In via generale, questa Corte ha affermato che la pronuncia di addebito della separazione non può fondarsi sulla sola violazione dei doveri posti dall’art. 143 c.c. a carico dei coniugi, essendo, invece, necessario accertare che tale violazione, lungi dall’essere intervenuta quando era già maturata una situazione in cui la convivenza non era più tollerabile, abbia assunto efficacia causale nel determinare la situazione di intollerabilità (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 18074 del 20/08/2014).
L’indagine sull’intollerabilità della convivenza deve, peraltro, essere svolta sulla base della valutazione globale e sulla comparazione dei comportamenti di entrambi i coniugi, non potendo la condotta dell’uno essere giudicata senza un raffronto con quella dell’altro, consentendo solo tale comparazione di riscontrare se e quale incidenza esse abbiano riservato, nel loro reciproco interferire, nel verificarsi della crisi matrimoniale (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 14162 del 14/11/2001)
Le principali ipotesi di addebito della separazione includono:
Infedeltà coniugale: La violazione del dovere di fedeltà è una delle cause più comuni di addebito. Tuttavia, l’infedeltà deve essere direttamente collegata alla crisi del matrimonio e non avvenuta, ad esempio, dopo che il rapporto era già compromesso.
Violazione del dovere di assistenza morale e materiale: Se uno dei coniugi non sostiene l’altro, né dal punto di vista economico né dal punto di vista affettivo, può essere imputata una responsabilità. Questo include la mancanza di aiuto in momenti di difficoltà, come la malattia.
Comportamenti violenti o lesivi della dignità dell’altro coniuge: Violenza fisica o psicologica, offese gravi e comportamenti che umiliano o ledono la dignità dell’altro coniuge possono portare a un addebito.
Abbandono del tetto coniugale: Se uno dei coniugi abbandona il tetto coniugale senza una valida ragione, ciò può essere considerato una violazione del dovere di convivenza e portare all’addebito.
Condotte lesive verso i figli: Comportamenti inadeguati verso i figli o la mancata cura e protezione dei figli possono portare all’addebito.
Se viene pronunciato l’addebito, il coniuge ritenuto responsabile perde alcuni diritti, come l’eventuale diritto agli alimenti, e può essere obbligato a risarcire i danni.
AVVOCATO PER SEPARAZIONI BOLOGNA
SEPARAZIONE DEI CONIUGI
In genere
Cass. civ., Sez. I, Ord., (data ud. 15/11/2023) 24/04/2024, n. 11032
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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente
Dott. TRICOMI Laura – Consigliere
Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere
Dott. ROSARIO Caiazzo – Consigliere
Dott. REGGIANI Eleonora – Consigliere rel.
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso n. 19579/2022
promosso da
A.A., elettivamente domiciliato in Roma, via Quintino Sella 41, presso lo studio dell’avv. Camilla Bovelacci, rappresentato e difeso dall’avv. Brunella Bertani, in virtù di procura speciale in atti;
– ricorrente –
contro
B.B., elettivamente domiciliata in Guastalla, piazza Garibaldi 9, presso lo studio dell’avv. Vera Sala, che la rappresenta e difende in virtù di procura speciale in atti;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Bologna n. 157/2022, pubblicata in data 27/01/2022;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/11/2023 dal Consigliere ELEONORA REGGIANI;
letti gli atti del procedimento in epigrafe.
Svolgimento del processo
Con sentenza n. 845/2020, il Tribunale di Reggio Emilia, dopo aver pronunciato sentenza parziale di separazione personale dei coniugi A.A. e B.B., che avevano celebrato il loro matrimonio nel 1981 (dal quale erano nati due figli, entrambi maggiorenni ed economicamente autosufficienti), definiva il giudizio in primo grado, rigettando le domande di addebito della separazione reciprocamente proposte dalle parti e ponendo a carico del A.A. il pagamento di un contributo al mantenimento della moglie di Euro 500,00 mensili, da rivalutarsi annualmente su base ISTAT.
Avverso tale pronuncia proponeva appello A.A., impugnando la statuizione di primo grado nella parte in cui aveva respinto la domanda di addebito della separazione alla moglie e previsto il contributo al mantenimento in favore di quest’ultima.
Nel contraddittorio delle parti, l’impugnazione veniva respinta dalla Corte d’appello di Bologna, con sentenza n. 157/2022, pubblicata il 27/01/2022.
A.A. ha, quindi, proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi di impugnazione.
L’intimata si è difesa con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memorie difensive.
Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso è dedotta la nullità della sentenza ex art. 360n. 4 c.p.c. per avere la Corte d’appello di Bologna pronunciato ultrapetita in violazione dell’art. 112c.p.c., affermando l’esistenza di una pregressa disaffezione di entrambi i coniugi in data antecedente all’abbandono da parte di B.B. della casa coniugale, senza che vi fosse una allegazione in tal senso della difesa di quest’ultima.
Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 151, comma 1, e 158 c.c., in riferimento all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., per avere la Corte d’Appello ritenuto la disaffezione del marito nei confronti della moglie esistente prima che la stessa si allontanasse dall’abitazione familiare, dando rilievo all’avvenuta sottoscrizione un accordo di separazione consensuale, mai omologato, e al fatto che il ricorrente aveva atteso oltre un anno dall’abbandono del tetto coniugale da parte della moglie prima di depositare il ricorso per separazione giudiziale con addebito.
Con il terzo motivo di ricorso è dedotta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 143, 146 e 151 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., per avere la Corte d’Appello ritenuto che l’allontanamento di B.B. dalla casa familiare, in data 11 giugno 2016, non avesse avuto nessuna efficienza causale rispetto alla frattura coniugale, sul presupposto erroneo che fosse già preesistente una crisi della coppia, provata dalla circostanza secondo cui la B.B., un mese prima di lasciare la casa, aveva comunicato al marito, a mezzo di lettera del proprio legale, la propria volontà di separarsi, con ciò postulando una inammissibile interpretazione abrogativa dell’art. 146 c.c.
Con il quarto motivo di ricorso è dedotta la nullità della sentenza, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., per violazione dell’art. 2697 c.c. in relazione agli artt. 146 c.c. e 151 c.c., avendo la Corte d’Appello ritenuto che incombesse sul marito l’onere di provare l’esistenza di un buon rapporto tra i coniugi (per fare valere la violazione dell’obbligo di convivenza da parte della moglie, ai fini dell’addebito), e non alla moglie (l’onere di provare che il suo allontanamento era privo di efficacia causale in forza di una pregressa crisi coniugale).
Il primo motivo di ricorso è infondato.
2.1. Com’è noto ai sensi dell’art. 151 c.c. “La separazione può essere chiesta quando si verificano, anche indipendentemente dalla volontà di uno o di entrambi i coniugi, fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da recare grave pregiudizio alla educazione della prole. Il giudice, pronunziando la separazione, dichiara, ove ne ricorrano le circostanze e ne sia richiesto, a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio.”
In via generale, questa Corte ha affermato che la pronuncia di addebito della separazione non può fondarsi sulla sola violazione dei doveri posti dall’art. 143 c.c. a carico dei coniugi, essendo, invece, necessario accertare che tale violazione, lungi dall’essere intervenuta quando era già maturata una situazione in cui la convivenza non era più tollerabile, abbia assunto efficacia causale nel determinare la situazione di intollerabilità (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 18074 del 20/08/2014).
L’indagine sull’intollerabilità della convivenza deve, peraltro, essere svolta sulla base della valutazione globale e sulla comparazione dei comportamenti di entrambi i coniugi, non potendo la condotta dell’uno essere giudicata senza un raffronto con quella dell’altro, consentendo solo tale comparazione di riscontrare se e quale incidenza esse abbiano riservato, nel loro reciproco interferire, nel verificarsi della crisi matrimoniale (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 14162 del 14/11/2001).
L’anteriorità della crisi della coppia rispetto alla violazione di tali obblighi, quale causa di esclusione del nesso causale, integra comunque un’eccezione in senso lato, ed è pertanto rilevabile d’ufficio, purché siano allegati dalla parte a ciò interessata i fatti che ne suffragano l’esistenza e i menzionati fatti risultino provati dal materiale probatorio comunque acquisito al processo (Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 20866 del 21/07/2021).
Con specifico riferimento alla violazione dell’obbligo di coabitazione, questa Corte ha ritenuto che il volontario abbandono del domicilio familiare da parte di uno dei coniugi contiene di per di per sé tutti i requisiti per configurare l’addebito della separazione personale, tenuto conto che obiettivamente a seguito di tale condotta la convivenza non è più possibile, fermo restando che l’addebito deve essere escluso, ove risulti che esso sia stato determinato dal comportamento dell’altro coniuge o sia intervenuto in un momento in cui la prosecuzione della convivenza era già divenuta intollerabile e che, anzi, l’allontanamento del coniuge costituisca una conseguenza di tale intollerabilità (Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 648 del 15/01/2020).
A prescindere da qualsivoglia elemento di addebito, in applicazione dell’art. 151 c.c., la separazione dei coniugi deve comunque trovare causa e giustificazione in una situazione di intollerabilità della convivenza, intesa come fatto psicologico squisitamente individuale, riferibile alla formazione culturale, alla sensibilità e al contesto interno della vita dei coniugi, purché oggettivamente apprezzabile e giuridicamente controllabile. A tal fine non è necessario che sussista una situazione di conflitto riconducibile alla volontà di entrambi i coniugi, ben potendo la frattura dipendere da una condizione di disaffezione al matrimonio di una sola delle parti, che renda incompatibile la convivenza e che sia verificabile in base ai fatti obiettivi emersi in giudizio (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 8713 del 29/04/2015; Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 16698 del 05/08/2020).
