L’informazione deve essere relativa alla “natura dell’intervento medico e chirurgico, alla sua portata ed estensione, ai rischi, ai risultati conseguibili, alle possibili conseguenze negative, alla possibilità di conseguire il medesimo risultato attraverso altri interventi e ai rischi di questi ultimi”; il paziente deve essere messo concretamente in condizione di valutare ogni rischio ed ogni alternativa (Cass. n 364/1997; Cass. n. 10014/1994, e da ultimo vedi Cass. Sez. 3 – Sentenza n. 2747/2010);

CHIRURGIA ESTETICA DANNO MASTOPLASTICA ADDITTIVA ASIMMETRIA AVVOCATO SERGIO ARMAORLI ESPERTO RISARCIMENTO DANNI ESTETICI PRENDI APPUNTAMENTO 051 6447838

La situazione della risalita della protesi appare emendabile, con nuovo intervento chirurgico. Quanto ai risultati complessivi di fatto raggiunti, al di là dell’inevitabile soggettività di un giudizio di questo tipo, si ritiene che l’intervento di chirurgia additiva non abbia praticato alcun tipo di miglioramento dell’aspetto complessivo rispetto allo “stato quo ante” meglio specificato nei punti successivi”; e specifica un punto importante: “Le caratteristiche metrico-dimensionali delle mammelle, rispetto ai punti di repere non conferiscono al decolleté dismorfia o dismetria sgradevole o da essere percepita tale con abbigliamento” (cfr. pag. 27 CTU). Dopo ampia disamina, per la quale si rimanda per esteso al testo dell’elaborato (pagg. 27-29), la consulenza afferma che “non si identificano comportamenti censurabili da parte del chirurgo per quanto concerne l’indicazione e la scelta della tipologia della tecnica da adottare”.
10. La consulenza tecnica d’ufficio, peraltro, individua chiaramente un elemento che genera responsabilità per colpa medica, in termini che non lascia spazio a dubbi. La consulenza, infatti, censura le modalità di assunzione del consenso informato, in generale con riferimento ala struttura del modulo utilizzato, e in concreto con riferimento al comportamento del sanitario: “La genericità applicativa del modulo è dimostrata dall’assenza di qualsiasi elencazione delle complicanze prevedibili sia genericamente contemplate sia eventualmente derivabili da eventuale specifica anamnesi patologica della paziente” (cfr. pag. 29 CTU); “Si evidenzia, ad esempio, oltre all’eccesso di semplificazione ed all’assenza di dettagli importanti, la stessa genericità in merito all’indicazione dell’esatta procedura terapeutica proposta, dei rischi che essa determina, delle diverse procedure ed alternative eventualmente praticabili. In tale sede, infatti, si vuole precisare come la formulazione del consenso venga attestata per una “mastopessi bilaterale” altrimenti non eseguita, a fronte di una mastoplastica additiva semplice.
Dalla semplice lettura documentale appare, quindi, una incongruenza tra l’atto formale e la reale esecuzione chirurgica.
Anche per questo i documenti in atti risultano, a parere di chi scrive, inidonei a comprovare il tipo, la modalità, la puntualità con cui l’informazione sia stata fornita alla paziente” (cfr. pag. 30 CTU).
Pertanto la consulenza esprime il seguente giudizio, ineccepibile sul piano logico e attinente alle risultanze peritali: “Nell’assenza di attestazione di avvenuta informazione e di reale adesione all’intervento di “mastoplastica additiva” si ravvisano elementi censurabili, nei modi e termini sopra esposti” (cfr. pag. 31 CTU). La stessa consulenza, quindi, conclude nel senso che “Per quanto concerne la tecnica chirurgica di mastoplastica additiva questa appare indicata in cartella clinica nei modi e tempi adeguati, rispetto alla descrizione degli atti eseguiti”, mentre “Per quanto concerne la tipologia di esecuzione della tecnica stessa questa appare carente nei termini di parziale scollamento del muscolo pettorale, nei modi di valutazione ex post sopra riportati” (cfr. pag. 31 CTU).
Dalla consulenza tecnica d’ufficio si traggono, poi, ulteriori elementi utili a definire la responsabilità per effetto di una non corretta considerazione del quadro d’insieme da parte del sanitario. Anche questo aspetto è spiegato chiaramente dalla consulenza: “Occorre qui riportare come comunque non sia ravvisabile una asimmetria eclatante delle ghiandole mammarie e come in un bilancio comparativo complessivo che tenga conto dei vari aspetti somatici l’intervento chirurgico appare non aver indotto alcun miglioramento rispetto allo status quo ante, ovvero un peggioramento rispetto all’effetto estetico non raggiunto” (cfr. pag. 31 CTU).

 

 

( (nata a Modena, il …omissis…), portatrice di ipotrofia con ptosi mammaria bilaterale disestesica di grado II, in data 31/8/03 veniva ricoverata presso l’Azienda Ospedaliera – Policlinico di Modena per essere sottoposta il giorno successivo ad intervento chirurgico di mastoplastica additiva bilaterale. Tale intervento veniva tecnicamente eseguito nel pomeriggio dello stesso giorno dal Dott …omissis… il giorno successivo la paziente veniva dimessa: nella prima giornata di post-operatorio, la signora notava una asimmetria delle mammelle, accentuatasi nel periodo successivo. Il decorso successivo all’intervento e lo svolgimento degli ulteriori interventi sono descritti nella consulenza tecnica d’ufficio espletata, alla quale si rinvia per esteso.
All’esito nella paziente residuò, ed è tuttora presente, un complesso di esiti morfologici ampiamente descritto nella consulenza tecnica d’ufficio, di natura esclusivamente estetica e non disfunzionale.

Tribunale Modena, sez. II 23/05/2012 n. 871

 


MOTIVI DELLA DECISIONE
2. Preliminarmente va rilevato che la presente decisione interviene dopo le modifiche apportate agli artt. 132 c.p.c. e 118 disp. att. cp.c. ad opera della legge 69/2009 e, pertanto, la redazione della sentenza avviene in conformità alle nuove previsioni normative che impongono di esporre in modo succinto i fatti rilevanti della causa e le ragioni giuridiche della decisione.
3. Va preliminarmente va esaminata l’eccezione di nullità dell’atto introduttivo del giudizio. Sostiene parte convenuta AUSL che l’atto di citazione era indeterminato non solo perché non chiariva a quale titolo l’attrice agisse nei confronti dell’ente, considerato che il convenuto | operava in regime di libera professione, ma anche con riferimento al quantum, non del tutto identificato. In proposito la menzionata convenuta ha anche eccepito mutatio libelli a seguito del deposito della memoria attore in data 28 Aprile 2006, dichiarando di non accettare contraddittorio.
In realtà, le domande di parte attrice, come formulate nella precisazione delle conclusioni, vanno ritenute già comprese nell’iniziale richiesta di condanna al risarcimento dei danni interamente patiti a seguito della dedotta colpa medica. Le precisazioni successive costituiscono soltanto specificazione, mentre sarebbe erroneo sostenere che vi sia stata mutatio libelli, in quanto gli elementi costitutivi della azione sono rimasti inalterati. Non è, in particolare, mutata la causa petendi con il deposito delle memorie ai sensi dell’art. 183, 5° e, c.p.c. all’epoca vigente, atteso che l’attrice ha continuato a lamentare la cattiva esecuzione del rapporto contrattuale di prestazione d’opera, né la qualità rivestita dall’ente convenuto ha introdotto un tema di indagine nuovo tale da disorientarne la difesa. Con le predette memorie sono state soltanto esplicitati e ripetuti gli stessi elementi già presentì nell’atto introduttivo, con una riformulazione che non integra nemmeno gli estremi di una pur consentita emendatio libelli.
Quanto alla natura della responsabilità dell’ente convenuto, che il convenuto …omissis… operasse in regime di libera professione è circostanza asserita dall’ente ma non provata, e in ogni caso superata dalla documentazione in atti dalla quale risulta che la Azienda U.S.L. di Modena era titolare del credito richiesto all’attrice cfr. lettera 6.5.2004, doc. n. 12 di parte attrice: “In base a tale convenzione, l’Azienda Ospedaliera fattura e incassa, per conto ed, in nome dell’Azienda U.S.L. le somme poste a carico del paziente”); in quanto titolare del credito era anche giuridicamente obbligata ad un esatto adempimento.
4. Risulta in atti che la signora …omissis… ( (nata a Modena, il …omissis…), portatrice di ipotrofia con ptosi mammaria bilaterale disestesica di grado II, in data 31/8/03 veniva ricoverata presso l’Azienda Ospedaliera – Policlinico di Modena per essere sottoposta il giorno successivo ad intervento chirurgico di mastoplastica additiva bilaterale. Tale intervento veniva tecnicamente eseguito nel pomeriggio dello stesso giorno dal Dott …omissis… il giorno successivo la paziente veniva dimessa: nella prima giornata di post-operatorio, la signora notava una asimmetria delle mammelle, accentuatasi nel periodo successivo. Il decorso successivo all’intervento e lo svolgimento degli ulteriori interventi sono descritti nella consulenza tecnica d’ufficio espletata, alla quale si rinvia per esteso.
All’esito nella paziente residuò, ed è tuttora presente, un complesso di esiti morfologici ampiamente descritto nella consulenza tecnica d’ufficio, di natura esclusivamente estetica e non disfunzionale.
Secondo la consulenza tecnica d’ufficio non sono, inoltre, desumibili dalla documentazione agli atti né dalla visita medico-legale, esiti di interesse della sfera psichiatrica, tali da poter essere adeguatamente rapportabili a danno biologico, bensì un relativo disagio rispetto alla incompletezza del risultato atteso, che necessariamente si riflette nella vita di relazione dell’attrice (cfr. pag. 32 CTU).
5. Da parte attrice si assume che l’intervento di chirurgia plastica non è stato eseguito a regola d’arte in quanto nessun risultato concreto è conseguito all’intervento talché il seno dell’attrice si presenta menomato e, in generale, l’intervento estetico ha avuto esclusivamente risultati peggiorativi.
Da parte convenuta si eccepisce che non vi è prova che l’intervento non sia stato eseguito a regola d’arte, che la scelta della tipologia di intervento è riferibile alla paziente, che non vi è prova del nesso causale (in quanto il risultato estetico finale può essere dovuto a una complicanza inevitabile dell’intervento, i cui buoni esiti sono comunque anche legati al corretto decorso postoperatorio da parte della paziente) e che, comunque, in relazione all’attività esercitata dal chirurgo incombe al paziente, che assume di aver subito un danno, l’onere di provare la difettosa o inadeguata prestazione professionale, l’esistenza del danno ed il rapporto di causalità tra la difettosa o inadeguata prestazione professionale e il danno medesimo; prove non raggiunte da parte attrice.
Da parte della terza chiamata si contesta l’operatività della copertura assicurativa, trattandosi di intervento di esclusiva finalità estetica, e non terapeutica.
6. Le questioni dibattute dalle parti concernono, quindi, anche la natura dell’obbligazione dedotta in contratto, e il nesso causale nella colpa medica.
Il primo punto concerne la natura della prestazione sanitaria nel caso concreto, ricavabile in base allo scopo principale dell’intervento chirurgico, essendo da chiarire (cfr. pag. 23 CTU) se esso sia da riferire esclusivamente ad evento estetico, tralasciando assolutamente l’ipotesi di tipo squisitamente terapeutico per far fronte ad un grave disagio psicologico dovuto proprio all’aspetto sgradevole, non più sopportabile per la perizianda, oppure a uno scopo terapeutico, per ovviare al disagio psicologico già antecedente all’evento di causa. Sul punto sono condivisibili le conclusioni della consulenza tecnica d’ufficio che, sulla base dell’ampia documentazione medica esaminata, di approfondita anamnesi e di visita diretta medico-legale, ha escluso la natura terapeutica dell’intervento: “(…) tenendo conto di quanto affermato dalla paziente sia in termini di contenuti che di modalità espressive, sembra doversi rilevare che la periziata non si trovasse all’epoca dei fatti in una condizione di disagio psichico profondo (ovvero con pensiero anancastico, cioè ossessivo, e stereotipato con focalizzazione esclusiva sul seno) ovvero polarizzazione verso tematiche depressive di tipo nevrotico reattivo, legate al vissuto di menomazione estetica, tale da realizzare un quadro di vera e propria dismorfofóbia. Altresì sono da riferire alcune ripercussioni sulle relazioni sociali ma non tali da realizzare situazioni conflittuali. In questo senso non si può ammettere l’intervento chirurgico come di tipo “terapeutico” ma solo giustificato, in quanto il risultato auspicabilmente positivo dal punto di vista estetico avrebbe potuto riportare un beneficio (non esclusivo e decisivo) all’equilibrio psicologico della paziente” (cfr. pag. 31 CTU).
7. Per il riconoscimento di nesso di causalità tra la condotta del medico e il danno patito dal paziente la giurisprudenza suole applicare tradizionalmente la teoria condizionalistica della sussumibilità sotto leggi scientifiche e fondata sul concetto di probabilità statistica. I principi elaborati in tema di colpa medica in sede penale vanno, peraltro, traslati in campo civilistico dove, da un lato, il mero accertamento del nesso materiale non appare dirimente, dovendosi invece aver riguardo ai criteri di imputazione del danno, e dove, d’altro lato, si verte in un settore ove vige uno stretto principio di onere della prova. La prospettiva civilistica si pone quale fine non la ricerca del colpevole, ma la diversa ottica della ristorazione dei danni della vittima; se, quindi, in sede penale tutto può basarsi sul riscontro del nesso casuale, nel settore civile, da un lato i criteri di colpa e dolo sono differenti, dall’altro vi è l’esigenza di una rigida ricostruzione del modus probandi. Prendendo in considerazione le pronunce della Suprema Corte che hanno delineato i cardini ermeneutici della materia, le conseguenze sulla ricostruzione civilistica della responsabilità sanitaria possono essere così riassunte:
a) sarà a carico del sanitario provare la correttezza del suo operato, secondo i criteri di diligenza, prudenza e perizia sopra evidenziati, anche negli interventi di difficile esecuzione (con la conseguenza che ove residui incertezza sul suo operato l’inadempimento risulterà accertato in base alla regola dell’onere probatorio)
b) sarà a carico del paziente l’onere della prova del nesso causale, (con i criteri della probabilità logica), prova generalmente fornita per presunzioni e mediante prova di fatti secondari: quindi negli interventi di facile esecuzione la prova del fatto secondario (ad es. peggioramento dello stato di salute, esito infausto dell’operazione) potrà essere sufficiente per ritenersi provato il nesso casuale, negli interventi di alta specialità, invece, la prova dei fatti secondari non sarà sufficiente e sarà onere del paziente provare che nel caso concreto si è verificata la regola astratta, che non vi sono causa alternativa e così dicendo, secondo una ricostruzione del nesso causale non probabilistica ma razionale e logica.
8. Per quanto ancor più specificamente concerne l’attività di chirurgia estetica, non occorre ripercorrere per esteso l’inquadramento giurisprudenziale della figura, ampiamente nota (inquadramento per il quale si rimanda, nel dettaglio della motivazione e dei richiami ivi contenuti, alla giurisprudenza di questo stesso Tribunale: v. Trib. Modena, Giud. Dott. Pagliara, 16/9/2009, n. 1285, con la quale si è affermato, tra l’altro, che: “Un intervento estetico con esiti elusivamente peggiorativi dell’efficienza estetica della paziente (nella specie: aumentata ptosi del seno e presenza di cicatrici), dà luogo a una responsabilità per inadempimento che non è coperta dal consenso della paziente”). Basta ricordare che la natura dell’ obbligazione oggetto del rapporto di prestazione professionale non può essere determinata a priori, dandosi la concreta possibilità, come del resto nell’attività sanitaria volontaria in genere, sia dell’assunzione, da parte del chirurgo, di un’obbligazione di mezzi, che dell’assunzione di un’obbligazione di risultato; quest’ultima, però, deve specificamente risultare o dal testo contrattuale o, anche, da altre risultanze istruttorie, ma in assenza di specifica prova la prestazione configura un’obbligazione di mezzi.
9. Nel caso di specie non sussiste specifica prova dell’assunzione di un’obbligazione di risultato.
La consulenza tecnica d’ufficio non individua profili di colpa medica sul piano strettamente chirurgico, nell’esecuzione dell’intervento; quanto agli esiti su piano estetico, premesso che “ha situazione della ptosi appare emendabile, con nuovo intervento chirurgico” (cfr. pag. 27 CTU), la consulenza rileva: “L’assetto protesico appare spostato in alto e medialmente a carico della mammella destra rispetto alla controlaterale, conferendo aspetto diverso da quello atteso dalla paziente, comunque non identificabile con una immagine sgradevole. È da precisare die le protesi sono posizionate “non capovolte”, con buoni esiti cicatriziali chirurgici e buoni esiti funzionali.
La situazione della risalita della protesi appare emendabile, con nuovo intervento chirurgico. Quanto ai risultati complessivi di fatto raggiunti, al di là dell’inevitabile soggettività di un giudizio di questo tipo, si ritiene che l’interuento di chirurgia additiva non abbia praticato alcun tipo di miglioramento dell’aspetto complessivo rispetto allo “stato quo ante” meglio specificato nei punti successivi”; e specifica un punto importante: “Le caratteristiche metrico-dimensionali delle mammelle, rispetto ai punti di repere non conferiscono al decolleté dismorfia o dismetria sgradevole o da essere percepita tale con abbigliamento” (cfr. pag. 27 CTU). Dopo ampia disamina, per la quale si rimanda per esteso al testo dell’elaborato (pagg. 27-29), la consulenza afferma che “non si identificano comportamenti censurabili da parte del chirurgo per quanto concerne l’indicazione e la scelta della tipologia della tecnica da adottare”.
10. La consulenza tecnica d’ufficio, peraltro, individua chiaramente un elemento che genera responsabilità per colpa medica, in termini che non lascia spazio a dubbi. La consulenza, infatti, censura le modalità di assunzione del consenso informato, in generale con riferimento ala struttura del modulo utilizzato, e in concreto con riferimento al comportamento del sanitario: “La genericità applicativa del modulo è dimostrata dall’assenza di qualsiasi elencazione delle complicanze prevedibili sia genericamente contemplate sia eventualmente derivabili da eventuale specifica anamnesi patologica della paziente” (cfr. pag. 29 CTU); “Si evidenzia, ad esempio, oltre all’eccesso di semplificazione ed all’assenza di dettagli importanti, la stessa genericità in merito all’indicazione dell’esatta procedura terapeutica proposta, dei rischi che essa determina, delle diverse procedure ed alternative eventualmente praticabili. In tale sede, infatti, si vuole precisare come la formulazione del consenso venga attestata per una “mastopessi bilaterale” altrimenti non eseguita, a fronte di una mastoplastica additiva semplice.
Dalla semplice lettura documentale appare, quindi, una incongruenza tra l’atto formale e la reale esecuzione chirurgica.
Anche per questo i documenti in atti risultano, a parere di chi scrive, inidonei a comprovare il tipo, la modalità, la puntualità con cui l’informazione sia stata fornita alla paziente” (cfr. pag. 30 CTU).
Pertanto la consulenza esprime il seguente giudizio, ineccepibile sul piano logico e attinente alle risultanze peritali: “Nell’assenza di attestazione di avvenuta informazione e di reale adesione all’intervento di “mastoplastica additiva” si ravvisano elementi censurabili, nei modi e termini sopra esposti” (cfr. pag. 31 CTU). La stessa consulenza, quindi, conclude nel senso che “Per quanto concerne la tecnica chirurgica di mastoplastica additiva questa appare indicata in cartella clinica nei modi e tempi adeguati, rispetto alla descrizione degli atti eseguiti”, mentre “Per quanto concerne la tipologia di esecuzione della tecnica stessa questa appare carente nei termini di parziale scollamento del muscolo pettorale, nei modi di valutazione ex post sopra riportati” (cfr. pag. 31 CTU).
Dalla consulenza tecnica d’ufficio si traggono, poi, ulteriori elementi utili a definire la responsabilità per effetto di una non corretta considerazione del quadro d’insieme da parte del sanitario. Anche questo aspetto è spiegato chiaramente dalla consulenza: “Occorre qui riportare come comunque non sia ravvisabile una asimmetria eclatante delle ghiandole mammarie e come in un bilancio comparativo complessivo che tenga conto dei vari aspetti somatici l’intervento chirurgico appare non aver indotto alcun miglioramento rispetto allo status quo ante, ovvero un peggioramento rispetto all’effetto estetico non raggiunto” (cfr. pag. 31 CTU).
Nella valutazione complessiva, quindi, dei dati a disposizione, la consulenza tecnica d’ufficio conclude, sul punto, che gli esiti morfologici, come già ricordato, sono emendabili, e comunque da riferirsi ad oggettività anatomica pura(cfr. pag. 32 CTU).
In base a quanto precede, e alla stregua dei criteri probatori indicati al punto 7., secondo i quali è a carico del sanitario la prova della correttezza del suo operato, secondo i criteri di diligenza, prudenza e perizia, dovendo invece presumersi l’inadeguata o non diligente esecuzione della prestazione da parte del medico, salva la prova contraria a carico del professionista, ne consegue che il mancato miglioramento delle condizioni estetiche e comunque la complessiva situazione residua del soma, “peggiorativa rispetto all’effetto estetico non raggiunto” (cfr. pag. 31 CTU), vanno posti a carico del sanitario convenuto in termini di responsabilità per inadempimento. è, infatti, condivisibile, sul piano logico, la conclusione della consulenza tecnica d’ufficio secondo la quale, in sostanza, i danni lamentati dall’attrice appaiono riconducibili ad un errore nella scelta dell’intervento da effettuare, ove posto in relazione all’inadeguata informazione fornita; e tale valutazione configura responsabilità per inadempimento, anche prescindendo dalla qualificazione dell’ obbligazione in termini di mezzi ovvero di risultato. Anche, infatti, rimanendo nell’ambito di un’obbligazione di mezzi, in una situazione in cui l’intervento non era necessitato da esigenze terapeutiche o ricostruttive, un risultato della prestazione sanitaria non migliorativo, secondo le aspettative nutrite dal cliente sulla base di una informazione non corretta, configura un inadempimento, essendo anche individuati specifici profili di colpa, appunto con riferimento alla raccolta del consenso. Infatti, il consenso comprende (e per tale oggetto è valido ed efficace) l’informazione ricevuta sulle caratteristiche, i rischi e le conseguenze dell’intervento, ma non comporta certo, e ove espresso non sarebbe valido, l’accettazione di un intervento descritto in modo inadeguato e generico, secondo quanto chiarito dalla consulenza tecnica d’ufficio.

