TI RACCONTO DUE CASI CAPITATI DI SEPARAZIONE OVVIAMENTE I NOMI SONO DI FANTASIA 

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Maia era sposata da anni, aveva insieme al marito Giacomo due figli, e una bella casa a Bologna e una casa di vacanze a Venezia

 

Maia era  un architetto mentre il marito un noto chirurgo estetico

 

Un giorno venne nel mio studio Giacomo

 

Giacomo intendeva separarsi perché aveva iniziato una nuova relazione con una sua collaboratrice e la moglie ovviamente non tollerava la situazione .

 

La problematica della separazione era dovuta al fatto che entrambi volevano mantenere la casa a Bologna e la casa a Venezia.

 

Devo dire che non notai molta acrimonia da  parte della moglie per il fatto che Giacomo avesse una relazione ,entrambi i coniugi erano decisi per la separazione

 

Incontrai diverse volte i clienti, e erano fermi nel pretendere entrambi le due case.

 

La situazione si sblocco’ quando Maia a sua volta aveva incominciato una nuova relazione con un Artista Veneziano, tanto che i coniugi arrivarono alla convinzione di fare una separazione consensuale nella quale Maia avrebbe abitato insieme ai figli a Venezia, mentre Giacomo sarebbe rimasto a Bologna .

 ……………………

Lorenzo

 

Lorenzo era un giovane psichiatra di Milano, e insieme alamoglie Paola aveva deciso di separarsi perché dicevano i coniugi che il loro rapporto era diventato “freddo” senza ”emozioni”,senza interessi in comune.

 

Avevano due figli piccoli e non volevano creare traumatismi ai figli,

 

La loro situazione economicia era discreta e pensarono che la Casa coniugale di Milano sarebbe rimasta alla moglie Paola che vi avrebbe continuato ad abitare insieme ai figli mentre il marito avrebbe fatto un mutuo per comprarsi un bilocale a Vicenza ove si era recentemente trasferito per lavoro.

 

Lorenzo e Paola non si separavano perché avevano altre relazioni ma solo perché non potevano continuare a vivere insieme per incompatibilità di carattere.

Lorenzo si impegno a versare ala moglie un assegno di mantenimento per la stessa moglie oltre a un assegno per i figli., complessivamente 3000 euro mensili .

 

Il giorno dell’udienza presidenziale per la separazione  comunicarono che ci avevo ripensato e che volevano “provarci ancora” Sono passati tre anni e vivono ancora insieme  

 