Ovviamente, l’apprezzamento circa la responsabilità di uno o di entrambi i coniugi, nel determinarsi della intollerabilità della convivenza, è un accertamento in fatto riservato al giudice di merito e non può essere censurato in sede di legittimità in presenza di una motivazione che non sia viziata (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 18074 del 20/08/2014).
2.2. In tale quadro, deve tenersi conto che il giudice di merito incorre nel vizio di extrapetizione quando attribuisce alla parte un bene non richiesto, perché non compreso neppure implicitamente o virtualmente nelle deduzioni o allegazioni, e non quando pone a fondamento della decisione risultanze dell’istruttoria che naturalmente si offrono alla valutazione del giudice (cfr. Cass., Sez. 1, Sentenza n. 12014 del 07/05/2019).
2.3. Nel caso di specie, la Corte d’appello ha statuito come segue: “Il punto centrale sta nell’impossibilità di ricondurre causalmente la definitiva rottura dell’unione coniugale all’allontanamento da casa della sig.ra B.B.. Appare evidente che l’affectio coniugalis, almeno per quanto riguarda la moglie, era già cessata, avendo ella manifestato al marito, con l’assistenza del legale, la volontà di separarsi. Peraltro, all’invio della comunicazione e al successivo allontanamento non è seguita, da parte del marito, alcuna reazione, fino alla proposizione del ricorso per separazione.
Al contrario, è agli atti la scrittura privata denominata “separazione A.A. /B.B.”, del 10 dicembre 2016 (doc. 12 allegato alla comparsa di costituzione in primo grado B.B.), sottoscritta dai coniugi diversi mesi prima della data in cui il marito ha presentato il ricorso introduttivo del giudizio di separazione (6 luglio 2017). Con la scrittura in esame i coniugi prendono accordi in vista della separazione, decidendo, tra l’altro, di vendere la casa coniugale cointestata dividendo il ricavato, donare il negozio cointestato alla figlia e, soprattutto, prevedono l’impegno del marito di versare alla moglie la somma di Euro 300,00 mensili a titolo di contributo al mantenimento. È evidente che la tesi di una responsabilità della moglie per la rottura dell’unione, che avrebbe determinato la negazione di qualunque diritto ad un contributo, non era stata allora neppure presa in considerazione, e che i coniugi ritenevano di addivenire ad una intesa per regolare concordemente la “fine”, già, nei fatti, avvenuta, del matrimonio.
Solo in seguito, il marito ha, evidentemente, cambiato idea, presentando ricorso con richiesta di addebito, ma la condotta di un coniuge che attribuisce la rottura dell’unione al comportamento dell’altro, non è quella tenuta dal A.A. dopo l’allontanamento della B.B.. Egli ha atteso oltre un anno dall’asserito improvviso abbandono, per lamentarsene solo con la proposizione del ricorso, nel frattempo preparando accordi che non presupponevano affatto condotte di violazione dei doveri coniugali. Il suo “ripensamento”, come sottolinea la B.B., appare piuttosto come un tentativo di sottrarsi al pagamento di un contributo, piuttosto che la reazione di un marito improvvisamente abbandonato.
Peraltro, la semplice lettura della memoria integrativa di primo grado del sig. A.A. chiarisce quali sarebbero le condotte della moglie che avrebbero integrato i presupposti dell’addebito; vi si legge che, non avendo mai il marito collaborato alle faccende domestiche, perché impegnato fuori casa per lavoro, si sarebbe trovato (dopo il ricevimento della lettera preannunciante la separazione e il successivo allontanamento della moglie) in una situazione di difficoltà nella gestione della quotidianità; la moglie avrebbe in tal modo violato il dovere di coabitazione e di assistenza.
Non una parola si legge sulle precedenti condizioni della vita matrimoniale che possa confermare la sussistenza di un buon rapporto tra i coniugi.” (p. 7 e ss. della sentenza impugnata).
Il giudice del gravame ha, in sintesi, ritenuto provata una condizione di disaffezione, quantomeno da parte della donna, già prima dell’allontanamento di quest’ultima dalla casa coniugale, dato che la donna aveva già prima comunicato al marito la volontà di separarsi per il tramite di un legale e poi aveva lasciato la casa coniugale, aggiungendo che il marito, sottoscrivendo la scrittura di separazione, risulta avere condiviso la decisione di separarsi, regolando convenzionalmente le conseguenze della separazione, compresa l’attribuzione di un assegno in favore della moglie, peraltro senza rappresentare negli atti di causa una condizione di vita matrimoniale in cui la comunione di vita fosse, invece, esistente.
Si tratta di un accertamento in fatto, operato dal giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità che, in virtù di quanto sopra evidenziato, non può essere considerato frutto di extrapetizione.
Lo stesso A.A., nel ricorso per cassazione, ha riportato per esteso le allegazioni della moglie, contenute nella memoria di costituzione per l’udienza presidenziale in Tribunale, ove, nel richiedere l’addebito della separazione al marito, aveva allegato atteggiamenti violenti, tradimenti e comportamenti denigratori dell’uomo nei suoi confronti, oltre che condotte contrarie al dovere di assistenza morale durante la grave malattia della donna, fino alla decisione di quest’ultima di allontanarsi della casa coniugale, dietro suggerimento dei familiari, per timore di reazioni aggressive del marito, che ormai si era reso conto della volontà della moglie di separarsi (p. 14 del ricorso per cassazione).
Si tratta di condotte precedenti all’allontanamento della donna dalla casa coniugale, da quest’ultima avvertite, e dedotte, come causa di una pregressa intollerabilità della convivenza.
Il medesimo ricorrente ha, inoltre, evidenziato che, in appello, la moglie aveva dato rilievo alla missiva inviata dal suo legale, con cui aveva chiesto la separazione, e alla scrittura di separazione sottoscritta da entrambi i coniugi il 10/12/2016, per affermare che in tale occasione i coniugi erano assolutamente consci della crisi coniugale e d’accordo sulla necessità di addivenire ad una soluzione condivisa, entrambi consapevoli che il matrimonio era “finito” (p. 16 del ricorso per cassazione).
Anche tali allegazioni costituiscono argomenti che la donna ha posto a supporto della intollerabilità della convivenza precedente all’allontanamento della donna.
Il giudice di merito, valutando in fatto le risultanze di causa, ha ritenuto provata la obiettiva intollerabilità della convivenza, avvertita dalla donna prima dell’allontanamento da casa, e non contrastata dal marito, anche se non ha accertato i fatti che la stessa ha posto come causa della menzionata condizione di disaffezione.
In altre parole, la Corte di merito ha fatto proprie solo in parte le allegazioni della donna, che aveva dedotto la pregressa intollerabilità della convivenza per fatto imputabile al marito, ritenendo provata, per le ragioni in fatto sopra indicate, semplicemente la ritenuta impossibilità di vivere ancora insieme, percepita dalla moglie e non contrastata dal marito.
Il secondo motivo è inammissibile.
3.1. Parte ricorrente ha censurato la decisione impugnata nella parte in cui la Corte di merito ha desunto il venire meno dell’affectio coniugalis anche in capo al A.A. prima del 6 giugno 2016 (data in cui la Sig.ra B.B. ha lasciato la casa coniugale) da due sue condotte successive.
In primo luogo, il ricorrente ha evidenziato che la Corte d’appello ha dato rilievo al fatto che il A.A. aveva sottoscritto il documento con il quale i coniugi avevano concordato alcuni aspetti di una loro separazione consensuale, prevedendo anche la corresponsione da parte del marito di euro 300,00 mensili a titolo di contributo al mantenimento della moglie, con ciò dimostrando di non avere preso neppure in considerazione una eventuale responsabilità di quest’ultima per la fine della unione coniugale (in quanto le aveva riconosciuto un diritto che, se vi fossero stati i presupposti per l’addebito, non le sarebbe spettato).
In secondo luogo, il ricorrente ha rilevato che la Corte di merito ha stigmatizzato la circostanza che il A.A. aveva atteso oltre un anno prima di instaurare la procedura di separazione giudiziale, con ciò manifestando un palese disinteresse per l’abbandono da parte della moglie.
3.2. Si tratta, tuttavia, di valutazioni in fatto di comportamenti della parte, e non di valutazioni giuridiche dell’efficacia degli atti, sicché la censura, pur prospettata come violazione di legge, si risolve in una critica ad un giudizio che attiene al merito come tale non sindacabile in cassazione se non per assenza di motivazione (nelle diverse forme in cui i può manifestare), nella specie non formulata.
Il terzo motivo è infondato.
4.1. Come già evidenziato, la condizione di intollerabilità della convivenza può essere intesa anche in senso soggettivo, non essendo necessario che sussista una situazione di conflitto riconducibile alla volontà di entrambi i coniugi, ben potendo la frattura dipendere dalla condizione di disaffezione e distacco di una sola delle parti, che sia verificabile in base a fatti obiettivi (così Cass., Sez. 1, Sentenza n. 8713 del 29/04/2015; v. anche v. ancora Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 16698 del 05/08/2020).
In tale ottica, questa Corte ha di recente ritenuto dimostrata tale preesistente intollerabilità della convivenza dalla presentazione stessa del ricorso per separazione e dal successivo comportamento processuale, con particolare riferimento alle risultanze negative del tentativo di conciliazione, dovendosi ritenere venuto meno, al ricorrere di tali evenienze, quel principio del consenso che caratterizza ogni vicenda del rapporto coniugale (v. ancora Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 16698 del 05/08/2020; Cass., Sez. 1, Sentenza n. 8713 del 29/04/2015).
Non si tratta di un’interpretazione che abroga la previsione normativa del dovere di coabitazione, perché, comunque, l’allontanamento presuppone l’accertamento di una condizione anche personale, non necessariamente condivisa tra i coniugi, che risulti comunque da dati obiettivi e, ovviamente, non sia la conseguenza della violazione di un altro obbligo matrimoniale da parte di chi compia tale scelta.
