ad incidere in modo diretto sulla posizione del nascituro e del padre, sì da farne scaturire una tutela estesa a tali soggetti. (Nella specie, la S.C. ha escluso la spettanza dell’azione contrattuale “iure proprio” agli eredi di un soggetto ammalatosi e poi deceduto a causa di infezione da HCV contratta a seguito di emotrasfusioni eseguite presso un ospedale, precisando che essi avrebbero potuto eventualmente beneficiare della tutela aquiliana per i danni da loro stessi subiti).

 

 

La natura “contrattuale” della responsabilità garantisce diversi vantaggi per coloro che si ritengono vittime da colpa medica, quali un termine di prescrizione del proprio diritto più lungo (10 anni, anziché i 5 della responsabilità extra-contrattuale) ed un onere della prova più favorevole, ovvero una c.d. “presunzione di colpevolezza” per gli interventi c.d. di “routine” (quelli non presentino “particolari difficoltà”).

 

Infatti, nell’ambito dell’azione di responsabilità, il paziente (creditore della prestazione sanitaria) deve provare la conclusione del contratto e dedurre il mancato miglioramento e/o il peggioramento (se l’intervento era c.d. di “routine”), incombe alla struttura sanitaria e/o al medico libero professionista provare che inadempimento non v’è stato o che è dipeso da fatto a lui non imputabile ovvero che, pur esistendo, non è stato causa del danno.

Per gli interventi particolarmente complessi, al contrario opererà la limitazione di responsabilità di cui all’art. 2236 cod.civ., ovvero la Struttura Ospedaliera, in caso di danno cagionato da “imperizia” del medico in essa operante, non risponderà  per l’imperizia lieve, mentre continuerà a rispondere per la “negligenza” e “l’imprudenza” di carattere c.d. lieve del medico;

In tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell’onere probatorio l’attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo invece a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato, ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante.

In tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria per l’inesatto adempimento della prestazione assistenziale, l’onere di provare l’impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa imprevedibile, inevitabile e non imputabile alla stessa sorge solo ove il danneggiato abbia provato la sussistenza del nesso causale tra la condotta attiva od omissiva dei sanitari e il danno sofferto.

 

 

la responsabilità del medico che operi presso strutture pubbliche o private e/o in rapporto convenzionale con il SSN è invece di tipo extracontrattuale o da fatto illecito ai sensi dell’art. 20143 del codice civile.

 

Il medico, se l’evento si è verificato per “imperizia”, andrà esente da responsabilità ove dimostri di essersi attenuto alla “Linee Guida del Ministero della Salute “(salvo l’ipotesi in cui circostanze specifiche del caso concreto gli imponessero di discostarsene).
Ove, invece, l’evento danno si sia verificato per “negligenza” e/o “imprudenza”, il medico sarà ritenuto responsabile anche ove abbia rispettato le “Linee Guida”

 

il metro di giudizio dell’inadempimento della prestazione medica è dato dalla diligenza professionale qualificata del debitore e (dopo l’entrata in vigore della Legge n. 27/2017 (c.d. Legge Gelli), dal rispetto o meno delle “Linee Guida del Ministero della Salute” non dal conseguimento del risultato.

 

Tuttavia la recente giurisprudenza considera l’effettuazione di alcuni interventi specifici, come ad esempio alcuni interventi di “chirurgia estetica” e/o “odontoiatria”, come prestazioni in cui il medico ha un vero e proprio “obbligo di risultato“; in questi casi lo scopo stesso del contratto consiste appunto nel raggiungimento del risultato e, pertanto, per tali interventi l’obbligazione del medico (di risultato) “non può ritenersi adempiuta se la sua attività, quantunque diligente, non sia valsa a far raggiungere il risultato previsto (Cassazione Civile n. 9617/199, ha riconosciuto come obbligazione di risultato e non di mezzi quella di un medico che aveva proposto e praticato un intervento di incollaggio delle tube a una paziente quale metodo anticoncezionale sicuro al 100%.

 

il nesso di causalità tra inadempimento e danno deve essere valutato alla stregua del criterio, necessariamente probabilistico, del “più probabile che non”.

 

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  1. Sapere se ci sono i presupposti della “colpa medica” e per richiedere il
    risarcimento dei danni
  2. Conoscere la procedura per richiedere il risarcimento

 

 

 

 

La rassegna delle più significative pronunce della giurisprudenza di legittimità: 

 

 

 

SUL RISARCIMENTO

La circostanza che, in linea generale, non sia consentito attribuire, allo stesso soggetto, una somma a titolo di danno morale soggettivo e un ulteriore risarcimento da perdita del rapporto parentale, non esclude la netta distinzione tra il danno da perdita, o lesione del rapporto parentale e l’eventuale danno biologico

 

Cassazione civile sez. III, 11/11/2019, n.28989

La circostanza che, in linea generale, non sia consentito attribuire, allo stesso soggetto, una somma a titolo di danno morale soggettivo e un ulteriore risarcimento da perdita del rapporto parentale, non esclude la netta distinzione tra il danno da perdita, o lesione del rapporto parentale e l’eventuale danno biologico che detta perdita o lesione abbiano ulteriormente cagionato al danneggiato, atteso che la morte di un prossimo congiunto può causare nei familiari superstiti, oltre al danno parentale, consistente nella perdita del rapporto e nella correlata sofferenza soggettiva, anche un danno biologico vero e proprio, in presenza di una effettiva compromissione dello stato di salute fisica o psichica di chi lo invoca, l’uno e l’altro dovendo essere oggetto di separata considerazione come elementi del danno non patrimoniale, ma nondimeno suscettibili – in virtù del principio della onnicomprensività della liquidazione unitaria.

Cassazione civile sez. III, 11/11/2019, n.28986

L’accertamento del danno alla salute, in presenza di postumi permanenti anteriori all’infortunio, i quali siano in rapporto di concorrenza con i danni permanenti causati da questo ultimo, richiede al medico legale di valutare innanzitutto il grado di invalidità permanente obiettivo e complessivo presentato dalla vittima, senza alcuna variazione in aumento o in diminuzione in misura standard suggerita dal baréme medico legali, e senza applicazione di alcuna formula proporzionale. Chiede al medico legale, poi, di quantificare in punti percentuali il grado di invalidità permanente della vittima prima dell’infortunio, e fornire al giudice queste due indicazioni.

Cassazione civile sez. III, 11/11/2019, n.28988       

In presenza di un danno permanente alla salute, costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione di una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno biologico e la attribuzione di una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi di cui è già espressione il grado percentuale di invalidità permanente (quali i pregiudizi alle attività quotidiane, personali e relazionali, indefettibilmente dipendenti dalla perdita anatomica o funzionale: ovvero il danno dinamico-relazionale). In presenza di un danno permanente alla salute – infatti – la misura standard del risarcimento previsto dalla legge o dal criterio equitativo uniforme adottato dagli organi giudiziari di merito (oggi secondo il sistema cosiddetto “del punto variabile”) può essere aumentata solo in presenza di conseguenze dannose del tutto anomale e affatto peculiari. Le conseguenze dannose – in particolare – da ritenersi normali e indefettibili secondo l’id quod plerumque accidit (ovvero quelle che qualunque persona con la medesima invalidità non potrebbe non subire) non giustificano alcuna personalizzazione in aumento del risarcimento.

Cassazione civile sez. III, 11/11/2019, n.28993

Sul piano funzionale chance patrimoniale e chance non patrimoniale partecipano della stessa natura. La diversità morfologica tra chance patrimoniale e chance non patrimoniale da responsabilità sanitaria, va individuata nella diversità della situazione preesistente: preesistenza negativa (chance non patrimoniale); preesistenza positiva (chance patrimoniale). Tale preesistenza postula, nella chance patrimoniale, una situazione positiva (titoli professionalità, curricula, esperienze pregresse, attitudini specifiche ecc.), in quella non patrimoniale, una situazione di salute (già) patologica (i.e. negativa). Entrambe le forme di chance presuppongono: a) una condotta colpevole dell’agente; b) un evento di danno (la lesione di un diritto); c) un nesso di causalità tra la condotta e l’evento; d) una o più conseguenze dannose risarcibili, patrimoniali e non; e) un nesso di causalità tra l’evento e le conseguenze dannose. (Nella specie, ha osservato la Suprema corte, il giudice a quo, nel rigettare la domanda di danni ha concluso che la possibilità della parte di sopravvivere alla situazione ingravescente, anche se fosse stata curata con assistenza e specialisti diversi e differenti apparecchiature, tenute pure conto delle sue condizioni generali assolutamente scadute ben prima che si verificarsi i ritardi terapeutici, e dei rischi del trasferimento presso altra struttura sanitaria con procedura d’urgenza, con concreto pericolo di arresto cardiaco, fosse talmente labile e teorica da non poter essere determinata neppure in termini statistici e scientifici probabilistici e, ancora meno, equitativamente quantificata e tale accertamento si sottrae, in base ai principi sopra esposti, alle critiche formulate).

Cassazione civile sez. III, 28/11/2019, n.31072

Le norme di cui agli artt. 32, comma 3-ter e 3-quater, d.l. 24/1/2012 n. 1 (conv. in l. 24 marzo 2012 n. 27) – che escludono il risarcimento per danno biologico permanente se le lesioni di lieve entità cagionate da sinistri stradali (e responsabilità medica e sanitaria) non sono suscettibili di accertamento clinico strumentale obiettivo – e 139, comma 2, secondo periodo,cod. ass. (che le ha recepite) vanno interpretate nel senso che l’accertamento del danno alla persona deve avvenire con i criteri medico legali fissati da una secolare tradizione quali l’esame obiettivo (criterio visivo), l’esame clinico e gli esami strumentali che sono fungibili ed alternativi tra loro e non già cumulativi.

 

 

Cassazione civile sez. III, 14/11/2019, n.29492

In caso di patologia ingravescente dal possibile esito letale che determini un’invalidità espressa nei gradi percentuali dei “barèmes” medico legali, l’aggravamento delle condizioni del danneggiato costituisce la mera concretizzazione del rischio, già considerato nella scala dei gradi di invalidità, di un’evoluzione peggiorativa eziologicamente riconducibile all’originaria infermità e, perciò, non integra un ulteriore danno biologico risarcibile, a meno che al tempo dell’accertamento il successivo evento dannoso, ancorché riconducibile all’originaria lesione, fosse sconosciuto alla scienza medica e, quindi, non considerato dai “barèmes”. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva escluso il risarcimento – in aggiunta al danno biologico precedentemente accertato e liquidato – del pregiudizio derivante dal peggioramento delle condizioni di salute e, poi, dal decesso di un soggetto affetto da virus HCV contratto a seguito di emotrasfusione, trattandosi di avveramento di un prevedibile rischio di aggravamento della patologia epatica originaria).

 

 

Cassazione civile sez. III, 14/11/2019, n.29495

Nella liquidazione equitativa del danno da perdita del rapporto parentale – diversamente da quanto statuito per il pregiudizio arrecato all’integrità psico-fisica – le tabelle predisposte dal Tribunale di Milano non costituiscono concretizzazione paritaria dell’equità su tutto il territorio nazionale; tuttavia, qualora il giudice scelga di applicare i predetti parametri tabellari, la personalizzazione del risarcimento non può discostarsi dalla misura minima ivi prevista senza dar conto nella motivazione di una specifica situazione, diversa da quelle già considerate come fattori determinanti la divergenza tra il minimo e il massimo, che giustifichi la decurtazione. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la decisione di merito che, pur avendo identificato nelle tabelle milanesi il parametro equitativo, aveva inspiegabilmente quantificato il risarcimento, spettante al figlio per la perdita della madre, in una misura corrispondente a circa un terzo dell’importo minimo delle tabelle stesse).

 

 

 

Cassazione civile sez. III, 24/09/2019, n.23632

Va escluso il risarcimento del danno parentale allorché non siano allegate e provate circostanze idonee a ritenere che la morte del famigliare abbia comportato la perdita di un effettivo e valido sostegno morale (nella specie, la Corte ha respinto la richiesta di risarcimento avanzata dalla cognata e dai nipoti della vittima).

 

 

Cassazione civile sez. III, 30/08/2019, n.21837

In tema di danno non patrimoniale risarcibile in caso di morte causata da un illecito, il danno morale terminale e quello biologico terminale si distinguono, in quanto il primo (danno da lucida agonia o danno catastrofale o catastrofico) consiste nel pregiudizio subìto dalla vittima in ragione della sofferenza provata nel consapevolmente avvertire l’ineluttabile approssimarsi della propria fine ed è risarcibile a prescindere dall’apprezzabilità dell’intervallo di tempo intercorso tra le lesioni e il decesso, rilevando soltanto l’intensità della sofferenza medesima; mentre il secondo, quale pregiudizio alla salute che, anche se temporaneo, è massimo nella sua entità ed intensità, sussiste, per il tempo della permanenza in vita, a prescindere dalla percezione cosciente della gravissima lesione dell’integrità personale della vittima nella fase terminale della stessa, ma richiede, ai fini della risarcibilità, che tra le lesioni colpose e la morte intercorra un apprezzabile lasso di tempo. Dai pregiudizi risarcibili “iure hereditatis” si differenzia radicalmente il danno da perdita del rapporto parentale che spetta “iure proprio” ai congiunti per la lesione della relazione parentale che li legava al defunto e che è risarcibile se sia provata l’effettività e la consistenza di tale relazione, ma non anche il rapporto di convivenza, non assurgendo quest’ultimo a connotato minimo di relativa esistenza. (Nella specie, in applicazione degli enunciati principi, la S.C. ha cassato la sentenza di appello impugnata dai congiunti della vittima, la quale aveva apoditticamente e non ben comprensibilmente affermato che non poteva reputarsi sussistente alcun danno morale in capo ai fratelli del defunto, in assenza di qualsivoglia elemento valutativo “a partire dal dato della convivenza familiare dei medesimi nel periodo compreso tra il manifestarsi della patologia e il decesso”).

 

Cassazione civile sez. III, 20/10/2021, n.29001

In tema di responsabilità medica, nel regime anteriore alla legge n. 24 del 2017, la responsabilità della struttura sanitaria, integra, ai sensi dell’art.1228 c.c., una fattispecie di responsabilità diretta per fatto proprio, fondata sull’elemento soggettivo dell’ausiliario, la quale trova fondamento nell’assunzione del rischio per i danni che al creditore possono derivare dall’utilizzazione di terzi nell’adempimento della propria obbligazione contrattuale, e che deve essere distinta dalla responsabilità indiretta per fatto altrui, di natura oggettiva, in base alla quale l’imprenditore risponde, per i fatti dei propri dipendenti, a norma dell’art.2049 c.c.; pertanto, nel rapporto interno tra la struttura e il medico, la responsabilità per i danni cagionati da colpa esclusiva di quest’ultimo deve essere ripartita in misura paritaria secondo il criterio presuntivo degli artt. 1298, comma 2, e 2055, comma 3, c.c., atteso che, diversamente opinando, la concessione di un diritto di regresso integrale ridurrebbe il rischio di impresa, assunto dalla struttura, al solo rischio di insolvibilità del medico convenuto con l’azione di rivalsa, e salvo che, nel relativo giudizio, la struttura dimostri, oltre alla colpa esclusiva del medico rispetto allo specifico evento di danno sofferto dal paziente, da un lato, la derivazione causale di quell’evento da una condotta del sanitario del tutto dissonante rispetto al piano dell’ordinaria prestazione dei servizi di spedalità e, dall’altro, l’evidenza di un difetto di correlate trascuratezze, da parte sua, nell’adempimento del relativo contratto, comprensive di omissioni di controlli atti ad evitare rischi dei propri incaricati.

 

 

In tema di responsabilità per danni da attività medico-chirurgica, anche quando la domanda risarcitoria si fonda sull’erroneo operato del medico e non sui profili strutturali e organizzativi della struttura sanitaria

 

Cassazione civile sez. III, 27/09/2021, n.26118

In tema di responsabilità per danni da attività medico-chirurgica, anche quando la domanda risarcitoria si fonda sull’erroneo operato del medico e non sui profili strutturali e organizzativi della struttura sanitaria, la transazione tra medico e danneggiato non impedisce l’esercizio dell’azione per l’accertamento della responsabilità della struttura ospedaliera – che non ha natura di responsabilità per fatto altrui, bensì per fatto proprio e, pertanto, non viene meno in conseguenza della liberazione del medico dalla propria obbligazione risarcitoria -, ma comporta unicamente che, nel compiere detto accertamento, il giudice debba indagare “incidenter tantum” sulla esistenza di una eventuale condotta colposa del sanitario.

Cassazione civile sez. VI, 26/07/2021, n.21404

La responsabilità della struttura sanitaria per i danni da perdita del rapporto parentale, invocati “iure proprio” dai congiunti di un paziente deceduto, è qualificabile come extracontrattuale, dal momento che, da un lato, il rapporto contrattuale intercorre unicamente col paziente, e dall’altro i parenti non rientrano nella categoria dei “terzi protetti dal contratto”, potendo postularsi l’efficacia protettiva verso terzi del contratto concluso tra il nosocomio ed il paziente esclusivamente ove l’interesse, del quale tali terzi siano portatori, risulti anch’esso strettamente connesso a quello già regolato sul piano della programmazione negoziale.

Cassazione civile sez. III, 13/07/2018, n.18567

In tema di responsabilità sanitaria, il principio della vicinanza della prova, fondato sull’obbligo di regolare e completa tenuta della cartella clinica, le cui carenze e omissioni non possono andare a danno del paziente, non può operare in pregiudizio del medico per la successiva fase di conservazione: dal momento in cui l’obbligo di conservazione si trasferisce sulla struttura sanitaria, l’omessa conservazione è imputabile esclusivamente a essa. La violazione dell’obbligo di conservazione non può riverberarsi direttamente sul medico determinando un’inversione dell’onere probatorio.

 

 

In tema di responsabilità sanitaria la dimostrazione dell’assolvimento dell’obbligo (di avere posto il paziente nelle condizioni) di prestare il consenso informato, che si qualifica quale obbligo contrattuale ex articolo 1218 del codice civile

Cassazione civile sez. III, 21/06/2018, n.16324

In tema di responsabilità sanitaria la dimostrazione dell’assolvimento dell’obbligo (di avere posto il paziente nelle condizioni) di prestare il consenso informato, che si qualifica quale obbligo contrattuale ex articolo 1218 del codice civile grava sulla struttura ospedaliera. La violazione di tale obbligo ha potenzialmente rilievo a prescindere dall’esito favorevole o meno della prestazione medica, in quanto in grado di incidere sulla capacità di autodeterminazione del paziente. La dimostrazione – invece – di un nesso causale tra la lesione del diritto di autodeterminazione e danno effettivamente subito, spetta al paziente, rientrando tale elemento tra gli oneri in capo all’attore qui dicet.

 

 

 

Cassazione civile sez. III, 31/05/2018, n.13752

In tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, incombe sul paziente che agisce per il risarcimento del danno l’onere di provare il nesso di causalità tra l’aggravamento della patologia (o l’insorgenza di una nuova malattia) e l’azione o l’omissione dei sanitari.