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  1. Riscontro alle doglianze del primo e del secondo motivo potrebbe tuttavia ravvisarsi, a prima vista, nel prosieguo della motivazione della sentenza impugnata.
  1. La corte territoriale, dopo avere preannunciato che ‘va peraltro fatta una ulteriore considerazione’, aggiunge che ‘nel caso di specie, ricorrendo un comodato precario, la determinazione del termine di efficacia del vinculum juris è rimessa alla sola volontà del comodante che ha la facoltà di manifestarla ad nutum con la semplice richiesta di restituzione del bene, senza che assuma rilievo la circostanza che l’immobile fosse stato adibito ad uso familiare ed assegnato in sede di separazione all’affidatario dei figli’.
  1. Ciò insegnerebbe la giurisprudenza di questa Suprema Corte che il giudice d’appello richiama (Cass. sez. 3, 7 luglio 2010 n. 15986, come conforme alle non massimate Cass.2007/22001 e Cass. 2007/3179), manifestando così di ritenere che la destinazione ad uso familiare sia irrilevante, permanendo al comodante la facoltà di sciogliere ad nutum il contratto (motivazione, pagine 4-5).
  1. Una posizione chiaramente opposta a quella in precedenza adottata, laddove appunto la corte si era premurata (nei limiti della concisione che connota tutto il suo tessuto motivazionale) di evidenziare e di dimostrare l’esistenza della giustificazione dello scioglimento del comodato ai sensi dell’articolo 1809, secondo comma, c.c..
  1. Peraltro, non si può non rilevare che la giurisprudenza richiamata dal giudice d’appello si discosta dall’orientamento della giurisprudenza di questa Suprema Corte nettamente prevalente e altresì recentemente ribadito dalle Sezioni Unite.
  1. Cass. sez. 3, 7 luglio 2010 n. 15986 afferma invero che ‘il comodato precario é caratterizzato dalla circostanza che la determinazione del termine di efficacia del vinculum iuris costituito tra le parti è rimessa in via potestativa alla sola volontà del comodante, che ha facoltà di manifestarla ad nutum con la semplice richiesta di restituzione del bene senza che assuma rilievo la circostanza che l’immobile sia stato adibito a casa familiare e sia stato assegnato, in sede di separazione tra i coniugi, all’affidatario dei figli’.
  1. In un’ottica contrattualista anziché familista, questo arresto adotta una interpretazione della disciplina del comodato improntata a una accentuata letteralità (del tenore di una giurisprudenza precedente come, sempre tra gli arresti massimati, Cass. sez. 3, 30 ottobre 1997 e Cass. sez. 3, 18 gennaio 1985 n. 133) e a un grado limitato di ermeneutica sistemica rispetto all’orientamento che all’epoca era da tempo insorto traendo linfa da S.U. 21 luglio 2004 n. 13603.
  1. Questo noto intervento delle Sezioni Unite, operando appunto su una linea di correlazione tra gli istituti e di bilanciamento tra i diritti (incluse le risonanze pubblicistiche dei diritti connessi all’istituto familiare), aveva desunto dalla finalizzazione, in sede di stipula, alle esigenze abitative familiari di un comodato immobiliare senza espressa determinazione dei limiti di durata una natura intrinsecamente non precaria del contratto, confinando nell’articolo 1809, secondo comma, c.c. il diritto alla restituzione da parte del comodante (‘Ove il comodato di un bene immobile sia stato stipulato senza limiti di durata in favore di un nucleo familiare (nella specie: dal genitore di uno dei coniugi) già formato o in via di formazione, si versa nell’ipotesi del comodato a tempo indeterminato, caratterizzato dalla non prevedibilità del momento in cui la destinazione del bene verrà a cessare. Infatti, in tal caso, per effetto della concorde volontà delle parti, si è impresso allo stesso un vincolo di destinazione alle esigenze abitative familiari (e perciò non solo e non tanto a titolo personale del comodatario) idoneo a conferire all’uso – cui la cosa deve essere destinata – il carattere implicito della durata del rapporto, anche oltre la crisi coniugale e senza possibilità di far dipendere la cessazione del vincolo esclusivamente dalla volontà, ad nutum, del comodante. Salva la facoltà di quest’ultimo di chiedere la restituzione nell’ipotesi di sopravvenienza di un bisogno, ai sensi dell’art. 1809, comma 2, c.c., segnato dai requisiti della urgenza e della non previsione’).
  2. L’adesione decisamente maggioritaria all’insegnamento delle Sezioni Unite, invero, ha reso alquanto isolata la giurisprudenza invocata dal giudice d’appello (sulla scia dell’intervento nomofilattico si sono poste Cass. sez. 3, 13 febbraio 2006 n. 3072, nonché, poco dopo la pronuncia richiamata dalla corte territoriale, Cass. sez.3, 21 giugno 2011 n. 13592 – che, per di più in una ipotesi di famiglia di fatto, ‘riassetta’ la linea nei senso che “il comodato, stipulato senza prefissione di termine, di un immobile successivamente adibito, per inequivoca e comune volontà delle parti contraenti, ad abitazione di un nucleo familiare di fatto, costituito dai conviventi e da un figlio minore, non può essere risolto in virtù della mera manifestazione di volontà ad nutum espressa dal comodante ai sensi dell’art. 1810, primo comma, ultima parte, c.c., dal momento che deve ritenersi impresso al contratto un vincolo di destinazione alle esigenze abitative familiari idoneo a conferire all’uso cui la cosa è destinata il carattere implicito della durata del rapporto, anche oltre la crisi familiare tra i conviventi.
  • Ne consegue che il rifascio dell’immobile, finché non cessano le esigenze abitative familiari cui esso è stato destinato, può essere richiesto, ai sensi dell’art. 1809, secondo comma, c.c., solo nell’ipotesi di un bisogno contrassegnato dall’urgenza e dall’imprevedibilità’. – e Cass. sez. 1, 2 ottobre 2012 n. 16769 – la quale ribadisce che un comodato concesso da un terzo con destinazione a casa familiare, per la specificità di tale destinazione, impressa dalla concorde volontà delle parti, ‘è incompatibile con un godimento contrassegnato dalla provvisorità e dall’incertezza, che caratterizzano il comodato cosiddetto precario, e che legittimano la cessazione ad nutum del rapporto su iniziativa del comodante, con la conseguenza che questi, in caso di godimento concesso a tempo indeterminato, è tenuto a consentirne la continuazione anche oltre l’eventuale crisi coniugale, salva l’ipotesi di sopravvenienza di un urgente ed imprevisto bisogno’ -; e non va pretermesso il contiguo orientamento che rimarca come dalla pattuizione di un uso specifico del bene scaturisce la determinazione della durata del comodato, il quale non è, quindi, in tal caso qualificabile come precario ed è pertanto incompatibile con lo scioglimento ad nutum (Cass. sez. 3, 20 gennaio 1984 n. 491; Cass. sez. 3, 8 ottobre 1997 n. 9775; S.U. 9 febbraio 2011 n. 3168; Cass. sez.6-3, ord. 11 marzo 2011 n. 5907; Cass. sez. 3, 14 febbraio 2012 n. 2103; Cass. sez. 3, 25 giugno 2013 n. 15877).
  • L’esistenza, comunque, di un trend – pur non intenso come si è appena visto – in sede di legittimità diretto alla reviviscenza di una impostazione tradizionalmente contrattualistica di tutela della sfera patrimoniale del proprietario contro quella familistica incentrata sui diritti della persona e veicolata dall’insegnamento delle Sezioni Unite, impostazione mirante quantomeno alla eccezionalità della valenza familistica in quanto valutata come connotazione gravosa nel negozio (cfr. Cass. sez. 6 – 3, 21 novembre 2014 n. 24838 per cui ‘nel comodato di bene immobile, stipulato senza determinazione di termine, la volontà di assoggettare il bene a vincoli d’uso particolarmente gravosi, quali la destinazione a residenza familiare, non può essere presunta ma va positivamente accertata, dovendo, in mancanza, essere adottata la soluzione più favorevole alla sua cessazione’), ha condotto ad un ulteriore intervento delle Sezioni Unite diretto a spegnere ogni incertezza sulle conseguenze della destinazione a casa familiare nel senso della incompatibilità con lo scioglimento ad nutum del comodante del vincolo contrattuale. Con la sentenza 29 settembre 2014 n. 20448, infatti, le Sezioni Unite, pur temperando ogni eccesso ‘familistico’ (tra l’altro, infatti, rimarcano che il coniuge assegnatario dell’abitazione già attribuita in comodato che oppone alla richiesta di rilascio dei comodante l’esistenza di una destinazione dell’immobile a casa familiare ha l’onere di provare che tale era la pattuizione attributiva del diritto personale di godimento, e altresì affermano che il bisogno che giustifica la richiesta del comodante di restituzione del bene non occorre sia grave, ma semplicemente concreto, imprevisto ed urgente, e che comunque il giudice dovrà con massima attenzione esperire un controllo di proporzionalità e adeguatezza nel comparare le particolari esigenze di tutela della prole e il contrapposto bisogno del comodante), hanno ribadito in modo inequivoco gli effetti della destinazione a casa familiare anche nell’ipotesi di separazione coniugale (così insegna la massima più pertinente al caso in esame tra quelle sortite dall’intervento nomofilattico: ‘il coniuge affidatario della prole minorenne, o maggiorenne non autosufficiente, assegnatario della casa familiare, può opporre al comodante, che chieda il rilascio dell’immobile, l’esistenza di un provvedimento di assegnazione, pronunciato in un giudizio di separazione o divorzio, solo se tra il comodante e almeno uno dei coniugi (salva la concentrazione del rapporto in capo all’assegnatario, ancorché diverso) il contratto in precedenza insorto abbia contemplato la destinazione del bene a casa familiare.
  • Ne consegue che, in tale evenienza, il rapporto, riconducibile al tipo regolato dagli artt. 1803 e 1809 c.c., sorge per un uso determinato ed ha – in assenza di una espressa indicazione della scadenza – una durata determinabile per relationem, con applicazione delle regole che disciplinano la destinazione della casa familiare, indipendentemente, dunque, dall’insorgere di una crisi coniugale, ed è destinato a persistere o a venir meno con la sopravvivenza o il dissolversi delle necessità familiari che avevano legittimato l’assegnazione dell’immobile’).
  • L’orientamento giurisprudenziale invocato dalla sentenza impugnata, dunque, non può non rilevarsi che contravviene all’insegnamento del giudice nomofilattico, come è stato ribadito nel secondo intervento delle Sezioni Unite di questa Suprema Corte sulla tematica del comodato di immobile stipulato per destinarlo a casa familiare.
  • Tuttavia, come si è visto, la corte territoriale ha affiancato questa ratio decidendi erronea all’inequivoco precedente riconoscimento da parte sua dell’incidenza della destinazione ad uso familiare dell’immobile su un rapporto contrattuale ai fini dello scioglimento del contratto, esigendo il presupposto di cui all’articolo 1809, secondo comma, co, che la corte ha infatti valutato nel merito.
  • Sussistono dunque due diverse e autonome rationes decidendi, e poiché i due motivi in questione censurano solo quella erronea, lasciando integra l’altra (ovviamente, in considerazione dell’interesse della ricorrente alla qualificazione del comodato corrispondente a quella che essa adotta) che ha riconosciuto l’applicabilità dell’articolo 1809, secondo comma, c.c., tali motivi non possono non comportare il rigetto.
  • Per quanto si è osservato rimane assorbito il terzo motivo, che sostanzialmente censura la sentenza impugnata per avere qualificato il contratto di comodato de quo come comodato precario privo di incidenza della destinazione a uso familiare e per avere ritenuto che comodatario fosse soltanto L.B. , asserto quest’ultimo inconferente non avendo il giudice d’appello negato che la ricorrente fosse assegnataria della casa familiare.
  • Il quarto e il quinto motivo censurano sotto il profilo del vizio motivazionale l’avere il giudice d’appello ritenuto che sussistesse lo stato di bisogno della parte comodante ex articolo 1809, secondo comma, c.c., e che tale stato fosse imprevedibile al momento della stipulazione del contratto.

 