La coabitazione, infatti, non è convivenza, perché quest’ultima si connota per una condivisione di vita che non è richiesta nella prima.
La coabitazione, ove la convivenza sia divenuta intollerabile anche per una sola persona della coppia, perde di significato coniugale, per il declino dei diritti e doveri reciproci che connotano il rapporto matrimoniale, e non può essere imposta come mero artificio esteriore.
4.3. Nel caso di specie la Corte d’appello ha dato applicazione ai principi enunciati, dando rilievo alla missiva inviata dal legale della moglie prima dell’allontanamento della casa coniugale, in cui quest’ultima ha manifestato la volontà di separarsi, la quale costituisce una obiettiva e inequivoca rappresentazione dell’impossibilità per la donna di continuare a vivere con il marito, seguita, dopo pochi mesi dall’allontanamento, dalla sottoscrizione da parte di entrambi i coniugi di un accordo che regolava le condizioni di separazione e prevedeva un assegno di mantenimento in favore della donna, cui si è aggiunta anche la constatazione, da parte del giudice di appello, che non una parola si leggeva negli atti difensivi del marito su eventuali condizioni della vita matrimoniale che avrebbero potuto rendere imprevedibile la scelta della donna (v. supra e p. 7 e ss. della sentenza impugnata).
Il quarto motivo è infondato.
Parte ricorrente ha dedotto che il coniuge che domanda l’addebito per violazione del dovere di coabitazione non è tenuto a provare l’incidenza causale dell’altrui condotta di abbandono sulla crisi matrimoniale, essendo piuttosto onere del coniuge, che ha posto in essere tale condotta, dimostrare che essa è stata determinata dal comportamento dell’altro coniuge ovvero è intervenuta quando la prosecuzione della convivenza era già divenuta intollerabile ed in conseguenza di ciò.
Parte ricorrente non ha tenuto conto che, come sopra evidenziato, anche nel caso di allontanamento dalla casa coniugale, l’anteriorità della crisi della coppia rispetto alla violazione di tale obbligo, quale causa di esclusione del nesso causale tra la condotta violativa degli obblighi derivanti dal matrimonio e l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, integra un’eccezione in senso lato ed è dunque rilevabile d’ufficio, purché sia allegata dalla parte a ciò interessata e risulti dal materiale probatorio acquisito al processo (Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 20866 del 21/07/2021).
Nel caso di specie, nello stesso ricorso per cassazione sono riportate le allegazioni della B.B. che hanno rappresentato situazioni di estrema gravità, verificatisi negli anni di matrimonio ed anche prima della decisione di allontanarsi, che hanno reso impossibile per la donna la prosecuzione della convivenza e il giudice ha dato rilievo ad alcuni elementi per confermare tale obiettiva condizione.
Ogni censura attiene alla valutazione di merito in questa sede non sindacabile.
In conclusione, il ricorso deve essere respinto.
Le spese di lite seguono la soccombenza.
In applicazione dell’art. 13, comma 1 quater, D.P.R. n. 115 del 2002, si deve dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello richiesto per l’impugnazione proposta, se dovuto.
In caso di diffusione, devono essere omesse le generalità delle parti e dei soggetti menzionati nella decisione, a norma dell’art. 52D.Lgs. n. 196 del 2003.
P.Q.M.
La Corte
rigetta il ricorso;
condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite sostenute dalla controricorrente, che liquida in Euro 5.000,00 per compenso, oltre Euro 200,00 per esborsi ed accessori di legge; dà atto, in applicazione dell’art. 13, comma 1 quater, D.P.R. n. 115 del 2002, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello richiesto per l’impugnazione proposta, se dovuto;
dispone che, in caso di diffusione della presente ordinanza, siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti menzionati, a norma dell’art. 52 D.Lgs. n. 196 del 2003.
Conclusione
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima Sezione civile della Corte suprema di Cassazione, il 15 novembre 2023.
Il Superbonus 110%, pur avendo offerto vantaggi significativi per la riqualificazione energetica e sismica degli edifici, ha anche aperto la porta a vari reati e abusi. Tra i reati più comuni configurabili con l’uso del Superbonus 110% ci sono:
Frode fiscale: Questa è una delle violazioni più diffuse, dove i beneficiari dichiarano spese gonfiate o inesistenti per ottenere maggiori detrazioni fiscali rispetto a quanto effettivamente speso. Ad esempio, le imprese potrebbero gonfiare il costo dei lavori o presentare documenti falsi per ottenere il bonus.
Truffa ai danni dello Stato: Questo reato si configura quando vengono presentate domande per il Superbonus con informazioni false o fuorvianti, come l’indicazione di interventi non eseguiti o eseguiti solo parzialmente, con l’obiettivo di ottenere indebiti benefici fiscali.
False dichiarazioni: Spesso, per accedere al Superbonus, è necessario presentare documentazioni tecniche e dichiarazioni di conformità. Fornire false dichiarazioni in queste documentazioni, come ad esempio certificazioni energetiche non veritiere, costituisce un reato.
Riciclaggio: In alcuni casi, il Superbonus è stato utilizzato per il riciclaggio di denaro proveniente da attività illecite, attraverso la creazione di false imprese o la sovrafatturazione dei lavori.
Associazione per delinquere: Nei casi più gravi, quando le frodi sono organizzate da più individui in modo sistematico e continuativo, si può configurare il reato di associazione per delinquere.
Abuso d’ufficio: Funzionari pubblici potrebbero incorrere in questo reato se, approfittando della loro posizione, favoriscono indebitamente determinate aziende o persone nell’assegnazione dei lavori o nell’approvazione delle pratiche relative al Superbonus.
Questi reati hanno portato a numerose indagini da parte della Guardia di Finanza e altre autorità competenti, con conseguenti sequestri di beni e procedimenti penali nei confronti degli autori di tali frodi
Se un’impresa incaricata di eseguire i lavori previsti dal Superbonus 110% non li porta a termine, o addirittura non inizia i lavori, possono sorgere diverse problematiche legali per i committenti. Ecco alcuni scenari e soluzioni possibili:
Inadempimento Contrattuale: Se l’impresa non rispetta i termini contrattuali, ad esempio ritardando l’inizio o la fine dei lavori, il committente può agire per inadempimento. Questo può comportare la richiesta di risoluzione del contratto e, in alcuni casi, il risarcimento dei danni subiti.
Risoluzione del Contratto: Secondo l’articolo 1218 del Codice Civile, il committente può chiedere la risoluzione del contratto se l’inadempimento dell’impresa è significativo. Questo è applicabile se l’impresa non riesce a completare i lavori entro il tempo stabilito, rendendo la prestazione contrattuale eccessivamente onerosa o impossibile da realizzare.
Eccessiva Onerosità Sopravvenuta: A volte, l’impresa potrebbe sostenere che l’aumento imprevisto dei costi dei materiali o altre difficoltà tecniche hanno reso i lavori eccessivamente onerosi. In questo caso, secondo l’articolo 1467 del Codice Civile, l’impresa può richiedere una revisione delle condizioni contrattuali, oppure la risoluzione del contratto.
Interventi Legali e Reclami: In caso di ritardi o mancata esecuzione dei lavori, il committente può rivolgersi a un legale per avviare un’azione contro l’impresa. Se l’impresa non rispetta i termini concordati, può essere necessario far valere i propri diritti in tribunale o cercare una soluzione bonaria attraverso una trattativa extragiudiziale.
Problemi con le Detrazioni Fiscali: Se i lavori non vengono completati entro i termini stabiliti, il committente potrebbe perdere il diritto alle detrazioni fiscali previste dal Superbonus 110%. È quindi cruciale intervenire tempestivamente per evitare questo rischio.