 

 

 

La responsabilità per attività medico chirurgica deve essere ricondotta al paradigma di cui all’articolo 1218.

 

Deriva da quanto precede, pertanto, che il paziente creditore (e, per esso i suoi congiunti, in caso di malpractice medica che abbia comportato il decesso del primo) ha il mero onere di provare il contratto (o il contatto sociale) intercorso con la struttura e/o con il sanitario, nonché quello soltanto di allegare il relativo inadempimento o inesatto adempimento, e cioè la difformità della prestazione ricevuta rispetto al modello normalmente realizzato da una condotta improntata alla dovuta diligenza, non essendo invece tenuto a provare la colpa del medico e/o della struttura sanitaria, nonché la relativa gravità. Nei giudizi risarcitori, in particolare, si delinea un duplice ciclo causale, l’uno relativo all’evento dannoso, a monte, l’altro relativo all’impossibilità di adempiere, a valle. Il primo, quello relativo all’evento dannoso, deve essere provato dal creditore/danneggiato, il secondo, relativo alla possibilità di adempiere, deve essere provato dal debitore/danneggiante. Mentre il creditore deve provare il nesso di causalità fra l’insorgenza (o l’aggravamento) della patologia e la condotta del sanitario (fatto costitutivo del diritto), il debitore deve provare che una causa imprevedibile e inevitabile ha reso impossibile la prestazione (fatto estintivo del diritto).

Cassazione civile sez. III, 06/05/2015, n.8995

In materia di responsabilità contrattuale (nella specie, per attività medico-chirurgica), una volta accertato il nesso causale tra l’inadempimento e il danno lamentato, l’incertezza circa l’eventuale efficacia concausale di un fattore naturale non rende ammissibile, sul piano giuridico, l’operatività di un ragionamento probatorio “semplificato” che conduca ad un frazionamento della responsabilità, con conseguente ridimensionamento del “quantum” risarcitorio secondo criteri equitativi. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la decisione con cui il giudice di merito, in relazione al danno celebrale patito da un neonato, aveva posto l’obbligo risarcitorio interamente a carico della struttura sanitaria in cui egli era stato ricoverato immediatamente dopo il parto – avvenuto in altra struttura – e presso la quale aveva contratto un’infezione polmonare, e ciò sebbene le risultanze della consulenza tecnica d’ufficio non avessero escluso la possibilità che un contributo concausale al pregiudizio lamentato fosse derivato da una patologia sviluppata in occasione della nascita).

Cassazione civile sez. III, 12/09/2013, n.20904

Allorquando la responsabilità medica venga invocata a titolo contrattuale, cioè sul presupposto che fra il paziente ed il medico e/o la struttura sanitaria sia intercorso un rapporto contrattuale (o da “contatto”), la distribuzione, “inter partes”, dell’onere probatorio riguardo al nesso causale deve tenere conto della circostanza che la responsabilità è invocata in forza di un rapporto obbligatorio corrente fra le parti ed è dunque finalizzata a far valere un inadempimento oggettivo. Ne consegue che, per il paziente/danneggiato, l’onere probatorio in ordine alla ricorrenza del nesso di causalità materiale – quando l’impegno curativo sia stato assunto senza particolari limitazioni circa la sua funzionalizzazione a risolvere il problema che egli presentava – si sostanzia nella prova che l’esecuzione della prestazione si è inserita nella serie causale che ha condotto all’evento di danno, rappresentato o dalla persistenza della patologia per cui era stata richiesta la prestazione, o dal suo aggravamento, fino ad esiti finali costituiti dall’insorgenza di una nuova patologia o dal decesso del paziente.

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Il risarcimento del danno

La qualificazione della responsabilità civile della struttura sanitaria come contrattuale e quella dell’esercente la professione sanitaria come extracontrattuale implica un’importante differenza di disciplina in tema di risarcimento del danno. In particolare, il risarcimento del danno derivante da inadempimento contrattuale si commisura sulla base dei soli danni prevedibili al tempo dell’obbligazione, salvo in caso di dolo (sempreché tali danni costituiscano conseguenza diretta e immediata dell’inadempimento contrattuale).

Per il resto, per il risarcimento del danno da inadempimento contrattuale e per il risarcimento del danno derivante da illecito extracontrattuale, valgono le medesime regole civilistiche:

 

Regole di accertamento del nesso di causalità giuridica

Nell’accertamento della sussistenza della causalità giuridica (tra l’inadempimento contrattuale da parte della struttura sanitaria ed il danno subito dal paziente), la norma civilistica di riferimento è rappresentata dall’art. 1223 c.c., il quale prevede il risarcimento dei soli danni che costituiscano conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento, ossia gli effetti normali e ordinari del medesimo.

Quanto alla regola su cui si fonda il procedimento di ricostruzione di tale nesso causale, si ricorre anche in questo caso al principio del “più probabile che non”.

 

Tipologie di danno

Il creditore può chiedere il risarcimento del danno di cui il debitore non sia riuscito a fornire la prova della ricorrenza di una causa di giustificazione dell’inadempimento.

Il danno si distingue in danno patrimoniale e danno non patrimoniale, a seconda che l’evento abbia leso interessi economici o diversi da quelli economici.

In particolare, il danno patrimoniale si declina in due componenti:

(i) il danno emergente, consistente nella diminuzione patrimoniale del danneggiato;

(ii) il lucro cessante, ossia il danno futuro consistente nella mancata possibilità del guadagno che il danneggiato avrebbe presumibilmente conseguito.

Il danno non patrimoniale è risarcibile solo nei casi determinati dalla legge e nei casi di lesione di valori costituzionalmente protetti della persona. Esso costituisce una categoria ampia, comprensiva di varie figure di danno elaborate dalla giurisprudenza e dalla dottrina, che si risolvono nella lesione di un interesse inerente alla persona che produca un pregiudizio non suscettibile di valutazione economica e che superi la soglia minima di tollerabilità (si pensi al danno morale, al danno biologico, al danno esistenziale):

(i) per danno morale, secondo la giurisprudenza, si intende la sofferenza morale, il turbamento dell’anima privo di degenerazione patologica.

(ii) il danno biologico è definito come la lesione temporanea o permanente all’integrità psicofisica della persona, suscettibile di accertamento medico legale, che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito (definizione contenuta nell’art. 139 del codice delle assicurazioni private).

(iii) il danno esistenziale è definibile come il danno alla vita di relazione, in ragione dell’alterazione o del peggioramento della qualità della vita, determinato dalla necessità di modificare abitudini e stile di vita.

Nell’ambito della responsabilità medica, inoltre, si segnalano altri due tipi di danno, ad esso specificamente attinenti, quali il danno differenziale ed il danno da perdita di chance:

(i) si parla di danno differenziale quando il danno subito da un paziente in conseguenza di un errore clinico del medico nell’esecuzione di un trattamento vada ad incidere su una situazione già in parte compromessa dalla patologia per la quale il paziente era in cura;

(ii) il danno da perdita di chance rappresenta il danno derivante dalla perdita di una concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato risultato utile.

Quantificazione del danno

I danni prodotti devono essere riparati integralmente ed il risarcimento può assumere due forme, a scelta del creditore:

(i) risarcimento per equivalente: dazione al danneggiato di una somma di denaro commisurata al danno subito;

(ii)  risarcimento in forma specifica: eliminazione diretta del pregiudizio provocato, qualora ciò sia in tutto o in parte possibile e non risulti eccessivamente onerosa per il debitore.

Per quanto concerne il risarcimento per equivalente, l’art. 1226 c.c. stabilisce che nel caso in cui il danno non sia determinato nel suo ammontare, il giudice possa procedere alla liquidazione del danno con valutazione equitativa.

A tal fine, può farsi ricorso a criteri puri e a criteri predeterminati e standardizzati, tra i quali rientrano le cd. tabelle di liquidazione del danno elaborate a livello territoriale. Tra queste, le tabelle redatte dal Tribunale di Milano sono considerate dalla Corte di Cassazione quelle statisticamente più testate e idonee ad essere assunte come criterio generale per la valutazione equitativa.

Residua comunque in capo al giudice il potere discrezionale di discostarsi dal risultato cui si perverrebbe applicando automaticamente le tabelle, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato ed entro limiti prestabiliti.

L’art. 7 della legge Gelli Bianco è intervenuta in tema di determinazione del risarcimento del danno, stabilendo, al comma 4, che “Il danno conseguente all’attività della struttura sanitaria o sociosanitaria, pubblica o privata, e dell’esercente la professione sanitaria è risarcito sulla base delle tabelle di cui agli articoli 138 e 139 del codice delle assicurazioni private, di cui al decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, integrate, ove necessario, con la procedura di cui al comma 1 del predetto articolo 138 e sulla base dei criteri di cui ai citati articoli, per tener conto delle fattispecie da esse non previste, afferenti alle attività di cui al presente articolo”.

Come già precisato sopra, secondo quanto stabilito dalla Suprema Corte nelle celebri sentenze di “San Martino” rese nel 2019 in funzione nomofilattica in materia di responsabilità civile medica,  le norme sostanziali della legge Gelli Bianco, al pari dei quelle della precedente legge Balduzzi, non sono applicabili retroattivamente, con l’eccezione delle disposizioni relative alla liquidazione del danno sulla base delle tabelle di cui agli artt. 138, 139 del codice delle assicurazioni private (cfr. Cass. civ. Sez. III, 11/11/2019, n.28990; Cass. civ. Sez. III, 11/11/2019, n.28994).

Il Codice delle assicurazioni, nel dettare le regole per il calcolo del risarcimento del danno derivante da incidenti stradali, suddivide le lesioni in base alla gravità:

(i) l’art. 138 si riferisce alle lesioni di non lieve entità (o macropermanenti), ossia quelle che comportano una menomazione dell’integrità psico-fisica compresa tra 10 e 100 punti. Quanto al relativo criterio di liquidazione del danno, il comma 1 dell’art.138 prevede l’istituzione di una tabella unica per tutto il territorio nazionale. Attualmente continua a farsi riferimento alla tabella del Tribunale di Milano, in ragione della mancata attuazione dell’art. 138 D.lgs. 209/2005.

(ii) l’art. 139 si riferisce alle lesioni di lieve entità (o micropermanenti), ossia quelle lesioni meno gravi che hanno un punteggio che va da 1 a 9 punti percentuali. Se si tratta di lesioni micropermanenti derivanti da un evento diverso dal sinistro stradale, il calcolo del risarcimento del danno viene fatto prendendo come riferimento le tabelle di Milano (le stesse utilizzate anche per le lesioni macropermanenti).

Quanto alla determinazione del danno differenziale, per far sì che il professionista sanitario risponda solo dell’aggravamento causato dalla sua condotta, anziché della complessiva situazione di menomazione del paziente, è previsto che il medico legale incaricato compia una doppia valutazione:

(i) l’accertamento dell’effettivo grado di invalidità permanente di cui la vittima sia complessivamente portatrice a seguito dell’evento lesivo (attraverso la sommatoria di tutti i postumi concretamente riscontrabili nel soggetto, indipendentemente dalla relativa causa);

(ii) l’accertamento astratto e ipotetico del grado di invalidità permanente di cui la vittima era portatrice prima dell’evento lesivo.

Una volta determinati il grado di invalidità effettivo subito dalla vittima e quello ipotetico laddove l’evento non si fosse verificato, il calcolo per determinare il quantum debeatur consiste nella differenza tra il valore monetario del grado di invalidità permanente di cui la vittima era già portatrice prima dell’evento lesivo ed il grado di invalidità permanente complessivamente residuato dall’evento.

Ai fini del risarcimento del danno da perdita di chance, è necessario che la perdita di chance presenti un’elevata probabilità di avveramento, da rilevare attraverso la valutazione di elementi precisi ed oggettivi e che il danno attenga ad un pregiudizio concreto, accertato sul piano causale secondo il consueto giudizio di accertamento del nesso di causalità tra l’evento lesivo e le conseguenze dannose.

 

La rassegna delle più significative pronunce della giurisprudenza di legittimità:

Cassazione civile sez. III, 08/07/2020, n.14258

In tema di richiesta di risarcimento danni avanzata dagli stretti congiunti di un paziente con problemi psichici ricoverato presso una struttura sanitaria, qualora essi facciano valere il danno patito “iure proprio” da perdita del rapporto parentale, in particolare nel caso in cui l’iniziativa autolesionistica del malato si risolva in un atto suicidario portato a compimento a causa dell’omessa vigilanza, deve escludersi che l’azione esercitata sia riconducibile alla previsione dell’art. 1218 c.c., poiché il rapporto contrattuale è intercorso solo tra la menzionata struttura ed il ricoverato; ne consegue che l’ambito risarcitorio nel quale la domanda deve essere inquadrata è necessariamente di natura extracontrattuale, atteso che questi ultimi non possono essere nella specie qualificati “terzi protetti dal contratto”, potendo postularsi l’efficacia protettiva verso terzi del contratto concluso tra il nosocomio ed il paziente esclusivamente ove l’interesse del quale tali terzi siano portatori risulti anch’esso strettamente connesso a quello regolato già sul piano della programmazione negoziale.

 

Cassazione civile sez. un., 12/10/2020, n.21992

L’azione di responsabilità contabile nei confronti dei sanitari dipendenti di un’azienda sanitaria non è sostitutiva delle ordinarie azioni civilistiche di responsabilità nei rapporti tra amministrazione e soggetti danneggiati, sicché, quando sia proposta da una azienda sanitaria domanda di manleva nei confronti dei propri medici, non sorge una questione di riparto tra giudice ordinario e contabile, attesa l’autonomia e non coincidenza delle due giurisdizioni. Se l’azione di responsabilità per danno erariale tutela l’interesse pubblico generale al buon andamento della p.a., quella di responsabilità civile proposta dalla singola amministrazione tende infatti al pieno ristoro del danno, con funzione riparatoria e compensativa (nella specie la Corte ha cassato la decisione della Corte d’appello che non avrebbe potuto affermare il difetto di giurisdizione ordinaria in favore di quella contabile, ma avrebbe dovuto accertare la fondatezza o meno dell’autonoma domanda di manleva proposta dall’Azienda Ospedaliera nei confronti del proprio sanitario).

 

Cassazione civile sez. III, 08/07/2020, n.14258

In tema di richiesta di risarcimento danni avanzata dagli stretti congiunti di un paziente con problemi psichici ricoverato presso una struttura sanitaria, qualora essi facciano valere il danno patito “iure proprio” da perdita del rapporto parentale, in particolare nel caso in cui l’iniziativa autolesionistica del malato si risolva in un atto suicidario portato a compimento a causa dell’omessa vigilanza, deve escludersi che l’azione esercitata sia riconducibile alla previsione dell’art. 1218 c.c., poiché il rapporto contrattuale è intercorso solo tra la menzionata struttura ed il ricoverato; ne consegue che l’ambito risarcitorio nel quale la domanda deve essere inquadrata è necessariamente di natura extracontrattuale, atteso che questi ultimi non possono essere nella specie qualificati “terzi protetti dal contratto”, potendo postularsi l’efficacia protettiva verso terzi del contratto concluso tra il nosocomio ed il paziente esclusivamente ove l’interesse del quale tali terzi siano portatori risulti anch’esso strettamente connesso a quello regolato già sul piano della programmazione negoziale.

Cassazione civile sez. III, 11/11/2019, n.28989

La circostanza che, in linea generale, non sia consentito attribuire, allo stesso soggetto, una somma a titolo di danno morale soggettivo e un ulteriore risarcimento da perdita del rapporto parentale, non esclude la netta distinzione tra il danno da perdita, o lesione del rapporto parentale e l’eventuale danno biologico che detta perdita o lesione abbiano ulteriormente cagionato al danneggiato, atteso che la morte di un prossimo congiunto può causare nei familiari superstiti, oltre al danno parentale, consistente nella perdita del rapporto e nella correlata sofferenza soggettiva, anche un danno biologico vero e proprio, in presenza di una effettiva compromissione dello stato di salute fisica o psichica di chi lo invoca, l’uno e l’altro dovendo essere oggetto di separata considerazione come elementi del danno non patrimoniale, ma nondimeno suscettibili – in virtù del principio della onnicomprensività della liquidazione unitaria.

Cassazione civile sez. III, 11/11/2019, n.28986

L’accertamento del danno alla salute, in presenza di postumi permanenti anteriori all’infortunio, i quali siano in rapporto di concorrenza con i danni permanenti causati da questo ultimo, richiede al medico legale di valutare innanzitutto il grado di invalidità permanente obiettivo e complessivo presentato dalla vittima, senza alcuna variazione in aumento o in diminuzione in misura standard suggerita dal baréme medico legali, e senza applicazione di alcuna formula proporzionale. Chiede al medico legale, poi, di quantificare in punti percentuali il grado di invalidità permanente della vittima prima dell’infortunio, e fornire al giudice queste due indicazioni.

Cassazione civile sez. III, 11/11/2019, n.28988       

In presenza di un danno permanente alla salute, costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione di una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno biologico e la attribuzione di una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi di cui è già espressione il grado percentuale di invalidità permanente (quali i pregiudizi alle attività quotidiane, personali e relazionali, indefettibilmente dipendenti dalla perdita anatomica o funzionale: ovvero il danno dinamico-relazionale). In presenza di un danno permanente alla salute – infatti – la misura standard del risarcimento previsto dalla legge o dal criterio equitativo uniforme adottato dagli organi giudiziari di merito (oggi secondo il sistema cosiddetto “del punto variabile”) può essere aumentata solo in presenza di conseguenze dannose del tutto anomale e affatto peculiari. Le conseguenze dannose – in particolare – da ritenersi normali e indefettibili secondo l’id quod plerumque accidit (ovvero quelle che qualunque persona con la medesima invalidità non potrebbe non subire) non giustificano alcuna personalizzazione in aumento del risarcimento.

Cassazione civile sez. III, 11/11/2019, n.28993

Sul piano funzionale chance patrimoniale e chance non patrimoniale partecipano della stessa natura. La diversità morfologica tra chance patrimoniale e chance non patrimoniale da responsabilità sanitaria, va individuata nella diversità della situazione preesistente: preesistenza negativa (chance non patrimoniale); preesistenza positiva (chance patrimoniale). Tale preesistenza postula, nella chance patrimoniale, una situazione positiva (titoli professionalità, curricula, esperienze pregresse, attitudini specifiche ecc.), in quella non patrimoniale, una situazione di salute (già) patologica (i.e. negativa). Entrambe le forme di chance presuppongono: a) una condotta colpevole dell’agente; b) un evento di danno (la lesione di un diritto); c) un nesso di causalità tra la condotta e l’evento; d) una o più conseguenze dannose risarcibili, patrimoniali e non; e) un nesso di causalità tra l’evento e le conseguenze dannose. (Nella specie, ha osservato la Suprema corte, il giudice a quo, nel rigettare la domanda di danni ha concluso che la possibilità della parte di sopravvivere alla situazione ingravescente, anche se fosse stata curata con assistenza e specialisti diversi e differenti apparecchiature, tenute pure conto delle sue condizioni generali assolutamente scadute ben prima che si verificarsi i ritardi terapeutici, e dei rischi del trasferimento presso altra struttura sanitaria con procedura d’urgenza, con concreto pericolo di arresto cardiaco, fosse talmente labile e teorica da non poter essere determinata neppure in termini statistici e scientifici probabilistici e, ancora meno, equitativamente quantificata e tale accertamento si sottrae, in base ai principi sopra esposti, alle critiche formulate).