 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III

SENTENZA 17 dicembre 2015, n. 25356

Ritenuto in fatto

Con sentenza del 27 aprite 2011 il Tribunale di Taranto, sezione distaccata di Grottaglie, accoglieva la domanda, presentata da L.C. e F.A. nei confronti di L.B. e M.A. , di risoluzione di un contratto di comodato avente ad oggetto un appartamento di proprietà attorea, secondo la prospettazione dei ricorrenti concesso a L.B. – figlio degli attori – perché fosse destinato ad abitazione familiare ed assegnato poi con provvedimento del Presidente del Tribunale nel giudizio di separazione alla di lui moglie separata M.A. , cui la sentenza conseguentemente ordinava il rilascio dell’immobile, condannandola altresì al risarcimento di danni per illecita detenzione dalla data della domanda giudiziale e condannando gli attori a pagarle il 50% dei costi delle opere eseguite per rendere abitabile l’appartamento – concesso in comodato allo stato grezzo -, con conseguente parziale compensazione.
A seguito di appello di M.A. , nonché di appello incidentale di L.C. e F.A. , la Corte d’appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, con sentenza 12 ottobre-5 novembre 2011 n. 260, ha respinto l’appello principale e dichiarato inammissibile quello incidentale, compensando le spese del grado tra le parti.
2. Ha presentato ricorso M.A. , denunciando sette motivi.
2.1 II primo motivo denuncia ex articolo 360 n.3 c.p.c. la violazione ed omessa ovvero erronea applicazione degli articoli 329 e 346 c.p.c., anche in relazione agli articoli 343 e 436 c.p.c. nonché agli articoli 1809 e 1810 c.c..
Adduce la ricorrente che nella sentenza di primo grado il contratto era stato qualificato comodato non precario, finalizzato a fornire a coloro che all’epoca della stipulazione erano giovani coniugi – L.B. e M.A. – una casa familiare. Il giudice d’appello avrebbe invece riqualificato come comodato precario il contratto in questione, nonostante che sulla qualificazione del primo giudice, essendo stato dichiarato inammissibile l’appello incidentale, si fosse formato il giudicato interno.
2.2 Il secondo motivo denuncia ex articolo 360 n. 3 c.p.c. violazione ed omessa ovvero erronea applicazione dell’articolo 112 c.p.c. in relazione agli articoli 1372 e 1809 c.c..
Nel ricorso introduttivo del primo grado di giudizio, proposto dagli attori, era stato chiesto in test che il contratto di comodato fosse dichiarato consensualmente risolto per rilascio dell’immobile ai comodanti, e, in subordine, che fosse dichiarata legittima la “revoca del contratto” formatasi tra gli attori e L.B. ex articolo 1809, secondo comma, c.c.. Osserva la ricorrente che la corte territoriale, qualificando precario il comodato, ne ha pronunciato la risoluzione ex articolo 1810 c.c., benché non fosse stata proposta domanda in tal senso.
2.3 Il terzo motivo denuncia violazione ed omessa o falsa applicazione degli articoli 1809 e 1810 c.c., anche in relazione agli articoli 329, 346 e 436 c.p.c., ex articolo 360 n.3, c.p.c., nonché, ex articolo 360 n.5 c.c., motivazione insufficiente e contraddittoria su un profilo decisivo della controversia.
In questo motivo la ricorrente ripropone la questione della qualificazione del comodato, osservando che, dopo averlo qualificato come precario, la corte territoriale si è contraddetta ammettendo la sussistenza di un vincolo alla destinazione familiare.
Osserva altresì la ricorrente che il giudice d’appello ha ritenuto che unico comodatario fosse L.B. , laddove il Tribunale aveva ritenuto comodatari sia il suddetto sia sua moglie. Anche quanto alla determinazione del comodatario la corte territoriale avrebbe dunque leso il giudicato interno, vista l’assenza di impugnazione contro la sentenza di primo grado. A ciò dovrebbe aggiungersi una motivazione illogica e contraddittoria della sentenza impugnata.
2.4 Il quarto motivo denuncia ancora vizio motivazionale ex articolo 360 n. 5 c.p.c. quanto alla sussistenza dello stato di bisogno che legittima la richiesta di immediata restituzione del bene concesso in comodato ex articolo 1809, secondo comma, c.c..
Secondo la ricorrente, la Corte d’appello tace nella sua motivazione a proposito della doglianza della appellante fondata sul fatto che L.C. era proprietario di un appartamento analogo a quello de quo, proprietà che il primo giudice aveva ritenuto irrilevante in quanto l’appartamento non sarebbe stato abitabile e non sarebbero state imponibili agli attori le spese necessarie per il suo completamento. Ma la ricorrente avrebbe dimostrato che l’appartamento non era allo stato grezzo, costituendo invece la residenza anagrafica del nipote di L.C. , cui sarebbe stato venduto dal nonno con rogito di compravendita del 25 maggio 2011 prodotto dagli stessi appellati. Il giudice di secondo grado, lamenta quindi la ricorrente, non avrebbe considerato né il rogito né la certificazione anagrafica, limitandosi ad affermare che l’immobile era in stato grezzo, nonostante che l’effettiva situazione dell’immobile avrebbe inciso sulla esistenza dello stato di bisogno di L.C. .
2.5 Il quinto motivo denuncia ulteriore vizio motivazionale ex articolo 360 n. 5 c.p.c. quanto alla imprevedibilità, al momento della stipulazione del contratto di comodato, dello stato di bisogno di L.C. posto a sostegno della richiesta di immediato rilascio dell’immobile concesso in comodato.
Adduce la ricorrente che quando il contratto di comodato fu stipulato sarebbe stato prevedibile lo stato di bisogno che controparte aveva fatto valere, trattandosi di difficoltà deambulazione di L.C. , al quale già anteriormente alla stipulazione sarebbe stata impiantata una protesi all’anca, che avrebbe in seguito causato detta difficoltà. Anche su questo mancherebbe motivazione, essendo irrilevante la menzione da parte del giudice d’appello dell’accertamento della sussistenza della difficoltà deambulatoria nel gennaio 2005, ovvero più di ventanni dopo la stipulazione del contratto, dovendo invece il giudice accertare se la difficoltà era prevista o prevedibile quando questo fu concluso. Nell’affermare l’imprevedibilità della patologia, invece, il giudice d’appello, in conclusione, avrebbe compiuto un salto logico che inficia la sua motivazione.
2.6 Il sesto motivo denuncia violazione ed omessa ovvero erronea applicazione dell’articolo 1458 c.c., in relazione agli articoli 343, 329 e 436 c.p.c., ex articolo 360 n. 3 c.p.c., nonché vizio motivazionale ex articolo 360 n. 5 c.p.c..
Con il terzo motivo d’appello l’attuate ricorrente aveva impugnato il capo della sentenza di primo grado che la condannava al risarcimento del danno per illegittima detenzione dell’appartamento, adducendo che, avendolo posseduto in virtù di un titolo negoziale e di un provvedimento giurisdizionale di assegnazione, non aveva compiuto alcun illecito. Ritenendo che il ricorso introduttivo valeva come richiesta di restituzione, la corte territoriale avrebbe quindi violato l’articolo 1458 c.c., considerato che il comodato era assolutamente gratuito e che la pronuncia di risoluzione, ove fosse legittima, avrebbe comunque natura costitutiva e non godrebbe di efficacia retroattiva – trattandosi di contratto ad esecuzione continuata – sulle prestazioni già eseguite.
2.7 Il settimo motivo denuncia violazione ed omessa applicazione degli articoli 1292 ss. c.c. in relazione agli articoli 329, 346 e 436 c.p.c. nonché omessa motivazione su un profilo decisivo.
Con il quarto e il sesto motivo d’appello l’attuale ricorrente aveva lamentato che il risarcimento del danno per detenzione dell’appartamento e il rimborso dei costi della c.t.u. effettuata per accertare l’epoca di insorgenza della patologia di L.C. erano stati posti esclusivamente a suo carico, e non a carico anche di L.B. in via solidale, essendo anch’egli stato comodatario. La corte territoriale avrebbe ignorato tale questione, ancora una volta non tenendo conto del fatto che entrambi i coniugi erano comodatari.
2.8 Hanno depositato controricorso L.C. e F.A. , chiedendo il rigetto del ricorso e la condanna di controparte alle spese. Successivamente hanno altresì depositato memoria, insistendo in tal senso.

Motivi della decisione

Il ricorso è fondato nei limiti di quanto si verrà a esporre.

3.1.1 Il primo e il secondo motivo possono essere accorpati nel vaglio. Il primo motivo, invero, denuncia violazione da parte della Corte d’appello del giudicato interno per avere qualificato comodato precario il contratto di cui è causa, nonostante che nella sentenza di primo grado sia stato qualificato comodato non precario e che l’appello incidentale di L.C. e F.A. sia stato dichiarato inammissibile dalla stessa Corte per tardività. Il secondo motivo ritorna, da un altro punto di vista, sulla tematica della qualificazione che il giudice d’appello avrebbe attribuito al contratto di comodato in questione, lamentando la violazione dell’articolo 112 c.p.c. in relazione agli articoli 1372 e 1809 c.c. per avere appunto detto giudice qualificato precario ex articolo 1810 c.c. il contratto e dichiarato la risoluzione di questo sempre ai sensi dell’articolo 1810 c.c., nonostante che gli attori nel ricorso introduttivo avessero chiesto in tesi che il contratto fosse dichiarato consensualmente risolto per rilascio dell’immobile e in subordine che fosse dichiarata legittima la sua ‘revoca’ ex articolo 1809, secondo comma, c.c..

Occorre dare atto che effettivamente è sortito dalla sentenza di primo grado un giudicato interno riguardo alla qualificazione del contratto in esame come contratto non precario, bensì disciplinato, essendo l’immobile che ne è oggetto finalizzato all’esigenza familiare dei comodatari, dal combinato disposto degli articoli 1803 e 1809 c.c.. Peraltro, il reale contenuto della sentenza impugnata non conferma in modo sufficiente quel che lamenta il primo motivo, né, parimenti, quel che denuncia il secondo.