In ogni caso, è importante esaminare attentamente il contratto stipulato con l’impresa e valutare le azioni legali più appropriate con l’assistenza di un avvocato specializzato in diritto civile o contrattuale(
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE CIVILE DI FROSINONE nella persona del giudice unico dott. ### ha emesso la seguente SENTENZA nella causa civile di primo grado iscritta al n. 899 del ruolo generale per gli affari contenziosi dell’anno 2023, discussa e trattenuta in decisione all’udienza del 18.10.2023, vertente TRA ### rappresentato e difeso dall’Avv. ### giusta procura allegata al ricorso ex art. 281 decies c.p.c.; ricorrente E C.B.M. S.R.L., in persona del legale rappresentante p.t. ### resistente contumace ### appalto ### per il ricorrente, come da ricorso introduttivo ### E DI DIRITTO DELLA DECISIONE Con ricorso ex art. 281 decies c.p.c. depositato il ### e notificato unitamente a decreto di fissazione d’udienza ### conveniva in giudizio la società C.B.M. s.r.l. chiedendo: a) di dichiarare risolto il contratto di appalto concluso con la resistente in data ###, avente ad oggetto lavori di ristrutturazione dell’immobile unifamiliare sito in ### ### n. 25, sul quale aveva diritto di abitazione, da eseguirsi con gli incentivi fiscali previsti dall’art. 119 D.L. 34/2020, ovvero secondo il c.d. Superbonus 110%, per grave inadempimento dell’appaltatrice, consistente nel non avere iniziato i lavori appaltati e nel non averli portati a compimento entro il termine fissato del 30.11.2022; b) di condannare la convenuta, ex art. 2033 c.c., alla restituzione della somma di € 22.000,00 ricevuta quale primo acconto per i lavori, oltre ad € 126,07 pari agli interessi mensilmente pagati dal ricorrente all’### s.p.a., che aveva anticipato la somma, dietro cessione del credito di imposta legato ai lavori, secondo lo schema del ### c) di condannare la convenuta, altresì, al risarcimento dei danni provocati dal doloso e grave inadempimento contrattuale, mediante pagamento della somma di € 150.000,00 (pari al valore dei lavori appaltati e non eseguiti) o di quella diversa ritenuta di giustizia, considerato che il mancato rispetto dei termini stabiliti per la realizzazione dell’opera (tra cui quello del 30.9.2022 ex lege previsto per il completamento del 30% dei lavori) aveva avuto come conseguenza la perdita dell’agevolazione statale. La resistente non si costituiva in giudizio e veniva pertanto dichiarata contumace. La causa veniva istruita con prova per testi e all’esito rinviata per la precisazione delle conclusioni e la discussione orale ex art. 281 sexies c.p.c.. Le domande attoree sono fondate, nei limiti di seguito precisati. La domanda di risoluzione del contratto di appalto va senz’altro accolta. Vertendosi in materia di inadempimento contrattuale, quanto al riparto dell’onere probatorio valgono i principi espressi dalle ### della Corte di Cassazione nella nota sentenza n. 13533 del 2001, secondo cui “in tema di prova dell’inadempimento di una obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento”. Ebbene, nel caso di specie, il ricorrente ha prodotto il contratto di appalto concluso con la C.M.B. s.r.l. e dedotto l’inadempimento della suddetta appaltatrice all’obbligo di realizzare l’opera commissionata nei tempi previsti e concordati, per non avere dato nemmeno concreto inizio ai lavori nonostante il versamento del primo acconto pattuito. Sarebbe stato onere della resistente dimostrare il contrario, ovvero addurre e provare eventuali circostanze giustificative della mancata esecuzione dei lavori, ciò che, restando contumace, non ha fatto. Piuttosto il ricorrente, andando anche oltre l’assolvimento dell’onere probatorio che su di lui incombeva, tramite la deposizione del teste ### geometra progettista e direttore dei lavori delle opere di ristrutturazione per delega della società ###it s.r.l., ha fornito la prova positiva della condotta inadempiente della controparte (cfr. in particolare quanto dichiarato dal teste in risposta al capitolo 9: “è tutto vero, dopo molti tentativi di contatto riuscii ad avere un incontro con ### e con il padre, parimenti coinvolto nell’impresa ### nei pressi dell’abitazione di ### ### ci fu i primi di settembre, forse proprio il 1° settembre 2022 se non ricordo male. Chiesi spiegazioni sul mancato inizio dei lavori e mi risposero che i soldi ricevuti li avevano impegnati in altri cantieri e mi chiesero addirittura se potevo chiedere alla committenza un ulteriore acconto. Io ovviamente rifiutai. Da allora, nella sostanza, non è stato fatto alcun intervento, è stato solo montato qualche metro quadro di ponteggio”). Si giustifica, dunque, la declaratoria di risoluzione del contratto, stante la gravità dell’inadempimento della resistente, concernente la principale ed essenziale obbligazione a suo carico. In conseguenza, deve essere restituita dalla C.B.M. s.r.l. la somma versata di € 22.000,00 con gli interessi legali dalla domanda al saldo, come da richiesta, mentre non trova riscontro nella documentazione prodotta l’ulteriore importo di € 126,07 asseritamente corrisposta all’### s.p.a. a titolo di interessi. Venendo ora alla domanda di risarcimento del danno, occorre evidenziare che, se è vero che la condotta della resistente ha cagionato la decadenza dall’agevolazione prevista dalla legge per i lavori appaltati, considerato il mancato rispetto della scadenza del 30.9.2022 per l’ultimazione del 30% dei lavori, è altresì vero che il ricorrente non perdeva ogni possibilità di presentare una nuova pratica edilizia usufruendo di correlativi benefici fiscali. Difatti per gli interventi di efficientamento energetico sugli edifici unifamiliari la normativa fiscale prevede un ampio ventaglio di possibilità di agevolazione e la stessa disciplina del c.d. ### dava la possibilità di usufruire di una detrazione del 90% delle spese sostenute fino al 31.12.2023 per (eventuali nuovi) lavori avviati dall’1.1.2023, rispetto all’abitazione principale posseduta, per i contribuenti con un reddito di riferimento non superiore ad € 15.000,00 (cfr. D.L. 176/2022, c.d. decreto Aiuti-quater). Ora, il ricorrente non ha fornito elementi, in particolare sulla propria situazione reddituale, che consentano di escludere la possibilità di accesso a siffatta ridotta agevolazione per un’eventuale nuova pratica di intervento (generica, in proposito, si appalesa la sola dichiarazione resa dal teste ### secondo cui “l’### ### non può più usufruire dei benefici del superbonus, essendo scaduti i termini previsti dalla legge”). In rigoroso ossequio ai principi riguardanti l’onere della prova nei giudizi di risarcimento del danno, si ritiene dunque di dover liquidare il danno nella misura del 10% dell’importo dei lavori appaltati (€ 15.000,00), quale percentuale “minima” del beneficio fiscale andata perduta a causa del verificarsi dell’inadempienza. La somma liquidata andrà maggiorata di rivalutazione monetaria ed interessi legali, sulla somma via via rivalutata anno per anno, dal verificarsi del danno (con la scadenza mancata del 30.9.2022) al saldo. Le spese di lite seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo, in base ai parametri di cui al D.M. 55/2014, opportunamente ridotti stante la limitata attività processuale svolta. P.Q.M Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza, eccezione e deduzione disattesa, così provvede: 1) dichiara la risoluzione del contratto di appalto stipulato inter partes, per grave inadempimento della resistente; 2) condanna la resistente a restituire al ricorrente la somma di € 22.000,00, oltre interessi legali dalla domanda al saldo; 3) condanna, altresì, la resistente a risarcire i danni al ricorrente nella misura di € 15.000,00, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali come specificato in parte motiva; 4) condanna, infine, la resistente a rifondere al ricorrente le spese di lite, che liquida in € 286,00 per esborsi e in € 5.000,00 per compensi, oltre rimborso spese forfettarie nella misura del 15 %, CPA e IVA come per legge. Così deciso in ### il ### Il Giudice Dott. ### n. 899/2023
REATO DI MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA ART 572 BIS CP TRIB BOLOGNA
COME SI PROVA LA CONVIVENZA NEL REATO DI MALTRATTAMENTI
RESPONSABILITÀ PENALE – Reato di maltrattamenti – Assenza di prova di convivenza – Insussistenza – Reato di atti persecutori – Sussistenza.
In difetto della prova della convivenza, l’applicazione dell’art. 572 c.p., in luogo dell’art. 612-bis. comma 2, c.p., che pure contempla espressamente l’ipotesi di condotte commesse a danno di persona « legata da relazione affettiva » all’agente apparirebbe come il frutto di una interpretazione analogica a sfavore del reo della norma incriminatrice comunque preclusa dall’art. 25, comma 2. Cost.
Note giurisprudenziali
Sentenza molto innovativa relativa al reato di maltrattamenti, al suo momento consumativo e al rapporto con il reato di atti persecutori.
Nella fattispecie in commento, i giudici di merito di primo grado e del gravame hanno escluso la prescrizione del reato, ritenendo che lo stesso sia configurabile anche in assenza di convivenza tra l’autore e la vittima delle relative condotte e richiamando, a loro sostegno, alcuni precedenti di un consolidato indirizzo interpretativo affermatosi nella giurisprudenza di legittimità.
Secondo il Collegio, tuttavia, si tratta di una lettura normativa che merita una riflessione ulteriore e, a questo scopo, la sentenza si sofferma sull’opportunità di ampliare lo spettro di tutela per soggetti tipicamente vulnerabili, poiché vittime di condotte prevaricatrici che maturano nell’àmbito di rapporti affettivi, dai quali hanno naturale difficoltà a sottrarsi.
La legislazione più recente, con la l. n. 38/2009, che ha introdotto il delitto di atti persecutori (art. 612-bis c.p.), e con la l. n. 172/2012, che ha esteso la platea dei soggetti passivi del delitto di maltrattamenti alla persona « comunque convivente », sono andate in questa direzione, ma la Corte costituzionale ha rivolto un monito al giudice penale, affinché rimanga aderente al testo normativo, correndo altrimenti il rischio di violare il divieto di analogia in malam partem che caratterizza le norme incriminatrici.
Il Giudice delle leggi, infatti, ha affidato all’interprete il compito di stabilire se relazioni affettive — non formalizzate — possano farsi rientrare nelle nozioni di « famiglia » o di « convivenza », alla stregua dell’ordinario significato di queste espressioni, ma, immediatamente dopo, ha ammonito che, « in difetto di una tale dimostrazione, l’applicazione dell’art. 572 c.p., in casi siffatti — in luogo dell’art. 612-bis- comma 2, c.p., che pure contempla espressamente l’ipotesi di condotte commesse a danno di persona “legata da relazione affettiva” all’agente — apparirebbe come il frutto di una interpretazione analogica a sfavore del reo della norma incriminatrice: una interpretazione magari sostenibile dal punto di vista teleologico e sistematico (…), ma comunque preclusa dall’art. 25, comma 2, Cost. » (Corte cost. n. 98/2021).
Sulla scorta di tale sollecitazione, il Collegio svolge un’accurata analisi e, partendo dal presupposto che, in ipotesi soltanto apparentemente differenti da quella in esame — poiché caratterizzate dal comune denominatore dell’assenza di un rapporto familiare o di convivenza tra autore e vittima al momento dei fatti — la Sezione « ha ritenuto che non sia configurabile il reato di maltrattamenti, ma l’ipotesi aggravata del reato di atti persecutori, in presenza di condotte poste in essere da parte di uno dei conviventi more uxorio ai danni dell’altro dopo la cessazione della convivenza » (cfr. Cass. pen., Sez. VI, 6 settembre 2021, n. 39532; ribadita da Cass. pen., Sez. VI, 17 novembre 2021, n. 45095, con la precisazione per cui, terminata la convivenza, vengono meno la comunanza di vita e di affetti nonché il rapporto di reciproco affidamento; ed ancora: Cass. pen., Sez. VI, 16 febbraio 2022, n. 9653; Cass. pen., Sez. VI, 16 febbraio 2022, n. 10626).