11. Va a questo punto esaminata l’eccezione contrattuale della chiamata in causa sull’operatività della garanzia assicurativa. è indiscusso che all’epoca dei fatti il convenuto era assicurato per R.C.
professionale presso la compagnia chiamata in causa. Nel contratto assicurativo prodotto dalla chiamata in causa Gan Italia, e prodotto anche dall’assicurato (doc. n. 4), si legge, alla condizione aggiuntiva A: “Dalla garanzia si intende esclusa la chirurgia estetica”. La finalità estetica dell’intervento chirurgico, come sopra esposto, è emersa definitivamente in corso di causa solo per effetto degli accertamenti tecnici effettuati in sede di consulenza, che ha concluso escludendo la natura terapeutica dell’intervento. Pertanto, la predetta condizione aggiuntiva rende inoperante la copertura assicurativa.
12. Stabilito ed accertato tutto quanto sopra, occorre determinare l’ammontare del risarcimento dovuto.
In ordine alla quantificazione dei danni, parte attrice chiede il risarcimento del danno, consistente in: danno patrimoniale individuato nelle spese mediche; danno biologico da inabilità temporanea totale; danno biologico da invalidità permanente parziale; danno da violazione dell’ obbligo del consenso informato; danno morale.
In realtà, a parte le spese mediche, tutte le altre voci di danno sono inquadrabili, secondo la ricostruzione attualmente operata dalla migliore interpretazione , nel danno non patrimoniale per danno alla persona, senz’altro come lesivo di interessi di primaria importanza costituzionale ai sensi dell’art. 32 Cost., perché lesivo del diritto alla salute ed alla integrità psicofisica.
13. Può, anzitutto, essere riconosciuto il danno patrimoniale consistente negli esborsi sostenuti per i vari episodio della vicenda in questione, e pienamente documentati: Ricevuta n.ro …omissis… Azienda U.S.L. di Modena; Ricevuta n.ro …omissis… dott. …omissis… Ricevuta n.ro …omissis… dott. …omissis… Ricevuta n.ro …omissis… prof. …omissis… Compenso C.T.P. (dott. …omissis…); Compenso C.T.U. (dott. …omissis…); Compenso assistente C.T.U. dott.ssa …omissis… Tutte voci che trovano conferma e giustificazione sulla base della consulenza tecnica d’ufficio. L’entità del risarcimento dovuto per il presente titolo di danno ammonta, quindi, ad euro 3.938,14.
14. All’attrice spetta, inoltre, la liquidazione del danno alla persona, nei termini di cui sopra. La liquidazione di tale danno, non esistendo criteri sicuri ed attendibili per la valutazione del valore biologico dell’uomo, non può che essere condotta in via equitativa.
Alla luce dei principi fissati in materia dalla Corte costituzionale, deve ritenersi che il danno biologico sia liquidabile secondo parametri equitativi che tengono conto oltre che dell’età, del sesso e di ogni altro indice sociale, culturale ed estetico che consente di adeguare in concreto il risarcimento al fatto.
Ad integrare la valutazione equitativa del giudice soccorre inoltre la consulenza tecnica d’ufficio (immune da vizi logici ed esauriente sui quesiti proposti, e le risultanze della quale, sorrette da adeguata motivazione e frutto di congrua analisi della documentazione sanitaria versata in atri e di quanto direttamente constatato dal consulente nel corso della visita della danneggiata, sono di sicura affidabilità), che ha accertato che la lesione ha prodotto una invalidità temporanea assoluta di giorni 20, ed una invalidità temporanea parziale al 50% di giorni 30, nonché la sussistenza di postumi a carattere permanente, sia come pregiudizio estetico che come disagio relazionale, per la cui consistenza si rimanda per esteso alla consulenza tecnica d’ufficio, complessivamente quantificabile in una riduzione dell’integrità psicofisica nell’ordine del 8-10 % (otto-dieci per cento).
Per la valutazione equitativa del danno biologico ai sensi dell’art. 2056 Ce, preso atto dell’orientamento ormai consolidato della Corte di cassazione secondo cui non può essere utilizzato come parametro di riferimento il criterio del triplo della pensione sociale minima (cfr. ad es. Cass. 8/1/99, n. 101), può farsi riferimento alla tabella elaborata dal Tribunale di Milano, ampiamente utilizzata sul territorio nazionale, e sicuramente utilizzabile in un contesto – non solo dal punto di vista geografico ma anche da quello socio-economico – per molti aspetti non dissimile da quello milanese, come la provincia di Modena (quanto a costo della vita, durata media della stessa, livello di occupazione).
Detta tabella, com’è noto, espone valori unitari in base al punto di invalidità (di carattere indicativo) differenziati a seconda dell’età del leso e della percentuale di invalidità accertata con criteri medico-legali e suscettibili, in ogni caso, di essere adeguati al caso concreto – secondo l’insegnamento della Corte di cassazione – con l’utilizzo di altri parametri equitativi (quali il ricorrere di menomazioni aventi diversa natura, incidenti sul piano estetico ovvero che impediscono funzioni più specifiche; oppure l’incidenza della lesione su soggetto già affetto da invalidità preesistente) ovvero pienamente valido; o, ancora, la diversa età della vittima, ove essa appaia significativa in relazione al tipo di lesione, tenuto conto che i correttivi tabellari inerenti all’età non presentano variazioni significative in ampie fasce di età).
Tenuto, quindi, conto degli elementi sopra indicati, nella fattispecie appare anzitutto equo liquidare, tenuto conto dell’epoca del fatto, euro 113,50 per ogni giorno di invalidità totale temporanea e le frazioni di tale somma per le corrispondenti percentuali di invalidità parziale temporanea.
Per quanto riguarda l’invalidità parziale permanente, sulla base della consulenza tecnica d’ufficio essa viene stimata nel 9%. Per ciascun punto viene riconosciuto l’importo tabellare debitamente abbattuto col coefficiente di riferimento per l’età del danneggiato (pari a anni 34 e mesi 6 al momento del fatto). Nella fattispecie va seguito il predetto criterio del calcolo di valutazione a punto, tenuto conto del predetto grado di invalidità e dell’età della vittima all’epoca dell’evento dannoso.
15. Quanto al danno morale, nella specie esso può essere adeguatamente apprezzato in termini di personalizzazione del danno alla salute, nell’ottica di una complessiva valutazione equitativa del danno non patrimoniale.
Pertanto, al fine, inoltre, di adeguare il ristoro al caso particolare, è opportuno incrementare il calcolo effettuato ai fini del danno biologico con un ulteriore coefficiente aggiuntivo del 20%; operando una valutazione equitativa ai sensi dell’art. 1226 c.c., si stima equo liquidare conclusivamente il danno in euro 25.535,30.
16. Con riguardo alla rivalutazione delle somme liquidate a titolo di risarcimento del danno da invalidità permanente parziale, quando questa sia successiva ad un periodo di invalidità temporanea liquidata separatamente, essa decorre dal momento della cessazione dell’invalidità temporanea e non dal giorno dell’evento dannoso. Di conseguenza la data di riferimento per tale calcolo va fatta non alla data del fatto lesivo, ma da quella in cui è terminata la invalidità temporanea (nel caso di specie 50 giorni).
Il danno da invalidità temporanea va riportato in valori monetari alla data di verificazione del fatto dannoso e, conseguentemente, e la liquidazione va determinata in base ai medesimi criteri di cui sopra, nella misura sopra indicata.
Per i danni materiali per spese mediche le date di liquidazione sono riportate, per accertabile approssimazione, a quella del fatto dannoso, ai fini della rivalutazione monetaria e degli interessi.
L’insieme di tutte le somme indicate ai punti precedenti, riportate prima al valore della data del fatto, e poi con aggiunta della rivalutazione e degli interessi dovuti per il ritardo nella liquidazione, secondo i principi indicati da Corte di cassazione S.U. 17/2/95 n° 1712, nel caso di specie seguendo la progressione periodica annuale, porta ad un danno da liquidare che ammonta complessivamente ad euro 36.989,17.
17. Alla stregua di tutto quanto sopra esposto, la complessiva determinazione di quanto dovuto a parte attrice a titolo di risarcimento si determina come al punto precedente.
La domanda attorea va accolta nei limiti sopra ed i convenuti Azienda Unità Sanitaria Locale di Modena …omissis… vanno dichiarati tenuti in solido tra loro a risarcire a parte attrice i danni liquidati come nella soprastante motivazione.
Sulla base di quanto rilevato al punto 11., va invece esclusa la solidale responsabilità della convenuta compagnia assicuratrice.
18. Le spese di causa seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo. Pertanto i convenuti sono tenuti in solido alla rifusione nei confronti di parte attrice, mentre tra parte convenuta e parte chiamata le spese vanno compensate per la sussistenza delle eccezionali ragioni sopra evidenziate in ordine alle particolari modalità con le quali, in causa, è emersa la fondatezza dell’eccezione svolta dalla compagnia assicuratrice, soltanto ad esito di consulenza tecnica.
P.Q.M.
Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni diversa domanda rigettata,
dichiara tenuti e condanna …omissis… e Azienda Unità Sanitaria Locale di Modena, in solido tra loro, a corrispondere ad …omissis… a titolo di risarcimento del danno, la somma di euro 36.989,17, oltre gli interessi legali su detta somma dal deposito della presente sentenza fino al saldo effettivo;
dichiara tenuti e condanna …omissis… e Azienda Unità Sanitaria Locale di Modena, in solido tra loro, a rifondere ad …omissis… le spese processuali, che liquida nella somma di complessivi euro 5.500,00, di cui euro 250,00 per spese, oltre ad accessori dovuti per legge;
dichiara compensate le spese processuali tra …omissis… Azienda Unità Sanitaria Locale di Modena e Gan Italia S.p.a., ora Groupama S.p.a.
Così deciso in Modena, il 19/3/12

 

 

 

 

 

 