Nella sua – assai concisa – motivazione la corte territoriale riconosce che nel ricorso introduttivo del primo grado gli attori avevano chiesto che ‘fosse dichiarato risolto e comunque cessato’ il contratto di comodato relativo a un appartamento di loro proprietà ‘concesso al figlio B. perché fosse destinato ad abitazione familiare’ e assegnato alla moglie separata del figlio, M.A. , con provvedimento del Presidente del Tribunale; e la corte riconosce pure che, avendo resistito nella causa soltanto la M. , il giudice di prime cure ‘accoglieva la domanda di risoluzione ex art. 1809, II co., c.c.’, ordinando il rilascio dell’immobile. Affermata poi la tardività dell’appello incidentale, il giudice di secondo grado enuncia che l’appello principale deve essere rigettato, subito dopo offrendo l’argomento che ora si verrà a trascrivere e che, logicamente, non può non essere inteso come fondamento di tale rigetto: ‘Il c.t.u. ha accertato la ricorrenza di un deficit di deambulazione in capo a L.C. che non è attualmente in grado di deambulare autonomamente e salire le scale, deficit già presente nel gennaio del 2005: trattasi di disagio che connota la domanda nel senso della imprevedibilità ed urgenza del bisogno rispetto alla data di stipula del comodato; l’altro immobile a disposizione è risultato peraltro allo stato grezzo’ (motivazione, pagina 4).

È chiaro che in tal modo il giudice di secondo grado non si discosta dalla qualificazione del comodato ex articolo 1809 c.c., in quanto giustifica con la sussistenza dell’urgente e imprevedibile bisogno di cui al secondo comma di detto articolo il rigetto dell’appello principale proposto dalla M. . E infatti nel dispositivo la corte ‘rigetta l’appello principale’, confermando così il decisum del primo giudice.

3.1.2 Riscontro alle doglianze del primo e del secondo motivo potrebbe tuttavia ravvisarsi, a prima vista, nel prosieguo della motivazione della sentenza impugnata.

La corte territoriale, dopo avere preannunciato che ‘va peraltro fatta una ulteriore considerazione’, aggiunge che ‘nel caso di specie, ricorrendo un comodato precario, la determinazione del termine di efficacia del vinculum juris è rimessa alla sola volontà del comodante che ha la facoltà di manifestarla ad nutum con la semplice richiesta di restituzione del bene, senza che assuma rilievo la circostanza che l’immobile fosse stato adibito ad uso familiare ed assegnato in sede di separazione all’affidatario dei figli’. Ciò insegnerebbe la giurisprudenza di questa Suprema Corte che il giudice d’appello richiama (Cass. sez. 3, 7 luglio 2010 n. 15986, come conforme alle non massimate Cass.2007/22001 e Cass. 2007/3179), manifestando così di ritenere che la destinazione ad uso familiare sia irrilevante, permanendo al comodante la facoltà di sciogliere ad nutum il contratto (motivazione, pagine 4-5). Una posizione chiaramente opposta a quella in precedenza adottata, laddove appunto la corte si era premurata (nei limiti della concisione che connota tutto il suo tessuto motivazionale) di evidenziare e di dimostrare l’esistenza della giustificazione dello scioglimento del comodato ai sensi dell’articolo 1809, secondo comma, c.c..

Peraltro, non si può non rilevare che la giurisprudenza richiamata dal giudice d’appello si discosta dall’orientamento della giurisprudenza di questa Suprema Corte nettamente prevalente e altresì recentemente ribadito dalle Sezioni Unite.

Cass. sez. 3, 7 luglio 2010 n. 15986 afferma invero che ‘il comodato precario é caratterizzato dalla circostanza che la determinazione del termine di efficacia del vinculum iuris costituito tra le parti è rimessa in via potestativa alla sola volontà del comodante, che ha facoltà di manifestarla ad nutum con la semplice richiesta di restituzione del bene senza che assuma rilievo la circostanza che l’immobile sia stato adibito a casa familiare e sia stato assegnato, in sede di separazione tra i coniugi, all’affidatario dei figli’. In un’ottica contrattualista anziché familista, questo arresto adotta una interpretazione della disciplina del comodato improntata a una accentuata letteralità (del tenore di una giurisprudenza precedente come, sempre tra gli arresti massimati, Cass. sez. 3, 30 ottobre 1997 e Cass. sez. 3, 18 gennaio 1985 n. 133) e a un grado limitato di ermeneutica sistemica rispetto all’orientamento che all’epoca era da tempo insorto traendo linfa da S.U. 21 luglio 2004 n. 13603. Questo noto intervento delle Sezioni Unite, operando appunto su una linea di correlazione tra gli istituti e di bilanciamento tra i diritti (incluse le risonanze pubblicistiche dei diritti connessi all’istituto familiare), aveva desunto dalla finalizzazione, in sede di stipula, alle esigenze abitative familiari di un comodato immobiliare senza espressa determinazione dei limiti di durata una natura intrinsecamente non precaria del contratto, confinando nell’articolo 1809, secondo comma, c.c. il diritto alla restituzione da parte del comodante (‘Ove il comodato di un bene immobile sia stato stipulato senza limiti di durata in favore di un nucleo familiare (nella specie: dal genitore di uno dei coniugi) già formato o in via di formazione, si versa nell’ipotesi del comodato a tempo indeterminato, caratterizzato dalla non prevedibilità del momento in cui la destinazione del bene verrà a cessare. Infatti, in tal caso, per effetto della concorde volontà delle parti, si è impresso allo stesso un vincolo di destinazione alle esigenze abitative familiari (e perciò non solo e non tanto a titolo personale del comodatario) idoneo a conferire all’uso – cui la cosa deve essere destinata – il carattere implicito della durata del rapporto, anche oltre la crisi coniugale e senza possibilità di far dipendere la cessazione del vincolo esclusivamente dalla volontà, ad nutum, del comodante. Salva la facoltà di quest’ultimo di chiedere la restituzione nell’ipotesi di sopravvenienza di un bisogno, ai sensi dell’art. 1809, comma 2, c.c., segnato dai requisiti della urgenza e della non previsione’).

L’adesione decisamente maggioritaria all’insegnamento delle Sezioni Unite, invero, ha reso alquanto isolata la giurisprudenza invocata dal giudice d’appello (sulla scia dell’intervento nomofilattico si sono poste Cass. sez. 3, 13 febbraio 2006 n. 3072, nonché, poco dopo la pronuncia richiamata dalla corte territoriale, Cass. sez.3, 21 giugno 2011 n. 13592 – che, per di più in una ipotesi di famiglia di fatto, ‘riassetta’ la linea nei senso che “il comodato, stipulato senza prefissione di termine, di un immobile successivamente adibito, per inequivoca e comune volontà delle parti contraenti, ad abitazione di un nucleo familiare di fatto, costituito dai conviventi e da un figlio minore, non può essere risolto in virtù della mera manifestazione di volontà ad nutum espressa dal comodante ai sensi dell’art. 1810, primo comma, ultima parte, c.c., dal momento che deve ritenersi impresso al contratto un vincolo di destinazione alle esigenze abitative familiari idoneo a conferire all’uso cui la cosa è destinata il carattere implicito della durata del rapporto, anche oltre la crisi familiare tra i conviventi. Ne consegue che il rifascio dell’immobile, finché non cessano le esigenze abitative familiari cui esso è stato destinato, può essere richiesto, ai sensi dell’art. 1809, secondo comma, c.c., solo nell’ipotesi di un bisogno contrassegnato dall’urgenza e dall’imprevedibilità’. – e Cass. sez. 1, 2 ottobre 2012 n. 16769 – la quale ribadisce che un comodato concesso da un terzo con destinazione a casa familiare, per la specificità di tale destinazione, impressa dalla concorde volontà delle parti, ‘è incompatibile con un godimento contrassegnato dalla provvisorità e dall’incertezza, che caratterizzano il comodato cosiddetto precario, e che legittimano la cessazione ad nutum del rapporto su iniziativa del comodante, con la conseguenza che questi, in caso di godimento concesso a tempo indeterminato, è tenuto a consentirne la continuazione anche oltre l’eventuale crisi coniugale, salva l’ipotesi di sopravvenienza di un urgente ed imprevisto bisogno’ -; e non va pretermesso il contiguo orientamento che rimarca come dalla pattuizione di un uso specifico del bene scaturisce la determinazione della durata del comodato, il quale non è, quindi, in tal caso qualificabile come precario ed è pertanto incompatibile con lo scioglimento ad nutum (Cass. sez. 3, 20 gennaio 1984 n. 491; Cass. sez. 3, 8 ottobre 1997 n. 9775; S.U. 9 febbraio 2011 n. 3168; Cass. sez.6-3, ord. 11 marzo 2011 n. 5907; Cass. sez. 3, 14 febbraio 2012 n. 2103; Cass. sez. 3, 25 giugno 2013 n. 15877).