Il divieto di interpretazione analogica delle norme incriminatrici contenuto nell’art. 14 preleggi, che costituisce corollario del principio di legalità contenuto nell’art. 25 Cost., nonché la presenza di un apparato normativo che amplia lo spettro delle condotte prevaricatrici di rilievo penale tenute nell’ambito di relazioni interpersonali non qualificate, « impongono, nell’applicazione dell’art. 572 c.p., di intendere i concetti di “famiglia” e di “convivenza” nell’accezione più ristretta: quella, cioè, di una comunità connotata da una radicata e stabile relazione affettiva interpersonale, da una duratura comunanza d’affetti, che non solo implichi reciproche aspettative di mutua solidarietà ed assistenza, ma sia fondata sul rapporto di coniugio o di parentela o, comunque, su una stabile condivisione dell’abitazione ».
Come conseguenza del richiamato ragionamento, la Suprema Corte afferma che è compito del giudice di merito verificare fino a quando il rapporto di « convivenza », così definito, si sia protratto tra imputato e persona offesa, rilevando, all’esito di tale indagine di fatto, a quale fattispecie incriminatrice — reato di maltrattamenti o di atti persecutori — debbano ricondursi le condotte accertate e, di conseguenza, se il reato così individuato si sia o meno estinto per prescrizione
. Frutto dello sforzo dell’interprete di ampliare lo spettro di tutela per soggetti tipicamente vulnerabili, poiché vittime di condotte prevaricatrici che maturano nell’àmbito di rapporti affettivi, dai quali hanno naturale difficoltà a sottrarsi, essa deve ora misurarsi con i numerosi passi avanti in tal direzione compiuti dalla legislazione più recente, a cominciare dal D.L. n. 11 del 2009, conv. dalla L. n. 38 del 2009, che ha introdotto il delitto di atti persecutori (art. 612 bis c.p.), e dalla stessa L. n. 172 del 2012, che esteso la platea dei soggetti passivi del delitto di maltrattamenti alla persona “comunque convivente” senza altro aggiungere.
In tal senso, non può obliterarsi l’espresso monito di recente rivolto dalla Corte costituzionale al giudice penale, affinché rimanga aderente al testo normativo, correndo altrimenti il rischio di violare il divieto di analogia in malam partem che caratterizza le norme incriminatrici.
Chiamato a pronunciarsi ex professo su una questione di rito, sorta all’interno di un processo per tal specie di condotte, il Giudice delle leggi ha affidato all’interprete il compito di stabilire se relazioni affettive – per così dire non tradizionali (in quel caso si trattava di un rapporto sentimentale protrattosi nell’arco di qualche mese e caratterizzato da permanenze non continuative di un partner nell’abitazione dell’altro) possano farsi rientrare nelle nozioni di “famiglia” o di “convivenza”, alla stregua dell’ordinario significato di queste espressioni. Ma, immediatamente dopo, ha ammonito che, “in difetto di una tale dimostrazione, l’applicazione dell’art. 572 c.p., in casi siffatti – in luogo dell’art. 612 bis c.p., comma 2, che pure contempla espressamente l’ipotesi di condotte commesse a danno di persona “legata da relazione affettiva” all’agente – apparirebbe come il frutto di una interpretazione analogica a sfavore del reo della norma incriminatrice: una interpretazione magari sostenibile dal punto di vista teleologico e sistematico (…), ma comunque preclusa dall’art. 25 Cost., comma 2″ (Corte Cost., sentenza n. 98 del 2021).
2.2. Tale sollecitazione è stata raccolta dalla più recente giurisprudenza di legittimità, alla quale il Collegio intende dar seguito.
In ipotesi soltanto apparentemente differenti da quella in esame – poiché caratterizzate dal comune denominatore dell’assenza di un rapporto familiare o di convivenza tra autore e vittima al momento dei fatti – questa Sezione ha infatti ritenuto che non sia configurabile il reato di maltrattamenti, bensì l’ipotesi aggravata del reato di atti persecutori, in presenza di condotte poste in essere da parte di uno dei conviventi more uxorio ai danni dell’altro dopo la cessazione della convivenza (Sez. 6, n. 39532 del 06/09/2021, B., Rv. 282254, ribadita da Sez. 6, n. 45095 del 17/11/2021, H., Rv. 282398, con la precisazione per cui, terminata la convivenza, vengono meno la comunanza di vita e di affetti nonché il rapporto di reciproco affidamento; ed ancora: Sez. 6, n. 9653 del 16/02/2022, P., Rv. 283120; Sez. 6, n. 10626 del 16/02/2022, L., Rv. 283003).
In conclusione, il divieto di interpretazione analogica delle norme incriminatrici (art. 14 preleggi), immediato precipitato del principio di legalità (art. 25Cost.), nonché la presenza di un apparato normativo che amplia lo spettro delle condotte prevaricatrici di rilievo penale tenute nell’ambito di relazioni interpersonali non qualificate, impongono, nell’applicazione dell’art. 572 c.p., di intendere i concetti di “famiglia” e di “convivenza” nell’accezione più ristretta: quella, cioè, di una comunità connotata da una radicata e stabile relazione affettiva interpersonale, da una duratura comunanza d’affetti, che non solo implichi reciproche aspettative di mutua solidarietà ed assistenza, ma sia fondata sul rapporto di coniugio o di parentela o, comunque, su una stabile condivisione dell’abitazione, ancorché, ovviamente, non necessariamente continua (si pensi, ad esempio, al frequente caso di coloro che, per ragioni di lavoro, dimorino in luogo diverso dall’abitazione comune, per periodi più o meno lunghi ma comunque circoscritti).
3. In applicazione di tale principio, è compito del giudice di merito verificare fino a quando il rapporto di “convivenza”, così definito, si sia protratto tra l’imputato e la Bi., rilevando, all’esito di tale indagine di fatto, a quale fattispecie incriminatrice debbano ricondursi le condotte accertate e, di conseguenza, se il reato così individuato si sia o meno estinto per prescrizione, anche in considerazione di eventuali sospensioni del decorso del relativo termine, non evincibili dalla sentenza impugnata.
Tribunale , Bologna , sez. II , 29/12/2023 , n. 7185
Il reato di maltrattamenti in famiglia e la necessaria prova della sussistenza delle condotte asseritamente subite dalla persona offesa per giungere ad una pronuncia di condanna
Sentenza
In tema di reato di maltrattamenti in famiglia, deve giungersi ad una pronuncia assolutoria laddove, dal quadro probatorio, non sia stato possibile accertare la fondatezza delle accuse provenienti dalla persona offesa. In particolare, nel caso di indubbia ed accesa conflittualità coniugale, in seno alla quale non è stata raggiunta la prova della condotta maltrattante ai danni della persona offesa (moglie), risulta certamente minata l’attendibilità della dichiarazione di quest’ultima e, di conseguenza, l’impossibilità di affermare la penale responsabilità dell’imputato.
Tribunale , Udine , 12/09/2023 , n. 1448
Non ci sono maltrattamenti in famiglia se non vi è la riconducibilità in capo all’imputato di una serie reiterata di atti di vessazione e maltrattamenti nei confronti della moglie
È escluso il reato di maltrattamenti in famiglia se non sono emersi elementi di prova a sostegno dell’ipotesi accusatoria ovvero non è stata dimostrata la riconducibilità in capo all’imputato di una serie reiterata di atti di vessazione e maltrattamenti nei confronti della moglie, in grado di causare ai danni di questa sofferenze psichiche e fisiche, privazioni o umiliazioni fonte di disagio costante incompatibile con normali condizioni di esistenza.
Corte appello , Bari , sez. II , 27/04/2023 , n. 1458
Una condotta aggressiva, irriguardosa e umiliante, determinante un regime di vita mortificante e assoggettato della vittima costituisce maltrattamenti in famiglia
Una condotta aggressiva, irriguardosa e umiliante, determinante un regime di vita mortificante e assoggettato della vittima costituisce maltrattamenti in famiglia
Sussiste il reato di maltrattamenti in famiglia quando l’imputato abbia posto in essere per lungo periodo una condotta dai contenuti aggressivi, irriguardosi e umilianti, tali da costituire un regime di vita mortificante e assoggettato della vittima che spesso, per timore di essere picchiata, ometteva qualsivoglia reazione. La prova è fornita sia dalle dichiarazioni della p.o. che corroborata da testimonianze esterne di familiari conviventi.
Tribunale , Genova , sez. I , 01/03/2023 , n. 735
L’assenza di abitualità non consente l’integrazione dei maltrattamenti in famiglia fa venir meno anche l’aggravante speciale delle lesioni personali connessa
EREDITA’: NON PERDERE TUTTO
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Come si ripartisce l’eredità?
Chi sono gli eredi in caso di morte?
Che differenza c’è tra eredità e successione?
Chi eredità senza testamento?
in caso di impugnazione di testamenti per lesione di quota legittima o per invalidità; in ambito giudiziale e stragiudiziale per eventuali divisioni ereditarie; per l’individuazione di quote ereditarie.
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Eredità successione
La successione legittima, o ab intestato, è quella senza testamento. Può coesistere con la successione testamentaria. Quando il testamento dispone solo di alcuni beni relitti. In questo caso, sui beni non oggetto di testamento occorre applicare le regole della successione legittima. Ci sono cinque categorie di soggetti chiamati ad ereditare nella successione legittima.