Cassazione civile sez. III, 28/11/2019, n.31072

Le norme di cui agli artt. 32, comma 3-ter e 3-quater, d.l. 24/1/2012 n. 1 (conv. in l. 24 marzo 2012 n. 27) – che escludono il risarcimento per danno biologico permanente se le lesioni di lieve entità cagionate da sinistri stradali (e responsabilità medica e sanitaria) non sono suscettibili di accertamento clinico strumentale obiettivo – e 139, comma 2, secondo periodo,cod. ass. (che le ha recepite) vanno interpretate nel senso che l’accertamento del danno alla persona deve avvenire con i criteri medico legali fissati da una secolare tradizione quali l’esame obiettivo (criterio visivo), l’esame clinico e gli esami strumentali che sono fungibili ed alternativi tra loro e non già cumulativi.

Cassazione civile sez. III, 14/11/2019, n.29492

In caso di patologia ingravescente dal possibile esito letale che determini un’invalidità espressa nei gradi percentuali dei “barèmes” medico legali, l’aggravamento delle condizioni del danneggiato costituisce la mera concretizzazione del rischio, già considerato nella scala dei gradi di invalidità, di un’evoluzione peggiorativa eziologicamente riconducibile all’originaria infermità e, perciò, non integra un ulteriore danno biologico risarcibile, a meno che al tempo dell’accertamento il successivo evento dannoso, ancorché riconducibile all’originaria lesione, fosse sconosciuto alla scienza medica e, quindi, non considerato dai “barèmes”. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva escluso il risarcimento – in aggiunta al danno biologico precedentemente accertato e liquidato – del pregiudizio derivante dal peggioramento delle condizioni di salute e, poi, dal decesso di un soggetto affetto da virus HCV contratto a seguito di emotrasfusione, trattandosi di avveramento di un prevedibile rischio di aggravamento della patologia epatica originaria).

Cassazione civile sez. III, 14/11/2019, n.29495

Nella liquidazione equitativa del danno da perdita del rapporto parentale – diversamente da quanto statuito per il pregiudizio arrecato all’integrità psico-fisica – le tabelle predisposte dal Tribunale di Milano non costituiscono concretizzazione paritaria dell’equità su tutto il territorio nazionale; tuttavia, qualora il giudice scelga di applicare i predetti parametri tabellari, la personalizzazione del risarcimento non può discostarsi dalla misura minima ivi prevista senza dar conto nella motivazione di una specifica situazione, diversa da quelle già considerate come fattori determinanti la divergenza tra il minimo e il massimo, che giustifichi la decurtazione. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la decisione di merito che, pur avendo identificato nelle tabelle milanesi il parametro equitativo, aveva inspiegabilmente quantificato il risarcimento, spettante al figlio per la perdita della madre, in una misura corrispondente a circa un terzo dell’importo minimo delle tabelle stesse).

Cassazione civile sez. III, 24/09/2019, n.23632

Va escluso il risarcimento del danno parentale allorché non siano allegate e provate circostanze idonee a ritenere che la morte del famigliare abbia comportato la perdita di un effettivo e valido sostegno morale (nella specie, la Corte ha respinto la richiesta di risarcimento avanzata dalla cognata e dai nipoti della vittima).

Cassazione civile sez. III, 30/08/2019, n.21837

In tema di danno non patrimoniale risarcibile in caso di morte causata da un illecito, il danno morale terminale e quello biologico terminale si distinguono, in quanto il primo (danno da lucida agonia o danno catastrofale o catastrofico) consiste nel pregiudizio subìto dalla vittima in ragione della sofferenza provata nel consapevolmente avvertire l’ineluttabile approssimarsi della propria fine ed è risarcibile a prescindere dall’apprezzabilità dell’intervallo di tempo intercorso tra le lesioni e il decesso, rilevando soltanto l’intensità della sofferenza medesima; mentre il secondo, quale pregiudizio alla salute che, anche se temporaneo, è massimo nella sua entità ed intensità, sussiste, per il tempo della permanenza in vita, a prescindere dalla percezione cosciente della gravissima lesione dell’integrità personale della vittima nella fase terminale della stessa, ma richiede, ai fini della risarcibilità, che tra le lesioni colpose e la morte intercorra un apprezzabile lasso di tempo. Dai pregiudizi risarcibili “iure hereditatis” si differenzia radicalmente il danno da perdita del rapporto parentale che spetta “iure proprio” ai congiunti per la lesione della relazione parentale che li legava al defunto e che è risarcibile se sia provata l’effettività e la consistenza di tale relazione, ma non anche il rapporto di convivenza, non assurgendo quest’ultimo a connotato minimo di relativa esistenza. (Nella specie, in applicazione degli enunciati principi, la S.C. ha cassato la sentenza di appello impugnata dai congiunti della vittima, la quale aveva apoditticamente e non ben comprensibilmente affermato che non poteva reputarsi sussistente alcun danno morale in capo ai fratelli del defunto, in assenza di qualsivoglia elemento valutativo “a partire dal dato della convivenza familiare dei medesimi nel periodo compreso tra il manifestarsi della patologia e il decesso”).

 

Cassazione civile sez. III, 26/07/2019, n.20287

Il danno non patrimoniale, consistente nella sofferenza morale patita dal prossimo congiunto di persona lesa in modo non lieve dall’altrui illecito, può essere dimostrato con ricorso alla prova presuntiva ed in riferimento a quanto ragionevolmente riferibile alla realtà dei rapporti di convivenza ed alla gravità delle ricadute della condotta. In caso di fatto illecito plurioffensivo, ciascun danneggiato – in forza di quanto previsto dagli artt. 2,29,30 e 31 Cost., nonché degli artt. 8 e 12 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e dell’art. 1 della cd. “Carta di Nizza” – è titolare di un autonomo diritto all’integrale risarcimento del pregiudizio subito, comprensivo, pertanto, sia del danno morale (da identificare nella sofferenza interiore soggettiva patita sul piano strettamente emotivo, non solo nell’immediatezza dell’illecito, ma anche in modo duraturo, pur senza protrarsi per tutta la vita) che di quello “dinamico-relazionale” (consistente nel peggioramento delle condizioni e abitudini, interne ed esterne, di vita quotidiana). Ne consegue che, in caso di perdita definitiva del rapporto matrimoniale e parentale, ciascuno dei familiari superstiti ha diritto ad una liquidazione comprensiva di tutto il danno non patrimoniale subito, in proporzione alla durata e intensità del vissuto, nonché alla composizione del restante nucleo familiare in grado di prestare assistenza morale e materiale, avuto riguardo all’età della vittima e a quella dei familiari danneggiati, alla personalità individuale di costoro, alla loro capacità di reazione e sopportazione del trauma e ad ogni altra circostanza del caso concreto, da allegare e provare (anche presuntivamente, secondo nozioni di comune esperienza) da parte di chi agisce in giudizio, spettando alla controparte la prova contraria di situazioni che compromettono l’unità, la continuità e l’intensità del rapporto familiare.

Cassazione civile sez. III, 25/06/2019, n.16909

La morte di un prossimo congiunto può causare nei familiari superstiti oltre al danno parentale, consistente nella perdita del rapporto e nella correlata sofferenza soggettiva, anche un danno biologico vero e proprio, in presenza di un’effettiva compromissione dello stato di salute fisica o psichica di chi lo invoca, l’uno e l’altro dovendo essere oggetto di separata considerazione come elementi del danno non patrimoniale, ma nondimeno suscettibili – in virtù del principio della “onnicomprensività” della liquidazione – di liquidazione unitaria.

Cassazione civile sez. lav., 21/05/2019, n.13645

In tema di calcolo del danno differenziale, le modifiche dell’art. 10 d.P.R. n. 1124 del 1965, introdotte dalla l. n. 145 del 2018, di natura innovativa e non meramente interpretativa, non si applicano agli infortuni sul lavoro verificatisi ed alle malattie professionali denunciate prima del 1° gennaio 2019.

Cassazione civile sez. III, 31/01/2019, n.2762

In tema di responsabilità medica, nel valorizzare, sul piano risarcitorio, attraverso il riconoscimento di una somma aggiuntiva rispetto alla liquidazione secondo i massimi tabellari il fatto che il paziente è destinato a convivere con il timore di una recidiva di un’infezione, che avrebbe, ove si verificasse, elevate probabilità di determinarne il decesso, la Corte territoriale ha fatto buon governo del principio per cui, in presenza d’un danno alla salute, non costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione d’una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno biologico, e d’una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi che non hanno fondamento medico-legale (ancorché trovino nella menomazione dell’integrità psico-fisica di un soggetto il loro antecedente causale) e rappresentati dalla sofferenza interiore (quali, ad esempio, il dolore dell’animo, la vergogna, la disistima di sé, la paura, la disperazione), suscettibili di una differente ed autonoma valutazione (come oggi normativamente confermato dalla nuova formulazione dell’art. 138 cod. ass., alla lett. e).

Cassazione civile sez. III, 31/01/2019, n.2788

In tema di liquidazione del danno non patrimoniale, ai fini della c.d. “personalizzazione” del danno forfettariamente individuato (in termini monetari) attraverso i meccanismi tabellari cui la sentenza abbia fatto riferimento (e che devono ritenersi destinati alla riparazione delle conseguenze “ordinarie” inerenti ai pregiudizi che qualunque vittima di lesioni analoghe normalmente subirebbe), spetta al giudice far emergere e valorizzare, dandone espressamente conto in motivazione, in coerenza con le risultanze argomentative e probatorie obiettivamente emerse ad esito del dibattito processuale, specifiche circostanze di fatto, peculiari al caso sottoposto ad esame, legate all’irripetibile singolarità dell’esperienza di vita individuale in quanto caratterizzata da aspetti legati alle dinamiche emotive della vita interiore o all’uso del corpo e alla valorizzazione dei relativi aspetti funzionali, di per sé tali da presentare obiettive e riconoscibili ragioni di apprezzamento.

Cassazione civile sez. III, 22/01/2019, n.1553

Le tabelle milanesi di liquidazione del danno non patrimoniale si sostanziano in regole integratrici del concetto di equità, atte quindi a circoscrivere la discrezionalità dell’organo giudicante, sicchè costituiscono un criterio guida e non una normativa di diritto.

Cassazione civile sez. III, 17/01/2019, n.1043

Qualora l’attore abbia chiesto con l’atto di citazione il risarcimento del danno da colpa medica per errore nell’esecuzione di un intervento chirurgico (e, quindi, per la lesione del diritto alla salute), e domandi poi in corso di causa anche il risarcimento del danno derivato dall’inadempimento, da parte dello stesso medico, a dovere di informazione necessario per ottenere un consenso informato (inerente al diverso diritto alla autodeterminazione nel sottoporsi al trattamento terapeutico), si verifica una mutatio libelli e non una mera emendatio, in quanto nel processo viene introdotto un nuovo tema di indagine e di decisione, che altera l’oggetto sostanziale dell’azione e i termini della controversia, tanto da porre in essere una pretesa diversa da quella fatta valere in precedenza.

Cassazione civile sez. III, 04/12/2018, n.31234

Se il paziente lamenta un danno alla salute, questi dovrà allegare e dimostrare che avrebbe rifiutato quel determinato intervento se fosse stato adeguatamente informato.

Cassazione civile sez. III, 04/12/2018, n.31234

Laddove, in assenza di adeguato consenso informato, sia eseguito secundum leges artis un intervento chirurgico, che il paziente, se edotto, avrebbe rifiutato, la lesione al diritto di autodeterminarsi costituirà oggetto di danno risarcibile tutte le volte in cui il soggetto abbia subìto le inaspettate conseguenze dell’intervento senza la necessaria e consapevole predisposizione ad affrontarle e ad accettarle, trovandosi invece del tutto impreparato di fronte ad esse. Se, a fronte del corretto assolvimento degli obblighi informativi a carico del sanitario, il paziente avrebbe comunque assentito all’intervento, il risarcimento del danno all’autodeterminazione è da escludersi, difettando il nesso di causalità materiale tra la condotta del medico e il pregiudizio lamentato.

 

Le c.d. linee guida sono solo un parametro di valutazione della condotta del medico, ma ciò non impedisce che una condotta difforme dalle linee guida

 

Cassazione civile sez. III, 30/11/2018, n.30998

Le c.d. linee guida sono solo un parametro di valutazione della condotta del medico, ma ciò non impedisce che una condotta difforme dalle linee guida possa essere ritenuta diligente, se nel caso di specie esistevano particolarità tali che imponevano di non osservarle.

Cassazione civile sez. III, 19/07/2018, n.19204

Nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, la previsione dell’art. 1218 c.c., mentre esonera il creditore (danneggiato) dell’obbligazione asseritamente non adempiuta dall’onere di provare la colpa del debitore, non lo esonera dal dover dimostrare il nesso di causa intercorrente tra la condotta del debitore e il danno di cui chiede il risarcimento; in mancanza, qualora all’esito dell’istruttoria il predetto nesso causale non risulti provato e la causa del danno lamentato resti incerta, la domanda risarcitoria dovrà essere rigettata.

Cassazione civile sez. III, 19/07/2018, n.19151

In tema di responsabilità medica da nascita indesiderata, il genitore che agisce per il risarcimento del danno ha l’onere di provare che la madre avrebbe esercitato la facoltà d’interrompere la gravidanza – ricorrendone le condizioni di legge – ove fosse stata tempestivamente informata dell’anomalia fetale; quest’onere può essere assolto tramite praesumptio hominis, in base a inferenze desumibili dagli elementi di prova, quali il ricorso al consulto medico proprio per conoscere lo stato di salute del nascituro, le precarie condizioni psico -fisiche della gestante o le sue pregresse manifestazioni di pensiero propense all’opzione abortiva, gravando sul medico la prova contraria, che la donna non si sarebbe determinata all’aborto per qualsivoglia ragione personale (nella specie, la Corte ha riconosciuto il diritto al risarcimento nei confronti di una donna che aveva chiesto più e più volte di effettuare test clinici sul nascituro, risultato poi affetto di sindrome di Down, ma il suo ginecologo si era opposto, sconsigliando ogni pratica invasiva sul feto).

 

In materia di danno non patrimoniale, i parametri delle “Tabelle” predisposte dal Tribunale di Milano

 

Cassazione civile sez. III, 28/06/2018, n.17018

In materia di danno non patrimoniale, i parametri delle “Tabelle” predisposte dal Tribunale di Milano sono da prendersi a riferimento da parte del giudice di merito ai fini della liquidazione del predetto danno ovvero quale criterio di riscontro e verifica della liquidazione diversa alla quale si sia pervenuti. Ne consegue l’incongruità della motivazione che non dia conto delle ragioni della preferenza assegnata ad una quantificazione che, avuto riguardo alle circostanze del caso concreto, risulti sproporzionata rispetto a quella cui l’adozione dei parametri tratti dalle “Tabelle” di Milano consenta di pervenire. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza della Corte territoriale che aveva ritenuto congruo l’importo liquidato dal giudice di primo grado, a titolo di risarcimento del danno biologico, in forza di una non motivata applicazione di una tabella diversa da quella predisposta dal tribunale di Milano, peraltro con riferimento a parametri non aggiornati alla data della decisione).

Cassazione civile sez. III, 28/06/2018, n.17018

Le tabelle di Milano rappresentano i parametri maggiormente idonei per consentire il rispetto dell’equità valutativa nella liquidazione del risarcimento dei danni subiti. In ragione di ciò nel caso in cui il giudice scelga di preferire tabelle diverse per la quantificazione del danno deve fornire una congrua motivazione per giustificare la sua decisione.

Cassazione civile sez. III, 21/06/2018, n.16336

Il medico potrà essere chiamato a risarcire il danno alla salute laddove il paziente dimostri — anche tramite presunzioni — che, ove compiutamente informato, avrebbe rifiutato di sottoporsi all’intervento terapeutico. Affinché possa essere risarcito anche il danno all’autodeterminazione è necessario dar prova che il pregiudizio abbia varcato la soglia della gravità dell’offesa e, dunque, che il relativo diritto sia stato inciso oltre un certo livello minimo di tollerabilità, non essendo predicabile un danno in re ipsa.

Cassazione civile sez. III, 15/05/2018, n.11754

Nella liquidazione del danno non patrimoniale, in difetto di diverse previsioni normative e salvo che ricorrano circostanze affatto peculiari, devono trovare applicazione i parametri tabellari elaborati presso il Tribunale di Milano successivamente all’esito delle pronunzie delle Sezioni Unite del 2008, in quanto determinano il valore finale del punto utile al calcolo del danno biologico da invalidità permanente tenendo conto di tutte le componenti non patrimoniali, compresa quella già qualificata in termini di “danno morale” la quale, nei sistemi tabellari precedenti veniva invece liquidata separatamente, mentre nella versione tabellare successiva all’anno 2011 viene inclusa nel punto base, così da operare non sulla percentuale di invalidità, bensì con aumento equitativo della corrispondente quantificazione. Tuttavia il giudice, in presenza di specifiche circostanze di fatto, che valgano a superare le conseguenze ordinarie già previste e compensate nella liquidazione forfettaria assicurata dalle previsioni tabellari, può procedere alla personalizzazione del danno entro le percentuali massime di aumento previste nelle stesse tabelle, dando adeguatamente conto nella motivazione della sussistenza di peculiari ragioni di apprezzamento meritevoli di tradursi in una differente (più ricca, e dunque, individualizzata) considerazione in termini monetari. (Nella specie, in relazione ad un’ipotesi di danno iatrogeno, la S.C. ha ritenuto meritevoli di valorizzazione, ai fini della personalizzazione del danno non patrimoniale, aspetti legati alle dinamiche emotive della vita relazionale ed interiore del soggetto leso, in quanto connotati da obiettive e riconoscibili ragioni di apprezzamento).

Cassazione civile sez. III, 15/05/2018, n.11749

La violazione da parte del sanitario dell’obbligo di informare e acquisire il consenso al trattamento terapeutico determina la lesione del diritto fondamentale all’autodeterminazione del paziente, che è autonomamente risarcibile rispetto al danno alla salute e che — rappresentata dalla sofferenza e dalla contrazione della libertà di disporre di se stesso — non esige una specifica prova.