Fatto Diritto P.Q.M.
Tribunale Milano, sez. V 21/12/2011 n. 15395
Ritiene questo giudice che la domanda dell’attrice debba essere accolta nei limiti di cui in motivazione.
Dagli atti e documenti di causa, nonché dall’esperita CTU, non fatta oggetto di alcuna contestazione dalle parti costituite e ciò malgrado la concessione di termine per il detto incombente, è emerso che:
– “La signora P.B.D. presentava al settembre 2004 una gigantomastia bilaterale.
Vi era indicazione ad intervento correttivo mediante mastoplastica riduttiva, che fu praticato dal dr. A.M.A. il 29/9/04 presso la Clinica Villa Letizia. La procedura, benché complessa, non presentava e non presentò di fatto elementi di speciale difficoltà per un chirurgo plastico con una consolidata esperienza, come il convenuto. Essa fu condotta in modo ineccepibile per quanto concerne l’entità e la simmetria della demolizione/riduzione mammaria, ma inadeguato per la cattiva qualità della ricostruzione dei lembi cutanei e, segnatamente, delle loro suture, condotte secondo la nota metodica di Pitanguy.
– All’intervento de quo sono residuate, a fronte di un soddisfacente e simmetrico rimodellamento delle mammelle, cicatrici irregolari, slabbrate ed ipertrofiche, una retrazione del capezzolo destro ed un’abnorme lateralizzazione del capezzolo sinistro, condizionanti un inestetismo decisamente superiore a quello accettabile in questa chirurgia, ove condotta lege artis.
– Detti esiti sono da attribuire ad erronea condotta operatoria nel tempo relativo al confezionamento delle suture, eseguite in modo impreciso e con eccessiva tensione tra i lembi cutanei da riaccollare.
Quelli suindicati sono postumi inestetici a distanza, non derivati da complicanze che abbiano prolungato la durata della malattia post-chirurgica rispetto ai tempi comunemente osservati dopo mastoplastica riduttiva, cosicché non si è determinata una inabilità temporanea assoluta o parziale.
– Ne è derivato invece un peggioramento permanente, in termini di pregiudizio estetico, delle condizioni dell’attrice a confronto con quelle attese dopo buona correzione di gigantomastia.
– Il danno biologico di natura iatrogena ed ascrivibile a responsabilità professionale del sanitario convenuto, nei termini dianzi precisati, è stimabile nella misura attuale del 6-7% (sei-sette per cento), ricavabile dai barème indicati dalla più autorevole e apprezzata manualistica medico-legale italiana.
– L’inestetismo oggi presente è suscettibile di parziale correzione chirurgica mediante ulteriore intervento di revisione delle cicatrici e rimodellamento del capezzolo destro. Il suo costo sarebbe di circa 7.000 (settemila) Euro; il risultato prevedibile una riduzione del danno biologico attorno al 4-5%.
– Non figurano prodotte spese di cura; quelle future sarebbero appunto di 7.000 (settemila) Euro, qualora venisse affrontato il predetto intervento di revisione plastica” (testuale conclusioni dei ctu).
Orbene, in esito a tali chiare evidenze, si osserva che, ammesso il contatto sociale, provata la condizione antecedente all’intervento ed affermata (in esito alla consulenza tecnica) la ravvisabilità di una condizione peggiorativa, incombeva ai convenuti la prova concreta che quegli esiti peggiorativi non fossero collegati ad un proprio inadempimento, bensì ad un fatto esterno, imprevisto ed imprevedibile.
In mancanza di detta prova liberatoria concreta ed anzi in presenza di una adeguatamente motivata valutazione di imperizia (per il confezionamento di suture con modalità imprecise ed eccessiva tensione tra i lembi cutanei da riaccollare) deve procedersi all’affermazione di responsabilità professionale di entrambi i convenuti.
Ed infatti, la giurisprudenza assolutamente prevalente ha, ormai, chiarito come debba ritenersi sussistente la diretta responsabilità della struttura sanitaria nei confronti del paziente e ciò anche nell’ipotesi in cui non sussista alcun rapporto di stabile collaborazione o dipendenza con il professionista che presso la struttura ha scelto di operare ovvero anche nell’ipotesi in cui il danneggiato sia paziente privato del professionista e non abbia instaurato con la struttura sanitaria un rapporto di autonoma e diretta scelta.
È stato, infatti, affermato che “il rapporto che si instaura tra paziente e casa di cura privata (o ente ospedaliero) ha fonte in un atipico contratto a prestazioni corrispettive con effetti protettivi nei confronti del terzo, da cui, a fronte dell’obbligazione al pagamento del corrispettivo (che ben può essere adempiuta dal paziente, dall’assicuratore, dal servizio sanitario nazionale o da altro ente), insorgono a carico della casa di cura (o dell’ente), accanto a quelli di tipo “lato sensu” alberghieri, obblighi di messa a disposizione del personale medico ausiliario, del personale paramedico e dell’apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni od emergenze. Ne consegue che la responsabilità della casa di cura (o dell’ente) nei confronti del paziente ha natura contrattuale, e può conseguire, ai sensi dell’art. 1218 cod. civ., all’inadempimento delle obbligazioni direttamente a suo carico, nonché, ai sensi dell’art. 1228 cod. civ., all’inadempimento della prestazione medico – professionale svolta direttamente dal sanitario, quale suo ausiliario necessario pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato comunque sussistendo un collegamento tra la prestazione da costui effettuata e la sua organizzazione aziendale, non rilevando in contrario al riguardo la circostanza che il sanitario risulti essere anche “di fiducia” dello stesso paziente o, comunque, dal medesimo scelto” (Cass. 14.7.2004 n. 13066).
Accertata, quindi, la responsabilità del professionista nell’esecuzione della prestazione professionale, consegue la responsabilità della struttura sanitaria che di detto professionista si è avvalsa, poiché la sua notorietà in ambito professionale e validità in campo scientifico costituiscono elementi di incremento della capacità di affermazione della struttura sul mercato.
Se, quindi, l’utilizzo di un professionista piuttosto che di un altro costituiscono elementi rilevanti per l’impresa commerciale, al fine di rendere il servizio e di implementare la propria notorietà e gradimento tra gli utenti, appare conseguenziale che la stessa struttura debba rispondere dell’operato di tali ausiliari laddove questo non sia stato idoneo a realizzare un pieno adempimento delle obbligazioni contrattuali assunte.
Così affermata la concorrente e solidale responsabilità del convenuto chirurgo e della convenuta casa di cura nei confronti dell’attrice per la vicenda sanitaria sopra esposta e la produzione di un esito dannoso, deve – ora – procedersi alla quantificazione del lamentato danno.
I consulenti tecnici d’ufficio hanno concluso nel senso che il pregiudizio patito dall’attrice all’esito dell’intervento delinei complessivamente un danno biologico nella misura del 6-7%, emendabile sino alla misura del 4-5% laddove venisse affrontato un ulteriore intervento chirurgico dal prevedibile costo di euro 7.000,00.
Venendo, quindi, al profilo della individuazione degli importi economici necessari per risarcire nella sua interezza le poste di danno come sopra indicate, deve – in questa sede – farsi luogo alle conseguenti operazioni di quantificazione: considerato che in sede di liquidazione del danno da invalidità per postumi permanenti il valore da attribuirsi ai punti di invalidità deve essere rapportato all’entità percentuale dell’invalidità riscontrata, considerato che l’aumento progressivo del predetto valore, per punto di invalidità, deve essere differenziato a seconda dell’età (dovendosi rapportare la liquidazione del danno biologico alla diversa incidenza dell’invalidità sul bene salute compromesso a seconda dell’arco vitale trascorso e dell’aspettativa di vita residua), avuto riguardo ai criteri di liquidazione del danno alla persona in uso presso questo Tribunale (tabelle 2011), l’importo astrattamente liquidabile – in via di equità – per una lesione dell’integrità psico-fisica del 6,5% in soggetto di 34 anni di età all’epoca dei fatti risulta corrispondente alla somma di euro 10.760,00 (importo aumentabile di un ulteriore 30% – e così pari alla complessiva somma di euro 14.000,00 – al fine di procedere alla corretta personalizzazione dell’importo risarcitorio rispetto alla concreta e maggiore afflittività ed incidenza della vicenda dannosa sulla qualità della vita e sugli aspetti soggettivi e relazionali, come emergenti dalle dichiarazioni testimoniali rese all’udienza delll3.10.2010 dal teste D.L.).
Detti importi risultano quantificati in moneta attuale (ed appaiono sostanzialmente coincidenti con l’ipotesi di liquidazione di un danno pari al 4,5%, ugualmente personalizzato, congiuntamente al costo o per l’esecuzione di un intervento chirurgico di parziale emenda).
Quanto all’applicabilità del parametro tabellare di liquidazione, la Cassazione con la recente sentenza n. 12408/2011 ha chiarito che Nella liquidazione del danno biologico, quando manchino criteri stabiliti dalla legge, l’adozione della regola equitativa di cui all’art. 1226 cod. civ, deve garantire non solo una adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l’uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, essendo intollerabile e non rispondente ad equità che danni identici possano essere liquidati in misura diversa sol perché esaminati da differenti Uffici giudiziari. Garantisce tale uniformità di trattamento il riferimento al criterio di liquidazione predisposto dal Tribunale di Milano, essendo esso già ampiamente diffuso sul territorio nazionale – e al quale la S.C., in applicazione dell’art. 3 Cost., riconosce la valenza, in linea generale, di parametro di conformità della valutazione equitativa del danno biologico alle disposizioni di cui agli arti. 1226 e 2056 cod. civ. -, salvo che non sussistano in concreto circostanze idonee a giustificarne l’abbandono.
La quantificazione del danno così operata, appare ben idonea a ristorare integralmente l’attrice del pregiudizio subito (compresa la “sofferenza morale”, stante la sostanziale unitarietà del danno non patrimoniale come di recente ricostruita ed affermata anche dalla Suprema Corte a Sezioni Unite – sentenza n.26972/08), risultando adeguatamente valorizzato anche l’aspetto delle ulteriori personalizzazioni necessarie a risarcire le complessive conseguenze dannose.
Va da ultimo evidenziato come parte attrice abbia percepito dall’assicurazione Zurich terza chiamata l’importo di euro 13.000,00, trattenuto in acconto sul maggior danno patito.
A questo punto deve essere effettuata un’operazione di devalutazione della complessiva somma di euro 14.000,00 alla data del fatto di danno (29.09.2004).
L’importo così ottenuto (pari ad euro 12.212,00) deve essere maggiorato degli interessi legali sulla somma annualmente rivalutata da detta data alla data del 13.10.2010 (momento di pagamento della somma di euro 13.000,00).
Si perviene, così, alla quantificazione dell’importo dovuto all’indicata data del 13.10.2010 per complessivi euro 15.523,00, cui deve essere detratta la somma corrisposta di euro 13.000,00.
Deve, pertanto, essere pronunciata la condanna dei convenuti a pagare la residua somma di euro 2.523,00, oltre interessi legali sulla somma annualmente rivalutata dal 13.10.2010 alla data odierna ed oltre interessi legali da oggi al saldo effettivo.
All’accertamento della responsabilità dei convenuti per negligente comportamento professionale e dell’avvenuta produzione di esiti dannosi a carico di parte attrice consegue la dichiarazione di risoluzione del contratto per fatto e colpa degli stessi, con condanna della convenuta casa di cura alla restituzione della somma di euro 2.065,20 (di cui al doc. 8 convenuta) e del convenuto A.M.A. alla restituzione dell’importo di euro 3.934,80 (determinato per differenza rispetto alle risultanze di cui al doc. 3 di parte attrice), per entrambi oltre interessi legali dall’esborso al saldo effettivo.
Quanto alle domande di manleva spiegate dalle parti si osserva:
– La domanda di manleva svolta dalla convenuta casa di cura nei confronti della propria impresa di assicurazioni risulta prescritta, come eccepito dalla terza chiamata sin dalla comparsa di risposta; ed infatti, a fronte della ricezione della missiva di denuncia del sinistro in data 22.9.06 (doc. 6 attrice), l’assicurata non ha dimostrato di aver tempestivamente informato la propria compagnia di assicurazioni in data antecedente alla chiamata in causa (8.2.08) con ciò incorrendo nell’effetto estintivo di cui all’art. 2952 c.c. (senza che a tanto potesse ovviarsi con l’ammissione della prova testimoniale dedotta al capitolo 6 della memoria istruttoria di detta parte, laddove si chiedeva al teste di confermare “la tempestiva denunzia del sinistro a mezzo del broker assicurativo”, con ciò incorrendo nel divieto di articolare prova dal tenore generico e valutativo, non essendo indicata la pretesa data di denuncia);
– La domanda di manleva svolta dal convenuto A.M.A. nei confronti della propria impresa di assicurazione può trovare accoglimento – al netto delle franchigie contrattualmente pattuite – per il solo importo risarcitorio ed i connessi accessori e spese (con esclusione, quindi, dell’operatività in relazione agli importi restitutori);
La domanda di manleva svolta dalla convenuta casa di cura nei confronti del convenuto A.M.A. può trovare accoglimento – con esclusione degli aspetti restitutori direttamente riferiti alla convenuta – per quanto la stessa dovesse sborsare in favore di parte attrice per capitale risarcitorio, interessi e spese in dipendenza della presente sentenza. Ciò in quanto nei rapporti interni la sopra individuata responsabilità solidale verso l’esterno non risulta impeditiva della possibilità di individuare un diverso fondamento interno di responsabilità tra i condebitori solidali. Orbene, la casa di cura – nel formulare la domanda in questione – non ha provveduto ad alcuna qualificazione giuridica del fondamento della stessa, compito che, comunque, spetta a questo giudice. Sul punto si ritiene che la domanda possa essere intesa quale richiesta di risarcimento del danno ai sensi dell’art. 2043 ce, cioè quale richiesta di condanna dell’altro convenuto al risarcimento del danno ingiusto provocato con il proprio comportamento colposo (avente idoneità plurioffensiva, siccome idoneo a cagionare un danno sia al paziente sia alla casa di cura, nel ledere l’integrità della prestazione imprenditoriale dalla stessa offerta sul mercato ed esponendola a conseguenze economiche pregiudizievoli).
Le spese di lite tra attrice e convenuti seguono la soccombenza e vengono liquidate in dispositivo;
analogamente le spese di lite tra convenuta casa di cura e terza chiamata Ubi devono essere poste a carico della chiamante soccombente, stante l’affermata prescrizione del diritto (con liquidazione equitativa, stante l’assenza di nota spese); le spese tra le altre parti possono essere compensate.
Parimenti le spese di ctu, già liquidate con separato provvedimento, possono definitivamente essere poste a carico dei convenuti in via tra loro solidale.
P.Q.M.
Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza disattesa o assorbita, così dispone:
accertato e dichiarato il grave inadempimento dei convenuti e dichiarata la risoluzione del contratto di prestazione d’opera, li condanna, in via tra loro solidale, a risarcire il danno patito dall’attrice e per l’effetto a pagare la residua somma di euro 2.523,00, oltre interessi legali sulla somma annualmente rivalutata dal 13.10.2010 alla data odierna ed oltre interessi legali da oggi al saldo effettivo;
condanna il convenuto chirurgo a restituire all’attrice la somma di euro 3.934,80, oltre interessi legali dall’esborso al saldo effettivo;
condanna la convenuta casa di cura a restituire all’attrice la somma di euro 2.065,20, oltre interessi legali dall’esborso al saldo effettivo
in accoglimento della domanda di manleva svolta dal convenuto A.M.A. nei confronti della propria impresa di assicurazione, la condanna a tenere indenne e manlevato il convenuto da quanto dovrà pagare all’attrice in dipendenza della presente sentenza per il solo importo risarcitorio ed i connessi accessori e spese – al netto delle franchigie contrattualmente pattuite e dell’acconto già versato;
in accoglimento della domanda di manleva svolta dalla casa di cura nei confronti del convenuto A.M.A., lo condanna a tenere indenne e manlevata la casa di cura da quanto dovrà pagare all’attrice in dipendenza della presente sentenza per il solo importo risarcitorio ed i connessi accessori e spese – con esclusione degli aspetti restitutori;
dichiara la prescrizione del diritto assicurativo azionato dalla casa di cura nei confronti della propria impresa di assicurazioni
condanna i convenuti, in via tra loro solidale a rifondere all’attrice le spese di lite, che liquida in euro 500,00 per spese, euro 2.200,00 per diritti ed euro 2.400,00 per onorari, oltre rimborso forfettario, oneri fiscali e previdenziali come per legge;
condanna i convenuti, in via tra loro solidale a rimborsare all’attrice le spese di consulenza tecnica di parte, liquidati in euro 1.560,00;
condanna la casa di cura a rifondere alla propria impresa di assicurazioni le spese di lite, equitativamente liquidate in euro 1.800,00 per diritti ed euro 1.800,00 per onorari, oltre rimborso forfettario, oneri fiscali e previdenziali come per legge;
compensa tra le altre parti le spese di lite
pone definitivamente a carico dei convenuti, in via tra loro solidale” le spese di ctu, già liquidate con separato provvedimento.
Sentenza resa ex articolo 281 sexies c.p.c. pubblicata mediante lettura alle parti presenti ed allegazione al verbale, firmata e depositata con firma digitale.
Milano,21.12.2011
Diritto P.Q.M.