L’esistenza, comunque, di un trend – pur non intenso come si è appena visto – in sede di legittimità diretto alla reviviscenza di una impostazione tradizionalmente contrattualistica di tutela della sfera patrimoniale del proprietario contro quella familistica incentrata sui diritti della persona e veicolata dall’insegnamento delle Sezioni Unite, impostazione mirante quantomeno alla eccezionalità della valenza familistica in quanto valutata come connotazione gravosa nel negozio (cfr. Cass. sez. 6 – 3, 21 novembre 2014 n. 24838 per cui ‘nel comodato di bene immobile, stipulato senza determinazione di termine, la volontà di assoggettare il bene a vincoli d’uso particolarmente gravosi, quali la destinazione a residenza familiare, non può essere presunta ma va positivamente accertata, dovendo, in mancanza, essere adottata la soluzione più favorevole alla sua cessazione’), ha condotto ad un ulteriore intervento delle Sezioni Unite diretto a spegnere ogni incertezza sulle conseguenze della destinazione a casa familiare nel senso della incompatibilità con lo scioglimento ad nutum del comodante del vincolo contrattuale. Con la sentenza 29 settembre 2014 n. 20448, infatti, le Sezioni Unite, pur temperando ogni eccesso ‘familistico’ (tra l’altro, infatti, rimarcano che il coniuge assegnatario dell’abitazione già attribuita in comodato che oppone alla richiesta di rilascio dei comodante l’esistenza di una destinazione dell’immobile a casa familiare ha l’onere di provare che tale era la pattuizione attributiva del diritto personale di godimento, e altresì affermano che il bisogno che giustifica la richiesta del comodante di restituzione del bene non occorre sia grave, ma semplicemente concreto, imprevisto ed urgente, e che comunque il giudice dovrà con massima attenzione esperire un controllo di proporzionalità e adeguatezza nel comparare le particolari esigenze di tutela della prole e il contrapposto bisogno del comodante), hanno ribadito in modo inequivoco gli effetti della destinazione a casa familiare anche nell’ipotesi di separazione coniugale (così insegna la massima più pertinente al caso in esame tra quelle sortite dall’intervento nomofilattico: ‘il coniuge affidatario della prole minorenne, o maggiorenne non autosufficiente, assegnatario della casa familiare, può opporre al comodante, che chieda il rilascio dell’immobile, l’esistenza di un provvedimento di assegnazione, pronunciato in un giudizio di separazione o divorzio, solo se tra il comodante e almeno uno dei coniugi (salva la concentrazione del rapporto in capo all’assegnatario, ancorché diverso) il contratto in precedenza insorto abbia contemplato la destinazione del bene a casa familiare. Ne consegue che, in tale evenienza, il rapporto, riconducibile al tipo regolato dagli artt. 1803 e 1809 c.c., sorge per un uso determinato ed ha – in assenza di una espressa indicazione della scadenza – una durata determinabile per relationem, con applicazione delle regole che disciplinano la destinazione della casa familiare, indipendentemente, dunque, dall’insorgere di una crisi coniugale, ed è destinato a persistere o a venir meno con la sopravvivenza o il dissolversi delle necessità familiari che avevano legittimato l’assegnazione dell’immobile’).

L’orientamento giurisprudenziale invocato dalla sentenza impugnata, dunque, non può non rilevarsi che contravviene all’insegnamento del giudice nomofilattico, come è stato ribadito nel secondo intervento delle Sezioni Unite di questa Suprema Corte sulla tematica del comodato di immobile stipulato per destinarlo a casa familiare.

Tuttavia, come si è visto, la corte territoriale ha affiancato questa ratio decidendi erronea all’inequivoco precedente riconoscimento da parte sua dell’incidenza della destinazione ad uso familiare dell’immobile su un rapporto contrattuale ai fini dello scioglimento del contratto, esigendo il presupposto di cui all’articolo 1809, secondo comma, co, che la corte ha infatti valutato nel merito.

Sussistono dunque due diverse e autonome rationes decidendi, e poiché i due motivi in questione censurano solo quella erronea, lasciando integra l’altra (ovviamente, in considerazione dell’interesse della ricorrente alla qualificazione del comodato corrispondente a quella che essa adotta) che ha riconosciuto l’applicabilità dell’articolo 1809, secondo comma, c.c., tali motivi non possono non comportare il rigetto.

3.2 Per quanto si è osservato rimane assorbito il terzo motivo, che sostanzialmente censura la sentenza impugnata per avere qualificato il contratto di comodato de quo come comodato precario privo di incidenza della destinazione a uso familiare e per avere ritenuto che comodatario fosse soltanto L.B. , asserto quest’ultimo inconferente non avendo il giudice d’appello negato che la ricorrente fosse assegnataria della casa familiare.

3.3 Il quarto e il quinto motivo censurano sotto il profilo del vizio motivazionale l’avere il giudice d’appello ritenuto che sussistesse lo stato di bisogno della parte comodante ex articolo 1809, secondo comma, c.c., e che tale stato fosse imprevedibile al momento della stipulazione del contratto.

Anche questi due motivi possono essere vagliati congiuntamente, in quanto condividono una conformazione inammissibile, perché priva di autosufficienza: la ricorrente adduce che L.C. era proprietario di un appartamento dotato delle stesse caratteristiche di quello oggetto del comodato e pienamente abitabile, limitandosi peraltro a riferirsi a una asserita certificazione anagrafica riguardante il nipote di L.C. e a un rogito di vendita dell’appartamento dal nonno al nipote. Sempre su un piano di mera asserzione, che non consente quindi di integrare il motivo sotto il profilo dell’autosufficienza, la ricorrente adduce che le condizioni di salute di L. erano prevedibili all’epoca della stipulazione del contratto, limitandosi pure in questa doglianza ad una generica constatazione di ciò ‘sulla scorta delle risultanze della Consulenza Tecnica d’Ufficio’. L’impostazione del quarto e del quinto motivo, dunque, non consente di attestarsi, per valutarne la fondatezza, sul contenuto del ricorso, obbligando invece il giudice di legittimità, in chiaro conflitto con il dettato dell’articolo 366, primo comma, n.6 c.p.c., ad attingere dai fascicoli d’ufficio e di parte dei gradi di merito gli atti processuali e i documenti che siano pertinenti, nel senso che possano dare riscontro a quello che la ricorrente espone, il che conduce alla inammissibilità dei motivi (ex multis, da ultimo, Cass. sez. 2, 20 agosto 2015 n. 17049; Cass. sez. 1^, n. 19 agosto 2015 n. 16900; Cass. sez. 5, 15 luglio 2015 n. 14784; Cass. sez.6-3, ord. 3 febbraio 2015 n. 1926).

3.4 Il sesto motivo lamenta, sia sotto il profilo della violazione/erronea applicazione dell’articolo 1458 c.c. (in rapporto agli articoli 343, 329 e 436 c.p.c.), sia come vizio motivazionale, che, nonostante l’attuale ricorrente con il terzo motivo di appello avesse impugnato il capo della sentenza di primo grado che l’aveva condannata al risarcimento del danno da illegittima detenzione dell’appartamento dalla data della domanda giudiziale fino a quella della pronuncia che aveva risolto il contratto, la corte territoriale ha confermato la decisione sul punto del primo giudice. Richiama la ricorrente – che già nella premessa ai motivi aveva adeguatamente riassunto lo svolgimento del processo di primo grado e la relativa sentenza -, in modo sufficientemente dettagliato, il contenuto del gravame di merito al riguardo, e in particolare – tra l’altro – la contestazione di avere ella compiuto alcun atto illecito in quanto aveva posseduto l’appartamento in virtù di un titolo negoziale e del provvedimento di assegnazione pronunciato nell’ambito del processo civile per la separazione giudiziale tra i coniugi, nonché il rilievo che, trattandosi di contratto a titolo gratuito e di pronuncia costitutiva (risoluzione del contratto), nulla sarebbe stato da lei dovuto per il periodo anteriore alla sentenza del Tribunale giacché nei contratti ad esecuzione continuata l’articolo 1458 c.c. statuisce che l’effetto della risoluzione non investe le prestazioni già eseguite.