 

 

Anzola dell’EmiliaArgelatoBaricellaBentivoglioBolognaBorgo TossignanoBudrioCalderara di RenoCamugnanoCasalecchio di RenoCasalfiumaneseCastel d’AianoCastel del RioCastel di CasioCastel Guelfo di BolognaCastello d’ArgileCastel MaggioreCastel San Pietro TermeCastenasoCastiglione dei PepoliCrevalcoreDozzaFontaneliceGaggio MontanoGallieraGranarolo dell’EmiliaGrizzana MorandiImolaLizzano in BelvedereLoianoMalalbergoMarzabottoMedicinaMinerbioMolinellaMonghidoroMonterenzioMonte San PietroMonzunoMordanoOzzano dell’EmiliaPianoroPieve di CentoSala BologneseSan Benedetto Val di SambroSan Giorgio di PianoSan Giovanni in PersicetoSan Lazzaro di SavenaSan Pietro in CasaleSant’Agata BologneseSasso MarconiVergatoZola PredosaValsamoggia

 

 

 

 

avvocato malasanità Bologna

-accertare la responsabilità dei convenuti, condannare in via solidale tra loro per fatto e colpa a loro addebitabile, i Sig.ri R.V., G.A.C. e la Casa di Cura S.C. al risarcimento dei danni tutti, patiti e patiendi dal Sig. N.C., patrimoniali e non patrimoniali, diretti ed indiretti, biologici, morali, alla vita di relazioni, da perdita da chances e qualsiasi altra voce di danno risarcibile, quantificata in non meno di € 1.000.000,00 (unmilione) e/o in quella diversa somma che a parere del procuratore di N.C. si va di seguito a determinare e specificare, disattendendo le conclusioni della C.T.U. Dott.ssa Locatelli che non possono ritenersi convincenti ne condivisibili nella valutazione del 30% quale grado di invalidità permanente attribuito al Sig. N.C. ricomprendendovi anche l’impotentia lamentata dall’attore e le conseguenti ripercussioni psichiche.

Alla luce infatti della documentazione medica esaminata risulta evidente il nesso di causalità fra l’intervento d’asportazione dell’epididimo sinistro e l’infertilità del Sig. N.C. L’asportazione di una parte dell’epididimo sinistro, oltre a ridurre l’area anatomica dove avvengono i fini meccanismi per la maturazione degli spermatozoi, ha molto probabilmente innescato un processo autoimmune che rende vano qualsiasi tentativo di fecondazione (Dott. Pagliara e Dott. Maretti).

COLPA MEDICA RISARCIMENTO DANNO AVVOCATO MALASANITA’ STUDIO LEGALE BOLOGNA

COLPA MEDICA RISARCIMENTO DANNO AVVOCATO MALASANITA’ STUDIO LEGALE BOLOGNA

  1. Riguardo alla sfera sessuale, la disfunzione erettile è di natura psicologica, come dimostrato dalle relazioni cliniche psichiatriche, psicologiche e sessuologiche in atti (Dott.ssa Bersani, Dott. Lombardi) che evidenziano un elevato danno psicologico e psichiatrico in seguito ai fatti accaduti.
  2. A fronte dei gravissimi danni derivati al Sig. N.C. per fatto e colpa addebitabile al Dott. R.V. e dal Dott. G.A.C., si insiste per la condanna al risarcimento di tutti i danni in solido con la Casa di Cura S.C. come di seguito si specifica:
  3.  
  4. DEVI CHIAMARE SUBITO ADESSO 051 6447838 PRENDERE APPUNTAMENTO CON L’AVVOCATO SERGIO ARMAROLI CHE HA STUDIO A BOLOGNA ,SOLO INCONTRANDOCI E DISCUTENDO LA TUA POSIZIONE POTREMMO TROVARE LA SOLUZIONE PER IL TUO GRAVE DANNO

     

     

Tribunale di Cremona

Sezione I Civile

Sentenza 9 luglio 2014

N. R.G. 130/2009

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO di CREMONA

PRIMA SEZIONE CIVILE

Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Giulio Borella

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 130/2009 promossa da:

C.N. (C.F.), con il patrocinio dell’avv. T.B.

 

 

ATTORE/I

contro

R.V. (C.F.), con il patrocinio dell’avv. R.G.

 

G.A.C. (C.F.), con il patrocinio dell’avv. B.A.

 

CASA DI CURA S.C. (C.F. ), con il patrocinio dell’avv.

 

CONVENUTO/I

 

CONCLUSIONI

Per parte attrice:

Voglia il Trib. Ill.mo, ogni contraria istanza disattesa e respinta:

1) nel merito e in via principale:

-accertare la responsabilità dei convenuti, condannare in via solidale tra loro per fatto e colpa a loro addebitabile, i Sig.ri R.V., G.A.C. e la Casa di Cura S.C. al risarcimento dei danni tutti, patiti e patiendi dal Sig. N.C., patrimoniali e non patrimoniali, diretti ed indiretti, biologici, morali, alla vita di relazioni, da perdita da chances e qualsiasi altra voce di danno risarcibile, quantificata in non meno di € 1.000.000,00 (unmilione) e/o in quella diversa somma che a parere del procuratore di N.C. si va di seguito a determinare e specificare, disattendendo le conclusioni della C.T.U. Dott.ssa Locatelli che non possono ritenersi convincenti ne condivisibili nella valutazione del 30% quale grado di invalidità permanente attribuito al Sig. N.C. ricomprendendovi anche l’impotentia lamentata dall’attore e le conseguenti ripercussioni psichiche.

Alla luce infatti della documentazione medica esaminata risulta evidente il nesso di causalità fra l’intervento d’asportazione dell’epididimo sinistro e l’infertilità del Sig. N.C. L’asportazione di una parte dell’epididimo sinistro, oltre a ridurre l’area anatomica dove avvengono i fini meccanismi per la maturazione degli spermatozoi, ha molto probabilmente innescato un processo autoimmune che rende vano qualsiasi tentativo di fecondazione (Dott. Pagliara e Dott. Maretti).

Riguardo alla sfera sessuale, la disfunzione erettile è di natura psicologica, come dimostrato dalle relazioni cliniche psichiatriche, psicologiche e sessuologiche in atti (Dott.ssa Bersani, Dott. Lombardi) che evidenziano un elevato danno psicologico e psichiatrico in seguito ai fatti accaduti.

A fronte dei gravissimi danni derivati al Sig. N.C. per fatto e colpa addebitabile al Dott. R.V. e dal Dott. G.A.C., si insiste per la condanna al risarcimento di tutti i danni in solido con la Casa di Cura S.C. come di seguito si specifica:

Danno biologico permanente

Età del danneggiato alla data del sinistro 31 anni

Percentuale di invalidità permanente 50%

Punto base danno non patrimoniale € 9.258,30

Punto base I.T.T. € 96,00

Giorni di invalidità temporanea totale 20

Giorni di invalidità temporanea parziale al 75% 40

Giorni di invalidità temporanea parziale al 50% 120

Danno risarcibile € 393.478,00

Aumento personalizzato (max 25%) € 491.848,00

Invalidità temporanea totale € 1.920,00

Invalidità temporanea parziale al 75% € 2.880,00

Invalidità temporanea parziale al 50% € 5.760,00

Danno biologico temporaneo € 10.560,00

Spese mediche già sostenute dall’anno 2001 all’anno 2013 quali visite e terapie di natura andrologica e chirurgica, consulenze psicologiche e psichiatriche, farmaci del deficit erettile, fecondazione assistita e quant’altro € 1.000.000,00

TOTALE: € 1.404.038,00

Totale con personalizzazione massima € 1.502.408,00

oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dal 26/06/2001 al saldo

Danno morale soggettivo: valutato, tenuto conto che in virtù del complesso menomativo attuale il paziente trovasi oggi a vedere del tutto alterate e sconvolte le proprie dinamiche affettive, sessuali e relazionali, nella misura di € 4.000.000,00

Spese mediche future per ulteriori anni 10 dall’anno 2014, come prima sopra indicate € 1.000.000,00

oltre il danno da mancata informazione e mancata raccolta del consenso riguardo al secondo intervento del 29/08/2001 da liquidarsi in via equitativa;

2) in subordine:

si insiste affinché il Tribunale Voglia rimettere gli atti in istruttoria al fine di conferire nuova C.T.U. ad altro medico legale e/o ammettere i testi per essere sentiti a chiarimenti nelle persone dei medici Dott. M.P., Dott. C.M., Dott. F.L., Dott.ssa N.B., nonché della Sig.ra N.M., quale moglie del Sig. N.C.

Per parte convenuta G.A.C.: dato atto che l’attore ha già percepito ante causam la somma di euro 10.284,00, liquidare il danno attoreo nei limiti del giusto e del provato, respingendo ogni diversa e maggiore pretesa, con compensazione delle spese di lite.

Per parte convenuta R.V.: come da comparsa di costituzione e risposta.

IN FATTO E DIRITTO

Con citazione del gennaio 2009 N.C. conveniva in giudizio il Dr. V.R., il Dr. C.A.G. e la Casa di Cura S.C., onde sentirli condannare al risarcimento in proprio favore di tutti i danni, patrimoniali e non, subiti per effetto di malpractice medica.

Allegava che in data 18.06.2001 si era sottoposto a visita urologica presso il Dott. R.V., il quale aveva accertato la presenza di una cisti dell’epididimo destro, per la cura della quale aveva proposto intervento chirurgico; per l’effetto l’attore si era ricoverato presso la Casa di Cura S.C., ove il 26.06.2001 veniva sottoposto ad intervento, che veniva però sospeso, previa asportazione di una cisti sebacea dell’emiscroto, a causa di complicanze; l’intervento veniva ripreso e portato a compimento il 28.08.2001 e il paziente dimesso il 30.08.2001; tuttavia il predetto, lamentando ancora dolori, si era sottoposto a nuovi accertamenti, all’esito dei quali si era appurato che, nel corso dell’intervento, i sanitari avevano asportato una cisti all’epididimo sinistro, anzichè al destro.

Lamentava quindi, tra l’altro, problematiche di tipo psichico e difficoltà nei rapporti sessuali, impotentia coeundi, oltre all’inutilità dell’intervento subito e alla necessità di risottoporsi ad un ulteriore; il tutto anche sotto il profilo della perdita di chances.

Nelle more i convenuti V. e C. subivano condanna penale ex art. 590 c.p., confermata in appello.

Si costituiva il Dott. V., contestando, sulla scorta della perizia svolta in sede penale, che dall’errore medico potesse essere discesa una impotentia coeundi o generandi, eventualmente riconducibile ad altre cause; contestava comunque la misura del danno.

Analoghe difese spiegava il Dott. C., osservando come, in forza della perizia penale, l’intervento non avesse comportato asportazione o minorazioni anatomo funzionali di strutture testicolari, atte a determinare un qualsiasi danno, a parte quello cicatriziale; precisava dunque, sempre la perizia penale, che l’impotentia coeundi fosse da ricondurre ad una incompleta maturazione testicolare delle linee germinative spermatiche, non correlata però nè alle patologie riscontrate, nè agli interventi medici.

La causa veniva istruita mediante CTU medico legale e integrazione della stessa.

La causa veniva quindi trattenuta in decisione all’udienza del 27.02.2014 e viene dunque oggi decisa come segue.

MOTIVAZIONE

La domanda va accolta nei termini che seguono.

Circa i presupposti della responsabilità medica, ci si è già espressi in altra sentenza, pubblicata e ampiamente (anche se non sempre correttamente) commentata.

Volendo ripetersi, basti qui ribadire (a parte l’irretroattività del Decreto Balduzzi, che comunque non ha mutato il titolo contrattuale della responsabilità, come di recente anche la Cassazione ha statuito) che rimane ferma – in linea di massima – la cornice della responsabilità civile del sanitario, così come negli ultimi anni disegnata dalla giurisprudenza, ancorata, per le operazioni di routine, al mancato raggiungimento del risultato, negli altri casi alla verifica della sussistenza del dolo o della colpa grave.

La giurisprudenza è pervenuta a tale risultato all’esito di un percorso ermeneutico volto a scrutinare la distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato, evidenziando come tale distinzione si fondi sulla dominabilità o meno del risultato stesso, nel senso che, mentre, nel primo caso, esso dipenderebbe da una molteplicità di concause, concorrenti con l’azione del debitore, nel secondo dipenderebbe quasi interamente dall’attività di costui.

Così che si ritiene oggi che nell’attività medica, retta da studi e leggi scientifiche, il risultato sia, se non dominabile, quanto meno governabile, attraverso il rispetto dello standard curativo (linee guida), salve le specificità del caso di specie.

Questo almeno nei c.d. interventi di routine, da intendersi non già come le operazioni di non difficile esecuzione, concetto del tutto indeterminato e arbitrario, bensì come gli interventi attinenti a settori nei quali la scienza medica abbia già enucleato uno standard curativo – o se si preferisce delle linee guida – universalmente accreditato (cfr Cass. 20586/2012, Cass. 5945/2000).

Al contrario, laddove uno standard curativo ancora non esista, vuoi perchè trattasi di malattie nuove, vuoi perchè ancora in fieri il dibattito sull’iter terapeutico più appropriato, si è al di fuori delle c.d. operazioni di routine.

Solo nel primo caso il mancato raggiungimento del risultato fa insorgere una presunzione (semplice) di inadempimento, con la conseguenza che spetta al sanitario fornire la prova liberatoria, ossia che l’insuccesso dell’intervento è dipeso da caso fortuito o forza maggiore, laddove nel caso fortuito ben possono farsi rientrare le complicanze proprie e inevitabili dell’intervento, mentre non vi rientrano le complicanze atipiche e/o improprie, ossia quelle estranee all’intervento o inadeguate o sproporzionate, o note, ma evitabili.

In caso di dubbio, il rischio delle (con)cause ignote rimane a carico del sanitario.

Come si vede un’importanza notevole nella ricostruzione giurisprudenziale ha assunto il concetto di standard curativo, o linee guida, il cui rispetto costituisce il contenuto primario dell’obbligazione del sanitario.

Per linee guida poi devono intendersi, secondo la definizione che ne è stata fornita dall’Insitute of Medicine degli Stati Uniti nel 2011, quei documenti che contengono raccomandazioni finalizzate ad ottimizzare l’assistenza al paziente, fondate su una revisione sistematica delle prove di efficacia e su una valutazione di benefici e danni di opzioni assistenziali alternative.

Per essere valide quindi le linee guida debbono: essere fondate su una revisione sistematica delle prove di efficacia disponibili; essere approntate da un gruppo di esperti multidisciplinare di esperti e rappresentanti dei vari gruppi interessati; prendere in considerazione sottogruppi rilevanti di pazienti; basarsi su un processo esplicito e trasparente, che riduca al minimo le distorsioni, i bias e i conflitti di interesse; fornire una accurata illustrazione delle relazioni logiche tra opzioni assistenziali alternative ed esiti per la salute; essere riconsiderate e aggiornate.

Occorre peraltro precisare che governabilità del risultato non significa che anche l’obbligazione del sanitario sia divenuta di risultato, almeno non pare di poter evincere dalla giurisprudenza di legittimità una tale conclusione.

L’obbligazione del sanitario resta essenzialmente di mezzi, ossia quella di fornire lo standard curativo, adeguato e calato al caso concreto e non acriticamente e meccanicamente eseguito.

Il risultato, ossia la guarigione o il miglioramento delle condizioni del paziente, rimane normalmente fuori dall’obbligazione strictu sensu e, in teoria, governato da causalità naturale (art. 40 c.p.).

Poichè però la sussunzione sotto leggi scientifiche di quel risultato è già verificata a monte (negli interventi di routine s’intende), essendo esso normale conseguenza del rispetto delle linee guida, il creditore/paziente, che normalmente nelle obbligazioni di mezzi deve provare il nesso di causa tra inadempimento e risultato non conseguito, può beneficiare di tale preventiva sussunzione e della presunzione di inadempimento che ne deriva, scaricando sul sanitario l’onere della prova liberatoria.

Ne discende che, in linea di massima, il sanitario, per andare esente da responsabilità, deve dimostrare di aver seguito le linee guida (specifiche per il sottogruppo cui apparteneva il paziente), deve dimostrare che il caso del paziente rientrava tra quelli considerati dalle linee guida (o dal sottogruppo considerato), ovvero, in caso di anomalie o specificità, dimostrare la loro irrilevanza ai fini del trattamento, oppure dimostrare di averne tenuto debitamente conto, adeguando le linee guida al caso di specie.

Laddove tali prove siano fornite e l’intervento non abbia avuto successo, il sanitario andrà esente da colpa; lo stesso dicasi nell’ipotesi in cui si siano verificate delle complicanze proprie, ossia complicanze note alla scienza medica come possibili e tipiche di un determinato intervento, essendovi sempre un certo tasso di insuccessi.

Per contro, laddove non sia fornita la prova liberatoria, potranno imputarsi al sanitario sia l’insuccesso (mancata guarigione), che le complicanze proprie.

Le precisazioni in ordine alla struttura dell’obbligazione sanitaria, soprattutto per quel che concerne il rapporto di causalità (naturale, seppur presunto) che governa il nesso tra inadempimento ed evento di danno (alla salute) è particolarmente rilevante e utile nella specie, per le ragioni che di seguito si esporranno.

Deve innanzitutto dirsi che, nel caso di specie, la situazione appare assai più semplice, almeno sotto il profilo dell’an: il paziente veniva ricoverato per l’asportazione di una cisti al testicolo destro e subiva una resezione della testa e della coda del testicolo sinistro, non chiesta, non programmata e, alla prova dei fatti, per nulla necessaria.

La responsabilità appare dunque evidente, tanto che è già stata dichiarata dai giudici penali e non si ritornerà quindi su questioni che sono già state approfonditamente sviscerate in quella sede.

Il problema attiene al quantum, ai danni liquidabili, in quanto, tra l’altro, il N. lamenta, oltre alla detta resezione indebita di parti del testicolo sinistro (che integra insieme e al contempo l’inadempimento e la lesione primaria del bene salute) impotentia generandi, impotentia coeundi e ripercussioni psichiche, con pregiudizio alla vita di relazione, in particolare sotto il profilo della serenità della vita, anche sessuale, di coppia.

La domanda è, quindi, se dalla indebita resezione di parti del testicolo sinistro possano discendere le conseguenze lamentate dall’attore, in termini di infertilità, impotenza e disturbi psichici.

Ebbene, la Consulente d’Ufficio Dott.ssa Locatelli rileva come l’asportazione di questi tratti del testicolo comporti un impedimento meccanico alla fuoriuscita dello sperma, prodotto dal testicolo omolaterale, con impossibilità del suo passaggio nelle vie spermatiche.

Peraltro, prosegue la CTU, nel valutare l’influenza di tale fattore con la (asseritamente diminuita) capacità fecondante dell’attore, occorre tenere conto di altri fattori di rischio di cui il medesimo era portatore, quali il tabagismo, l’idrocele, processi flogistici delle vie spermatiche e prostatiche, il sovrappeso e l’attività lavorativa di camionista.

Inoltre problematiche di oligospermia si manifestavano solo a partire dal febbraio 2002, associate peraltro a ridotta mobilità e vitalità degli spermatozoi presenti, sicuramente non riconducibili, queste, alla lesione per cui è causa.