Coniuge superstite (in mancanza di figli e senza ascendenti): Quota di legittima -> 50% eredità + diritto abitazione Quota disponibile -> 50% eredità
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Coniuge + figlio unico (a prescindere da eventuali ascendenti in vita): Coniuge -> 33,33% eredità + diritto di abitazione Figlio unico -> 33,33% eredità Quota disponibile -> 33,33% eredità
Coniuge con due o più figli (a prescindere da eventuali ascendenti in vita): Coniuge -> 25% eredità + diritto di abitazione Figli -> 50% eredità da dividere in parti uguali Quota disponibile –> 25% eredità
Coniuge con ascendente/i ma senza figli: Coniuge -> 50% eredità + diritto di abitazione Ascendente/i –> 25% eredità da dividere in parti uguali Quota disponibile –> 25% eredità
DIRITTO IMMOBILIARE
Figlio unico senza coniuge (anche se viventi gli ascendenti): Figlio unico -> 50% eredità Quota disponibile –> 50% eredità
Eredità senza testamento
Quando una persona muore senza lasciare un testamento, si applica la successione legittima, disciplinata dal Codice Civile italiano. In questo caso, i beni del defunto vengono distribuiti ai parenti secondo un preciso ordine stabilito dalla legge.
1. Chi sono gli eredi legittimi?
La legge prevede una gerarchia di eredi, che si dividono in diverse categorie:
Coniuge: Il coniuge superstite ha diritto a una parte dell’eredità. Se ci sono figli, la quota si divide tra il coniuge e i figli. Se non ci sono figli, il coniuge eredita insieme ad altri parenti, come i genitori o i fratelli del defunto.
Figli: I figli, sia legittimi che naturali, hanno diritto a una quota dell’eredità. Se ci sono più figli, la quota spettante ai figli viene suddivisa equamente tra loro.
Ascendenti (genitori, nonni): Se il defunto non ha lasciato figli, gli ascendenti possono ereditare insieme al coniuge.
Fratelli e sorelle: In assenza di figli e ascendenti, i fratelli e le sorelle del defunto possono ereditare, insieme al coniuge, se presente.
Altri parenti: Se non ci sono coniuge, figli, ascendenti, fratelli o sorelle, l’eredità passa ai parenti più prossimi (fino al sesto grado).
2. Ordine di successione
L’ordine di successione è rigido: se ci sono eredi in una categoria superiore, quelli nelle categorie inferiori non hanno diritto a nulla.
Coniuge e figli: Se il defunto ha un coniuge e dei figli, l’eredità viene divisa tra di loro. Se c’è un solo figlio, metà va al coniuge e metà al figlio. Se ci sono più figli, un terzo va al coniuge e due terzi ai figli, divisi equamente.
Coniuge e ascendenti/fratelli/sorelle: Se non ci sono figli, il coniuge riceve due terzi dell’eredità, mentre il restante terzo viene suddiviso tra i genitori del defunto o, in loro assenza, tra i fratelli e le sorelle.
Solo coniuge: Se il defunto non lascia né figli, né ascendenti, né fratelli, l’intera eredità va al coniuge.
Solo figli: Se il defunto non lascia coniuge, l’eredità viene divisa equamente tra i figli.
Ascendenti e fratelli/sorelle: Se non ci sono coniuge e figli, l’eredità va agli ascendenti e ai fratelli/sorelle, divisa in parti uguali.
Gli eredi legittimi possono scegliere di rinunciare all’eredità. In tal caso, l’eredità passa agli altri eredi della stessa categoria o a quelli successivi.
4. Accettazione dell’eredità
Gli eredi possono accettare l’eredità espressamente o tacitamente. Possono anche accettarla con beneficio di inventario, limitando la responsabilità per i debiti ereditari al valore dei beni ereditati.
5. Divisione dei beni
In caso di più eredi, i beni devono essere divisi secondo le quote stabilite dalla legge. Se non è possibile una divisione consensuale, si può ricorrere alla divisione giudiziale.
6. Adempimenti fiscali
Gli eredi devono presentare la dichiarazione di successione e pagare le imposte relative entro 12 mesi dal decesso.
7. Assenza di eredi
Se non ci sono eredi entro il sesto grado, l’eredità si devolve allo Stato.
Conclusione
La successione legittima senza testamento segue regole precise che determinano la distribuzione dei beni tra i parenti del defunto. È consigliabile consultare un professionista (come un notaio o un avvocato) per garantire che tutti gli adempimenti siano corretti.
La successione ereditaria degli immobili in Italia è regolata dal Codice Civile e prevede diverse fasi e norme specifiche. Quando una persona decede e lascia beni immobili (come case, terreni, appartamenti), questi devono essere trasferiti agli eredi in base alla legge o in base al testamento lasciato dal defunto.
Apertura della successione
La successione si apre al momento della morte del defunto e nel luogo del suo ultimo domicilio. A partire da quel momento, gli eredi hanno diritto ai beni del defunto.
Tipi di successione
Successione legittima: Se il defunto non ha lasciato un testamento, i beni vengono distribuiti secondo le norme del Codice Civile tra i parenti del defunto, in ordine di prossimità (coniuge, figli, genitori, fratelli, etc.).
Successione testamentaria: Se il defunto ha lasciato un testamento, i beni vengono distribuiti secondo le sue volontà, nel rispetto delle quote di legittima riservate ai legittimari (coniuge, figli e, in mancanza di figli, genitori).
L’eredità può essere accettata espressamente o tacitamente. Esiste anche la possibilità di accettare l’eredità con beneficio di inventario, che limita la responsabilità degli eredi per i debiti del defunto.
Adempimenti fiscali
Gli eredi devono presentare la dichiarazione di successione entro 12 mesi dalla data del decesso all’Agenzia delle Entrate. Questo adempimento è necessario per trasferire formalmente la proprietà degli immobili e pagare le eventuali imposte di successione.
Trascrizione nei registri immobiliari
Dopo la presentazione della dichiarazione di successione, gli immobili vengono trascritti nei registri immobiliari a nome degli eredi. Questo passaggio è fondamentale per formalizzare il trasferimento di proprietà.
Divisione dell’eredità
Se ci sono più eredi, i beni immobili devono essere divisi tra di loro. Questo può avvenire in modo consensuale o, in caso di disaccordo, tramite una divisione giudiziale.
Pagamento delle imposte
Gli eredi sono tenuti al pagamento delle imposte di successione, che variano in base al grado di parentela con il defunto e al valore dell’eredità.
Successione internazionale
Se il defunto possedeva immobili all’estero o era cittadino di un altro paese, si applicano anche le norme di diritto internazionale privato, che possono rendere più complesso il processo di successione.
In sintesi, la successione ereditaria di immobili è un processo articolato che richiede attenzione ai dettagli legali e fiscali. È spesso consigliabile rivolgersi a un notaio o a un avvocato specializzato per gestire correttamente tutti gli aspetti della successione.
Il Codice Civile stabilisce a chi spetta l’eredità alla morte di una persona. Quando su un’eredità non si può applicare la successione testamentaria, si deve ricorrere alla successione legittima, secondo quanto disciplinato dall’art. 457 del Codice Civile. In mancanza di un testamento, l’eredità spetta al coniuge e ai figli del defunto nelle seguenti modalità:
Se il defunto ha un solo figlio, l’eredità è divisa a metà tra lui e il coniuge.
Se invece i figli sono due o più, a questi spettano i due terzi del patrimonio ereditario, da dividere, e al coniuge resta un terzo.
Se il defunto non aveva figli, oltre al coniuge hanno diritto a una quota di eredità anche i fratelli e i genitori (se ancora in vita). In ogni caso, al coniuge vanno i due terzi del patrimonio ereditario.
Se invece, insieme al coniuge, sopravvivono al defunto sia i genitori che i fratelli, questi si dividono la quota di eredità a loro spettante (un terzo), ma ai genitori va almeno un quarto dell’eredità.
In mancanza di figli e coniuge, l’eredità è divisa tra genitori e fratelli del defunto. La divisione si fa sempre per ognuno, anche se ai genitori è riservata almeno la metà dell’eredità.
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L’accettazione della eredità con beneficio di inventario comporta che l’erede accettante risponde dei debiti ereditari entro il valore dei beni a lui pervenuti a titolo di successione, con esclusione della responsabilità patrimoniale in ordine a tutti gli altri suoi beni, che i creditori ereditari e i legatari non possono aggredire, sicché, già in fase antecedente l’esecuzione forzata, è preclusa ogni misura anche cautelare sui beni propri dell’erede, diversi da quelli a lui provenienti dalla successione.
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I crediti ereditari non si ripartiscono tra i coeredi, ma entrano a far parte della comunione
I crediti del “de cuius“, a differenza dei debiti, non si ripartiscono tra i coeredi in modo automatico in ragione delle rispettive quote, ma entrano a far parte della comunione ereditaria. Conseguentemente ciascuno dei coeredi può agire per far valere l’intero credito comune o la sola parte proporzionale alla quota ereditaria, senza necessità di integrare il contraddittorio nei confronti degli altri coeredi, fermo restando che il debitore può chiedere l’intervento di questi ultimi in presenza dell’interesse all’accertamento nei confronti di tutti della sussistenza o meno del credito.
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Cassazione civile sez. III, 13/06/2022, n.18977
Invalido il precetto intimato per l’intero ammontare al coerede che deduca in sede di opposizione all’esecuzione la qualità di coobbligato pro quota
Cassa con rinvio, CORTE D’APPELLO BARI, 21/03/2019
Successione in genere – Coeredità — Obbligazioni del “de cuius” – Ripartizione “pro quota” tra gli eredi – Coerede intimato per il pagamento dell’intero sulla base di titolo esecutivo formatosi nei confronti del “de cuius” – Deduzione della propria qualità di coobbligato “pro quota” in sede di opposizione all’esecuzione – Conseguenze.