Effettivamente il Tribunale, nella sentenza di primo grado, quale presupposto dell’accoglimento delle ulteriori domande restitutoria e risarcitoria, ha dichiarato ‘la risoluzione del contratto di comodato’, come gli stessi L.C. e F.A. hanno opposto al motivo in esame nel controricorso, argomentando i controricorrenti proprio nel senso che ‘la domanda di restituzione del bene implica la risoluzione del contratto per inadempimento’, la quale ‘ha effetto retroattivo così come prevede la prima parte dell’art. 1458 c.c.’. La questione viene affrontata in motivazione dal giudice di secondo grado esclusivamente con la seguente frase: ‘Il ricorso introduttivo…operava di fatto come richiesta di restituzione del bene e dunque l’illegittima detenzione decorreva da tale data’.

È evidente l’erroneità del conciso argomento della corte territoriale: il motivo d’appello era stato prospettato in punto di diritto, in relazione ad una dichiarazione di risoluzione pronunciata dal giudice di prime cure. Nessuna incidenza, pertanto, poteva assumere un preteso ‘operare di fatto’ del ricorso di primo grado, giacché oggetto dell’impugnazione era la sentenza, non certo il ricorso. E la sentenza, sotto questo profilo, non è stata impugnata, d’altronde, per avere violato la necessaria corrispondenza, ex articolo 112 c.p.c., con le domande veicolate nell’atto introduttivo, bensì per la giuridica incompatibilità, evincibile dall’articolo 1458 c.c., tra la dichiarazione di risoluzione di un contratto a esecuzione continuata e la condanna al risarcimento di danni con effetto retroattivo dalla proposizione della domanda.

L’articolo 1458 c.c., invero, conferisce effetto retroattivo alla risoluzione del contratto per inadempimento, potenziando così gli effetti di una pronuncia costitutiva – che, secondo i principi generali, non avrebbe altrimenti potuto retroagire – e salvaguardando però i contratti ad esecuzione continuata o periodica, per cui ‘l’effetto della risoluzione non si estende alle prestazioni già eseguite’. Invero, un inadempimento, pur di gravità sufficiente a giustificare la risoluzione contrattuale, non può far venir meno gli effetti giuridici di tutti gli adempimenti pregressi tramite i quali l’esecuzione del contratto in precedenza è stata correttamente posta in essere concretizzandone così l’equilibrio sinallagmatico (cfr. da ultimo Cass. sez. 6-1, ord. 3 marzo 2015 n. 4267; Cass. sez. 3, 13 dicembre 2012 n. 22902; Cass. sez. 3, 15 maggio 2012 n. 7550). Nel caso di specie, a tacer d’altro, si tratta di un contratto a esecuzione continuata, per cui non è configurabile una illecita detenzione che abbia come dies a quo la data della notifica della domanda giudiziale, come invece ritenuto dal primo giudice e confermato nella sentenza di appello. A ciò non osta, si rileva, il fatto che il contratto è a titolo gratuito, e non quindi a prestazioni corrispettive, dal momento che la pronuncia che costituisce il presupposto del risarcimento del danno, facendo riferimento all’articolo 1809, secondo comma, c.c., è una dichiarazione di risoluzione (a prescindere dalla correttezza della scelta del genere di pronuncia da parte del giudice di merito, non rientrando questo nell’ambito del motivo in esame) che, tra le species del genus risolutorio ex articoli 1453 ss. c.c., non può che ricondursi alla risoluzione per inadempimento, con conseguente applicazione proprio dell’articolo 1458 c.c., il quale ne disciplina gli effetti e al quale, significativamente, come si è visto, si sono richiamati per difendersi dal presente motivo gli stessi controricorrenti.

Da quanto rilevato, discende la fondatezza del motivo, che impone – non necessitando sul punto ulteriori accertamenti di fatto – la decisione nel merito ex articolo 384, secondo comma, c.p.c. nel senso della eliminazione della condanna risarcitoria e della conseguente dichiarazione di compensazione del debito risarcitorio – in quanto appunto accertato come inesistente – con il controcredito per la realizzazione di opere nell’appartamento che ti Tribunale ha riconosciuto alla ricorrente M. .

Ciò comporta, altresì, l’assorbimento del settimo motivo attinente alla omessa condanna risarcitoria in via solidale a carico di L.B. , mentre l’ulteriore doglianza racchiusa in tale motivo a proposito della condanna della ricorrente al pagamento delle spese della c.t.u. – rilevandosi, per inciso, che L.B. è rimasto contumace e solo M.A. ha resistito alle pretese attoree, conducendo così alla disposizione della c.t.u. – viene assorbita logicamente dal quinto motivo, già più sopra esaminato.

L’accoglimento di uno soltanto sui sette motivi presentati nel ricorso integra i presupposti per la compensazione delle spese del grado.

P.Q.M.

Rigetta i primi due motivi; dichiara assorbito il terzo motivo; dichiara inammissibili il quarto e il quinto motivo; accoglie il sesto motivo e in relazione ad esso decidendo nel merito annulla la sentenza impugnata nella parte in cui ha confermato la condanna di M.A. al risarcimento dei danni nonché nella parte in cui compensa i contrapposti crediti. Dichiara assorbito il settimo motivo. Compensa le spese del presente grado.

 

ASSEGNO DIVORZILE SEPARAZIONI CASA CONIUGALE AVVOCATO SEPARAZIONI BOLOGNA

 

Ove l’accordo (o il contratto) sia nullo, tale nullità potrebbe essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse, e dunque anche da chi abbia dato causa a tale nullità. Ed esso potrebbe essere oggetto di annullamento da parte del soggetto incapace o la cui volontà risulti viziata (ad es. da un errore pure sulla sussistenza dell’interesse del minore, ma si dovrebbe ricordare che se nell’accordo sia preminente una causa transattiva, non rileverebbe ai sensi dell’art. 1969 c.c., errore di diritto). Ma nullità o annullamento non potrebbero costituire motivo di impugnazione dei soggetti dell’accordo da cui essi sono vincolati, ma dovrebbero essere fatti valere in un autonomo giudizio di cognizione (In termini generali n. 17607 del 2003).

Vi sono peraltro alcuni equivoci da chiarire, in relazione alla fattispecie dedotta in giudizio. È vero che l’accordo (o il contratto) collegato alla crisi familiare, potrebbe violare diritti indisponibili.

Si pensi ad es. ad una clausola che escluda in perpetuo la possibilità, per il coniuge, di un assegno di mantenimento o divorzile ovvero che impedisca, sempre e comunque, un controllo del genitore sull’esercizio della potestà (oggi “responsabilità”) esercitata dall’altro, o magari, addirittura, che limiti la possibilità o vincoli le parti al divorzio.

Ma aldilà di tali clausole “estreme”, che ben difficilmente nella prassi vengono stipulate, i coniugi possono, con reciproche concessioni, raggiungere un accordo sull’affidamento dei figli e modalità di visite genitoriali nonché su ogni altra questione (personale o patrimoniale) della vita familiare.

Altrimenti… non vi sarebbe spazio alcuno per separazioni consensuali, divorzi congiunti o conclusioni comuni.

Quanto all’interesse del minore, si è detto che la giurisprudenza conosce e ha ritenuto pienamente valida la clausola di trasferimento immobiliare da un coniuge al figlio, anche a scopo di mantenimento, utilizzando lo schema del contratto a favore di terzo e/o di quello con obbligazione per il solo proponente, ai sensi dell’art. 1333 c.c.. (Cass. n. 2500 del 1987). Ne rileverebbe la circostanza che l’immobile in questione non sia di proprietà del genitore obbligato.

Suprema Corte di Cassazione

sezione I

sentenza 20 agosto 2014, n. 18066

Svolgimento del processo

Con sentenza non definitiva in data 03.11.2010, il Tribunale di Treviso dichiarava la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario tra R.G. e F.E. .

Con sentenza definitiva in data 16.05.2012, su conclusioni comuni delle parti, il Tribunale affidava il figlio minore Ri. ad entrambi i genitori, con collocazione presso la madre, determinava il regime di visita del padre, disponeva che la casa coniugale venisse trasferita in proprietà al figlio, con obbligo per il R. di procedere al trasferimento stesso, e di corrispondere alla moglie la somma di Euro 2.500 mensili di cui Euro 700, quale assegno divorzile ed Euro 1800 per contributo al mantenimento del figlio.