Per tali motivi, concludeva, poteva solo dirsi possibile, ma non affermarsi con certezza, che dall’intervento per cui è causa fosse conseguita l’impotentia generandi e, di seguito, l’impotentia coeundi e i disturbi psichici lamentati dall’attore, sicchè si limitava a quantificare il danno biologico temporaneo e, quanto a quello permanente, lo ricollegava agli esiti cicatriziali e alla mera asportazione di parti del testicolo sinistro.

Tale conclusione tuttavia, se accettabile dal punto di vista scientifico, merita un approfondimento dal punto di vista giuridico.

Occorre infatti richiamare quanto sopra detto in merito alla struttura dell’obbligazione del sanitario: trattasi tutt’ora di obbligazione di mezzi, nella quale il risultato (guarigione o miglioramento delle condizioni del paziente) rimane teoricamente fuori dall’obbligazione structu sensu del sanitario e governata dalla causalità naturale, sussunta sotto leggi scientifiche, con la particolarità però che tale sussunzione è ritenuta sussistente a monte, per effetto del rispetto delle linee guida scientificamente approvate, in quanto, come detto, le stesse consentono di governare il risultato stesso.

Il rapporto tra inadempimento (mancato rispetto dello standard curativo, adeguato e calato nel concreto) ed evento di danno (alla salute) rimane però in teoria governato dalla causalità naturale.

Questo è importante nel caso di specie, in quanto potrebbe portare prima facie ad affermare che sulla scorta della causalità naturale dovrebbe essere scrutinato anche il rapporto tra l’errata resezione e l’impotentia generandi e le problematiche ulteriori, ossia tra la lesione primaria del bene salute e le lesioni secondarie e successive.

Rapporto che non potrebbe darsi per presunto, in quanto il paziente non si ricoverava per risolvere problemi di impotenza e infertilità (allega anzi di non averne avuti in precedenza) e, quindi, non vi sarebbe alcun collegamento tra l’attività medica posta in essere, che aveva altre finalità ed era volta a conseguire altri risultati, e la lesione alla salute conseguita, ossia l’infertilità; mancherebbe cioè una legge di copertura, verificata a monte, tra tipo di intervento e risultato da conseguire, sicchè questa dovrebbe essere ricercata.

In realtà occorre domandarsi se la causalità naturale governi i rapporti tra tutti gli eventi di danno che possano essere conseguiti ad una certa condotta, ovvero se essa governi unicamente il rapporto tra condotta e lesione primaria, dovendosi invece il rapporto tra questa e le lesioni secondarie (alla stessa collegate) scrutinare in base ad un criterio di normalità/adeguatezza/regolarità causale, ex art. 1223 c.c. (norma che, ordinariamente, presiede alla selezione dei pregiudizi risarcibili).

Se cioè da una lesione ad un bene della vita conseguono altre lesioni, allo stesso o ad altri beni della vita, il rapporto di derivazione dell’una dall’altra va indagato ex art. 40 c.p. o ex art. 1223 c.c.?

Pare corretta quest’ultima impostazione, quanto meno nel caso in cui alla lesione primaria siano associate lesioni secondarie del medesimo bene della vita, e questo sia costituito dalla salute.

Una volta infatti stabilito un collegamento certo tra una condotta colposa e un evento di danno, ulteriori lesioni possono ritenersi collegate alla prima e, quindi, alla condotta colposa stessa, sulla scorta della loro semplice adeguatezza e ad un criterio di regolarità causale.

Tale conclusione appare vieppiù predicabile con riferimento alla lesione del bene salute, dove non è facile distinguere, se non dal punto di vista logico, evento di danno e pregiudizio risarcibile, in quanto la rottura del tessuto, la perdita di funzionalità di un organo, o gli altri casi in cui può concretizzarsi la lesione della salute integrano già di per se stessi il danno, mentre invalidità permanente/danno biologico sembrano più che altro riferirsi ai concreti risvolti risarcitori e ai criteri di quantificazione, di un pregiudizio però che è certo nel suo esistere nel momento stesso in cui viene leso l’interesse tutelato (salute) e con ciò si realizza l’evento di danno.

Non per niente la difficoltà di distinguere materialmente lesione e pregiudizio, con riferimento al bene salute, aveva in origine portato a parlare di tertium genus e di danno evento.

Così, nella specie, alla resezione indebitamente effettuata del testicolo sinistro conseguiva una oligospermia (attestata a sei mesi di distanza dall’intervento e, quindi, in un lasso temporale tale da far ritenere certo il nesso), la quale come evidenziato dalla stessa CTU nella relazione a pag. 14, e come devesi ritenere conforme a criterio di adeguatezza e regolarità causale, può a sua volta essere causa di infertilità.

D’altro canto dalla CTU è anche emerso che, almeno in parte, a beneficio dei convenuti, depongono i numerosi fattori di rischio, di cui il N. era ed è portatore (tabagismo, peso eccessivo, attività sedentaria di camionista, idrocele, processi flogistici alle vie spermatiche), che pure possono svolgere un ruolo eziologico importante nell’insorgenza dell’infertilità.

Anche considerando tali fattori di rischio tuttavia rimane chiaro che l’oligospermia derivata dalla resezione può benissimo costituire quanto meno una concausa dell’infertilità, come evidenziato dalla CTU a pag. 14, soprattutto nei casi, come quello di specie, nei quali essa porti con sè problematiche di tipo psicologico.

Deve infatti ritenersi conforme a normalità che, negli uomini, all’impotentia generandi possano associarsi disturbi psichici quali rabbia, frustrazione, depressione, con effetti negativi anche sull’impotentia coeundi, la capacità di mantenere l’erezione e di avere rapporti sessuali soddisfacenti.

In effetti il N. non è risultato portatore di vere e proprie patologie psichiche, in particolare da disturbo dell’adattamento ipotizzato dalla Dott.ssa Bersani, di parte attrice, difettando evidenze cliniche in tal senso (non sarebbe del resto soddisfatto il criterio cronologico, il quale prevede che tale disturbo si sviluppi nei tre mesi successivi all’evento).

Sono stati invece riscontrati dall’ausiliario del CTU i tratti sopra descritti di rabbia, frustrazione, depressione e insoddisfazione, tali da integrare comunque una particolare sofferenza soggettiva connessa al trauma e inemendabile per via del tempo trascorso.

Tali disturbi ben possono aver ingenerato il disturbo del desiderio sessuale ipoattivo e il disturbo maschile dell’erezione, che infatti vengono non di rado associati all’infertilità maschile e che a loro volta la aggravano, come evidenziato dalla stessa CTU a pag. 16 della prima relazione e pag. 4 dell’integrazione.

Quid iuris nei casi, come quello di specie, nei quali il nesso di causa non possa essere affermato con certezza, per la presenza di fattori concausali certi, dei quali non è possibile verificare però se operino quali fonti di un decorso eziologico alternativo (tale da escludere la responsabilità), ovvero quali elementi concausali?

Nel diritto civile non esiste una norma, quale l’art. 41 c.p., per la quale il concorso di cause non esclude il rapporto di causalità tra condotta ed evento.

Non è possibile cioè, a fronte di una mera concausalità, imputare completamente un certo evento al soggetto che ha posto in essere la condotta colposa, in quanto nel diritto civile il problema è quello del risarcimento dei danni e, sotto tale profilo, ben può tenersi conto dell’effettivo apporto causale dato da un soggetto alla produzione di una certa lesione (problema che in diritto penale si pone in termini diversi, nel senso che la responsabilità può essere affermata sulla scorta anche della mera concausalità, mentre dell’effettivo apporto fornito dal reo alla produzione dell’evento si può tenere conto nella commisurazione della pena).

Per ritagliare adeguatamente queste fattispecie, nelle quali, a fronte di un patente errore medico, non sia tuttavia certo il collegamento causale tra esso e il peggioramento delle condizioni di salute del paziente, per via della sicura identificazione di ulteriori possibili (con)cause e l’impossibilità di verificare se esse si collochino nell’area della causalità alternativa o concorrente, la giurisprudenza di legittimità ha disegnato la figura del danno da perdita di chances (cfr Cass. 4400/2004).

Quando sia stata cioè pregiudicata la possibilità stessa di conseguire un determinato risultato utile, che però non è certo sarebbe stato raggiunto, tale possibilità assurge comunque ad autonomo bene della vita, in sè e per sè enucleabile, la cui compromissione integra un’autonoma fattispecie di danno emergente, che merita di essere risarcita.

Il risarcimento potrà poi essere commisurato, anche se non identificato, nella perdita dei vantaggi sperati e non conseguiti, in ragione del grado di probabilità di conseguirli (cfr Cass. 852/2006).

Nella specie dunque è certo che l’infertilità del N. possa essere correlata a diversi fattori, ma tra essi può certamente annoverarsi anche l’oligospermia provocata dalla resezione impropriamente effettuata, nonchè l’associazione a problematiche di tipo psicologico normalmente associate alla sfera sessuale e puntualmente riscontrate (anche se con esclusione del più grave disturbo dell’adattamento) in sede di CTU.

Ne discende una perdita di chances che, ad avviso di questo giudice, può stimarsi nel 30%.

Per effetto di tutto quanto sopra esposto, il danno biologico permanente sicuramente ricollegabile all’errore medico è pari all’8%, e corrisponde agli esiti cicatriziali e alla lesione alla testa e alla coda del testicolo sinistro.

La differenza, del 22%, va invece liquidata sotto forma di danno da perdita di chances, nell’anzidetta misura del 30%.

Più in particolare il danno può essere liquidato come segue:

IP 8% età 31 euro 16.048,00

ITT 2 gg euro 192,00

ITP 10 gg al 50% euro 480,00

Tale parte di danno, essendo conseguenza certa dell’errore medico, va liquidata nella sua interezza.

Essa va inoltre liquidata in base alla tabelle di Milano e non alle tabelle per la liquidazione delle lesioni c.d. micropermanenti, in quanto è vero che si parla di una I.P. dell’8%, ma quale componente di un danno più consistente, della misura complessiva del 30%.

A tali importi debbono essere aggiunti quelli conseguenti alla perdita di chances:

IP 22% età 31 euro 87.135,00

Si ritiene peraltro che il danno biologico structu sensu meriti di essere adeguatamente personalizzato.

Sono state infatti evidenziate le problematiche di tipo psicologico che affliggono il N., che coinvolgono pesantemente la sua sfera sessuale (o meglio, la lesione sessuale e la possibile infecondità han cagionato le ripercussioni psicologiche, che a loro volta alimentano ulteriormente le difficoltà nella vita sessuale e, così, l’infertilità, in un circolo vizioso che continua ad autoalimentarsi).

Inutile rilevare che tali problematiche hanno per certo avuto una pesante ricaduta nella serenità e nel concreto sviluppo della vita di coppia dell’attore, compromessa da una non serena e non appagante vita sessuale.

La lesione della serenità familiare costituisce lesione di un bene primario a rilevanza costituzionale, tutelato dagli artt. 2 e 29 della costituzione, così che il relativo evento di danno, se conseguenza della lesione del bene salute, può essere liquidato mediante un adeguamento del valore del punto.

Deve ritenersi poi conforme a comune esperienza e normalità che una coppia desideri avere dei figli, sicchè anche la compromissione di questa possibilità, sempre ovviamente nei termini di perdita di chances sopra descritti, va adeguatamente considerata ai fini del risarcimento.

Per l’effetto si ritiene che possa essere accordata la personalizzazione massima consentita dalle tabelle milanesi, ossia il 37%, così che il danno sale ad euro 119.375,00.

Questa parte di danno, per i motivi già esposti, va liquidata nella misura del 30%, pari alla concreta perdita di chances che si ritiene di riconoscere all’attore, per un importo dunque di euro 35.812,00.

Che sommati ad euro 16.048,00, ad euro 192,00 e ad euro 480,00, danno un totale di euro 52.532,00.

Dai quali va dedotto quanto già percepito dall’attore in seguito alla sentenza penale, ossia euro 10.284,00, per un risarcimento residuo di euro 42.248,00.

Il tutto con interessi dall’evento al saldo.

Al risarcimento di tale somma vanno condannati, in via solidale, tutte le parti convenute.

Il Dott. V. perchè, quale capo equipe, non poteva limitarsi a recepire le risultanze della cartella clinica del paziente o a fidarsi degli accertamenti clinico strumentali effettuati dai suoi collaboratori, ma aveva l’onere di effettuare le opportune verifiche e, comunque, non poteva non accorgersi del macroscopico errore nel quale si stava imbattendo (cfr pag. 13 sentenza penale).

Il Dott. C. poi era nello specifico il soggetto incaricato dell’anamnesi, dell’esame obiettivo, della redazione della cartella clinica e della procedura destinata ad ottenere il consenso informato (a pag. 13 della sentenza penale emerge anzi come il convenuto sia stato colui che, concretamente, in sala operatoria diede le indicazioni per operare il testicolo sinistro).

Quanto alla Casa di Cura, nemmeno costituitasi, deve rispondere ex art. 2049 c.c. dell’operato dei propri dipendenti.

L’accertamento dei gradi di responsabilità non è stato fatto oggetto di specifica domanda e, perciò, verrà trattato in una eventuale successiva instauranda azione di regresso tra i vari condebitori in solido.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

A carico dei convenuti anche le spese di CTU.

P.Q.M.

Il Tribunale di Cremona, ogni diversa istanza, eccezione e conclusione disattesi, condanna i convenuti tutti, in solido tra loro, ciascuno per il suo titolo come da motivazione, al risarcimento in favore dell’attore della somma di euro 42.248,00, oltre interessi dall’evento al saldo.

Condanna pure i convenuti, in solido tra loro, alla rifusione in favor edell’attore delle spese di lite, che si liquidano in complessivi euro 7.254,00, oltre accessori di legge e oltre euro 348,00 per spese esenti.

Pone definitivamente a carico di parti convenute, in solido, le spese di CTU.

Cremona, 9 luglio 2014.

Il Giudice
dott. Giulio Borella

 

  1. 41COLPA MEDICA NESSO CAUSALE

 

  1. E’ stata sottoposta all’esame delle Sezioni Unite la controversa questione se “in tema di reato colposo omissivo improprio, la sussistenza del nesso di causalità fra condotta omissiva ed evento, con particolare riguardo alla materia della responsabilità professionale del medicochirurgo, debba essere ricondotta all’accertamento che con il comportamento dovuto ed omesso l’evento sarebbe stato impedito con elevato grado di probabilità ‘vicino alla certezza’, e cioè in una percentuale di casi ‘quasi prossima a cento’, ovvero siano sufficienti, a tal fine, soltanto ‘serie ed apprezzabili probabilità di successo’ della condotta che avrebbe potuto impedire l’evento”.

 

 

 

 

  1. Sul tema si sono delineati due indirizzi interpretativi all’interno della Quarta Sezione della Corte di Cassazione: al primo orientamento, tradizionale e maggioritario (ex plurimis, Sez. IV, 7.1.1983, Melis, rv. 158947; 2.4.1987, Ziliotto, rv. 176402; 7.3.1989, Prinzivalli, rv. 181334; 23.1.1990, Pasolini, rv. 184561; 13.6.1990, D’Erme, rv. 185106; 18.10.1990, Oria, rv. 185858; 12.7.1991, Silvestri, rv. 188921; 23.3.1993, De Donato, rv. 195169; 30.4.1993, De Giovanni, rv. 195482; 11.11.1994, Presta, rv. 201554), che ritiene sufficienti ‘serie ed apprezzabili probabilità di successo’ per l’azione impeditiva dell’evento, anche se limitate e con ridotti coefficienti di probabilità, talora indicati in misura addirittura inferiore al 50%, si contrappone l’altro, più recente, per il quale é richiesta la prova che il comportamento alternativo dell’agente avrebbe impedito l’evento lesivo con un elevato grado di probabilità ‘prossimo alla certezza’, e cioè in una percentuale di casi ‘quasi prossima a cento’ (Sez. IV, 28.9.2000, Baltrocchi, rv. 218777; 29.9.2000, Musto; 25.9.2001, Covili, rv. 220953; 25.9.2001, Sgarbi, rv. 220982; 28.11.2000, Di Cintio, rv. 218727).

 

 

 

 

  1. Ritiene il Collegio che, per pervenire ad una soluzione equilibrata del quesito, sia necessario procedere, in via prioritaria, ad una ricognizione dello statuto della causalità penalmente rilevante, con particolare riguardo alla categoria dei reati omissivi impropri ed allo specifico settore dell’attività medico-chirurgica.

 

 

 

 

  1. Nell’ambito della scienza giuridica penalistica può dirsi assolutamente dominante l’interpretazione che, nella lettura degli artt. 40 e 41 del codice penale sul rapporto di causalità e sul concorso di cause, fa leva sulla ‘teoria condizionalistica’ o della ‘equivalenza delle cause’ (temperata, ma in realtà ribadita mediante il riferimento, speculare e in negativo, alla ‘causalità umana’ quanto alle serie causali sopravvenute, autonome e indipendenti, da sole sufficienti a determinare l’evento: art. 41 comma 2).

 

 

 

 

  1. E’ dunque causa penalmente rilevante (ma il principio stabilito dal codice penale si applica anche nel distinto settore della responsabilità civile, a differenza. di quanto avviene per il diritto anglosassone e nordamericano) la condotta umana, attiva o omissiva che si pone come condizione ‘necessaria’ – conditio sine qua non – nella catena degli antecedenti che hanno concorso a produrre il risultato, senza la quale l’evento da cui dipende l’esistenza del reato non si sarebbe verificato. La verifica della causalità postula il ricorso al ‘giudizio controfattuale’, articolato sul condizionale congiuntivo ‘se … allora …’ (nella forma di un periodo ipotetico dell’irrealtà, in cui il fatto enunciato nella protasi è contrario ad un fatto conosciuto come vero) e costruito secondo la tradizionale ‘doppia formula’, nel senso che: a) la condotta umana `è’ condizione necessaria dell’evento se, eliminata mentalmente dal novero dei fatti realmente accaduti, l’evento non si sarebbe verificato; b) la condotta umana ‘non è’ condizione necessaria dell’evento se, eliminata mentalmente mediante il medesimo procedimento, l’evento si sarebbe egualmente verificato.

 

 

 

 

 

  1. Ma, ferma restando la struttura ipotetica della spiegazione causale, secondo il paradigma condizionalistico e lo strumento logico dell’astrazione contro il fatto, sia in dottrina che nelle più lucide e argomentate sentenze della giurisprudenza di legittimità, pronunciate in riferimento a fattispecie di notevole complessità per la pluralità e l’incertezza delle ipotesi esplicative dell’evento lesivo (Sez. IV, 24.6.1986, Ponte, rv. 174511-512; Sez. N, 6.12.1990, Bonetti, rv. 191788; Sez. IV, 31.10.1991, Rezza, rv. 191810; Sez. IV, 27.5.1993, Rech, rv. 196425; Sez. IV, 26.1.1998, P.G. in proc. Viviani, rv. 211847), si è osservato che, in tanto può affermarsi che, operata l’eliminazione mentale dell’antecedente costituito dalla condotta umana, il risultato non si sarebbe o si sarebbe comunque prodotto, in quanto si sappia, ‘già da prima’, che da una determinata condotta scaturisca, o non, un determinato evento.