Nel caso in cui il coerede, intimato sulla base di titolo esecutivo formatosi nei confronti del “de cuius”, deduca, in sede di opposizione all’esecuzione, la sua qualità di coobbligato “pro quota”, evidenziando la presenza di altri coeredi, il precetto intimatogli per l’intero ammontare del credito è invalido per eccessività della somma intimata, dal momento che, essendo esclusa qualsivoglia relazione di solidarietà dei coeredi in ordine al pagamento dei debiti ereditari, il creditore è tenuto ad agire esecutivamente nei loro confronti in proporzione alle singole quote ereditarie.
Art. 752 – Ripartizione dei debiti ereditari tra gli eredi.
[I]. I coeredi contribuiscono tra loro al pagamento dei debiti e pesi ereditari in proporzione delle loro quote ereditarie, salvo che il testatore abbia altrimenti disposto [663, 1295, 1315].
L’art. 752 c.c. stabilisce che i coeredi contribuiscono al pagamento dei debiti ereditari in proporzione delle loro quote ereditarie, salvo che il testatore abbia disposto altrimenti, secondo il principio ‘nomina et debita ipso jure inter coheredes dividuntur’. Tale ripartizione opera per i debiti e per i pesi presenti nel patrimonio del de cuius al momento della morte, nonché per quelli sorti in immediata conseguenza della successione ereditaria.
In tema di affidamento della prole va disposto l’affidamento super-esclusivo in favore di uno solo dei genitori quando l’altro dimostri gravi carenze nelle capacità genitoriali
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In tema di affidamento esclusivo v. Cass. 28 febbraio 2020 n. : La mera conflittualità tra i genitori non coniugati, che vivono separati, non preclude il ricorso al regime preferenziale dell’affidamento condiviso dei figli, qualora si mantenga nei limiti di un tollerabile disagio per la prole. Invece può essere ostativa alla relativa applicazione del suddetto regime ove si traduca in forme atte ad alterare e a porre in serio pericolo l’equilibrio e lo sviluppo psico-fisico dei figli, tali da pregiudicare il loro interesse.
2019; Trib. Catania 29 novembre 2018, La mera conflittualità tra i genitori non coniugati, che vivono separati, non preclude il ricorso al regime preferenziale dell’affidamento condiviso dei figli, qualora si mantenga nei limiti di un tollerabile disagio per la prole. Invece può essere ostativa alla relativa applicazione del suddetto regime ove si traduca in forme atte ad alterare e a porre in serio pericolo l’equilibrio e lo sviluppo psico-fisico dei figli, tali da pregiudicare il loro interesse.
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Separazione — Divorzio — Coniugi — Figli (provvedimenti relativi ai) — Figlio minore (affidamento monogenitoriale del) — Affidamento — Bigenitorialità — Affidamento condiviso — Decisioni di maggior interesse — Affidamento esclusivo (ammissibilità dello) — Genitore affidatario — Responsabilità genitoriale (esercizio esclusivo della) — Affido super esclusivo — Sussistenza — Prole — Interesse morale e materiale — Sussistenza — Responsabilità genitoriale (conservazione della) — Sindrome da alienazione parentale (diagnosi della) — Diritti dei figli — Interesse del minore (tutela dello).
In tema di affidamento della prole va disposto l’affidamento super-esclusivo in favore di uno solo dei genitori quando l’altro dimostri gravi carenze nelle capacità genitoriali. In particolare esso è disposto se dalle risultanze peritali chiare, convergenti e motivate, fondate su documentazioni cliniche e oggetto di specifico accertamento anche di fatto, si evince un elevato grado di conflittualità nella coppia genitoriale ed una situazione improntata a grave carenza nelle capacità genitoriali di uno di essi, caratterizzata da comportamenti che mirano ad estromettere dalla vita del figlio l’altro genitore determinando il rischio di alienazione e facendo valere rivalse personal
MOLTA CONFLITTUALITA’ TRA GENITORI NON ESCLUDE AFFIDO ESCLUSIVO
In tema di separazione coniugale, l’affidamento condiviso della prole non è precluso dalla conflittualità esistente tra i genitori, poiché altrimenti tale modello si ridurrebbe ad un’ipotesi del tutto residuale di affido: anzi, si può dire che in caso di conflitto tra i genitori va prediletto proprio l’affidamento condiviso, che riesce a ripartire in modo equilibrato le responsabilità tra l’uno e l’altro genitore, tutelando da un lato la relazione di ciascuno con il figlio e dall’altro lato un rapporto continuativo ed equilibrato del genitore non collocatario con il figlio.
Cassazione civile sez. I, 17/09/2020, n.19323
Affido condiviso: non necessariamente va prevista una frequentazione paritaria dei genitori
Il regime legale dell’affidamento condiviso, tutto orientato alla tutela dell’interesse morale e materiale della prole, deve tendenzialmente comportare, in mancanza di gravi ragioni ostative, una frequentazione dei genitori paritaria con il figlio, tuttavia nell’interesse di quest’ultimo il giudice può individuare un assetto che si discosti da questo principio tendenziale, al fine di assicurare al minore la situazione più confacente al suo benessere e alla sua crescita armoniosa e serena.
Generalmente la frequentazione paritaria, tra genitore e figlio accompagnata al regime di affido condiviso, nella tutela dell’interesse morale e materiale del secondo, ha natura tendenziale, ben potendo il giudice di merito individuare, nell’interesse del minore, senza che possa predicarsi alcuna lesione del diritto alla bigenitorialità, un assetto che se ne discosti, al fine di assicurare al minore stesso la situazione più conveniente al suo benessere e alla sua crescita armoniosa e serena. Nel caso in cui i tempi di permanenza del minore presso ciascun genitore non siano coincidenti, il loro assetto concorre ad influire sulla decisione di prevedere che il genitore con minori tempi di frequentazione versi all’altro un assegno per concorrere al mantenimento dei figli. Il disposto dell’art. 337-ter c.c., comma 4, stabilisce, infatti, che ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito e che il giudice, al fine di realizzare questo principio di proporzionalità, determina un assegno periodico considerando, oltre le attuali esigenze del figlio, il tenore di vita da questi goduto in costanza di convivenza con entrambi i genitori, le risorse economiche di entrambi i genitori e la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore, i tempi di permanenza presso ciascun genitore.
Tribunale Bari sez. I, 21/07/2023, n.3110
La bigenitorialità con l’affido condiviso costituisce la regola generale inerente all’affidamento dei figli minori.
Documenti correlati
In materia di affidamento dei figli minori in caso di separazione, la regola generale è l’affidocondiviso in ossequio al principio della bigenitorialità. Ciò posto, in casi gravi ed eccezionali, laddove vi sia un’evidente carenza educativa di uno dei genitori, tale da rendere pregiudizievole l’affido condiviso per i minori e che sia tale da porre in serio pericolo o alteri l’equilibrio e lo sviluppo psico-fisico del minore.
Tribunale Palermo sez. I, 02/10/2023, n.4244
L’affido condiviso non significa frequentazione paritaria
L’affidamento condiviso dei figli non comporta la piena parità di tempo che il minore deve trascorrere con l’uno o con l’altro genitore, con previsione, peraltro, di una doppia residenza, ma implica la condivisione delle scelte educative e formative e la pari partecipazione alla vita del minore da parte di entrambi i genitori: dunque il vero contenuto dell’affidamento condiviso non si concretizza affatto in una convivenza del minore con entrambi i genitori, né in una sorta di affidamento alternato, ma in una maggiore responsabilizzazione dei genitori che, adottata una linea comune dell’educazione del minore, si impegnano a realizzarla insieme. Pertanto anche in caso di affidamento condiviso è necessario prevedere comunque una residenza prevalente del figlio, un assegno in favore del genitore collocatario, nonché l’eventuale assegnazione della casa coniugale.
SUPERBONUS IMPRESA NON ESEGUE I LAVORI E INCASSA SUPERB0NUS
SUPERBONUS QUANTI PROBLEMI, PASSATI PRESENTI E FUTURI
CEDITI CHE RESTANO IN PANCIA ALLE IMPRESE PRIVANDOLE DI LIQUIDITA’
Se un’impresa ha incassato il Superbonus senza eseguire i lavori, si tratta di una situazione potenzialmente fraudolenta e può comportare serie conseguenze legali per l’impresa stessa. Ecco cosa fare in questi casi:
Passi da Seguire:
Documentazione e Comunicazione:
Raccogliere tutta la documentazione: Contratti, ricevute di pagamento, comunicazioni e qualsiasi altra documentazione che possa dimostrare l’accordo e il mancato adempimento dei lavori.
Comunicare con l’impresa: Inviare una comunicazione scritta (raccomandata con ricevuta di ritorno o PEC) all’impresa, richiedendo spiegazioni e sollecitando l’esecuzione dei lavori.
Segnalazione alle Autorità Competenti:
Agenzia delle Entrate: Segnalare il caso all’Agenzia delle Entrate, che ha la competenza di verificare l’uso corretto dei fondi pubblici e del Superbonus.
Guardia di Finanza: Se si sospetta una frode, è possibile fare una denuncia alla Guardia di Finanza, che si occupa di reati fiscali e finanziari.
Azione Legale:
Consulenza Legale: Consultare un avvocato specializzato in diritto civile e fiscale per valutare le possibili azioni legali da intraprendere, come una causa per inadempimento contrattuale.
Class Action: Se altre persone sono state truffate dalla stessa impresa, potrebbe essere utile organizzare una class action.
Verifica dei Documenti Fiscali:
Asseverazioni e Visti di Conformità: Verificare che l’asseverazione e il visto di conformità, necessari per ottenere il Superbonus, siano stati correttamente emessi da un professionista abilitato.
Misure Preventive:
Verifica della Ditta: Prima di affidare i lavori, verificare la solidità e l’affidabilità dell’impresa, controllando recensioni, referenze e lo stato di salute finanziaria.