 

La domanda di risarcimento dei danni per inadempimento contrattuale può essere proposta congiuntamente o separatamente da quella di risoluzione, giacché l’art. 1453 cod. civ., facendo salvo in ogni caso il risarcimento del danno, esclude che l’azione risarcitoria presupponga il necessario esperimento, dell’azione di risoluzione del contratto, con la conseguenza che non può ritenersi implicita nella proposizione della domanda risarcitoria quella, autonoma, di risoluzione del contratto” (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 23820 del 24/11/2010).
All’esito del giudizio e vista la reciproca soccombenza, può essere pronunciata la compensazione inter partes delle spese di lite e ciò anche nei rapporti con la terza chiamata impresa di assicurazioni (regolarmente evocata in giudizio dalla casa di cura al fine di prestare la garanzia discendente dalla polizza in atti, stipulata per “Il rischio relativo ali ‘esercizio dell’attività di casa di cura, nulla escluso né eccettuato … nonché i rischi derivanti dalla degenza e/o frequentazione dei pazienti presso la clinica”

 

Tribunale Milano, sez. V 16/03/2011 n. 3610
Ragioni in fatto e in diritto
Con atto di citazione regolarmente spiccato, l’attrice citava in giudizio il dott. V.A.E. e la Casa di Cura V.L. per sentirli solidalmente condannare al risarcimento del danno patito da parte attrice e quantificato in euro 40.000,00 (il tutto in esito all’esecuzione presso la casa di cura convenuta e ad opera dèi chirurgo convenuto – di un intervento di mastoplastica additiva, da cui era derivata la produzione di un ematoma post operatorio e la successiva comparsa di antiestetica e dolente protuberanza, e ciò senza che la possibilità del prodursi di detti esiti fosse stata adeguatamente e compiutamente illustrata).
Si costituiva in giudizio là convenuta casa di cura svolgendo difese in ordine alla mancanza di qualsivoglia profilo di responsabilità alla stessa ascritto, eccependo la nullità dell’atto di citazione per indeterminatezza della domanda svolta e dei danni rivendicati e svolgendo domanda di manleva verso il chirurgo e la propria impresa di assicurazioni.
Si costituiva in giudizio il dott. V.A.E. per contestare le avverse domande e per eccepire di aver reso un comportamento professionale del tutto conforme alle prescrizioni della lex artis.
Si costituiva, infine, anche l’impresa di assicurazione della convenuta casa di cura per eccepire la non operatività della polizza (non estesa a danni causati dall’operato di medici dipendenti o non dipendenti).
Dato ingresso ad accertamento peritale, preso atto dell’assenza di contestazioni avverso l’elaborato peritale depositato dai nominati ctu e disattese le ulteriori istanze, la causa veniva rinviata per la precisazione delle conclusioni.
Espletato l’incombente, concessi i termini per il deposito delle comparse conclusionali e di replica, esaminate le risultanze istruttorie acquisite al processo e letti gli scritti difensivi finali, si procede alla redazione della presente sentenza adeguandosi al canone normativo dettato dagli artt. 132 co. 2° n. 4) c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c, i quali oggi -a seguito dell’immediata entrata in vigore anche per i giudizi pendenti dell’art. 45 co. 17° della legge 18/6/2009 n. 69 – dispongono che la motivazione debba limitarsi ad una concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione, specificando che tale esposizione debba altresì essere succinta e possa fondarsi su precedenti conformi.
Procedendo, quindi, alla valutazione delle domande come azionate da parte attrice si osserva come a ciò debba farsi seguito dando applicazione al principio secondo il quale: “Il medico è tenuto al risarcimento del danno lamentato dal paziente non ogni qual volta si sia discostato dalle regole della buona pratica clinica od abbia omesso di informare adeguatamente il paziente stesso, ma soltanto allorché la violazione di tali obblighi sia stata la causa (o concausa) efficiente di un danno effettivo. Ciò vuol dire che, là dove il paziente alleghi la violazione delle “leges artis” da parte del medico, ha altresì l’onere di provare che da tale inadempimento è derivato un peggioramento delle proprie condizioni di salute altrimenti evitabile; là dove, per contro, alleghi la violazione dell’obbligo di informazione da parte del medico, ha l’onere di provare che, ove l’informazione fosse stata fornita, avrebbe rifiutato il trattamento sanitario” (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 16394 del 13/07/2010).
Orbene, nella fattispecie l’attrice non ha fornito la prova né della propria condizione fisica anteriormente all’intervento del quale qui si discute (avendo, tra l’altro, allegato in citazione di essersi indotta all’esecuzione dell’intervento al fine di “modificare il proprio aspetto fisico, che era per lei motivo di disagio psichico e interiore” conf. citazione pag. 2 – e risultando, invece, dalla raccolta dell’anamnesi patologica prossima – [conf. pag. 6 ctu – che l’intervento era stato programmato per correggere una ipoplasia mammaria bilaterale) né della propria condizione fisica successiva all’intervento [effettuato nel giugno 2004.
Ciò in quanto alla data di espletamento della ctu e di esecuzione della visita peritale, la stessa risultava aver già dato corso a successivo intervento di sostituzione delle protesi, previa capsulectomia e riposizionamento in sede sottomuscolare, ad opera di altro chirurgo ed utilizzando la medesima via di accesso del primo intervento (conf. ctu pag. 7-8).
Non risultando prodotta agli atti neppure alcuna fotografia né essendo stato esperito alcun mezzo di istruzione preventiva antecedentemente al secondo intervento chirurgico (del quale neppure risulta versata in causa la cartella clinica ovvero la relazione di intervento), i consulenti hanno dato atto della mancanza di “elementi oggettivi per poter valutare quale fosse la condizione clinica presente nell’intervallo di tempo fra la guarigione con affermati postumi del 14.6.04 ed il successivo intervento riparatore del 15.12.06” (conf. ctu pag. 10).
Detti eventuali postumi (come detto non riscontrati direttamente dai ctu) sono stati pienamente emendati dal secondo intervento, essendosi la paziente dichiarata perfettamente soddisfatta dell’esito anche estetico conseguito con il citato secondo intervento.
Nessuna prova, quindi, della lamentata deteriorità delle proprie condizioni fisiche né allo stato attuale né per il periodo compreso tra i due interventi.
In ogni caso, i ctu hanno evidenziato come l’evento verificatosi successivamente all’esecuzione di mastoplastica del giugno 2004 – costituito da contrattura capsulare periprotesica, secondo quanto emergente dalla ecografia in data 28.4.05 e dal certificato redatto dal dott. C. in data 12.10.05 – non costituisce esito di un comportamento professionale colposo bensì complicanza incolpevole, con possibile insorgenza nel 3,5% dei casi e maggiormente nelle ipotesi (come la presente) in cui si sia verificato un ematoma post chirurgico (conf. ctu pag. 8).
Esclusa, quindi, la sussistenza in concreto di un profilo di responsabilità professionale Icr negligenza, imperizia o imprudenza, deve osservarsi come il possibile verificarsi di letto evento – cui i ctu attribuiscono una elevata possibilità di sopravvenienza – non Insulti in alcun modo indicato nel testo del modello di consenso informato prodotto agli fatti di causa.
{L’avvenuta espressa segnalazione della detta evenienza non risulta, poi, allegata dalle [parti convenute neppure nel capitolato istruttorio dalle stesse articolato’.
A ciò consegue la valutazione di inadempimento dei convenuti rispetto all’obbligo sugli stessi incombenti quanto alla necessità di fornire alla paziente una completa informativa in merito alle possibili evenienze dannose, alla loro percentuale di verificazione ed ai conseguenti trattamenti terapeutici, così da consentire al paziente medesimo di consapevolmente e pienamente autodeterminarsi nella scelta dell’atto medico da compiere (obblighi a maggior ragione sussistenti laddove l’atto medico in questione non risulti necessitato da una cogente esigenza di trattamento di incidente e preesistente patologia).
Il consenso costituisce, altresì, “legittimazione e fondamento del trattamento sanitario: senza il consenso informato l’intervento del medico è, al di fuori dei casi di trattamento sanitario per legge obbligatorio o in cui ricorra uno stato di necessità, sicuramente illecito, anche quando è nell’interesse del paziente; la pratica del consenso libero e informato rappresenta una forma di rispetto per la libertà dell’individuo e un mezzo per il perseguimento dei suoi migliori interessi” (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 21748 del 16/10/2007). All’affermazione del superiore principio consegue l’onere per entrambi gli interlocutori tecnici del rapporto (cioè il medico che esegue l’atto sanitario e la struttura ove l’atto medesimo viene eseguito) di verificare che al paziente sia stata fornita corretta e piena informazione in merito alla terapia o all’intervento da praticare, risultando, in mancanza di prova sul punto (sugli stessi incombente alla stregua del principio di vicinanza della prova ex Cass. SU 13533/01), inadempiènti rispetto ad un preciso obbligo contrattuale.
Trattandosi di obbligo contrattuale direttamente gravante anche sulla casa di cura, di ciascun pregio appaiono le difese svolte dalla convenuta casa di cura V.L. ed efferente alla pretesa mancanza di censure in merito al proprio comportamento professionale, dal momento che “Il rapporto che si instaura tra paziente e casa di cura (o ente ospedaliero) ha la sua fonte in un atipico contratto a prestazioni corrispettive con effetti protettivi nei confronti del terzo, da cui, a fronte dell’obbligazione al pagamento del corrispettivo (che ben può essere adempiuta dal paziente, dall’assicuratore, dal servizio sanitario nazionale o da altro ente), insorgono a carico della casa di cura (o dell’ente), accanto a quelli di tipo “lato sensu” alberghieri, obblighi di messa a disposizione del personale medico ausiliario, del personale paramedico e dell’apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni od emergenze. Ne consegue che la responsabilità della casa di cura (o dell’ente) nei confronti del paziènte ha natura contrattuale e può conseguire, ai sensi dell’art. 1218 cod. civ., all’inadempimento delle obbligazioni direttamente a suo carico, nonché, in virtù dell’art. 1228 cod. civ., all’inadempimento della prestazione medico-professionale svolta direttamente dal sanitario, quale suo ausiliario necessario pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato, comunque sussistendo un collegamento tra la prestazione da costui effettuata e la sua organizzazione aziendale, non rilevando in contrario al riguardo la circostanza che il sanitario risulti essere anche “di fiducia” dello stesso paziente, o comunque dal medesimo scelto” (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 13953 del 14/06/2007).
Peraltro, la Suprema Corte ha altresì evidenziato come “La responsabilità del sanitario di riflesso della struttura per cui egli agisce) per violazione dell’obbligo del consenso Riformato discende dalla tenuta della condotta omissiva di adempimento dell’obbligo di {informazione circa le prevedibili conseguenze del trattamento cui il paziente venga sottoposto e dalla successiva verificazione – in conseguenza dell’esecuzione del trattamento stesso, e, quindi, in forza di un nesso di causalità con essa – di un aggravamento delle condizioni di salute del paziente” (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 5444 del 14/03/2006).
Orbene, nella fattispecie l’attrice non ha allegato che qualora fosse stata compiutamente informata della possibile complicanza e della sua percentuale di verificazione deciso di non sottoporsi all’intervento chirurgico in oggetto né ha dimostrato la deteriorità delle proprie condizioni fisiche (per quanto sopra ricostruito) in dipendenza dell’intervento di mastoplastica additiva.
Deve, conseguentemente, farsi luogo al rigetto della domanda risarcitoria come genericamente indicata in citazione (per complessivi euro 40.000,00, non meglio specificati o titolati) siccome destituita di prova.
Né ad una diversa determinazione può pervenirsi sulla base della laconica affermazione contenuta nella comparsa conclusionale di parte attrice e sulla cui scorta il detto importo di euro 40.000,00 dovrebbe essere imputato a titolo di danno biologico e morale (come sopra detto non provati) nonché patrimoniale, “quest’ultimo inteso come danno emergente (spese sostenute per porre rimedio all’evento lesivo) oltre alla restituzione delle somme sostenute dalla stessa corrisposte al dott. V.A.E.” (conf. testuale conclusionale pag. 7).
Ed infatti, l’indicato danno emergente non può essere attribuito in mancanza di qualsivoglia prova in ordine alla sua stessa esistenza oltre che alla sua quantificazione (nulla risultando dedotto in merito alle spese sostenute per il secondo intervento, pacificamente eseguito ma di cui null’altro è dato sapere).
La restituzione delle somme pagate al dott. V.A.E., invece, non possono costituire danno erettamente e causalmente collegato al profilo di inadempimento sopra affermato, ma costituirebbero un esito restitutorio successivo alla pronuncia di risoluzione del contratto inter partes stipulato.
Peraltro, la domanda di risoluzione del contratto non è stata articolata in atti, onde deve sul punto farsi applicazione del principio anche di recente affermato dal Supremo Collegio e secondo il quale “La domanda di risarcimento dei danni per inadempimento contrattuale può essere proposta congiuntamente o separatamente da quella di risoluzione, giacché l’art. 1453 cod. civ., facendo salvo in ogni caso il risarcimento del danno, esclude che l’azione risarcitoria presupponga il necessario esperimento, dell’azione di risoluzione del contratto, con la conseguenza che non può ritenersi implicita nella proposizione della domanda risarcitoria quella, autonoma, di risoluzione del contratto” (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 23820 del 24/11/2010).
All’esito del giudizio e vista la reciproca soccombenza, può essere pronunciata la compensazione inter partes delle spese di lite e ciò anche nei rapporti con la terza chiamata impresa di assicurazioni (regolarmente evocata in giudizio dalla casa di cura al fine di prestare la garanzia discendente dalla polizza in atti, stipulata per “Il rischio relativo ali ‘esercizio dell’attività di casa di cura, nulla escluso né eccettuato … nonché i rischi derivanti dalla degenza e/o frequentazione dei pazienti presso la clinica”
conf. 4 Art. 1 polizza in atti).

Essendo l’impresa di assicurazioni evocata in giudizio al fine di prestare manleva per una responsabilità propria della struttura sanitaria, di nessun pregio appare il rilievo che la polizza medesima non fosse prestata anche a copertura dei rischi da “responsabilità civile professionale del personale medico, sia dipendente che non dipendente”.
P.Q.M.
Il Giudice, definitivamente pronunciando, nel contraddittorio delle parti, ogni diversa istanza, eccezione e difesa reietta:
dichiara l’inadempimento dei convenuti all’obbligo di fornire un’adeguata informazione alla paziente in merito alle possibili complicanze dell’intervento chirurgico eseguito;
rigetta la domanda risarcitoria siccome non provata;
compensa tra tutte le parti le spese di lite.
Così deciso in data 16 marzo 2011 dal TRIBUNALE ORDINARIO di Milano.
il Giudice
Dott. CATERINA APOSTOLITI.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

TRIBUNALE MODENA CONDANNA PER MASTOPLASTICA ADDITTIVA

 

Il Tribunale di Modena, in composizione monocratica, definitivamente pronunciando nella causa n. 1646/03 r.g., ogni diversa domanda o eccezione disattesa e respinta,,
– dichiara tenuto e condanna il convenuto …omissis… al pagamento in favore di …omissis… della somma di euro 41.936,27 da maggiorarsi degli interessi al saggio legale dalla pubblicazione della presente sentenza al saldo
– condanna il convenuto alla rifusione delle spese del giudizio, che si liquidano
– quanto alla attrice …omissis… nella misura di euro 9.442,26, di cui euro 414,00 per spese non imponibili, euro 208,26 per spese imponibili, euro 3.250,00 per diritti di avvocato ed euro 5.570,00 per onorario, oltre a spese generali, IVA e CPA
– quanto al terzo chiamato Lloyd adriatico ass.ni spa nella misura di euro 5.785,00, di cui euro 2.435,00 per diritti di avvocato ed euro 3.350,00 per onorari, oltre a spese generali, IVA e CPA
– si pongono le spese di ctu definitivamente a carico di parte convenuta.
Modena, 15 giugno 2011
Fatto Diritto P.Q.M.