 

 

 

 

 

  1. E la spiegazione causale dell’evento verificatosi hic et nunc, nella sua unicità ed irripetibilità, può essere dettata dall’esperienza tratta da attendibili risultati di generalizzazione del senso comune, ovvero facendo ricorso (non alla ricerca caso per caso, alimentata da opinabili certezze o da arbitrarie intuizioni individuali, bensì) al modello generalizzante della sussunzione del singolo evento, opportunamente ri-descritto nelle sue modalità tipiche e ripetibili, sotto ‘leggi scientifiche’ esplicative dei fenomeni. Di talché, un antecedente può essere configurato come condizione necessaria solo se esso rientri nel novero di quelli che, sulla base di una successione regolare conforme ad una generalizzata regola di esperienza o ad una legge dotata di validità scientifica – ‘legge di copertura’ -, frutto della migliore scienza ed esperienza del momento storico, conducano ad eventi ‘del tipo’ di quello verificatosi in concreto.

 

 

 

 

  1. Il sapere scientifico accessibile al giudice è costituito, a sua volta, sia da leggi `universali’ (invero assai rare), che asseriscono nella successione di determinati eventi invariabili regolarità senza eccezioni, sia da leggi `statistiche’ che si limitano ad affermare che il verificarsi di un evento è accompagnato dal verificarsi di un altro evento in una certa percentuale di casi e con una frequenza relativa, con la conseguenza che quest’ultime (ampiamente diffuse nei settori delle scienze naturali, quali la biologia, la medicina e la chimica) sono tanto più dotate di ‘alto grado di credibilità razionale’ o ‘probabilità logica’, quanto più trovano applicazione in un numero sufficientemente elevato di casi e ricevono conferma mediante il ricorso a metodi di prova razionali ed empiricamente controllabili.

 

 

 

 

  1. Si avverte infine che, per accertare l’esistenza della condizione necessaria secondo il modello della sussunzione sotto leggi scientifiche, il giudice, dopo avere ri-descritto il singolo evento nelle modalità tipiche e ripetibili dell’accadimento lesivo, deve necessariamente ricorrere ad una serie di ‘assunzioni tacite’ e presupporre come presenti determinate ‘condizioni iniziali’, non conosciute o soltanto congetturate, sulla base delle quali, ‘ceteris paribus’, mantiene validità l’impiego della legge stessa.

 

 

 

 

  1. La definizione di causa penalmente rilevante ha trovato coerenti conferme anche nelle più recenti acquisizioni giurisprudenziali (Sez. fer., 1.9.1998, Casaccio, rv. 211526; Sez. IV, 28.9.2000, Baltrocchi, cit.; 29.9.2000, Musto, cit.; 25.9.2001, Covili, cit.; 25.9.2001, Sgarbi, cit.; 20.11.2001, Turco; 28.11.2000, Di Cintio, cit.; 8.1.2002, Trunfio; 23.1.2002, Orlando), le quali, nel recepire l’enunciata struttura logica della spiegazione causale, ne hanno efficacemente valorizzato la natura di elemento costitutivo della fattispecie di reato e la funzione di criterio di imputazione dell’evento lesivo. Dello schema condizionalistico integrato dal criterio di sussunzione sotto leggi scientifiche sono state sottolineate, da un lato, la portata tipizzante, in ossequio alle garanzie costituzionali di legalità e tassatività delle fonti di responsabilità penale e di personalità della stessa (Cost., artt. 25, comma 2 e 27, comma 1), e dall’altro, nell’ambito delle fattispecie causalmente orientate, la funzione selettiva delle condotte rilevanti e per ciò delimitativa dell’area dell’illecito penale.

 

 

 

 

 

  1. In questo senso, nonostante i limiti epistemologici dello statuto della causalità nel rapporto fra eventi svelati dalla fisica contemporanea e le critiche di avversa dottrina, la persistente fedeltà della prevalente scienza giuridica penalistica al classico paradigma condizionalistico (v. lo Schema Pagliaro del 1992 di delega per un nuovo codice penale, sub art. 10, ma soprattutto l’articolata elaborazione del Progetto Grosso del 2001 di riforma della parte generale del codice penale, sub artt. 13 e 14) non solo appare coerente con l’assetto normativo dell’ordinamento positivo, ma rappresenta altresì un momento irrinunciabile di garanzia per l’individuazione della responsabilità nelle fattispecie orientate verso la produzione di un evento lesivo.

 

 

 

 

  1. Il ricorso a generalizzazioni scientificamente valide consente infatti di ancorare il giudizio controfattuale, altrimenti insidiato da ampi margini di discrezionalità e di indeterminatezza, a parametri oggettivi in grado di esprimere effettive potenzialità esplicative della condizione necessaria, anche per i più complessi sviluppi causali dei fenomeni naturali, fisici, chimici o biologici.

 

 

 

 

  1. E non è privo di significato che dalla quasi generalità dei sistemi giuridici penali europei (‘conditio sine qua non’) e dei paesi anglosassoni (‘causa but for’) siano condivise le ragioni di determinatezza e legalità delle fattispecie di reato che il modello condizionalistico della spiegazione dell’evento garantisce, in considerazione della funzione ascrittiva dell’imputazione causale.

 

 

 

 

  1. Nel prendere atto che nel caso in esame si verte in una fattispecie di causalità (prevalentemente) omissiva attinente all’attività medico-chirurgica, è da porre in evidenza innanzi tutto l’essenza normativa del concetto di `omissione’, che postula una relazione con un modello alternativo di comportamento attivo, specifico e imposto dall’ordinamento.

 

 

 

 

  1. Il ‘reato omissivo improprio’ o ‘commissivo mediante omissione’, che è realizzato da chi viola gli speciali doveri collegati alla posizione di garanzia non impedendo il verificarsi dell’evento, presenta una spiccata autonomia dogmatica, scaturendo esso dall’innesto della clausola generale di equivalenza causale stabilita dall’art. 40, comma 2, cod. pen. sulle disposizioni di parte speciale che prevedono le ipotesi-base di reato commissivo orientate verso la produzione di un evento lesivo, suscettive così di essere convertite in corrispondenti ipotesi omissive: autonomia che, per l’effetto estensivo dell’area della punibilità, pone indubbi problemi di legalità e determinatezza della fattispecie criminosa.

 

 

 

 

  1. Ma la presenza nei reati omissivi impropri, accanto all’equivalente normativo della causalità, di un ulteriore, forte, nucleo normativo, relativo sia alla posizione di garanzia che agli specifici doveri di diligenza, la cui inosservanza fonda la colpa dell’agente, tende ad agevolare una prevaricazione di questi elementi rispetto all’ordinaria sequenza che deve muovere dalla spiegazione del nesso eziologico.

 

 

 

 

  1. Di talché, con particolare riferimento ai settori delle attività medico-chirurgiche, delle malattie professionali, delle alterazioni ambientali e del danno da prodotto, dall’erosione del paradigma causale nell’omissione, asseritamente motivata con l’incertezza costitutiva e con i profili altamente ipotetici della condizionalità, a fronte della pluralità e inconoscibilità dei fattori interagenti, trae alimento la teoria della ‘imputazione oggettiva dell’evento’. Questa é caratterizzata dal riferimento alla sufficiente efficacia esplicativa del fenomeno offerta dalla mera ‘possibilità’ o anche da inadeguati coefficienti di probabilità salvifica del comportamento doveroso, espressa in termini di ‘aumento – o mancata diminuzione – del rischio’ di lesione del bene protetto o di diminuzione delle chances di salvezza del medesimo bene (vita, incolumità fisica, salute, ambiente), di cui si esalta lo spessore primario e rilevante. Pure in assenza, cioè, dell’accertamento rigoroso che, qualora si fosse tenuta da parte dell’agente la condotta doverosa e diligente (ad esempio, in materia di responsabilità medica: diagnosi corretta, terapia adeguata e intervento tempestivo), il singolo evento di danno non si sarebbe verificato o si sarebbe comunque verificato, ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva.

 

 

 

 

  1. Orbene, la più recente e citata giurisprudenza di legittimità ha reagito a questa riduttiva lettura della causalità omissiva ed ha segnato una netta evoluzione interpretativa – che le Sezioni Unite condividono -, soprattutto nel settore dell’attività medico-chirurgica (Sez. fer., Casaccio; Sez. IV, Baltrocchi, Musto, Di Cintio, Turco, Trunfio, Orlando), delle malattie professionali (Sez. IV, Covili) e degli infortuni sul lavoro (Sez. IV, Sgarbi), convenendo che anche per i reati omissivi impropri resta valido il descritto paradigma unitario di imputazione dell’evento.

 

 

 

 

  1. Pur dandosi atto della peculiarità concettuale dell’omissione (è tuttora controversa la natura reale o meramente normativa dell’efficienza condizionante di un fattore statico negli sviluppi della catena causale), si osserva che lo statuto logico del rapporto di causalità rimane sempre quello del ‘condizionale controfattuale’, la cui formula dovrà rispondere al quesito se, mentalmente eliminato il mancato compimento dell’azione doverosa e sostituito alla componente statica un ipotetico processo dinamico corrispondente al comportamento doveroso, supposto come realizzato, il singolo evento lesivo, hic et nunc verificatosi, sarebbe, o non, venuto meno, mediante un enunciato esplicativo `coperto’ dal sapere scientifico del tempo.

 

 

 

 

  1. Considerato che anche la spiegazione della causalità attiva ricorre a controfattuali ipotetici, il citato indirizzo interpretativo ha dunque ridimensionato la tesi per la quale la verifica giudiziale della condizionalità necessaria dell’omissione pretenderebbe un grado di `certezza’ meno rigoroso rispetto ai comuni canoni richiesti per la condotta propria dei reati commissivi, osservando anzi che l’affievolimento della nozione di causa penalmente rilevante finisce per l’accentuare nei reati omissivi impropri, pur positivamente costruiti in riferimento a ipotesi-base di reati di danno, il disvalore della condotta, rispetto alla quale l’evento degrada a mera condizione obiettiva di punibilità e il reato di danno a reato di pericolo. Con grave violazione dei principi di legalità, tassatività e tipicità della fattispecie criminosa e della garanzia di responsabilità personale (Cost., art. 25, comma 2 e 27, comma 1), per essere attribuito all’agente come fatto proprio un evento `forse’, non `certamente’, cagionato dal suo comportamento.

 

 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

 

SEZIONI UNITE PENALI

 

Sentenza 10 luglio 2002 – 11 settembre 2002 n. 30328

(Presidente N. Marvulli – Relatore G. Canzio)

 

Ritenuto in fatto

1.- Il Pretore di Napoli con sentenza del 28.4.1999 dichiarava il dott. S. F. colpevole del reato di omicidio colposo (per avere, in qualità di responsabile della XVI divisione di chirurgia dell’ospedale (omissis) – dove era stato ricoverato dal 9 al 17 aprile 1993 P. C., dopo avere subito il 5 aprile un intervento chirurgico d’urgenza per perforazione ileale -, determinato l’insorgere di una sepsi addominale da ‘clostridium septicum’ che cagionava il 22 aprile la morte del paziente) e, con le attenuanti generiche, lo condannava alla pena di mesi otto di reclusione, oltre il risarcimento del danno a favore della parte civile da liquidarsi in separato giudizio, alla quale assegnava a titolo di provvisionale la somma di lire 70.000.000.

 

Il giudice di primo grado, all’esito di un’attenta ricostruzione della storia clinica del C., riteneva fondata l’ipotesi accusatoria, secondo cui l’imputato non aveva compiuto durante il periodo di ricovero del paziente una corretta diagnosi né praticato appropriate cure, omettendo per negligenza e imperizia di valutare i risultati degli esami ematologici, che avevano evidenziato una marcata neutropenia ed un grave stato di immunodeficienza, e di curare l’allarmante granulocitopenia con terapie mirate alla copertura degli anaerobi a livello intestinale, autorizzando anzi l’ingiustificata dimissione del paziente giudicato ‘in via di guarigione chirurgica’. Diagnosi e cura che, se doverosamente realizzate, sarebbero invece state, secondo i consulenti medico-legali e gli autorevoli pareri della letteratura scientifica in materia, idonee ad evitare la progressiva evoluzione della patologia infettiva letale ‘con alto grado di probabilità logica o credibilità razionale’.

 

La Corte di appello di Napoli con sentenza del 14.6.2000 confermava quella di primo grado, ribadendo che il dott. F., in base ai dati scientifici acquisiti, si era reso responsabile di omissioni che “… sicuramente contribuirono a portare a morte il C. …”, sottolineando che “… se si fosse indagato sulle cause della neutropenia e provveduto a prescrivere adeguata terapia per far risalire i valori dei neutrofili, le probabilità di sopravvivenza del C. sarebbero certamente aumentate …” ed aggiungendo che era comunque addebitabile allo stesso la decisione di dimettere un paziente che “… per le sue condizioni versava invece in quel momento in una situazione di notevole pericolo …”.

 

2.- Avverso tale decisione hanno proposto ricorso per Cassazione i difensori dell’imputato deducendo:

 

– violazione di legge, in relazione agli artt. 135, 137, 138 e 142 c.p.p., per asserita nullità di alcuni verbali stenotipici di udienza privi di sottoscrizione del pubblico ufficiale che li aveva redatti;

 

– violazione di legge, in relazione agli arti 192, 546, 530 c.p.p. e 40, 41, 589 c.p., e manifesta illogicità della motivazione quanto all’affermazione di responsabilità, poiché non erano state dimostrate la direzione del reparto ospedaliero e la posizione di garante in capo all’imputato, né, in particolare, l’effettiva causalità delle addebitate omissioni di diagnosi e cura e della disposta dimissione del paziente rispetto alla morte di quest’ultimo, in difetto di reali complicanze del decorso post-operatorio e in assenza di dati precisi sulla patologia di base della perforazione dell’ileo e sull’insorgere della sindrome infettiva da clostridium septicum , rilevandosi altresì che, per il mancato esperimento dell’esame autoptico, non era certo né altamente probabile, alla stregua di criteri scientifici o statistici, che gli ipotetici interventi medici, asseritamente omessi, sarebbero stati idonei ad impedire lo sviluppo dell’infezione letale e ad assicurare la sopravvivenza del C.,

 

– violazione degli artt. 546 e 603 c.p.p. e mancanza di motivazione in ordine alla richiesta difensiva di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale mediante perizia medico-legale sul nesso di causalità;

 

– violazione degli artt. 546 c.p.p. e 133 c.p. per omesso esame del motivo di appello relativo alla richiesta riduzione della pena.

 

Con successiva memoria difensiva il ricorrente ha dedotto altresì la sopravvenuta estinzione del reato per prescrizione.

 

3.- La Quarta Sezione della Corte di Cassazione, con ordinanza del 7.2.-16.4.2002, premesso che, nonostante l’intervenuta estinzione del reato per prescrizione, permaneva l’attualità della decisione sul ricorso, agli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza di condanna concernenti gli interessi civili, rimetteva il ricorso alle Sezioni Unite sul rilievo dell’esistenza di un ormai radicale contrasto interpretativo, formatosi all’interno della stessa Sezione, in ordine alla ricostruzione del nesso causale tra condotta omissiva ed evento, con particolare riguardo alla materia della responsabilità professionale del medico-chirurgo. Al più recente orientamento, secondo il quale é richiesta la prova che un diverso comportamento dell’agente avrebbe impedito l’evento con un elevato grado di probabilità ‘prossimo alla certezza’, e cioè in una percentuale di casi ‘quasi prossima a cento’, si contrappone l’indirizzo maggioritario, che ritiene sufficienti ‘serie ed apprezzabili probabilità di successo’ per l’impedimento dell’evento.

 

Il Primo Presidente con decreto del 26.4.2002 ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite fissando per la trattazione l’odierna udienza pubblica.

 

Considerato in diritto

 

1.- Il problema centrale del processo, sollevato sia dal ricorrente che dalla Sezione remittente, ha per oggetto l’esistenza del rapporto causale fra la condotta (prevalentemente omissiva) addebitata all’imputato e l’evento morte del paziente e, di conseguenza, la correttezza logico-giuridica della soluzione ad esso data dai giudici di merito.

 

E’ stata sottoposta all’esame delle Sezioni Unite la controversa questione se “in tema di reato colposo omissivo improprio, la sussistenza del nesso di causalità fra condotta omissiva ed evento, con particolare riguardo alla materia della responsabilità professionale del medicochirurgo, debba essere ricondotta all’accertamento che con il comportamento dovuto ed omesso l’evento sarebbe stato impedito con elevato grado di probabilità ‘vicino alla certezza’, e cioè in una percentuale di casi ‘quasi prossima a cento’, ovvero siano sufficienti, a tal fine, soltanto ‘serie ed apprezzabili probabilità di successo’ della condotta che avrebbe potuto impedire l’evento”.

 

Sul tema si sono delineati due indirizzi interpretativi all’interno della Quarta Sezione della Corte di Cassazione: al primo orientamento, tradizionale e maggioritario (ex plurimis, Sez. IV, 7.1.1983, Melis, rv. 158947; 2.4.1987, Ziliotto, rv. 176402; 7.3.1989, Prinzivalli, rv. 181334; 23.1.1990, Pasolini, rv. 184561; 13.6.1990, D’Erme, rv. 185106; 18.10.1990, Oria, rv. 185858; 12.7.1991, Silvestri, rv. 188921; 23.3.1993, De Donato, rv. 195169; 30.4.1993, De Giovanni, rv. 195482; 11.11.1994, Presta, rv. 201554), che ritiene sufficienti ‘serie ed apprezzabili probabilità di successo’ per l’azione impeditiva dell’evento, anche se limitate e con ridotti coefficienti di probabilità, talora indicati in misura addirittura inferiore al 50%, si contrappone l’altro, più recente, per il quale é richiesta la prova che il comportamento alternativo dell’agente avrebbe impedito l’evento lesivo con un elevato grado di probabilità ‘prossimo alla certezza’, e cioè in una percentuale di casi ‘quasi prossima a cento’ (Sez. IV, 28.9.2000, Baltrocchi, rv. 218777; 29.9.2000, Musto; 25.9.2001, Covili, rv. 220953; 25.9.2001, Sgarbi, rv. 220982; 28.11.2000, Di Cintio, rv. 218727).

 

Ritiene il Collegio che, per pervenire ad una soluzione equilibrata del quesito, sia necessario procedere, in via prioritaria, ad una ricognizione dello statuto della causalità penalmente rilevante, con particolare riguardo alla categoria dei reati omissivi impropri ed allo specifico settore dell’attività medico-chirurgica.

 

2.- Nell’ambito della scienza giuridica penalistica può dirsi assolutamente dominante l’interpretazione che, nella lettura degli artt. 40 e 41 del codice penale sul rapporto di causalità e sul concorso di cause, fa leva sulla ‘teoria condizionalistica’ o della ‘equivalenza delle cause’ (temperata, ma in realtà ribadita mediante il riferimento, speculare e in negativo, alla ‘causalità umana’ quanto alle serie causali sopravvenute, autonome e indipendenti, da sole sufficienti a determinare l’evento: art. 41 comma 2).