Con ricorso depositato in data 11.07.2012, il R. impugnava la sentenza definitiva, chiedendo, in parziale riforma, l’aumento delle possibilità di visita al minore, la riduzione del contributo per il mantenimento del figlio e l’esclusione dell’assegno divorzile.

Costituitosi il contraddittorio, la F. eccepiva la inammissibilità dell’appello e ne chiedeva il rigetto, con conferma della sentenza di primo grado; in subordine, proponeva appello incidentale condizionato, chiedendo la riduzione delle visite paterne e l’aumento dell’assegno divorzile.

La Corte di Appello di Venezia, con sentenza in data 23.01.2013, dichiarava inammissibile l’appello principale e quello incidentale.

Ricorre per cassazione il R. , che pure deposita memoria difensiva.

Resiste con controricorso la F. .

Motivi della decisione

Con il primo motivo, il ricorrente lamenta violazione degli artt. 5 L. Divorzio, 100, 112 c.p.c., in quanto la sentenza poteva essere impugnata, anche indipendentemente dalla soccombenza delle parti.

Con il secondo, violazione degli artt. 100, 112, 132 c.p.c. in ragione della sussistenza di diritti indisponibili, per i quali l’interesse ad impugnare prescinderebbe dalla condotta processuale delle parti.

Con il terzo, violazione degli artt. 100, 112, 132 c.p.c., in quanto il trasferimento immobiliare a favore del figlio delle parti, non assicurava il suo interesse alla conservazione dell’habitat domestico.

Con il quarto, violazione degli artt. 155 quater, 1021, 1022, 2643, 2645 c.c., non essendo stata disposta la assegnazione della casa coniugale al genitore, collocatario del figlio.

Con il quinto, violazione degli artt. 1173, 1174, 1321, 1325, 1987 c.c., per nullità della clausola relativa al trasferimento della abitazione al figlio, essendo l’impegno del padre giuridicamente irrilevante.

Con il sesto, violazione dell’art. 1478 c.c., per nullità della predetta clausola, stante la necessità di una delibera assembleare della società proprietaria, per autorizzare la vendita.

La sentenza impugnata dichiara inammissibile l’appello principale, sostenendo che, ai sensi dell’art. 100 c.p.c., per far valere una domanda in giudizio e per proporre impugnazione, occorre avervi interesse, e che difetta totalmente in capo al R. tale interesse, non essendo egli risultato soccombente per alcuna delle domande proposte nel primo grado, con le conclusioni definitive da lui rassegnate. Non rinviene il giudice a quo clausole nulle nell’accordo raggiunto tra le parti, non essendovi violazione alcuna di diritti indisponibili, né contrasto con l’interesse del minore: valido il trasferimento immobiliare a suo favore della casa coniugale, con impegno del padre all’acquisto della proprietà e al predetto trasferimento, che garantirebbe al minore stesso la permanenza nell’habitat domestico.

Va condivisa, seppur con alcune doverose precisazioni, l’affermazione della pronuncia impugnata, per cui non è ammessa impugnazione se la parte o entrambe le parti, a seguito di accordo, risultino soccombenti.

La fattispecie in esame (conclusioni comuni nell’ambito di un procedimento di divorzio originariamente contenzioso) è assimilabile a quella inerente ad un procedimento di divorzio congiunto. È bensì vero, come afferma il ricorrente, che l’art. 5, comma 5, L. Divorzio prevede, apparentemente senza eccezione, la possibilità di impugnazione, da parte di ciascun coniuge, ma, per il divorzio congiunto, tale previsione riguarda situazioni particolari: il primo giudice non ha recepito o ha recepito solo parzialmente l’accordo tra le parti, magari precisando che erano in questione diritti indisponibili o l’accordo stesso appariva in contrasto con l’interesse del minore, ovvero non era “congrua” la corresponsione una tantum di somma, escludente, per il futuro l’assegno divorzile.

In tali casi ovviamente, ciascuno dei coniugi od entrambi potrebbero impugnare la sentenza.

Il Pubblico Ministero, ai sensi del art. 5, comma 5, predetto, può impugnare limitatamente agli interessi patrimoniali dei figli.

Va interpretata in senso lato tale previsione, con riferimento al patrimonio del minore, al suo mantenimento, ai trasferimenti (immobiliari o mobiliari) che lo riguardano, ecc. E impugnazione potrebbe esservi, da parte di un curatore speciale del minore, in caso di conflitto di interessi con i genitori (questione estranea alla presente fattispecie, non essendovi stata, in corso di causa, istanza alcuna di nomina di un curatore).

Si diceva della affermazione condivisibile, per cui non vi è interesse ad impugnare, senza soccombenza, ma, nella specie, vi è una ragione ulteriore per escludere l’impugnazione.

Nella separazione consensuale, cosi come nel divorzio congiunto, ma pure in caso di precisazioni comuni che concludano e trasformino il procedimento contenzioso di separazione e divorzio, si stipula un accordo, di natura sicuramente negoziale (tra le altre, Cass. n. 17607 del 2003), che, frequentemente, per i profili patrimoniali si configura come un vero e proprio contratto. Non rileva che, in sede di divorzio, esso sia recepito, fatto proprio dalla sentenza: all’evidenza tale sentenza è necessaria per la pronuncia sul vincolo matrimoniale, ma, quanto all’accordo, si tratta di un controllo esterno del giudice, analogo a quello di separazione consensuale.

Com’è noto, nell’accordo tra le parti, in sede di separazione e di divorzio, si ravvisa un contenuto necessario (attinente all’affidamento dei figli, al regime di visita dei genitori, ai modi di contributo al mantenimento dei figli, all’assegnazione della casa coniugale, alla misura e al modo di mantenimento, ovvero alla determinazione di un assegno divorziale per il coniuge economicamente più debole) ed uno eventuale (la regolamentazione di ogni altra questione patrimoniale o personale tra i coniugi stessi).

Tradizionalmente gli accordi “negoziali” in materia familiare, erano ritenuti del tutto estranei alla materia e alla logica contrattuale, affermandosi che si perseguiva un interesse della famiglia trascendente quello delle parti, e l’elemento patrimoniale, ancorché presente, era strettamente collegato e subordinato a quello personale. Oggi, escludendosi in genere che l’interesse della famiglia sia superiore e trascendente rispetto alla somma di quelli, coordinati e collegati, dei singoli componenti, si ammette sempre più frequentemente un’ampia autonomia negoziale, e la logica contrattuale, seppur con qualche cautela, là dove essa non contrasti con l’esigenza di protezione dei minori o comunque dei soggetti più deboli, si afferma con maggior convinzione.

Nei verbali di separazione consensuale o in quelli recepiti dalla sentenza di divorzio congiunto, sono assai frequenti le clausole contenenti promesse di trasferimenti, ma pure trasferimenti effettivi di proprietà o altri diritti reali su beni immobili o mobili da un coniuge all’altro. Intenti modalità, contenuti possono essere i più diversi: regolamentazione di tutti o di alcuni rapporti reciproci tra i coniugi, magari anche al fine di prevenire possibili controversie, con un sistema più o meno complesso di concessioni, compromessi, risarcimenti, riconoscimenti, ecc, attribuzioni ed assegnazioni reciproche, talora anche di portata divisoria, ma pure di adempimento dell’obbligo ex lege di mantenimento (o comunque di assistenza) a favore del coniuge economicamente più debole.

Questa Corte da tempo ritiene che la clausola di trasferimento di immobile tra i coniugi, contenuta nei verbali di separazione o recepita dalla sentenza di divorzio congiunto o magari, come nella specie, sulla base di conclusioni uniformi, è valida tra le parti e nei confronti dei terzi, essendo soddisfatta l’esigenza della forma scritta (tra le prime pronunce al riguardo, Cass. 11 novembre 1992, n.12110 e, ancora recentemente, Cass. n. 2263 del 2014), cosi come il trasferimento o la promessa di trasferimento di immobili, mobili o somme di denaro, quale adempimento dell’obbligazione di mantenimento (o assistenziale) da parte di un coniuge nei confronti dell’altro (tra le altre, Cass. 17 giugno 1992 n. 7470). Ma pure questa Corte ha sostenuto la ammissibilità, a titolo di contributo per il mantenimento del figlio minore, del trasferimento di un immobile a suo favore, quale contratto atipico e gratuito, che si perfeziona per effetto del mancato rifiuto (Cass. 21 dicembre 1987, n. 9500).