 

 

 

Massima
Tribunale Modena, sez. I 16/06/2011 n. 1026
MOTIVI DELLA DECISIONE
Radica il presente giudizio parte attrice assumendo:
– Di essersi rivolta al convenuto nel settembre 1997 per la esecuzione di un intervento di mastoplastica riduttiva bilaterale al seno
– Che il sanitario aveva garantito un esito soddisfacente dell’intervento
– Che, viceversa, l’intervento medesimo sortiva un effetto esteticamente disastroso, con evidente asimmetria delle mammelle e forma irregolare delle stesse
– Che il convenuto, per rimediare, sottoponeva la attrice a n. 7 interventi al seno tra il 1998 ed il 1999
– Che nel 1999 la attrice si determinava altresì a subire un intervento estetico alle labbra, ed anche questo sortiva esiti assolutamente insoddisfacenti
– Che, in definitiva, a causa della condotta del convenuto aveva sofferto conseguenze pregiudizievoli gravi al seno ed al labbro, delle quali chiedeva il ristoro.
Si costituiva il convenuto resistendo ed assumendo:
– La esaustiva e corretta preventiva informazione della attrice sulle possibili conseguenze degli interventi
– La esecuzione assolutamente corretta di tutti gli interventi in oggetto, specificando come i 7 interventi eseguiti tra il 1998 ed il 1999 fossero previsti da protocollo e non finalizzati a rimediare ad un precedente errore
– Comunque la copertura assicurativa del convenuto, con richiesta di autorizzazione alla chiamata in causa del terzo.
Ottenuta la autorizzazione sopra indicata, il convenuto provvedeva a citare il terzo chiamato il quale si costituiva assumendo:
– Che il contratto concluso con il convenuto prevedeva una copertura assicurativa riferita al momento in cui viene presentata per la prima volta la richiesta di risarcimento
– Che tale richiesta risulta risalire al giugno 2000, laddove il contratto di assicurazione della responsabilità civile fu annullato nel luglio 1999, di talché la copertura assicurativa è inefficace
– Comunque la estinzione per prescrizione del diritto azionato dal convenuto ai sensi dell’art. 2952 cc.
La causa veniva istruita mediante
– Produzione documentale
– Atp in corso di causa
– Ctu medico legale.
Osserva questo giudice quanto segue.
Si muove dalle considerazioni cui è pervenuto il ctu; esse appaiono attendibili e condivisibili in ragione:
– Del contraddittorio con i consulenti di parte
– Della lucidità dell’esame eseguito
– Della completezza della documentazione clinica a disposizione
– Della assenza di profili di illogicità ovvero di lacune.
Tali conclusioni appaiono inequivoche e chiare nella definizione dei profili di responsabilità del sanitario convenuto, nei termini di seguito riportati:
“Da sottolineare, in primo luogo, che il Chirurgo omise di eseguire una adeguata anamnesi sulla paziente, non rilasciò alcuna copia del documento di consenso all’intervento (ammesso che questo sia mai stato sottoscritto), non indicò alla paziente (per quanto ella ha dichiarato) quale tipo di intervento intendesse praticarle e non la informò su quali sarebbero state le possibili complicanze degli atti chirurgici poi praticati, né le rilasciò alcuna certificazione medica descrittiva di quanto eseguito. Ciò in evidente contrasto con ogni dovere deontologico e giuridico di comportamento. Tanto più che la chirurgia estetica, per sua natura, non è mai una prestazione d’urgenza, quanto piuttosto una chirurgia di elezione latamente terapeutica, che implica problematiche di consenso informato e specifico ancor più cogenti e delicate.
Giova ancora sottolineare il fatto che nel caso di specie il chirurgo si è trovato ad affrontare un intervento del tutto ordinario, che non implicava certo la soluzione di problemi di speciale difficoltà tecnica.
Sul piano sostanziale, sulla base del quadro obiettivo descritto dai chirurghi consultati dalla paziente negli anni successivi e dal Prof….omissis… in sede di accertamento tecnico preventivo, nonché dei rilievi fotografici esaminati dal sottoscritto, è necessario esprimere un giudizio oltremodo negativo sull’operato del chirurgo che intervenne sulla Sig.ra…omissis…
I due seni apparivano, dopo l’intervento del 1997, estremamente difformi tra loro, sia per posizionamento che per aspetto morfologico, risultando la mammella sinistra molto più voluminosa (circa una volta e mezzo) della destra e con areola decisamente più grande della controlaterale; la ptosi mammaria non risultava assolutamente risolta, ed anzi vi era un marcatissimo sottoslivellamento della mammella sinistra rispetto alla destra (valutabile attorno a 4-5 cm.).
In realtà non è dato comprendere quale tipo di intervento sia stato eseguito dal chirurgo, considerando la presenza – in ognuno dei due seni -di una sola cicatrice emicirconferenziale a livello del solco sottomammario. Le tecniche utilizzate per la mastoplastica riduttiva sono fondamentalmente due: esse prevedono una incisione a “T” rovesciata, oppure ad “L”, entrambe ideate per rendere il più agevole possibile l’atto opertorio. In entrambi i casi, infatti, il chirurgo ha la possibilità di ridurre omogeneamente il tessuto adiposo ed eventualmente il tessuto ghiandolare (nell’ipotesi di una sua particolare voluminosità), agendo sia nelle porzioni laterali che nei distretti più profondi, e quindi di modellare la mammella secondo criteri di validità estetica sino ad ottenere per quanto possibile la morfo-volumetria gradita alla paziente. Con l’accesso sottomammario, invece, si può agire soltanto sulla porzione inferiore del seno e non sugli altri distretti. Ciò comporta lo svuotamento più o meno ampio della sola parte inferiore dell’organo, che costituisce il “sostegno” naturale della ghiandola: ne consegue un rischio concreto di scivolamento della ghiandola stessa verso il basso (ovvero, di ptosi mammaria). E questo è esattamente ciò che è accaduto nel caso di specie. La tecnica chirurgica adottata (che non trova riscontri nella letteratura scientifica) avrebbe trovato una sua giustificazione – pur non potendosi considerarla di elezione – soltanto nel caso si fosse optato per l’inserimento di una protesi anatomica in sede sottoghiandolare o sottomuscolare.
È pertanto possibile affermare che l’intervento di rimodellamento del seno praticato nel settembre del ’97 sia stato errato nella scelta della tecnica operatoria, e comunque del tutto inadeguato al fine per cui era stato programmato. Non solo non si è ottenuto una correzione dell’inestetismo determinato dalla ptosi e dall’eccessivo volume delle mammelle, ma al contrario esso ha prodotto un decisivo peggioramento estetico della regione mammaria, non avendo eliminato la ptosi del seno destro, avendo aggravato la ptosi del seno sinistro ed avendo prodotto una marcata asimmetria volumetrica dei due seni e delle due areole.
La condotta professionale del chirurgo, nella fattispece,, appare censurabile sia sotto il profilo della diligenza che della perizia, tanto più se si tiene conto del fatto che la prestazione del chirurgo estetico implica un impegno non soltanto di mezzi ma anche di risultati, il cui mancato raggiungimento costituisce una oggettiva inadempienza.
Analoghe considerazioni possono essere prospettate per gli interventi al volto ed alle labbra (che la paziente non aveva richiesto e che, a quanto pare, sono stati “indotti” dal chirurgo), con l’aggravante – non di poco conto – dell’utilizzo per via iniettiva di una sostanza (verosimilmente il silicone) il cui uso era già da anni esplicitamente “vietato” proprio a causa delle reazioni tissutali (granulomi da corpo estraneo con reazioni fibrotiche secondarie) che essa con facilità produce.
Gli interventi al seno ed alle labbra cui la paziente si è poi sottoposta nel settembre del 2006 sono stati resi necessari dalla necessità di correggere i profondi inestetismi prodotti dal primo intervento: i risultati raggiunti, sia pure decisamente migliorativi, non appaiono però del tutto soddisfacenti, tanto che tutt’oggi permane un danno estetico mammario di sicura rilevanza ed una lieve irregolarità della superficie mucosa delle labbra.
Da considerare inoltre, sul piano valutativo medico-legale, i profondi disagi psicologici che l’intera vicenda ha provocato nella paziente, che ha sviluppato una sindrome ansioso-depressiva reattiva, con polarizzazione ideativa sulle menomazioni estetiche (della cui difficile emendabilità ella è pienamente consapevole) sino alla strutturazione di una vera e propria dismorfofobia. Le inferenze negative sulla vita di relazione della paziente, in particolare nei rapporti di coppia, appaiono indubbie e facilmente comprensibili, nonostante la paziente tenda – quasi per “autoconvincersene” – a minimizzarle.
Tenuto conto della natura degli interventi correttivi subiti, si ritiene che le sofferenze fisiche patite dalla paziente sia stato di livello medio-lieve.
Quanto ai costi sostenuti dalla paziente per gli accertamenti clinico-strumentali successivi al primo intervento del ’97, risultano prodotti in atti ricevute relative agli accertamenti strumentali (per complessivi euro 590 circa); ricevute per farmaci e protesi mammarie estetiche (per complessivi euro 1.140 circa); ricevute per visite specialistiche (per complessivi euro 1.136 circa). Per l’intervento chirurgico praticato nel 2006, risultano prodotte ricevute per onorari chirurgici (per complessivi euro 6.500), per protesi mammarie (per complessivi euro 1.625) e per spese di Casa di Cura (per complessivi euro 3.972). Tali importi risultano pertinenti (in quanto resi necessari dal danno estetico cagionato dal primo intervento) e congrui.
Risulta ancora prodotta una ricevuta (recante intestazione …omissis… Dott. …omissis…, specialista in Medicina Legale ed in …omissis…) per “spese mediche dal 2002 al 2005” con un importo di euro 2.758,23: non è dato comprendere a che cosa tali “spese mediche” possano riferirsi. Ed una ricevuta per l’iscrizione ad un corso di Yoga (per un importo di euro 120), che non può essere ritenuta pertinente. Risulta infine prodotta una ricevuta per relazione medico-legale di parte (per un importo di euro600), da considerarsi congrua e pertinente (…) L’intervento di chirurgia plastica cui la Sig.ra …omissis… è sottoposta nel settembre del 1997 è risultato errato per la tecnica chirurgica scelta e decisamente peggiorativo, nei risultati raggiunti, rispetto alla situazione anatomica quo ante. Si ritiene che, nonostante il miglioramento estetico prodotto dal nuovo intervento correttivo eseguito nel settembre del 2006, i postumi residuati incidano in misura più che apprezzabile sull’integrità psico-fisica della perizianda: il danno biologico che ne discende appare quantificabile nella misura del 10 (dieci) % circa. Non è individuabile, allo stato, alcuna incidenza sulla capacità della perizianda di produrre reddito. Appare altresì improbabile che eventuali ulteriori interventi di chirurgia estetica (che peraltro la paziente ha dichiarato di non avere alcuna intenzione di eseguire) possano produrre un ulteriore miglioramento della morfologia mammaria, tale da consentire un apprezzabile ridimensionamento della percentuale testé espressa. Le sofferenze fisiche patite dalla perizianda sono qualificabili come medio-lievi. Occorre inoltre considerare che, a seguito dell’intervento chirurgico di correzione si è determinato un periodo di inabilità temporanea totale di gg.10; cui ha fatto seguito una temporanea parziale al 50% di gg.20 ed una parziale al 25% di ulteriori gg. 40 circa. Non si prevede la necessità di alcuna spesa futura.”
Appare pertanto, pure in un contesto giurisprudenziale prevalente secondo il quale nella chirurgia estetica va ravvisata una obbligazione di mezzi e non già di risultato, la responsabilità contrattuale del sanitario convenuto sotto un duplice profilo:
– Insufficiente formazione del consenso informato
– Negligente ed imperita esecuzione degli interventi, sia sotto il profilo della preparazione degli stessi, sia sotto il profilo della materiale esecuzione dei medesimi.
Perplessità sorgono circa la sussistenza di un nesso causale tra mancata acquisizione di consenso consapevole e pregiudizio lamentato dal paziente. Vale osservare come la questione sia stata esaminata dalla Cassazione e risolta in senso positivo (sul punto Cass. civ. 9.2.2010 n. 2847), laddove si chiarisce che occorre domandarsi, come in ogni valutazione controfattuale ipotetica, se l’adempimento da parte del medico dei suoi doveri informativi avrebbe prodotto l’effetto della non esecuzione dell’intervento chirurgico dal quale, senza colpa di alcuno lo stato patologico è poi derivato. In altri termini, la risarcibilità del danno da lesione della salute che si verifichi per le non imprevedibili conseguenze dell’intervento chirurgico, anche qualora correttamente, ma tuttavia effettuato senza la preventiva informazione del paziente circa i suoi possibili effetti pregiudizievoli, e dunque senza un consenso consapevolmente prestato, necessariamente presuppone l’accertamento che il paziente quel determinato intervento avrebbe rifiutato se fosse stato adeguatamente informato.
Di tale certezza non vi è prova disponibile in atti, neppure sotto il profilo della presunzione.
Appare viceversa comunque provato l’inadempimento del convenuto sotto il profilo della esecuzione negligente ed imperita della propria obbligazione, dalla quale è derivato il danno sofferto da controparte e definito dal ctu nel proprio elaborato.
Muovendo dal principio recentemente riassunto da Tribunale Milano, sez. V, 22/04/2009, n. 5322 secondo il quale “in tema di responsabilità civile nell’attività medico-chirurgica, ove sia dedotta una responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e/o del medico per l’inesatto adempimento della prestazione sanitaria, il danneggiato deve fornire la prova del contratto o del contatto e dell’aggravamento della situazione patologica (o dell’insorgenza di nuove patologie per l’effetto dell’intervento) e del relativo nesso di causalità con l’azione o l’omissione dei sanitari, restando a carico dell’obbligato – sia esso il sanitario o la struttura – la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile; tuttavia, l’insuccesso o il parziale successo di un intervento di “routine” o comunque, con alte probabilità di esito favorevole, implica di per sé la prova dell’anzidetto nesso di causalità, giacché tale nesso in ambito civilistico, consiste anche nella relazione probabilistica concreta tra comportamento ed evento dannoso secondo il criterio ispirato alla regola della normalità causale del “più probabile che non…”, vale osservare
– Come la esistenza della vicenda contrattuale tra le parti non costituisca materia controversa
– Come la prova
– Della esistenza delle lesioni lamentate
– Del rapporto di causalità tra di esse e gli interventi effettuati dal convenuto, privi di profili di particolare complessità
– Della negligenza e imperizia con le quali furono eseguiti tali interventi si desumano alla stregua della ctu in atti.
La liquidazione del danno patito dalla attrice a seguito degli interventi in oggetto muove dalle conclusioni cui è giunto il ctu (il pervenimento è avvenuto all’esito di un intervento correttivo, di talché il quadro complessivo del pregiudizio psico fisico è migliore rispetto a quello relitto dal convenuto; ascrivibili agli interventi posti in essere dal convenuto, siccome conseguenti ad un intervento correttivo, appaiono i periodi di inabilità come indicati) e si ottiene facendo applicazione delle note tabelle del Tribunale di Milano per il 2010, nei termini che seguono:
ITT di gg. 10 euro 882,00
ITP al 50% di gg.20 euro 882,00
ITP al 25% di gg. 40 euro 882,00
Biologico 10% euro 20.829,00
per un importo complessivo liquidato alla attualità e convertito in credito di valuta di euro 23.475,00.