 

E’ dunque causa penalmente rilevante (ma il principio stabilito dal codice penale si applica anche nel distinto settore della responsabilità civile, a differenza. di quanto avviene per il diritto anglosassone e nordamericano) la condotta umana, attiva o omissiva che si pone come condizione ‘necessaria’ – conditio sine qua non – nella catena degli antecedenti che hanno concorso a produrre il risultato, senza la quale l’evento da cui dipende l’esistenza del reato non si sarebbe verificato. La verifica della causalità postula il ricorso al ‘giudizio controfattuale’, articolato sul condizionale congiuntivo ‘se … allora …’ (nella forma di un periodo ipotetico dell’irrealtà, in cui il fatto enunciato nella protasi è contrario ad un fatto conosciuto come vero) e costruito secondo la tradizionale ‘doppia formula’, nel senso che: a) la condotta umana `è’ condizione necessaria dell’evento se, eliminata mentalmente dal novero dei fatti realmente accaduti, l’evento non si sarebbe verificato; b) la condotta umana ‘non è’ condizione necessaria dell’evento se, eliminata mentalmente mediante il medesimo procedimento, l’evento si sarebbe egualmente verificato.

 

Ma, ferma restando la struttura ipotetica della spiegazione causale, secondo il paradigma condizionalistico e lo strumento logico dell’astrazione contro il fatto, sia in dottrina che nelle più lucide e argomentate sentenze della giurisprudenza di legittimità, pronunciate in riferimento a fattispecie di notevole complessità per la pluralità e l’incertezza delle ipotesi esplicative dell’evento lesivo (Sez. IV, 24.6.1986, Ponte, rv. 174511-512; Sez. N, 6.12.1990, Bonetti, rv. 191788; Sez. IV, 31.10.1991, Rezza, rv. 191810; Sez. IV, 27.5.1993, Rech, rv. 196425; Sez. IV, 26.1.1998, P.G. in proc. Viviani, rv. 211847), si è osservato che, in tanto può affermarsi che, operata l’eliminazione mentale dell’antecedente costituito dalla condotta umana, il risultato non si sarebbe o si sarebbe comunque prodotto, in quanto si sappia, ‘già da prima’, che da una determinata condotta scaturisca, o non, un determinato evento.

 

E la spiegazione causale dell’evento verificatosi hic et nunc, nella sua unicità ed irripetibilità, può essere dettata dall’esperienza tratta da attendibili risultati di generalizzazione del senso comune, ovvero facendo ricorso (non alla ricerca caso per caso, alimentata da opinabili certezze o da arbitrarie intuizioni individuali, bensì) al modello generalizzante della sussunzione del singolo evento, opportunamente ri-descritto nelle sue modalità tipiche e ripetibili, sotto ‘leggi scientifiche’ esplicative dei fenomeni. Di talché, un antecedente può essere configurato come condizione necessaria solo se esso rientri nel novero di quelli che, sulla base di una successione regolare conforme ad una generalizzata regola di esperienza o ad una legge dotata di validità scientifica – ‘legge di copertura’ -, frutto della migliore scienza ed esperienza del momento storico, conducano ad eventi ‘del tipo’ di quello verificatosi in concreto.

 

Il sapere scientifico accessibile al giudice è costituito, a sua volta, sia da leggi `universali’ (invero assai rare), che asseriscono nella successione di determinati eventi invariabili regolarità senza eccezioni, sia da leggi `statistiche’ che si limitano ad affermare che il verificarsi di un evento è accompagnato dal verificarsi di un altro evento in una certa percentuale di casi e con una frequenza relativa, con la conseguenza che quest’ultime (ampiamente diffuse nei settori delle scienze naturali, quali la biologia, la medicina e la chimica) sono tanto più dotate di ‘alto grado di credibilità razionale’ o ‘probabilità logica’, quanto più trovano applicazione in un numero sufficientemente elevato di casi e ricevono conferma mediante il ricorso a metodi di prova razionali ed empiricamente controllabili.

 

Si avverte infine che, per accertare l’esistenza della condizione necessaria secondo il modello della sussunzione sotto leggi scientifiche, il giudice, dopo avere ri-descritto il singolo evento nelle modalità tipiche e ripetibili dell’accadimento lesivo, deve necessariamente ricorrere ad una serie di ‘assunzioni tacite’ e presupporre come presenti determinate ‘condizioni iniziali’, non conosciute o soltanto congetturate, sulla base delle quali, ‘ceteris paribus’, mantiene validità l’impiego della legge stessa.

 

3.- La definizione di causa penalmente rilevante ha trovato coerenti conferme anche nelle più recenti acquisizioni giurisprudenziali (Sez. fer., 1.9.1998, Casaccio, rv. 211526; Sez. IV, 28.9.2000, Baltrocchi, cit.; 29.9.2000, Musto, cit.; 25.9.2001, Covili, cit.; 25.9.2001, Sgarbi, cit.; 20.11.2001, Turco; 28.11.2000, Di Cintio, cit.; 8.1.2002, Trunfio; 23.1.2002, Orlando), le quali, nel recepire l’enunciata struttura logica della spiegazione causale, ne hanno efficacemente valorizzato la natura di elemento costitutivo della fattispecie di reato e la funzione di criterio di imputazione dell’evento lesivo. Dello schema condizionalistico integrato dal criterio di sussunzione sotto leggi scientifiche sono state sottolineate, da un lato, la portata tipizzante, in ossequio alle garanzie costituzionali di legalità e tassatività delle fonti di responsabilità penale e di personalità della stessa (Cost., artt. 25, comma 2 e 27, comma 1), e dall’altro, nell’ambito delle fattispecie causalmente orientate, la funzione selettiva delle condotte rilevanti e per ciò delimitativa dell’area dell’illecito penale.

 

In questo senso, nonostante i limiti epistemologici dello statuto della causalità nel rapporto fra eventi svelati dalla fisica contemporanea e le critiche di avversa dottrina, la persistente fedeltà della prevalente scienza giuridica penalistica al classico paradigma condizionalistico (v. lo Schema Pagliaro del 1992 di delega per un nuovo codice penale, sub art. 10, ma soprattutto l’articolata elaborazione del Progetto Grosso del 2001 di riforma della parte generale del codice penale, sub artt. 13 e 14) non solo appare coerente con l’assetto normativo dell’ordinamento positivo, ma rappresenta altresì un momento irrinunciabile di garanzia per l’individuazione della responsabilità nelle fattispecie orientate verso la produzione di un evento lesivo.

 

Il ricorso a generalizzazioni scientificamente valide consente infatti di ancorare il giudizio controfattuale, altrimenti insidiato da ampi margini di discrezionalità e di indeterminatezza, a parametri oggettivi in grado di esprimere effettive potenzialità esplicative della condizione necessaria, anche per i più complessi sviluppi causali dei fenomeni naturali, fisici, chimici o biologici.

 

E non è privo di significato che dalla quasi generalità dei sistemi giuridici penali europei (‘conditio sine qua non’) e dei paesi anglosassoni (‘causa but for’) siano condivise le ragioni di determinatezza e legalità delle fattispecie di reato che il modello condizionalistico della spiegazione dell’evento garantisce, in considerazione della funzione ascrittiva dell’imputazione causale.

 

4.- Nel prendere atto che nel caso in esame si verte in una fattispecie di causalità (prevalentemente) omissiva attinente all’attività medico-chirurgica, è da porre in evidenza innanzi tutto l’essenza normativa del concetto di `omissione’, che postula una relazione con un modello alternativo di comportamento attivo, specifico e imposto dall’ordinamento.

 

Il ‘reato omissivo improprio’ o ‘commissivo mediante omissione’, che è realizzato da chi viola gli speciali doveri collegati alla posizione di garanzia non impedendo il verificarsi dell’evento, presenta una spiccata autonomia dogmatica, scaturendo esso dall’innesto della clausola generale di equivalenza causale stabilita dall’art. 40, comma 2, cod. pen. sulle disposizioni di parte speciale che prevedono le ipotesi-base di reato commissivo orientate verso la produzione di un evento lesivo, suscettive così di essere convertite in corrispondenti ipotesi omissive: autonomia che, per l’effetto estensivo dell’area della punibilità, pone indubbi problemi di legalità e determinatezza della fattispecie criminosa.

 

Ma la presenza nei reati omissivi impropri, accanto all’equivalente normativo della causalità, di un ulteriore, forte, nucleo normativo, relativo sia alla posizione di garanzia che agli specifici doveri di diligenza, la cui inosservanza fonda la colpa dell’agente, tende ad agevolare una prevaricazione di questi elementi rispetto all’ordinaria sequenza che deve muovere dalla spiegazione del nesso eziologico.

 

Di talché, con particolare riferimento ai settori delle attività medico-chirurgiche, delle malattie professionali, delle alterazioni ambientali e del danno da prodotto, dall’erosione del paradigma causale nell’omissione, asseritamente motivata con l’incertezza costitutiva e con i profili altamente ipotetici della condizionalità, a fronte della pluralità e inconoscibilità dei fattori interagenti, trae alimento la teoria della ‘imputazione oggettiva dell’evento’. Questa é caratterizzata dal riferimento alla sufficiente efficacia esplicativa del fenomeno offerta dalla mera ‘possibilità’ o anche da inadeguati coefficienti di probabilità salvifica del comportamento doveroso, espressa in termini di ‘aumento – o mancata diminuzione – del rischio’ di lesione del bene protetto o di diminuzione delle chances di salvezza del medesimo bene (vita, incolumità fisica, salute, ambiente), di cui si esalta lo spessore primario e rilevante. Pure in assenza, cioè, dell’accertamento rigoroso che, qualora si fosse tenuta da parte dell’agente la condotta doverosa e diligente (ad esempio, in materia di responsabilità medica: diagnosi corretta, terapia adeguata e intervento tempestivo), il singolo evento di danno non si sarebbe verificato o si sarebbe comunque verificato, ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva.

 

Orbene, la più recente e citata giurisprudenza di legittimità ha reagito a questa riduttiva lettura della causalità omissiva ed ha segnato una netta evoluzione interpretativa – che le Sezioni Unite condividono -, soprattutto nel settore dell’attività medico-chirurgica (Sez. fer., Casaccio; Sez. IV, Baltrocchi, Musto, Di Cintio, Turco, Trunfio, Orlando), delle malattie professionali (Sez. IV, Covili) e degli infortuni sul lavoro (Sez. IV, Sgarbi), convenendo che anche per i reati omissivi impropri resta valido il descritto paradigma unitario di imputazione dell’evento.

 

Pur dandosi atto della peculiarità concettuale dell’omissione (è tuttora controversa la natura reale o meramente normativa dell’efficienza condizionante di un fattore statico negli sviluppi della catena causale), si osserva che lo statuto logico del rapporto di causalità rimane sempre quello del ‘condizionale controfattuale’, la cui formula dovrà rispondere al quesito se, mentalmente eliminato il mancato compimento dell’azione doverosa e sostituito alla componente statica un ipotetico processo dinamico corrispondente al comportamento doveroso, supposto come realizzato, il singolo evento lesivo, hic et nunc verificatosi, sarebbe, o non, venuto meno, mediante un enunciato esplicativo `coperto’ dal sapere scientifico del tempo.

 

Considerato che anche la spiegazione della causalità attiva ricorre a controfattuali ipotetici, il citato indirizzo interpretativo ha dunque ridimensionato la tesi per la quale la verifica giudiziale della condizionalità necessaria dell’omissione pretenderebbe un grado di `certezza’ meno rigoroso rispetto ai comuni canoni richiesti per la condotta propria dei reati commissivi, osservando anzi che l’affievolimento della nozione di causa penalmente rilevante finisce per l’accentuare nei reati omissivi impropri, pur positivamente costruiti in riferimento a ipotesi-base di reati di danno, il disvalore della condotta, rispetto alla quale l’evento degrada a mera condizione obiettiva di punibilità e il reato di danno a reato di pericolo. Con grave violazione dei principi di legalità, tassatività e tipicità della fattispecie criminosa e della garanzia di responsabilità personale (Cost., art. 25, comma 2 e 27, comma 1), per essere attribuito all’agente come fatto proprio un evento `forse’, non `certamente’, cagionato dal suo comportamento.

 

5.- Superato quell’orientamento che si sostanzia in pratica nella `volatilizzazione’ del nesso eziologico, il contrasto giurisprudenziale segnalato dalla Sezione remittente verte, a ben vedere, sui criteri di determinazione e di apprezzamento del valore probabilistico della spiegazione causale, domandandosi, con particolare riferimento ai delitti omissivi impropri nell’esercizio dell’attività medico-churgica, quale sia il grado di probabilità richiesto quanto all’efficacia impeditiva e salvifica del comportamento alternativo, omesso ma supposto come realizzato, rispetto al singolo evento lesivo.

 

Non é messo dunque in crisi lo statuto condizionalistico e nomologico della causalità, bensì la sua concreta verificabilità processuale: ciò in quanto i confini della ‘elevata o alta credibilità razionale’ del condizionamento necessario, postulata dal modello di sussunzione sotto leggi scientifiche, non sono affatto definiti dalla medesima legge di copertura.

 

Dalle prassi giurisprudenziali nel settore indicato emerge che il giudice impiega largamente, spesso tacitamente, generalizzazioni del senso comune, massime d’esperienza, enunciati di leggi biologiche, chimiche o neurologiche di natura statistica ed anche la più accreditata letteratura scientifica del momento storico.

 

Di talché, secondo un primo indirizzo interpretativo, le accentuate difficoltà probatorie, il valore meramente probabilistico della spiegazione e il paventato deficit di efficacia esplicativa del classico paradigma, quando si tratti di verificare profili omissivi e strettamente ipotetici del decorso causale, legittimerebbero un affievolimento dell’obbligo del giudice di pervenire ad un accertamento rigoroso della causalità. In considerazione del valore primario del bene giuridico protetto in materia di trattamenti terapeutici e chirurgici, dovrebbe pertanto riconoscersi appagante valenza persuasiva a ‘serie ed apprezzabili probabilità di successo’ (anche se `limitate’ e con ridotti coefficienti, talora indicati in misura addirittura inferiore al 50%) dell’ipotetico comportamento doveroso, omesso ma supposto mentalmente come realizzato, sull’assunto che ‘quando è in gioco la vita umana anche poche probabilità di sopravvivenza rendono necessario l’interverto del medico’.

 

Le Sezioni Unite non condividono questa. soluzione, pure rappresentativa del tradizionale, ormai ventennale e prevalente orientamento della Sezione Quarta (cfr. ex plurimis, almeno a partire da Sez. IV, 7.1.1983, Melis, le citate sentenze Ziliotto, Prinzivalli, Pasolini, D’Erme, Oria, Silvestri, De Donato, De Giovanni, Presta) poiché, com’è stato sottolineato dall’opposto, più recente e menzionato indirizzo giurisprudenziale (Sez. fer., Casaccio; Sez. IV, Baltrocchi, Musto, Di Cintio, Covili, Sgarbi, Turco, Trunfio, Orlando), con la tralaticia formula delle ‘serie ed apprezzabili probabilità di successo’ dell’ipotetico intervento salvifico del medico si finisce per esprimere coefficienti di `probabilità’ indeterminati, mutevoli, manipolabili dall’interprete, talora attestati su standard davvero esigui: così sovrapponendosi aspetti deontologici e di colpa professionale per violazione del principio di precauzione a scelte politico-legislative dettate in funzione degli scopi della repressione penale ed al problema, strutturalmente distinto, dell’accertamento degli elementi costitutivi della fattispecie criminosa tipica.

 

Né va sottaciuto che dall’esame della giurisprudenza di settore emerge che in non pochi casi, sebbene qualificati in termini di causalità omissiva per mancato impedimento dell’evento, non si è tuttavia in presenza di effettive, radicali, omissioni da parte del medico. Infatti, talora si verte in tema di condotte commissive colpose, connotate da gravi errori di diagnosi e terapia, produttive di per sé dell’evento lesivo, che è per ciò sicuramente attribuibile al soggetto come fatto proprio; altre volte trattasi di condotte eterogenee e interagenti, in parte attive e in parte omissive per la mancata attivazione di condizioni negative o impeditive. Ipotesi queste per le quali, nella ricostruzione del fatto lesivo e nell’indagine controfattuale sull’evitabilità dell’evento, la giurisprudenza spesso confonde la componente omissiva dell’inosservanza delle regole cautelari, attinente ai profili di `colpa’ del garante, rispetto all’ambito – invero prioritario della spiegazione e dell’imputazione causale.

 

6.- E’ stato acutamente osservato in dottrina che il processo tende con le sue regole ad esercitare un potenziale dominio sulle categorie del diritto sostantivo e che la laboriosità del procedimento di ricostruzione probatoria della tipicità dell’elemento oggettivo del reato coinvolge la tenuta sostanziale dell’istituto, oggetto della prova, scardinandone le caratteristiche dogmatiche e insidiando la tipicità della fattispecie criminosa.

 

Ma pretese difficoltà di prova, ad avviso delle Sezioni Unite, non possono mai legittimare un’attenuazione del rigore nell’accertamento del nesso di condizionamento necessario e, con essa, una nozione `debole’ della causalità che, collocandosi ancora sul terreno della teoria, ripudiata dal vigente sistema penale; dell’ ‘aumento del rischio’, finirebbe per comportare un’abnorme espansione della responsabilità per omesso impedimento dell’evento, in violazione dei principi di legalità e tassatività della fattispecie e della garanzia di responsabilità per fatto proprio.

 

Deve tuttavia riconoscersi che la definizione del concetto di causa penalmente rilevante si rivela significativamente debitrice nei confronti del momento di accertamento processuale, il quale resta decisivo per la decodificazione, nei termini effettuali, dei decorsi causali rispetto al singolo evento, soprattutto in presenza dei complessi fenomeni di ‘causazione multipla’ legati al moderno sviluppo delle attività.

 

Il processo penale, passaggio cruciale ed obbligato della conoscenza giudiziale del fatto di reato, appare invero sorretto da ragionamenti probatori di tipo prevalentemente inferenziale-induttivo che partono dal fatto storico copiosamente caratterizzato nel suo concreto verificarsi (e dalla formulazione della più probabile ipotesi ricostruttiva di esso secondo lo schema argomentativo dell’ ‘abduzione’), rispetto ai quali i dati informativi e giustificativi della conclusione non sono contenuti per intero nelle premesse, dipendendo essi, a differenza dell’argomento `deduttivo’, da ulteriori elementi conoscitivi estranei alle premesse stesse.