Va altresì precisato che gli accordi omologati (ovvero recepiti dalla sentenza di divorzio) non esauriscono necessariamente ogni rapporto tra i coniugi) o tra genitori e figli). Si potrebbero ipotizzare (e nella prassi ciò accade frequentemente) accordi anteriori, contemporanei o magari successivi alla separazione o al divorzio, nella forma della scrittura privata o dell’atto pubblico.

Al riguardo, la giurisprudenza di questa Corte è variamente intervenuta, con particolare riferimento agli accordi extragiudiziali, in occasione della separazione, attraverso una complessa evoluzione verso una più ampia autonomia negoziale dei coniugi. Dapprima si affermava che tutti i patti intercorsi tra i coniugi, in vista della separazione, anteriori, coevi o successivi, indipendentemente dal loro contenuto, dovevano essere sottoposti al controllo del giudice che, con il suo decreto di omologa, conferiva ad essi valore ed efficacia giuridica. Successivamente si cominciò ad effettuare distinzione sul contenuto necessario ed eventuale delle separazioni consensuali, sui rapporti tra i genitori e figli, riservati al controllo del giudice, e tra coniugi, che, almeno tendenzialmente, rimanevano nell’ambito della loro discrezionale ed autonoma determinazione, in base alla valutazione delle rispettive convenienze, fino a sostenere successivamente l’autonomia negoziale dei genitori, anche nel rapporto con i figli, purché si pervenga ad un miglioramento degli assetti concordati davanti al giudice (tra le altre, Cass. 22 gennaio 1994 n. 657; n. 23801 del 2006).

Al contrario, la giurisprudenza di questa Corte è rimasta tradizionalmente orientata a ritenere gli accordi assunti prima del matrimonio o magari in sede di separazione consensuale, in vista del futuro divorzio, nulli per illiceità della causa, perché in contrasto con i principi di indisponibilità degli status e dello stesso assegno di divorzio (tra le altre Cass. N. 6857 del 1992).

(Sono stati invece ritenuti validi accordi in vista di una dichiarazione di nullità del matrimonio, in quanto correlati ad un procedimento dalle forti connotazioni inquisitorie, volto ad accertare l’esistenza o meno di una causa di invalidità matrimoniale, fuori da ogni potere negoziale di disposizione degli status: tra le altre Cass. N. 348 del 1993). Giurisprudenza più recente ha sostenuto che tali accordi non sarebbero di per sé contrari all’ordine pubblico: più specificamente il principio dell’indisponibilità preventiva dell’assegno di divorzio dovrebbe rinvenirsi nella tutela del coniuge economicamente più debole, e l’azione di nullità (relativa) sarebbe proponibile soltanto da questo (al riguardo, Cass. n. 8109 del 2000).

Questa Corte più recentemente (Cass. n.23713 del 2012; ma v. pure Cass. n. 19304 del 2013), pur escludendo che nella specie si trattasse di accordi prematrimoniali in vista del divorzio, ha avuto modo di precisare che tali accordi sono molto frequenti in altri Stati, segnatamente quelli di cultura anglosassone, dove essi svolgono una proficua funzione di deflazione delle controversie familiari e divorzili, e pure ha sottolineato le critiche di parte della dottrina all’orientamento tradizionale, che trascurerebbe di considerare adeguatamente non solo i principi del diritto di famiglia ma la stessa evoluzione del sistema normativo, ormai orientato a riconoscere sempre più ampi spazi di autonomia ai coniugi nel determinare i propri rapporti economici, anche successivi alla crisi coniugale, ferma ovviamente la tutela dell’interesse dei figli minori.

Come si è detto, l’accordo delle parti in sede di separazione o di divorzio (e magari quale oggetto di precisazioni comuni in un procedimento originariamente contenzioso) ha natura sicuramente negoziale, e talora da vita ad un vero e proprio contratto.

Ma, anche se esso non si configurasse come contratto, all’accordo stesso sarebbero sicuramente applicabili alcuni principi generali dell’ordinamento come quelli attinenti alla nullità dell’atto o alla capacità delle parti, ma pure alcuni più specifici (ad es. relativi ai vizi di volontà, del resto richiamati da varie norme codicistiche in materia familiare dalla celebrazione del matrimonio al riconoscimento dei figli nati fuori di esso) (al riguardo, ancora, Cass. n. 17607 del 2003).

Tornando alla fattispecie in esame, si deve affermare che i coniugi, in quanto parti dei predetti accordi, non possono impugnare un decreto di omologa o la sentenza che li abbia recepiti.

Lo potrebbero, come si diceva, il Pubblico Ministero per gli interessi patrimoniali dei minori ovvero un curatore speciale, nominato dal giudice, in nome e per conto dei minori stesso.

Ove l’accordo (o il contratto) sia nullo, tale nullità potrebbe essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse, e dunque anche da chi abbia dato causa a tale nullità. Ed esso potrebbe essere oggetto di annullamento da parte del soggetto incapace o la cui volontà risulti viziata (ad es. da un errore pure sulla sussistenza dell’interesse del minore, ma si dovrebbe ricordare che se nell’accordo sia preminente una causa transattiva, non rileverebbe ai sensi dell’art. 1969 c.c., errore di diritto). Ma nullità o annullamento non potrebbero costituire motivo di impugnazione dei soggetti dell’accordo da cui essi sono vincolati, ma dovrebbero essere fatti valere in un autonomo giudizio di cognizione (In termini generali n. 17607 del 2003).

Vi sono peraltro alcuni equivoci da chiarire, in relazione alla fattispecie dedotta in giudizio. È vero che l’accordo (o il contratto) collegato alla crisi familiare, potrebbe violare diritti indisponibili. Si pensi ad es. ad una clausola che escluda in perpetuo la possibilità, per il coniuge, di un assegno di mantenimento o divorzile ovvero che impedisca, sempre e comunque, un controllo del genitore sull’esercizio della potestà (oggi “responsabilità”) esercitata dall’altro, o magari, addirittura, che limiti la possibilità o vincoli le parti al divorzio. Ma aldilà di tali clausole “estreme”, che ben difficilmente nella prassi vengono stipulate, i coniugi possono, con reciproche concessioni, raggiungere un accordo sull’affidamento dei figli e modalità di visite genitoriali nonché su ogni altra questione (personale o patrimoniale) della vita familiare.

Altrimenti… non vi sarebbe spazio alcuno per separazioni consensuali, divorzi congiunti o conclusioni comuni.

Quanto all’interesse del minore, si è detto che la giurisprudenza conosce e ha ritenuto pienamente valida la clausola di trasferimento immobiliare da un coniuge al figlio, anche a scopo di mantenimento, utilizzando lo schema del contratto a favore di terzo e/o di quello con obbligazione per il solo proponente, ai sensi dell’art. 1333 c.c.. (Cass. n. 2500 del 1987). Ne rileverebbe la circostanza che l’immobile in questione non sia di proprietà del genitore obbligato.

Si tratterebbe, in sostanza, di fattispecie analoga a quella di vendita di cosa altrui, ai sensi dell’art. 1478 c.c. e segg.: l’obbligato dovrà acquistare l’immobile e trasferirlo al beneficiario; in caso di inottemperanza, egli sarà tenuto al risarcimento del danno. Il trasferimento immobiliare supererebbe la necessità di assegnazione della casa coniugale al genitore collocatario del minore. D’altra parte, essendo il R. titolare del contratto di locazione della casa coniugale, con il divorzio, si potrebbe configurare una successione del coniuge, convivente con il figlio minore, nel rapporto locatizio, ai sensi dell’art. 6 L. n. 392 del 1978, sulla locazione degli immobili urbani. E se il proprietario facesse valere i suoi diritti sull’immobile, sarebbe sempre possibile richiedere, in sede di modifica delle condizioni di divorzio, un’elevazione dell’assegno a favore del coniuge collocatario del figlio, per permettergli di rinvenire una nuova sistemazione abitativa.

Non si ravvisa dunque né violazione di diritti indisponibili né contrasto alcuno con l’interesse del minore.

Va pertanto rigettato il ricorso. Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, che liquida in Euro 6000 per compensi, Euro 200 per esborsi, oltre spese forfettarie e accessori di legge.

Ai sensi del art. 13 comma 1 quater D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto dell’insussistenza dei presupposti per il versamento del contributo unificato, a norma del comma 1 bis, predetto articolo.

In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell’art. 52 D.Lgs. n. 196 del 2003, in quanto imposto dalla legge.

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