Essendo stato adottato il c.d. punto pesante, non si fa luogo ad ulteriore personalizzazione del danno non patrimoniale da patimento psicologico, atteso come la sofferenza fisica patita dalla attrice sia stata definita dal ctu come di intensità medio-lieve, e come la complessiva modestia del pregiudizio psico fisico induca a ritenere la esaustività dell’importo riconosciuto come ristoro della intera voce di danno non patrimoniale.
Si riconosce il diritto della parte attrice ad ottenere il ristoro delle spese sostenute in conseguenza dell’intervento in oggetto – compreso il corrispettivo versato per gli interventi medesimi, come da domanda di parte attrice la quale presuppone la risoluzione del rapporto contrattuale per inadempimento di controparte – nel complessivo importo, determinato dal ctu con riferimento alle spese certamente da porsi in relazione con gli interventi, di euro 14.963,00. Tale importo si maggiora per rivalutazione monetaria e interessi con decorrenza 1.1.2003 (data mediana degli esborsi) alla attualità, liquidandosi con conversione in credito di valuta in euro 18.461,27.
Appare in conclusione la esistenza di una obbligazione di pagamento a titolo risarcitorio in capo al convenuto liquidata in valori attuali, e convertita in credito di valuta, per un importo di euro 41.936,27 (23.475,00 + 18.461,27) da maggiorarsi degli interessi al saggio legale dalla pubblicazione della presente sentenza al saldo.
Con riferimento alla domanda di manleva articolata dal convenuto nei confronti del terzo chiamato, appare il fondamento della allegazione di quest’ultimo di estinzione del diritto azionato per prescrizione, ciò che si pone quale rilievo preliminare ed assorbente rispetto all’ulteriore vaglio della operatività della polizza con clausola claim’s made alla fattispecie.
Avuto riguardo all’art. 2952 cc, appare provato (doc. 3 di parte attrice) come il convenuto ebbe a ricevere in data 8.6.2000 richiesta di risarcimento da parte della danneggiata, laddove nulla in atti consente di ritenere infondata la allegazione del terzo chiamato secondo la quale questi fu informato della richiesta risarcitoria solo all’atto della propria chiamata in causa, avvenuta nel giugno 2003.
Le spese del giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo, avuto riguardo allo scaglione corrispondente all’importo indicato nel dispositivo medesimo. Spese di ctu definitivamente a carico del convenuto.
P.Q.M.
Il Tribunale di Modena, in composizione monocratica, definitivamente pronunciando nella causa n. 1646/03 r.g., ogni diversa domanda o eccezione disattesa e respinta,,
– dichiara tenuto e condanna il convenuto …omissis… al pagamento in favore di …omissis… della somma di euro 41.936,27 da maggiorarsi degli interessi al saggio legale dalla pubblicazione della presente sentenza al saldo
– condanna il convenuto alla rifusione delle spese del giudizio, che si liquidano
– quanto alla attrice …omissis… nella misura di euro 9.442,26, di cui euro 414,00 per spese non imponibili, euro 208,26 per spese imponibili, euro 3.250,00 per diritti di avvocato ed euro 5.570,00 per onorario, oltre a spese generali, IVA e CPA
– quanto al terzo chiamato Lloyd adriatico ass.ni spa nella misura di euro 5.785,00, di cui euro 2.435,00 per diritti di avvocato ed euro 3.350,00 per onorari, oltre a spese generali, IVA e CPA
– si pongono le spese di ctu definitivamente a carico di parte convenuta.
Modena, 15 giugno 2011
Fatto Diritto P.Q.M.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Tribunale Bari, sez. II 19/10/2010 n. 3135
FATTO E DIRITTO
Risulta in fatto, e non è contestato, che L. G., in data 19.05.2000, fu sottoposta presso la Casa di cura Anthea S.r.l., e ad opera della dott.ssa T. M. S., ad intervento chirurgico di mastoplastica additiva e mastopessi.
Ciò premesso, nel presente giudizio la L. ha spiegato domanda, nei confronti della T. e della Anthea S.r.l., di risarcimento dei danni subiti in ragione dei deludenti risultati estetici dell’intervento chirurgico, sull’assunto che l’operazione aveva portato ad un aspetto estetico finale peggiore dello stato preoperatorio. Il giudizio ha, altresì, ad oggetto la domanda di risarcimento del danno per difetto di una completa informazione della L. in ordine ai potenziali risultati dell’intervento e la domanda di garanzia spiegata dalla T. nei confronti dell’Assitalia in virtù di polizza assicurativa.
Deve rilevarsi, in via preliminare, che l’Anthea S.r.l. e l’Assitalia hanno eccepito per motivi diversi la nullità dell’atto di citazione per mancata individuazione delle ragioni di fatto e di diritto poste a fondamento della domanda ex art. 163 n. 4 c.p.c. Sul punto giova rilevare che l’interpretazione della domanda giudiziale va compiuta non solo nella sua letterale formulazione, ma anche nel sostanziale contenuto delle sue pretese, con riguardo alle finalità perseguite nel giudizio. Nel caso di specie, non può ritenersi nulla la citazione per omessa determinazione delle ragioni della domanda, essendo necessario, per simile valutazione, che la causa petendi sia del tutto omessa o risulti assolutamente incerta, ipotesi che non ricorre quando tale elemento sia individuabile attraverso un esame complessivo dell’atto, tenendo presente che, per esprimerlo, non occorre l’uso di formule sacramentali o solenni. poiché è sufficiente che esso risulti dal complesso delle espressioni usate dall’attore in qualunque parte dell’atto introduttivo. Come è infondata l’eccezione dell’Anthea S.r.l. risultando dall’atto nel suo complesso evidenti le contestazioni nei confronti di questa sollevate dall’attrice, ovvero l’asserita corresponsabilità per l’esito non soddisfacente dell’intervento chirurgico compiuto nei locali della clinica convenuta, così altrettanto priva di pregio risulta l’analoga eccezione dell’Assitalia, posto che risultano evidenti le doglianze dell’attrice in merito all’allegato deludente esito dell’intervento di mastopessi (scivolamento della protesi, asimmetria delle mammelle ecc… ).
Ha altresì rigettata l’eccezione proposta dall’Assitalia S.p.A. di inammissibilità della domanda di garanzia formulata della T. sull’assunto che il rischio garantito era solo quello relativo ad eventuali danni estetici e fisiognomici causati dalla esecuzione dell’intervento e non quello conseguente alla mancata rispondenza del risultato previsto e sperato. L’eccezione trova espressa smentita nel tenore letterale della polizza che copriva tutti i rischi conseguenti alla attività medico chirurgica della assicurata “compresi i danni estetici e fisiognomici” è anche priva di pregio giuridico essendo evidente che il mancato raggiungimento del risultato sperato rileva, ai fini della copertura assicurativa, nei limiti in cui corrisponda ad un errore del medico: circostanza, questa, sottesa alla pretesa azionata dalla attrice.
Tanto premesso, il presente giudizio verte sull’accertamento della responsabilità professionale della T., e conseguentemente della clinica Anthea S.r.l., nei cui locali si è svolto il denunciato intervento di mastopessi, sotto un duplice profilo: per l’assenza della necessaria diligenza professionale e per la mancata acquisizione del consenso pienamente informato della paziente odierna attrice.
Quanto al primo profilo posto che, secondo l’orientamento ormai consolidato in giurisprudenza, ove l’istante deduca di aver subito un danno in ragione di una prestazione medico-chirurgica, a prescindere dal fatto che convenga in giudizio il singolo professionista o la struttura all’interno della quale ha subito il trattamento, si è in presenza di una ipotesi di responsabilità contrattuale, essendosi costituito un rapporto negoziale basato quanto meno sul contatto sociale va rilevato in generale che in tema di risarcimento del danno, il chirurgo, nell’adempimento delle obbligazioni inerenti alla propria attività professionale, è tenuto ad una diligenza che non è solo quella del buon padre di famiglia ex art. 1176. primo comma, cod. civ., ma e quella specifica del debitore qualificato, come prescritto dall’art. 1176, secondo comma, cod. cit.. la quale comporta il rispetto di tutte le regole e gli accorgimenti che nel loro insieme costituiscono la conoscenza della professione medica.
Del rispetto di tali regole ed accorgimenti ha dato atto il C.T.U. nella parte del suo elaborato (pag. 5) in cui rileva che la dott.ssa T. ha utilizzato quella che al momento dell’operazione era la tecnica più innovativa e che gli effetti indesiderati patiti dalla paziente (lo scivolamento della protesi o la piccola raccolta infiammatoria) non sono stati causati da un errore del chirurgo, la cui perizia è stata dimostrata dal soddisfacente decorso post-operatorio. Il C.T.U., alle cui conclusioni, che si ritengono logiche e coerenti, le parti non hanno opposto contrarie argomentazioni, ha quindi escluso la sussistenza del nesso causale tra la tecnica operatoria prescelta dalla T. e l’insorgenza delle predette complicanze. e ha evidenziato l’adeguatezza delle tecniche scelte dal chirurgo per l’intervento richiesto.
Esclusa sul punto la responsabilità professionale della T. il C.T.U. ha invece avvalorato le allegazioni della parte attrice in merito alla incompletezza delle informazioni fornite a quest’ultima circa le complicanze dell’intervento e circa la possibilità di un risultato esteticamente meno confacente alle sue aspettative. Ad avviso del consulente, infatti, la possibilità dello scivolamento della protesi e della raccolta infiammatoria – che hanno complicato e compromesso il risultato dell’intervento e che non sono derivati da un errore del chirurgo, ma dall’assunzione da parte dell’attrice di una terapia con corticosteroidi interferente sulla sintesi dei tessuti e predisponente alle infezioni – potevano e dovevano formare oggetto di dettagliata informazione da parte del chirurgo. Sul punto la parte convenuta si è limitata ad eccepire la completezza delle informazioni fornite alla paziente come risultanti dal modulo allegato alla cartella clinica, fornito dalla clinica Anthea e regolarmente sottoscritto dalla paziente. L’eccezione è priva di pregio visto che quello esibito non è altro che un modulo standard, come confermato anche dal teste sentito all’udienza del 12.06.2006 in qualità di direttore sanitario della clinica, contenente, in quanto tale, informazioni necessariamente generiche, senz’altro prive della specificità richiesta dalla giurisprudenza e necessaria perché vi sia una manifestazione di consenso del paziente realmente consapevole. Sul punto la Cassazione con numerose decisioni (cfr., ex plurimis, Cass., nn. 1950/1967, 1773/1981, 9705/1997 in tema proprio di chirurgia estetica, 5444/2006), ha affermato che “la mancata richiesta del consenso costituisce autonoma fonte di responsabilità qualora dall’intervento scaturiscano effetti lesivi per il paziente. per cui nessun rilievo può avere il fatto che l’intervento medesimo sia stato eseguito in modo corretto” (così Cass., n. 9374/1997). Ciò sull’implicito rilievo che, in difetto di “consenso informato” da parte del paziente, l’intervento terapeutico costituisce un illecito, sicché il medico risponde delle conseguenze negative che ne siano derivate quand’anche abbia correttamente eseguito quella prestazione. Tuttavia, nel caso specifico occorre porsi il problema se, perché il medico risponda del danno alla salute, occorre che sussista nesso causale tra mancata acquisizione di consenso consapevole e il pregiudizio lamentato dal paziente. La questione è stata recentemente esaminata dalla Cassazione e risolta in senso positivo (cfr. Cass. n. 2847 del 9.2.2010). Infatti, è stato affermato che occorre domandarsi, come in ogni valutazione controfattuale ipotetica, se la condotta omessa avrebbe evitato l’evento ove fosse stata tenuta: se, cioè l’adempimento da parte del medico dei suoi doveri informativi avrebbe prodotto l’effetto della non esecuzione dell’intervento chirurgico dal quale, senza colpa di alcuno lo stato patologico è poi derivato. E poiché l’intervento chirurgico non sarebbe stato eseguito solo se il paziente lo avesse rifiutato, per ravvisare la sussistenza di nesso causale tra lesione del diritto all’autodeterminazione del paziente (realizzatosi mediante l’omessa informazione da parte del medico) e lesione della salute per le pure incolpevoli, conseguenze negative dell’intervento, deve potersi affermare che il paziente avrebbe rifiutato l’intervento ove fosse stato compiutamente informato, giacché altrimenti la condotta positiva omessa dal medico (informazione, ai fini dell’acquisizione di un consapevole consenso) non avrebbe comunque evitato l’evento (lesione della salute). In altri termini, la risarcibilità del danno da lesione della salute che si verifichi per le non imprevedibili conseguenze dell’intervento chirurgico correttamente eseguito secundum legem artis, ma tuttavia effettuato senza la preventiva informazione del paziente circa i suoi possibili effetti pregiudizievoli e dunque senza un consenso consapevolmente prestato, necessariamente presuppone l’accertamento che il paziente quel determinato intervento avrebbe rifiutato se fosse stato adeguatamente informato.
La Cassazione rileva sul punto che “il relativo onere probatorio grava sul paziente: (a) perché la prova di nesso causale tra inadempimento e danno comunque compete alla parte che alleghi l’inadempimento altrui e pretenda per questo il risarcimento; (b) perché il fatto positivo da provare è il rifiuto che sarebbe stato opposto dal paziente al medico; (c) perché si tratta pur sempre di stabilire in quale senso si sarebbe orientata la scelta soggettiva del paziente, sicché anche i l criterio di distribuzione dell’onere probatorio in funzione della “vicinanza” al fatto da provare induce alla medesima conclusione; (d) perché il discostamento della scelta del paziente dalla valutazione di opportunità del medico costituisce un’eventualità che non corrisponde all’id quod plerumque accidit”. Nel caso di specie, dunque, la domanda risarcitoria va rigettata non avendo l’attrice fornito la prova che, se correttamente ed esaustivamente informata, avrebbe rifiutato di sottoporsi all’intervento contestato.
È pur vero che una siffatta prova può darsi anche in via presuntiva. Tuttavia, in via astratta può affermarsi che corrisponde a massima di esperienza che, a fronte di un intervento con finalità prettamente estetiche, il rischio di un peggioramento generale dell’aspetto costituisce uno degli aspetti generalmente presi in considerazione dal paziente, potendo anche rappresentare un valido deterrente. Ciò tuttavia, non è sufficiente per ritenere certo o altamente probabile che il rischio di un risultato estetico non pienamente soddisfacente induca qualsiasi paziente a desistere dall’intervento. Pertanto, non può affatto darsi per scontato che l’attrice non avrebbe comunque accettato il rischio delle conseguenze pregiudizievoli poi di fatto verificatesi, pur di raggiungere l’obiettivo estetico che si era riproposto. Va altresì evidenziato che anche nella ipotesi di prova presuntiva il danneggiato è onerato della allegazione di tutti ali elementi che, nella concreta fattispecie, siano idonei secondo i requisiti di gravità precisione e concordanza di cui all’art. 2729 c.c. a fornire la serie concatenata di fatti noti che consentano di risalire al fatto ignoto. Nel caso di specie detta allegazione è del tutto assente.
Al rigetto della domanda principale consegue il rigetto della domanda di garanzia.
In ragione della complessità della questione trattata vi sono giusti motivi per la integrale compensazione delle spese di lite.
P.Q.M.
Definitivamente decidendo sulla domanda spiegata da L. G. nei confronti di T. M. S. e Casa di cura Anthea S.r.l. con atto di citazione notificato il 24 ed il 24 febbraio 2004 e sulla domanda di garanzia speigata da T. M. S. nei confronti della Assitalia con atto di chiamata in causa notificato il 31 luglio 2004 così provvede:
– Rigetta tutte le domande
– Dichiara interamente compensate tra le parti le spese di lite.
Bari 11 ottobre 2010