 

D’altra parte, lo stesso modello condizionalistico orientato secondo leggi scientifiche sottintende il distacco da una spiegazione di tipo puramente deduttivo, che implicherebbe un’impossibile conoscenza di tutti gli antecedenti sinergicamente inseriti nella catena causale e di tutte le leggi pertinenti da parte del giudice, il quale ricorre invece, nella premessa minore del ragionamento, ad una serie di ‘assunzioni tacite’, presupponendo come presenti determinate ‘condizioni iniziali’ e ‘di contorno’, spazialmente contigue e temporalmente continue, non conosciute o soltanto congetturate, sulla base delle quali, ‘ceteris paribus’, mantiene validità l’ impiego della legge stessa. E, poiché il giudice non può conoscere tutte le fasi intermedie attraverso le quali la causa produce il suo effetto, né procedere ad una spiegazione fondata su una serie continua di eventi, l’ipotesi ricostruttiva formulata in partenza sul nesso di condizionamento tra condotta umana e singolo evento potrà essere riconosciuta fondata soltanto con una quantità di precisazioni e purché sia ragionevolmente da escludere l’intervento di un diverso ed alternativo decorso causale.

 

Di talché, ove si ripudiasse la natura preminentemente induttiva dell’accertamento in giudizio e si pretendesse comunque una spiegazione causale di tipo deterministico e nomologico-deduttivo, secondo criteri di utopistica ‘certezza assoluta’, si finirebbe col frustrare gli scopi preventivo-repressivi del diritto e del processo penale in settori nevralgici per la tutela di beni primari.

 

Tutto ciò significa che il giudice, pur dovendo accertare ex post, inferendo dalle suddette generalizzazioni causali e sulla base dell’intera evidenza probatoria disponibile, che la condotta dell’agente ‘è’ (non ‘può essere’) condizione necessaria del singolo evento lesivo, è impegnato nell’operazione ermeneutica alla stregua dei comuni canoni di ‘certezza processuale’, conducenti conclusivamente, all’esito del ragionamento probatorio di tipo largamente induttivo, ad un giudizio di responsabilità caratterizzato da ‘alto grado di credibilità razionale’ o ‘conferma’ dell’ipotesi formulata sullo specifico fatto da provare: giudizio enunciato dalla giurisprudenza anche in termini di ‘elevata probabilità logica’ o ‘probabilità prossima alla – confinante con la certezza’.

 

7.- Orbene, il modello nomologico può assolvere nel processo penale allo scopo esplicativo della causalità omissiva tanto meglio quanto più è alto il grado di probabilità di cui l’explanans è portatore, ma non è sostenibile che si elevino a schemi di spiegazione del condizionamento necessario solo le leggi scientifiche universali e quelle statistiche che esprimano un coefficiente probabilistico ‘prossimo ad 1’, cioè alla ‘certezza’, quanto all’efficacia impeditiva della prestazione doverosa e omessa. rispetto al singolo evento.

 

Soprattutto in contesti, come quello della medicina biologica e clinica, cui non appartengono per definizione parametri di correlazione dotati di tale valore per la complessa rete degli antecedenti già in fieri, sui quali s’innesta la condotta omissiva del medico, per la dubbia decifrabilità di tutti gli anelli della catena ezio-patogenetica dei fenomeni morbosi e, di conseguenza, per le obiettive difficoltà della diagnosi differenziale, che costruisce il nodo nevralgico della criteriologia medico-legale in tema di rapporto di causalità.

 

E’ indubbio che coefficienti medio-bassi di probabilità cal. frequentista per tipi di evento, rivelati dalla legge statistica (e ancor più da generalizzazioni empiriche del senso comune o da rilevazioni epidemiologiche), impongano verifiche attente e puntuali sia della fondatezza scientifica che della specifica applicabilità nella fattispecie concreta. Ma nulla esclude che anch’essi, se corroborati dal positivo riscontro probatorio, condotto secondo le cadenze tipiche della più aggiornata criteriologia medico-legale, circa la sicura non incidenza nel caso di specie di altri fattori interagenti in via alternativa, possano essere utilizzati per il riconoscimento giudiziale del necessario nesso di condizionamento.

 

Viceversa, livelli elevati di probabilità statistica o schemi interpretativi dedotti da leggi di carattere universale (invero assai rare nel settore in esame), pur configurando un rapporto di successione tra eventi rilevato con regolarità o in numero percentualmente alto di casi, pretendono sempre che il giudice ne accerti il valore eziologico effettivo, insieme con l’ irrilevanza nel caso concreto di spiegazioni diverse, controllandone quindi 1′ `attendibilità’ in riferimento al singolo evento e all’evidenza disponibile.

 

8.- In definitiva, con il termine ‘alta o elevata credibilità razionale’ dell’accertamento giudiziale, non s’intende fare riferimento al parametro nomologico utilizzato per la copertura della spiegazione, indicante una mera relazione quantitativa entro generi di eventi ripetibili e inerente come tale alla struttura interna del rapporto di causalità, bensì ai profili inferenziali della verifica probatoria di quel nesso rispetto all’evidenza disponibile e alle circostanze del caso concreto: non essendo consentito dedurre automaticamente – e proporzionalmente – dal coefficiente di probabilità statistica espresso dalla legge la conferma dell’ipotesi sull’esistenza del rapporto di causalità.

 

La moderna dottrina che ha approfondito la teoria della prova dei fatti giuridici ha infatti precisato che; mentre la ‘probabilità statistica’ attiene alla verifica empirica circa la misura della frequenza relativa nella successione degli eventi (strumento utile e talora decisivo ai fini dell’indagine causale), la ‘probabilità logica’, seguendo l’incedere induttivo del ragionamento probatorio per stabilire il grado di conferma dell’ipotesi formulata in ordine allo specifico fatto da provare, contiene la verifica aggiuntiva, sulla base dell’intera evidenza disponibile, dell’attendibilità dell’impiego della legge statistica per il singolo evento e della persuasiva e razionale credibilità dell’accertamento giudiziale (in tal senso, cfr. anche Cass., Sez. IV, 5.10.1999, Hariolf, rv. 216219; 30.3.2000, Camposano, rv. 219426; 15.11.2001, Puddu; 23.1.2002, Orlando, cit.). Si osserva in proposito che, se nelle scienze naturali la spiegazione statistica presenta spesso un carattere quantitativo, per le scienze sociali come il diritto – ove il relatum è costituito da un comportamento umano – appare, per contro, inadeguato esprimere il grado di corroborazione dell’explanandum e il risultato della stima probabilistica mediante cristallizzati coefficienti numerici, piuttosto che enunciare gli stessi in termini qualitativi.

 

Partendo dunque dallo specifico punto di vista che interessa il giurista, le Sezioni Unite, nel condividere le argomentate riflessioni del P.G. requirente, ritengono, con particolare riguardo ai decorsi causali ipotetici, complessi o alternativi, che rimane compito ineludibile del diritto e della conoscenza giudiziale stabilire se la postulata connessione nomologica, che forma la base per il libero convincimento del giudice, ma non esaurisce di per se stessa la verifica esplicativa del fenomeno, sia effettivamente pertinente e debba considerarsi razionalmente credibile, sì da attingere quel risultato di ‘certezza processuale’ che, all’esito del ragionamento probatorio, sia in grado di giustificare la logica conclusione che, tenendosi l’azione doverosa omessa, il singolo evento lesivo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe inevitabilmente verificato, ma (nel quando) in epoca significativamente posteriore o (per come) con minore intensità lesiva.

 

D’altra parte, poiché la condizione ‘necessaria’ si configura come requisito oggettivo della fattispecie criminosa, non possono non valere per essa gli identici criteri di accertamento e di rigore dimostrativo che il giudizio penale riserva a tutti gli elementi costitutivi del fatto di reato.

 

Il procedimento logico, invero non dissimile dalla sequenza del ragionamento inferenziale dettato in tema di prova indiziaria dall’art. 192 comma 2 c.p.p. (il cui nucleo essenziale è già racchiuso, peraltro, nella regola stabilita per la valutazione della prova in generale dal primo comma della medesima disposizione, nonché in quella della doverosa ponderazione delle ipotesi antagoniste prescritta dall’art. 546, comma 1 lett. e c.p.p.), deve condurre, perché sia valorizzata la funzione ascrittiva dell’imputazione causale, alla conclusione caratterizzata da un ‘alto grado di credibilità razionale’, quindi alla ‘certezza processuale’, che, esclusa l’interferenza di decorsi alternativi, la condotta omissiva dell’imputato, alla luce della cornice nomologica e dei dati ontologici, è stata condizione ‘necessaria’ dell’evento, attribuibile per ciò all’agente come fatto proprio.

 

Ex adverso, l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza probatoria, quindi il plausibile e ragionevole dubbio, fondato su specifici elementi che in base all’evidenza disponibile lo avvalorino nel caso concreto, in ordine ai meccanismi sinergici dei plurimi antecedenti, per ciò sulla reale efficacia condizionante della singola condotta omissiva all’interno della rete di causazione, non può non comportare la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio stabilito dall’art. 530 comma 2 c.p.p., secondo il canone di garanzia ‘in dubio pro reo’. E non, viceversa, la disarticolazione del concetto di causa penalmente rilevante che, per tale via, finirebbe per regredire ad una contraddittoria nozione di `necessità’ graduabile in coefficienti numerici.

 

9.- In ordine al problema dell’accertamento del rapporto di causalità, con particolare riguardo alla categoria dei reati omissivi impropri ed allo specifico settore dell’attività medico-chirurgica, devono essere pertanto enunciati, ai sensi dell’art. 173.3 n. att. c.p.p., i seguenti principi di diritto.

 

  1. a) Il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica – universale o statistica -, si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa impeditiva dell’evento hic et nunc, questo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva.

 

  1. b) Non é consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, così che, all’esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso l’interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con ‘alto o elevato grado di credibilità razionale’ o ‘probabilità logica’.

 

  1. c) L’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio.

 

Va infine ribadito che alla Corte di Cassazione, quale giudice di legittimità, è assegnato il compito di controllare retrospettivamente la razionalità delle argomentazioni giustificative – la cd. giustificazione esterna – della decisione, inerenti ai dati empirici assunti dal giudice di merito come elementi di prova, alle inferenze formulate in base ad essi ed ai criteri che sostengono le conclusioni: non la decisione, dunque, bensì il contesto giustificativo di essa, come esplicitato dal giudice di merito nel ragionamento probatorio che fonda il giudizio di conferma dell’ipotesi sullo specifico fatto da provare.

 

10.- Alla luce dei principi di diritto sopra affermati, occorre ora passare all’esame della fattispecie concreta sottoposta all’attenzione di questa Corte e valutare la correttezza logico-giuridica dell’apparato argomentativo dei giudici di merito a sostegno dell’affermazione di responsabilità dell’imputato.

 

Premesso che la motivazione della sentenza impugnata s’integra con quella di condanna di – primo grado, siccome espressamente richiamata, rileva il Collegio che questa ha adeguatamente affrontato, sia in fatto che in diritto, il problema dell’esistenza del nesso di condizionamento risolvendolo in senso affermativo.

 

Il dott. S. F. era stato chiamato a rispondere del reato di omicidio colposo, in qualità di responsabile della XVI divisione di chirurgia dell’ospedale (omissis) – dove era stato ricoverato dal 9 al 17 aprile 1993 P. C., dopo avere subito il 5 aprile un intervento chirurgico d’urgenza per perforazione ileale -, per avere determinato l’insorgere di una sepsi addominale da ‘clostridium septicum’ che aveva cagionato il 22 aprile la morte del paziente. Si addebitava all’imputato di non avere compiuto durante il periodo di ricovero una corretta diagnosi e quindi consentito un’appropriata terapia, omettendo per negligenza e imperizia di valutare i risultati degli esami ematologici che evidenziavano una persistente neutropenia e di sollecitare la consulenza internistica prescritta dopo l’intervento chirurgico per accertare l’eziologia della perforazione dell’ileo, anzi autorizzando, senza alcuna prescrizione, la dimissione del paziente, giudicato in via di guarigione chirurgica.

 

La storia clinica del C. risulta esaurientemente e analiticamente ricostruita nei seguenti termini.

 

Il C., ricoverato il 4 aprile 1993 presso il reparto di chirurgia d’urgenza dell’ospedale (omissis) per forti dolori addominali, venne operato il giorno successivo e l’intervento indicò un’infezione in atto da ‘perforazione dell’ileo lenticolare’, suturata mediante corretta enterrorafia. Restando incerta la causa della non comune patologia e preoccupanti i risultati degli esami emocromocitometrici effettuati il 4 e il 6 aprile (i quali evidenziavano nella formula leucocitaria una marcata neutropenia e con essa una condizione di immunodepressione del paziente) furono disposti esame di Widal Wright (eseguito con esito negativo per l’indicazione tifoidea), consulenza internistica (mai eseguita) e terapia antibiotica a largo spettro. Trasferito il 9 aprile nella XVI divisione chirurgica diretta dal dott. F., il C. continuò la terapia antibiotica e iniziò a sfebbrare il 12 aprile, senza esser sottoposto ad ulteriori esami di alcun tipo. Il dott. F., rilevato che il paziente era apirettico, il 14 aprile sospese la terapia antibiotica e dispose un nuovo emocromo, che evidenziò il giorno successivo il persistere di una gravissima neutropenia, ma, ciò nonostante, il 17 aprile dimise il C. giudicandolo ‘in via di guarigione chirurgica’ senza alcuna prescrizione. Il 19 aprile il C. accusò forti dolori addominali e, ricoverato il 20 aprile, venne nuovamente operato il giorno successivo mediante laparatomia e drenaggio di microascessi multipli; il referto microbiologico indicò esito positivo per ‘anaerobi e sviluppo di clostridium septicum’. All’esito di un terzo intervento chirurgico eseguito il 22 aprile il C. morì a causa di ‘sepsi addominale da clostridium septicum’, un batterio anaerobico non particolarmente aggressivo, che si sviluppa e si propaga però, determinando anemia acuta ed emolisi, allorché l’organismo dell’uomo è debilitato e immunodepresso per gravi forme di granulocitopenia.

 

Il Pretore, con l’ausilio della prova testimoniale e medico-legale (richiamando altresì autorevoli e concordi pareri della letteratura scientifica internazionale nel campo della medicina interna), identificava nella ‘neutropenia’ l’immediato antecedente causale dell’aggressione del ‘clostridium’ e del processo settico letale; escludeva, indipendentemente dall’origine della perforazione ileale, ogni correlazione fra l’intervento chirurgico e i fattori patogenetici dell’evento infausto; sottolineava come il paziente, dopo la chiusura dell’ulcera ileale, fosse stato sottoposto solo a terapia antibiotica a largo spettro, senza essere indagato sul piano internistico ed ematologico, benché la consulenza internistica fosse stata sollecitata e gli accertamenti ematologici avessero evidenziato l’insorgenza di una marcata neutropenia, con conseguente minorata difesa immunitaria. Rilevava pertanto che, se le cause della neutropenia e del conseguente, grave, stato anergico da immunodepressione fossero stati correttamente diagnosticati (unitamente alle indagini necessarie a chiarire l’eziologia della non comune perforazione ileale) e se l’allarmante granulocitopenia fosse stata curata con terapie mirate alla copertura degli anaerobi a livello intestinale, fino a far risalire i valori dei neutrofili al di sopra della soglia minima delle difese immunitarie, si sarebbe evitata la progressiva evoluzione della patologia infettiva letale da ‘clostridium septicum’ e si sarebbe pervenuti ad un esito favorevole ‘con alto grado di probabilità logica o credibilità razionale’.

 

Così ricostruito il nesso causale secondo il modello condizionalistico integrato dalla sussunzione sotto leggi scientifiche, il Pretore, definita altresì puntualmente la posizione apicale del dott. F. nell’ambito della divisione chirurgica ove il paziente era stato ricoverato nella fase post-operatoria e individuate precise note di negligenza e di imperizia nei menzionati comportamenti omissivi e nell’improvvida dimissione dello stesso, concludeva affermando la responsabilità dell’imputato per la morte del C..

 

La Corte di appello di Napoli, pur argomentando impropriamente e contraddittoriamente in termini che sembrano più coerenti con il lessico della disattesa teoria dell’aumento del rischio (“… se si fosse indagato sulle cause della neutropenia e provveduto a prescrivere adeguata terapia per far risalire i valori dei neutrofili, le probabilità di sopravvivenza del C. sarebbero certamente aumentate …”), confermava la prima decisione, richiamandone i contenuti motivazionali e ribadendo che, in base ai dati scientifici acquisiti, all’imputato erano addebitabili, oltre l’ingiustificata dimissione del paziente, gravi omissioni sia di tipo diagnostico che terapeutico, le quali “… sicuramente contribuirono a portare a morte il C. …”.

 

Pertanto, poiché le statuizioni dei giudici di merito risultano sostanzialmente rispondenti alle linee interpretative sopra enunciate in tema di rapporto di causalità e trovano adeguata base giustificativa in una motivazione, in fatto, immune da vizi logici, il giudizio critico e valutativo circa il positivo accertamento, ‘con alto grado di probabilità logica o credibilità razionale’, dell’esistenza del nesso di condizionamento necessario fra la condotta (prevalentemente omissiva) del medico e la morte del paziente resta incensurabile nel giudizio di legittimità e i \A rilievi del ricorrente si palesano privi di fondamento.

 

11.- L’ordinanza della Sezione remittente dà atto che il delitto di omicidio colposo per il quale si procede è estinto per prescrizione, in quanto il decesso del C. risale al 22 aprile ” 1993 ed è quindi ampiamente trascorso il termine di sette anni e sei mesi.

 

Da un lato, l’accertamento della causa estintiva del reato si palesa prioritario e immediatamente operativo rispetto alla questione in rito della nullità ‘relativa’ dei verbali stenotipici di udienza (Sez. Un., 28.11.2001, Cremonese, rv 22051 l; Sez. Un., 27.2.2002, Conti, rv. 221403), nonché rispetto alle invero generiche e subvalenti censure del ricorrente circa pretesi vizi motivazionali dell’impugnata sentenza, in punto di direzione della divisione ospedaliera e titolarità della posizione di garanzia, di colpa professionale e di dosimetria della pena.

 

D’altra parte, la compiuta valutazione critica, con esito negativo, del più serio e argomentato motivo di gravame, riguardante l’affermazione di responsabilità dell’imputato quanto alla prova dell’effettivo nesso di causalità fra le condotte – prevalentemente omissive – addebitategli e l’evento morte del paziente, consente a questa Corte, nell’annullare senza rinvio la sentenza impugnata in conseguenza dell’avvenuta estinzione del reato per prescrizione, di confermarne (ai sensi dell’art. 578 c.p.p. e secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità) le statuizioni relative ai capi concernenti gli interessi civili: e cioè, la condanna generica dell’imputato al risarcimento del danno, nonché al pagamento di una somma liquidata a titolo di provvisionale e delle spese di costituzione e difesa a favore della parte civile.

 

P.Q.M.

 

La Corte Suprema di Cassazione, a Sezioni Unite,

annulla senza rinvio la sentenza impugnata per essere il reato estinto per prescrizione; conferma le statuizioni concernenti gli interessi civili.

 

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Originally posted 2015-06-09 10:55:54.

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