 

 

 

 


Fatto Diritto P.Q.M. Massima
Tribunale Milano, sez. V 28/05/2010 n. 7046
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto ritualmente notificato in data 09.12.2004, C.B. conveniva in giudizio M.F.B. per sentirlo condannare al pagamento, in suo favore, della somma di Euro 14.416,65, oltre rivalutazione monetaria e interessi, nonché al risarcimento dei danni dalla stessa patiti e patiendi, da accertarsi in corso di causa, per l’errata operazione eseguita sull’attrice.
Instauratosi il contraddittorio, si costituiva il convenuto, il quale concludeva per il rigetto delle domande.
Il G.I. ammetteva parzialmente le prove dedotte dalle parti.
Il G.I. disponeva consulenza tecnica d’ufficio.
All’esito dell’istruttoria, le parti precisavano le conclusioni come in epigrafe trascritte; disposto lo scambio delle sole comparse conclusionali, all’udienza di discussione del 03.03.2010, la causa veniva assegnata in decisione, ai sensi dell’art. 281 quinquies cpv. c.p.c..
MOTIVI DELLA DECISIONE
Ritiene il Tribunale che le domande proposte in giudizio dall’attrice debbano essere parzialmente accolte.
Infatti, nell’Aprile 2003 la signora B. si rivolgeva al dottor Brambilla per un consulto in merito ad un intervento di mastoplastica additiva a scopo estetico cui la stessa desiderava sottoporsi.
Le parti concordavano che, durante l’intervento di mastoplastica, il convenuto avrebbe dovuto altresì procedere all’asportazione di noduli fibroadenomatosi, riscontrati in seguito a controlli mammografici eseguiti sulla paziente.
Inoltre l’attrice (che all’epoca aveva circa 38 anni) allegava che, in tale incontro, aveva illustrato al convenuto il risultato da ottenere con l’intervento, mostrando allo stesso una fotografia del proprio seno in epoca pre-gravidica (allorché aveva circa 25 anni) e chiedendo che quello rappresentato nell’immagine fosse il risultato da raggiungere con l’intervento.
L’attrice allegava, altresì che, in tale occasione, il convenuto avrebbe promesso alla paziente che l’intervento avrebbe prodotto il risultato desiderato.
Pertanto, in data 07.05.2003 l’attrice veniva sottoposta, presso la casa di cura “Villa Letizia” di Milano, all’intervento concordato ad opera del dottor Brambilla e dimessa dalla clinica il giorno stesso.
L’attrice versava al dottor Brambilla, per le visite effettuate e l’intervento chirurgico, la somma di Euro 7.300,00.
L’attrice assumeva che nell’agosto 2003, cioè a distanza di tre mesi dall’intervento effettuato dal convenuto, avrebbe constatato un abbassamento del seno, oltre ad avvertire dolori allo stesso. Per tali motivi aveva deciso di sottoporsi ad ulteriori visite mediche presso due diversi specialisti, il dottor L. e il dottor G.; entrambi avevano concluso per la necessità di un intervento di sostituzione protesi in posizione sottomuscolare ed eventuale mastopessi.
L’attrice, quindi, in data 07.11.2003 si sottoponeva ad un secondo intervento di sostituzione di protesi mammaria, presso la casa di cura “Villa Letizia” di Milano, ad opera del dottor L.; per tale intervento versava la somma di Euro 7.112,65.
Ebbene, l’attrice assumeva di aver subito danni a seguito della condotta colposa del convenuto.
In primo luogo, l’attrice allegava che l’intervento non era stato correttamente effettuato dal dottor B., non avendo prodotto gli effetti sperati e promessi. Anzi, a seguito del non corretto operato del convenuto, era stata necessaria una seconda operazione al seno, ad opera del dottor L., che invece aveva prodotto il risultato desiderato dalla paziente.
In secondo luogo, l’attrice contestava di non aver manifestato idoneo consenso all’intervento di cui è causa, in quanto il dottor B. si era limitato a far sottoscrivere il relativo modulo nell’immediatezza dell’intervento e dunque in maniera frettolosa, senza illustrarne il contenuto.
Infine, l’attrice allegava che la necessità di ricorrere ad un secondo intervento aveva determinato una serie di conseguenze negative sulla propria salute psico-fisica, tanto da cagionare anche l’interruzione di una gravidanza.
Al riguardo, occorre rilevare che l’attrice nella memoria di osservazioni critiche alla CTU in data 31.01.2008, espressamente rinunciava alla richiesta di risarcimento del danno derivante dall’interruzione della gravidanza.
Inoltre, dalla documentazione prodotta e dall’espletata consulenza tecnica d’ufficio, risulta provato:
che le caratteristiche fisiche dell’attrice, sia il grado iniziale di ptosi sia la qualità viscoelastica della cute, non mostrano una situazione clinica tale da far configurare la scelta della tecnica adottata dalla parte convenuta come comportamento sanitario imperito, imprudente o negligente;
che, infatti, come rilevato dai CTU, nel caso specifico l’intervento di impianto di protesi mammaria in un piano sopramuscolare eseguito dal dottor B. risulta progettato ed eseguito a regola d’arte, secondo una tecnica condivisa dalla gran parte dei chirurghi plastici, ed in modo tale da ottenere un risultato accettabile nella media dei pazienti;
che, inoltre, la circostanza che la paziente si sia dichiarata soddisfatta del risultato ottenuto con il secondo intervento chirurgico (del dottor L.) non comprova né mancanza di diligenza né erronea scelta chirurgica nell’intervento eseguito dal dottor B.;
che, come sottolineato dai CTU, entrambi gli interventi sono ben codificati, progettati ed eseguiti a regola d’arte che portano a risultati estetici differenti per alcuni aspetti (come ad esempio un maggior riempimento del polo superiore nell’intervento eseguito dal dottor L. e un aspetto più naturale delle mammelle in quello eseguito dal dottor B.);
che, per quanto attiene al processo di informazione e acquisizione di un valido consenso informato, incombe sul medico un preciso obbligo di ottenere il consenso del paziente, dopo averlo preventivamente informato (Cass. n. 7027/2001). L’informazione deve essere relativa alla “natura dell’intervento medico e chirurgico, alla sua portata ed estensione, ai rischi, ai risultati conseguibili, alle possibili conseguenze negative, alla possibilità di conseguire il medesimo risultato attraverso altri interventi e ai rischi di questi ultimi”; il paziente deve essere messo concretamente in condizione di valutare ogni rischio ed ogni alternativa (Cass. n 364/1997; Cass. n. 10014/1994, e da ultimo vedi Cass. Sez. 3 – Sentenza n. 2747/2010);
che, nel caso di specie, come anche sottolineato dai CTU, la modulistica allegata al fascicolo documentale e chiaramente controfirmata dalla paziente può considerarsi, sotto il profilo informativo, esaustiva, chiara, completa ed attinente alla tipologia dell’intervento prospettato, nonché proporzionato al grado culturale in materia sanitaria della paziente;
che, infatti, nella fattispecie, si ravvisa una chiara descrizione della tipologia dell’intervento (mastoplastica additiva), della tecnica chirurgica prospettata, delle sue indicazioni, complicanze ed alternative terapeutiche, nonché dei rischi statisticamente correlati alla procedura medesima;
che, inoltre, anche in sede di visita clinica pre-operatoria, il convenuto esplicitava alla cliente la tipologia dell’intervento in fieri (mastoplastica additiva), unitamente alle specifiche indicazioni estetiche ed alle caratteristiche dei risultati tecnicamente attendibili, nonché alle eventuali alternative terapeutiche ed ai rischi e complicanze ad esso correlate (come confermato anche dalla teste S.C.).
Ritiene dunque il Tribunale che risulta la prova dell’adempimento da parte del convenuto dell’obbligazione accessoria avente ad oggetto una corretta informazione circa l’intervento chirurgico effettuato.
Questo giudice condivide le argomentazioni e le conclusioni cui sono pervenuti i C.T.U., con metodo corretto ed immune da vizi logici o di altra natura e ritiene che non possano ravvisarsi nel caso di specie profili di colpa professionale in capo al convenuto.
Tuttavia, come già esposto, l’attrice assumeva che l’intervento effettuato dal convenuto non aveva prodotto il risultato concordato inter partes.
Occorre rilevare che se è pacifico che l’obbligazione assunta dal medico sia in generale di mezzi, nell’ambito della chirurgia estetica è altresì possibile che il sanitario assuma nei confronti del paziente un’obbligazione di risultato.
Ritiene, infatti, il Tribunale che sebbene le Sezioni Unite (sentenza n. 577 del 2008) abbiano recentemente statuito che la distinzione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato abbia una funzione prevalentemente descrittiva, tale distinzione ha ancora sua autonoma rilevanza in considerazione delle specifiche obbligazioni assunte dal debitore della prestazione.
Anche le citate Sez. Unite limitano il superamento della distinzione tra obbligazione di mezzi e di risultato “quantomeno in tema di riparto dell’onere probatorio” per le considerazioni già enunciate nella sentenza delle Sezioni Unite n. 13533/2001.
Infatti nella citata sentenza n. 577/2008 si afferma che “il meccanismo di ripartizione dell’onere della prova ai sensi dell’art. 2697 c.c. in materia di responsabilità contrattuale (in conformità a criteri di ragionevolezza per identità di situazioni probatorie, di riferibilità in concreto dell’onere probatorio alla sfera di azione dei singoli soggetti e di distinzione strutturale tra responsabilità contrattuale e da fatto illecito) è identico, sia che il creditore agisca per l’adempimento dell’obbligazione, ex art. 1453 c.c., sia che domandi il risarcimento per l’inadempimento contrattuale, ex art. 1218 c.c., senza richiamarsi in alcun modo alla distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato”.
In particolare si sottolinea che “l’allegazione del creditore non può attenere ad un inadempimento, qualunque esso sia, ma ad un inadempimento, per così dire, qualificato, e cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno. Competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è proprio stato ovvero che, pur esistendo, non è stato nella fattispecie causa del danno”.
Pertanto, nell’ipotesi di asserita colpa medica, l’attore (paziente) dovrà allegare l’inadempimento qualificato e l’evento non desiderato (lesione del bene salute); spetterà invece al convenuto (sanitario o struttura ospedaliera) l’onere di provare o il corretto adempimento o la non imputabilità dell’evento non desiderato all’inadempimento.
Nel caso in cui il paziente assuma che il medico si sia obbligato al raggiungimento di uno specifico risultato, e questo venga contestato, incomberà sull’attore l’onere di provare l’intervenuto accordo inter partes; in ogni caso, spetterà al convenuto l’onere di provare o il raggiungimento del risultato o che il mancato raggiungimento dello stesso sia stato determinato da cause a lui non imputabili (art. 1218 cc.).
Nella fattispecie concreta l’attrice ha fornito la prova dell’accordo tra le parti circa il risultato da raggiungere con l’intervento.
Infatti la teste L.d.R. all’udienza del 21.12.2009 dichiarava: “Ricordo con esattezza che la B. mostrò al dottor B. la foto sub. doc. 1 scattata prima della maternità e il dottor B. disse che dopo l’intervento chirurgico la B. avrebbe avuto un seno come raffigurato in foto”.
Cosi anche dichiarava la testa G.P.: “..mia figlia mostrò la foto prodotta sub doc. 1 al dr. B. e questi disse che mia figlia avrebbe avuto lo stesso seno che aveva prima della maternità e come raffigurato nella foto”.
A fronte di ciò il convenuto non ha dimostrato invece di avere esattamente adempiuto all’obbligazione assunta con l’attrice.
Come anche rilevato dai CTU, “se il Chirurgo avesse assunto con la paziente un impegno preciso per un risultato estetico uguale a quello indicato nel capitolo 3 della memoria di parte attrice, tale esito, come si desume dalle foto post- operatorie allegate, non è stato raggiunto dal Dr. B., né poteva essere ottenuto con il tipo di interevento da lui eseguito”.
Per poter raggiungere il risultato promesso all’attrice il convenuto avrebbe quindi dovuto effettuare un altro tipo di operazione e non quella che, sia pure correttamente e senza margini di colpa, è stata dallo stesso consigliata ed eseguita.
Alla luce di tali considerazioni, pertanto, il convenuto deve essere condannato a corrispondere all’attrice la somma di Euro 7.300,00, equivalente a quella pagata dall’attrice per il primo intervento, rivelatosi quindi nella specie inutile. Su questa somma non spetta all’attrice il maggior danno da rivalutazione monetaria come statuito anche recentemente dalla Cassazione nella Sentenza n. 3073/2006.
Pertanto, il convenuto deve essere condannato al pagamento, in favore dell’attrice, della somma di Euro 7.300,00, oltre interessi legali dal 07.05.2003 al saldo.
Il convenuto dovrà corrispondere, sempre a titolo di danno patrimoniale, l’ulteriore somma di Euro 351,29, relativa alle spese sostenute dall’attrice per ulteriori esami e visite mediche, effettuate sino al 17.10.2003.
Rivalutata ad oggi detta somma, secondo gli indici ISTAT costo vita, la stessa è pari a complessivi Euro 398,00.
Questo giudice ritiene, inoltre, che deve essere accolta la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale proposta dall’attrice.
Recentemente la Cassazione a Sez. Unite (sentenza n. 26972/2008) ha ritenuto che, nell’ambito del danno non patrimoniale, il riferimento a determinati tipi di pregiudizi, in vario modo denominati (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale), risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno. È compito del giudice accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore-uomo si siano verificate e provvedendo alla loro integrale riparazione.
Nel caso di specie dalla ricostruzione di quanto occorso nonché dalle allegazioni fatte, si rileva che l’attrice ha certamente subito un pregiudizio al bene salute derivante dall’essere stata sottoposta ad un intervento chirurgico inutile, non foriero del risultato pattuito e non conseguito.
Alla luce delle argomentazioni sopra esposte, tenuto conto delle sofferenze patite in relazione all’intervento chirurgico e all’aspettativa delusa con conseguente stato d’ansia, stimasi equo liquidare il danno non patrimoniale complessivamente subito dall’attrice nella somma, già rivalutata di Euro 3.000,00.
Pertanto devono essere riconosciuti gli interessi compensativi del danno derivante dal mancato tempestivo godimento dell’equivalente pecuniario del bene perduto.
Gli interessi compensativi – secondo l’ormai consolidato indirizzo delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (v. sentenza n. 1712/1995) – decorrono dalla produzione dell’evento di danno sino al tempo della liquidazione; per questo periodo, gli interessi compensativi si possono calcolare applicando un tasso annuo medio ponderato sul danno rivalutato.
Tale tasso di interesse è ottenuto “ponderando” l’interesse legale sulla somma sopra liquidata, che – “devalutata” alla data del fatto illecito, in base agli indici I.S.T.A.T. costo vita – si incrementa mese per mese, mediante gli stessi indici di rivalutazione, sino alla data della presente sentenza.
Da oggi, giorno della liquidazione, all’effettivo saldo decorrono gli interessi legali sulla somma rivalutata.
Pertanto, alla luce degli esposti criteri, il convenuto dev’essere condannato al pagamento, in favore dell’attrice, della ulteriore somma di Euro 3.398,00, liquidata in moneta attuale, oltre:
interessi compensativi, al tasso annuo medio ponderato del 2%, sulla somma di Euro 3.398,00, dalla data dell’intervento (07.05.2003) ad oggi;
interessi, al tasso legale, sempre sulla somma di Euro 3.398,00, dalla data della presente sentenza al saldo effettivo.
Deve essere invece rigettata la domanda dell’attrice avente ad oggetto la restituzione della somma di Euro 7.112,65 dalla stessa versata per il secondo intervento.
Infatti, ritiene il tribunale che non vi sia nesso di causalità tra l’inadempimento del convenuto e il secondo interevento chirurgico. In assenza di colpa medica e della lesione permanente al bene salute, l’attrice avrebbe comunque potuto evitare di sottoporsi al secondo intervento atteso che quello effettuato dal convenuto, sebbene non idoneo in relazione all’obbligazione di risultato assunta, era stato comunque eseguito in modo “congruo e a regola d’arte” (vedi supplemento relazione peritale).
Le spese della consulenze tecniche di ufficio vanno poste a carico del convenuto.
Consegue alla soccombenza la condanna del convenuto a rifondere all’attrice le spese processuali.
P.Q.M.
Il Tribunale di Milano, definitivamente pronunciando, così provvede:
condanna il convenuto al pagamento, in favore dell’attrice, della somma di Euro 7.300,00, oltre interessi legali dal 07.05.2003 al saldo;
condanna il convenuto al pagamento, in favore dell’attrice, della somma di Euro 3.398,00, oltre interessi, come specificati in motivazione;
rigetta ogni altra domanda proposta dall’attrice;
pone le spese della consulenza tecnica d’ufficio a carico del convenuto;
condanna il convenuto a rifondere all’attrice le spese processuali, che liquida in Euro 442,00 per spese imponibili, Euro 325,00 per anticipazioni, Euro 2.034,00 per diritti, Euro 2.927,50 per onorario di avvocato, Euro 620,19 per spese generali, oltre I.V.A. e C.P.A.;
dichiara la presente sentenza provvisoriamente esecutiva.
Milano, 28.05.2010
Fatto Diritto P.Q.M.

 

 

 

 

 

Il Tribunale Civile di Roma, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta da S.A. nei confronti di L.G. Renato, con la chiamata in causa di Berenese Assicurazioni s.p.a., così provvede:
accoglie la domanda e condanna il convenuto al risarcimento dei danni subiti dalla attrice a seguito dell’intervento chirurgico in data 7.10.2003, liquidati in Euro 50.000,00, oltre interessi legali dalla data della sentenza al soddisfo;
condanna il convenuto al pagamento delle spese del giudizio, che liquida in Euro 2100,00 per diritti, Euro 2800,00 per onorari, Euro 350,00 per spese, oltre rimborso spese generali IVA e CPA come per legge e rimborso spese di CTU;
condanna Bernese Assicurazioni s.p.a. a tenere indenne il convenuto di quanto condannato a versare in esecuzione dei capi che precedono, compensa le spese tra il convenuto e la chiamata in causa.
Roma, 27 luglio 2009

 

 

Tribunale Roma, sez. XIII 04/09/2009 n. 18021
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione ritualmente notificato T.V. conveniva in giudizio innanzi a questo Tribunale la Casa di cura Santa Maria di Leuca e il dott. A.U., al fine di sentirli dichiarare solidalmente responsabili dei danni subiti dall’attrice in esito ad intervento chirurgico di rimodellamento mammario monolaterale effettuato il 3/12/ 2001 e per l’effetto condannare al risarcimento dei danni nella misura di euro 250.000,00, oltre rivalutazione monetaria ed interessi. Così radicatosi il contraddittorio, si costituivano in giudizio i convenuti, contestando la fondatezza della domanda.
La causa, istruita mediante espletamento di CTU, veniva trattenuta in decisione sulle conclusioni delle parti, precisate all’udienza del 27/4/09.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Sulla responsabilità del dott. U.
Dall’esperita istruttoria è emersa la sussistenza di un nesso causale tra i disturbi lamentati attualmente dalla V. e l’intervento chirurgico su di essa effettuato dal convenuto il 3/12/01. In particolare, va osservato che la paziente, afflitta da grave asimmetria mammaria, fu inopinatamente sottoposta ad intervento chirurgico estetico di riduzione volumetrica della mammella sinistra, apparentemente nella norma, in luogo di intervento ricostruttivo della mammella destra tuberosa, necessario al fine di correggere detta patologia malformativa (vedi pag 7 della relazione tecnica redatta dal ctu dott. C.).
Inoltre, l’intervento chirurgico di mastoplastica riduttiva mono laterale sinistra non ha avuto un esito estetico adeguato, in quanto è stata asportata una quantità eccessiva di parenchima ghiandolare inferiore, con la conseguenza che il risultato finale, lungi dal conseguire l’allineamento volumetrico dei due seni, risulta capovolto rispetto allo stato preoperatorio: la mammella di destra tuberosa è più grande della sinistra ridotta dal medico-chirurgo, con eccessiva evidenza cicatriziale (vedi pagg. 11 e 12 della predetta ctu.).
In conclusione, quindi, il dott. U. ha posto una diagnosi parzialmente erronea della patologia di cui era affetta la V.; non ha atteso imprudentemente un “timing” maggiormente definitivo per la paziente; ha eseguito l’intervento chirurgico con imperizia, ottenendo un insoddisfacente risultato estetico; ha manifestato una certa negligenza nella redazione della cartella clinica e non ha eseguito un dettagliato esame obiettivo preoperatorio; ha determinato un maggior danno sulla mammella sinistra, esente da patologia, riducendola e determinando una evidente estensione cicatriziale (vedi conclusioni del ctu, condivisibili in quanto congruamente motivate).
Ove si consideri che l’intervento in esame non può essere considerato di speciale difficoltà, tale da richiedere una specifica competenza professionale, potendo essere eseguito da un chirurgo dotato di media preparazione ed abilità, sicuramente in possesso del dott. U., non v’è dubbio che debba essere affermata la responsabilità di questi, ex art. 1176 c.c., in ordine alla conseguenze lesive dell’operazione chirurgica dal medesimo eseguita. Sulla responsabilità della casa di cura Santa Maria di Leuca.
Il rapporto che si instaura tra paziente e casa di cura privata ha fonte in un atipico contratto a prestazioni corrispettive con effetti protettivi nei confronti del terzo, da cui, a fronte dell’obbligazione al pagamento del corrispettivo, insorgono a carico della struttura sanitaria, accanto a quelli di tipo “latu sensu” alberghieri, obblighi di messa a disposizione del personale medico ausiliario, del personale paramedico e dell’apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni od emergenze.
Ne consegue la responsabilità della casa di cura nei confronti del paziente ha natura contrattuale e può conseguire, ai sensi dell’art. 1218 cod civ., all’inadempimento delle obbligazioni direttamente a suo carico, nonché, ai sensi dell’art. 1228 cod civ., all’inadempimento della prestazione medicoprofessionale svolta direttamente dal sanitario, quale ausiliario necessario pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato, comunque sussistendo un collegamento tra la prestazione da costui effettuata e la sua organizzazione aziendale, non rilevando in contrario al riguardo che il sanitario risulti essere anche di fiducia dello stesso paziente, o comunque dal medesimo scelto, (cfr. cass. 1698/2006; 571/2005; 2042/2005).
Di conseguenza va affermata la responsabilità solidale della clinica convenuta. Sulla liquidazione del danno.
a) in occasione dell’evento per cui è causa l’attrice ha subito un evento biologico, inteso quale maggior danno alla integrità fisica, così determinabile: – 5% di invalidità permanente;
– 20 giorni di inabilità temporanea assoluta;
– 20 giorni di inabilità temporanea relativa al 50%.
– importante esito cicatriziale (vedi conclusioni del CTU pienamente condivisibili in quanto congruamente motivate).
Pertanto, tenuto conto della gravità delle lesioni e dell’età (16 anni) del soggetto leso; posto l’evento biologico in relazione con il quadro completo delle funzioni vitali in cui poteva e potrà estrinsecarsi l’efficienza psicofisica della persona danneggiata(cfr Cass. 2008/93; Cass. 4255/95), si ritiene equo liquidare il danno personale da costei subito, ex art. 1226 c.c., come segue:
1) a titolo di risarcimento del danno derivante dalla lesione permanente dell’integrità psicofisica nella misura di euro 9.551,45 attuali;
2) a titolo di risarcimento del danno da inabilità temporanea assoluta in euro 840,00 attuali;
3) a titolo di risarcimento del danno da inabilità temporanea relativa al 50% in euro 420,00 attuali
4) a titolo di risarcimento del danno estetico in euro 2.000,00.
Quanto alla richiesta di liquidazione del danno morale ed esistenziale, va osservato che si tratta di pregiudizi che non implicano il riconoscimento di distinte ed autonome categorie di danno, in quanto ricomprese nella generale categoria del danno non patrimoniale.
Pertanto la sofferenza morale rientra, nel caso di specie, nell’area del danno biologico, del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente (cfr. sul punto Cass. 26972/08).
Di conseguenza, la considerazione dell’effettiva consistenza delle sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso risulta già ricompresa nella valutazione del danno biologico come dianzi espressa, essendo stata attribuita all’attrice una percentuale di ristoro di siffatto pregiudizio mediante un incremento della somma risultante dall’applicazione delle tabelle in uso presso il Tribunale.
Egualmente, non può farsi riferimento ad una generica sottocategoria denominata “danno esistenziale”, perché attraverso questa si finisce per portare anche il danno non patrimoniale nell’atipicità, acquisendo valenza in tale ipotesi solo la tutela risarcitoria di specifici valori della persona presidiata da diritti inviolabili secondo Costituzione (principi enunciati dalle sentenze della Cassazione n. 15022/05, n. 11761/06, n. 23918/06 ); categoria, questa, in cui non possono esser ricompresi i pregiudizi concernenti gli aspetti più disparati della vita quotidiana che ciascuno conduce nel contesto sociale, genericamente valutati quali diritti, in effetti insussistenti, alla qualità della vita e allo stato di benessere.
Pertanto, il danno alla vita di relazione, quale pregiudizio di tipo esistenziale, conseguente a lesione dell’integrità psicofisica, nella configurazione dianzi indicata (lesione di un diritto inviolabile della persona concretamente individuato) è solo una voce del danno biologico nel suo aspetto dinamico e non può essere autonomamente valutato, poiché si darebbe luogo a duplicazione di risarcimento.
Allo scopo, va osservato che siffatto pregiudizio è stato considerato nell’ambito della personalizzazione del danno biologico come dianzi liquidato, non essendo riconoscibili, come lesione di diritti costituzionalmente protetti, i pregiudizi all’attività di svago e divertimento, nonché alle relazioni sociali, individuati dall’attrice quale fonte del riconoscimento di siffatta voce di danno.
b) danno patrimoniale.
Le spese mediche e di cura sostenute non risultano documentalmente comprovate; il costo dell’intervento chirurgico di mastoplastica secondaria additiva, diretto a correggere i difetti estetici di forma e di proiezione per entrambi i seni, è quantificabile in complessivi euro 15.000,00 (vedi pag. 12 della ctu).
Il credito risarcitorio è quindi pari ad euro 27.811,45.
Alla danneggiata va inoltre riconosciuta un’ulteriore somma a titolo di risarcimento da lucro cessante per il mancato godimento del predetto importo; somma equitativamente determinata, ex art. 2056 cod. civ., con il seguente metodo.
– a base del calcolo va posto l’originario importo rivalutato anno per anno;
– su tale somma va applicato un saggio di rendimento equitativamente prescelto, tenuto conto di quello inferiore tra la media ponderata di rendimento dei titoli di stato e la media ponderata degli interessi legali ;
– tale saggio va computato sul predetto importo dalla data dell’evento dannoso ad oggi(cfr Cass. Sez. Un. 17.2.1995 n. 1712).
Sul complessivo credito risarcitorio liquidato per sorte capitale e lucro cessante decorrono gli interessi legali dalla pubblicazione della sentenza al saldo.
Attesa la manifesta sproporzione tra l’entità della pretesa risarcitoria fatta valere dall’attrice (euro 250.000,00) e l’effettivo pregiudizio dalla stessa subito a seguito dell’inadempimento del medico (euro 27.811,45), si stima equo compensare tra le parti la metà delle spese di giudizio, ponendo la restante metà, liquidata come in dispositivo, a carico dei convenuti soccombenti.
P.Q.M.
il Tribunale di Roma, definitivamente pronunziando nella causa come in epigrafe promossa, così provvede:
1) condanna i convenuti, in via solidale tra loro, al pagamento in favore di T.V. della somma di euro 27.811,45, oltre lucro cessante ed interessi come in motivazione, respinte le ulteriori domande di parte attrice;
2) condanna i convenuti, in solido tra loro, a rimborsare all’attrice, compensata tra le parti la metà delle spese processuali, la restante metà, liquidata in complessivi Euro 2.412,00, di cui E. 212,00 per esborsi, E. 800,00 per competenze ed E. 1.400,00 per onorari, oltre iva, cap, spese generali e di ctu;.
Così deciso in Roma il 16/7/09
Fatto Diritto P.Q.M.
Tribunale Roma, sez. XIII 04/09/2009 n. 18000
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato il 23.11.2004, la sig.ra S.A. conveniva in giudizio il dr. prof. L.G.R. dinanzi al Tribunale di Roma per ivi sentir accertare la responsabilità professionale dello stesso per l’esito negativo dell’intervento chirurgico effettuato in data 7.10.2003, e quindi sentirlo condannare al risarcimento dei danni subiti.
A sostegno della domanda, la parte attrice esponeva di essersi rivolta al convenuto al fine di risolvere la ptosi mammaria bilaterale conseguente le gravidanze, e di rimuovere i silicosomi multipli formatisi per pregresse infiltrazioni di silicone liquido. Esponeva quindi che nell’autunno 2003 si era sottoposta a visita presso il convenuto sanitario, al fine di valutare la opportunità dell’intervento, richiedendo in particolare un intervento che evitasse la asportazione della ghiandola mammaria e mantenesse lo stesso volume del seno. Il convenuto quindi la sottoponeva ad interventi chirurgico volto ad asportare le formazioni granulomatose multiple, provvedendo alla ricostruzione del volume asportato con l’inserimento di protesi mammarie; l’intervento però non sortiva l’effetto previsto, in quanto era stata eseguita in sostanza una mastoplastica additiva che aveva aumentato il volume del seno ed accentuato la ptosi. L’attrice chiedeva quindi il risarcimento dei danni biologico morale e patrimoniale subiti.
Il convenuto si costituiva deducendo la infondatezza della domanda e chiedendone il rigetto. In particolare, il convenuto eccepiva che la parte attrice aveva rifiutato di sottoporsi all’intervento di mastectomia suggerito da esso convenuto, come emergerebbe dal consenso informato, e che la tecnica alternativa utilizzata garantiva comunque il soddisfacimento delle esigenze della paziente.
Chiedeva inoltre di poter chiamare in causa la propria società assicuratrice al fine di essere manlevato in caso di accoglimento della domanda, in virtù della polizza stipulata.
A seguito della notificazione dell’atto di chiamata si costituiva Bernese Assicurazioni s.p.a., deducendo la infondatezza della domanda principale e chiedendone il rigetto unitamente quindi alla domanda di garanzia.
All’esito della attività istruttoria, la causa all’udienza del 31.3.2009 veniva assegnata a sentenza, con termini di legge per comparse conclusionali e repliche.
MOTIVI DELLA DECISIONE
La domanda è fondata e pertanto deve essere accolta.
All’esito della CTU espletata deve infatti ritenersi accertato che l’intervento praticato alla attrice dal convenuto fosse inadeguato a realizzare il risultato desiderato ed espressamente richiesto (e formalizzato nell’atto di consenso informato) dalla paziente.
Dalla cartella clinica e dal consenso informato sottoscritto dalla paziente risultano il desiderio della stessa di mantenere immodificate le dimensioni del seno ed il rifiuto di sottoporsi all’intervento di mastectomia bilaterale, e che il chirurgo operatore ha quindi effettuato un intervento di “ricostruzione su protesi mammella dx e sin dopo asportazione granulomi multipli” (in data 7.10.2003).
Successivamente in data 5.7.2004 la certificazione medica sottoscritta da altro sanitario (dr. Ad.) cui la attrice si era rivolta dopo l’esito infruttuoso dell’intervento, attestava la persistenza di alcuni siliconomi ad entrambe le mammelle che risultavano “molto voluminose, lievemente asimmetriche, con ptosi di grado severo”: tale diagnosi è stata anche confermata in sede di CTU.
Il CTU nominato in corso di causa ha quindi rilevato dopo l’esame della documentazione medica in atti e l’esame clinico della paziente, che “la tecnica utilizzata dal dr. L.G. non ha consentito la totale eliminazione dei siliconomi e l’immissione delle protesi, non accompagnata alla resezione di una pari quantità di tessuto mammario, ha comportato l’ingrandimento (indesiderato dalla paziente) del seno” e che anche l’insuccesso relativo alla mancata escissione di tutti i siliconomi “è da ricondursi alla inadeguatezza della tecnica, che non consentiva un trattamento risolutivo” .
Quindi il convenuto, pur edotto delle specifiche richieste della attrice, ha ritenuto di attuare, a seguito del rifiuto della paziente di sottoporsi a mastectomia, una tecnica del tutto inadeguata a realizzare lo scopo, come infatti è risultato con un aumento di volume del seno (che la paziente aveva espressamente dichiarato indesiderato) e la mancata risoluzione della ptosi. Deve quindi essere ritenuta provata la responsabilità professionale del convenuto per i danni subiti dalla attrice a seguito della (inutile oltre che dannosa avendo aggravato l’aspetto estetico) terapia chirurgica attuata.
Deve quindi essere risarcito il danno conseguente alla violazione così attuata della integrità psicofisica della paziente, nella specie il danno estetico, non sussistendo conseguenze invalidanti. Ai fini della valutazione in via equitativa del citato danno, si reputa di valutare in primo luogo il costo degli interventi necessari per la eliminazione del danno estetico, che il CTU ha quantificato in Euro 20.000,00. Al fine della valutazione dei danni complessivamente subiti dalla attrice, e in particolare delle sofferenze morali e psichiche subite a causa di un (inutile) intervento chirurgico, si reputa di liquidare in via equitativa la somma complessiva di Euro 50.000,00, tenuto già conto anche del danno da lucro cessante e della somma versata per l’intervento chirurgico subiti pari ad Euro 1052,58.
Deve essere accolta la domanda di garanzia proposta dal convenuto nei confronti della società assicuratrice Bernese Assicurazioni s.p.a., non essendo in contestazione la esistenza ed operatività della polizza. Né alcun rilievo assume in questa sede la eventuale corresponsabilità della casa di cura, stante il diritto della parte danneggiata ai sensi dell’art. 2055 c.c. di agire nei confronti di io degli eventuali coobbligati solidali, né essendo stata formalmente introdotta in causa con la chiamata della casa di cura la domanda per l’accertamento dell’eventuale corresponsabilità. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo, tenuto conto del valore della causa in base alla somma liquidata. Sono compensate tra il convenuto e la società assicuratrice atteso che le difese del primo si sono svolte in sostanza sulla domanda della attrice.
P.Q.M.
Il Tribunale Civile di Roma, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta da S.A. nei confronti di L.G. Renato, con la chiamata in causa di Berenese Assicurazioni s.p.a., così provvede:
accoglie la domanda e condanna il convenuto al risarcimento dei danni subiti dalla attrice a seguito dell’intervento chirurgico in data 7.10.2003, liquidati in Euro 50.000,00, oltre interessi legali dalla data della sentenza al soddisfo;
condanna il convenuto al pagamento delle spese del giudizio, che liquida in Euro 2100,00 per diritti, Euro 2800,00 per onorari, Euro 350,00 per spese, oltre rimborso spese generali IVA e CPA come per legge e rimborso spese di CTU;
condanna Bernese Assicurazioni s.p.a. a tenere indenne il convenuto di quanto condannato a versare in esecuzione dei capi che precedono, compensa le spese tra il convenuto e la chiamata in causa.
Roma, 27 luglio 2009

 

Originally posted 2021-09-19 10:23:34.

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