Pagamenti Scaglionati: Evitare di pagare l’intero importo in anticipo. Preferire pagamenti scaglionati in base al progresso dei lavori.
Contratto Dettagliato: Redigere un contratto dettagliato che specifichi chiaramente le modalità di esecuzione dei lavori, i tempi e le modalità di pagamento.
Affrontare una situazione del genere può essere complesso, ma seguendo questi passi è possibile tutelare i propri diritti e cercare di ottenere giustizia.
SISMABONUS E VIZI EVIDENTI NEI LAVORI
Se i lavori eseguiti con il Sismabonus presentano vizi evidenti, è fondamentale agire rapidamente per risolvere la situazione e assicurarsi che i lavori siano completati correttamente. Ecco i passi da seguire:
Passi da Seguire:
Documentazione e Ispezione:
Raccogliere Prove: Fotografie, video e relazioni scritte che documentino i vizi e i difetti riscontrati.
Perizia Tecnica: Assumere un tecnico indipendente (ingegnere, architetto o geometra) per effettuare una perizia che attesti i difetti e le carenze nei lavori eseguiti.
Notifica Scritta: Inviare una comunicazione formale all’impresa esecutrice dei lavori (meglio se tramite raccomandata con ricevuta di ritorno o PEC) per notificare i difetti riscontrati e richiedere la riparazione o il rifacimento dei lavori.
Azioni Legali:
Consultazione con un Avvocato: Se l’impresa non risponde o rifiuta di correggere i difetti, è opportuno consultare un avvocato specializzato in diritto civile e contrattuale per valutare le azioni legali possibili.
Diffida Legale: L’avvocato può inviare una diffida formale all’impresa, sollecitando la correzione dei vizi entro un termine specifico.
Agenzia delle Entrate: Segnalare la situazione all’Agenzia delle Entrate, poiché il Sismabonus è un’agevolazione fiscale e l’uso improprio dei fondi può comportare conseguenze legali.
Ordine Professionale: Se i lavori sono stati certificati da un professionista (ingegnere, architetto, geometra), è possibile segnalare il caso al rispettivo ordine professionale.
Soluzione Alternativa delle Controversie:
Mediazione: Tentare una mediazione con l’impresa, eventualmente con l’assistenza di un mediatore professionista, per raggiungere un accordo senza dover ricorrere al tribunale.
Arbitrato: Considerare la clausola arbitrale, se presente nel contratto, come un’alternativa alla causa legale.
Misure Preventive:
Contratti Dettagliati: Stipulare contratti dettagliati che specifichino chiaramente i lavori da eseguire, i materiali da utilizzare e i tempi di consegna.
Verifica delle Credenziali: Controllare le credenziali e le referenze dell’impresa prima di affidare i lavori.
Assicurazione di Qualità: Richiedere garanzie sulla qualità dei materiali e dei lavori, eventualmente prevedendo penali per inadempimento nel contratto.
Affrontare e risolvere vizi nei lavori eseguiti con il Sismabonus richiede un approccio strutturato e tempestivo, in modo da tutelare i propri diritti e assicurarsi che i lavori siano eseguiti correttamente.
SISMABONUS E SPESE DEL PRIVATO
Il Sismabonus è un’agevolazione fiscale che permette ai privati di beneficiare di una detrazione per le spese sostenute per interventi di miglioramento e adeguamento sismico degli edifici. Tuttavia, ci sono delle spese che rimangono a carico del privato. Ecco una guida dettagliata su come funziona il Sismabonus e quali spese potrebbero essere a carico del privato.
Come Funziona il Sismabonus
Percentuale di Detrazione
La detrazione varia dal 50% all’85% delle spese sostenute, a seconda del tipo di intervento e dei miglioramenti sismici ottenuti. Gli interventi che portano ad una riduzione di una o due classi di rischio sismico possono beneficiare di aliquote più elevate.
Massimali di Spesa
Il tetto massimo di spesa detraibile è generalmente 96.000 euro per unità immobiliare per ciascun anno.
Modalità di Fruizione
La detrazione viene ripartita in 5 quote annuali di pari importo.
In alternativa, è possibile optare per lo sconto in fattura o la cessione del credito, permettendo di trasferire il beneficio fiscale a terzi, come l’impresa che esegue i lavori o un istituto finanziario.
Spese Detraibili
Le spese detraibili con il Sismabonus includono:
Interventi di miglioramento sismico: Compresi lavori di messa in sicurezza statica, consolidamento strutturale e adeguamento antisismico.
Progettazione e consulenze professionali: Costi per progettisti, ingegneri, architetti e geometri.
Perizie e sopralluoghi: Costi relativi a perizie tecniche e sopralluoghi effettuati da professionisti abilitati.
Acquisto di materiali: Materiali necessari per l’esecuzione degli interventi di miglioramento sismico.
Spese per l’ottenimento delle certificazioni: Costi relativi alle certificazioni obbligatorie per attestare la riduzione del rischio sismico.
Spese a Carico del Privato
Non tutte le spese possono essere coperte dal Sismabonus. Alcuni costi potrebbero rimanere a carico del privato, tra cui:
Oneri accessori e spese amministrative: Tasse comunali, diritti di segreteria, bolli, autorizzazioni edilizie non detraibili.
Spese per interventi non direttamente collegati alla riduzione del rischio sismico: Ad esempio, lavori di ristrutturazione non finalizzati alla messa in sicurezza antisismica.
Eventuali eccedenze oltre i massimali di spesa detraibili: Spese che superano il tetto massimo di 96.000 euro per unità immobiliare.
Costi per l’installazione di impianti non connessi al miglioramento sismico: Come sistemi di riscaldamento o impianti elettrici, a meno che non siano strettamente necessari per l’esecuzione degli interventi di adeguamento sismico.
Consigli Utili
Consultare un esperto fiscale: Un commercialista o consulente fiscale può aiutare a massimizzare le detrazioni e chiarire quali spese sono detraibili.
Contratti chiari e dettagliati: Stipulare contratti chiari con le imprese esecutrici, specificando le voci di spesa e le modalità di pagamento.
Verificare i requisiti tecnici: Assicurarsi che gli interventi rispettino i requisiti tecnici previsti dalla normativa per accedere al Sismabonus.
Conclusione
Il Sismabonus offre un’importante agevolazione fiscale per chi vuole mettere in sicurezza la propria abitazione contro i rischi sismici. Tuttavia, è fondamentale conoscere quali spese sono effettivamente detraibili e quali potrebbero rimanere a carico del privato, per evitare sorprese e pianificare al meglio gli interventi.
superbonus 110 e impresa che non esegue i lavori
Se un’impresa non esegue i lavori dopo aver ricevuto il pagamento per il Superbonus 110%, è importante affrontare la situazione in modo tempestivo e strutturato. Ecco i passi da seguire:
Passi da Seguire:
Documentazione e Comunicazione:
Raccogliere la Documentazione: Conservare tutti i contratti, ricevute di pagamento, comunicazioni scritte e qualsiasi altra documentazione pertinente.
Comunicare con l’Impresa: Inviare una lettera formale (preferibilmente tramite raccomandata con ricevuta di ritorno o PEC) all’impresa, chiedendo spiegazioni sul mancato avvio dei lavori e sollecitando l’inizio o la ripresa degli stessi.
Azione Legale:
Consultare un Avvocato: Rivolgersi a un avvocato specializzato in diritto civile e contrattuale per ottenere consigli su come procedere. L’avvocato può aiutare a valutare le possibili azioni legali, come una diffida legale o una causa per inadempimento contrattuale.
Diffida Legale: L’avvocato può inviare una diffida formale all’impresa, sollecitando l’inizio dei lavori entro un termine specifico e minacciando azioni legali in caso di inadempienza.
Segnalazione alle Autorità Competenti:
Agenzia delle Entrate: Segnalare la situazione all’Agenzia delle Entrate, che può verificare l’uso corretto del Superbonus.
Guardia di Finanza: In caso di sospetto di frode, è possibile fare una denuncia alla Guardia di Finanza.
Alternative e Rimedi:
Trovare una Nuova Impresa: Se l’impresa non risponde o rifiuta di eseguire i lavori, potrebbe essere necessario trovare un’altra impresa disposta a completare il progetto.
Assicurazioni: Verificare se l’impresa originale aveva una polizza assicurativa che copre l’inadempimento e, in tal caso, contattare l’assicurazione per ottenere un risarcimento.
Verifica dei Documenti Fiscali:
Asseverazioni e Visti di Conformità: Verificare che i documenti necessari per ottenere il Superbonus, come l’asseverazione e il visto di conformità, siano stati correttamente emessi da professionisti abilitati.
Misure Preventive per il Futuro:
Verifica dell’Affidabilità dell’Impresa: Prima di affidare i lavori, verificare la solidità e l’affidabilità dell’impresa, controllando recensioni, referenze e lo stato di salute finanziaria.
Pagamenti Scaglionati: Evitare di pagare l’intero importo in anticipo. Preferire pagamenti scaglionati in base al progresso dei lavori.
Contratto Dettagliato: Stipulare un contratto dettagliato che specifichi chiaramente le modalità di esecuzione dei lavori, i tempi, le modalità di pagamento e le penalità in caso di inadempimento.
Conclusione
Affrontare una situazione in cui un’impresa non esegue i lavori per il Superbonus 110% può essere complesso, ma seguendo questi passi è possibile tutelare i propri diritti e cercare di ottenere giustizia. La consulenza di un avvocato e la segnalazione alle autorità competenti sono fondamentali per risolvere il problema e prevenire ulteriori disagi.
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Se l’Agenzia delle Entrate revoca il Superbonus 110%, possono sorgere diverse conseguenze e obblighi per il beneficiario. È importante capire perché è stata revocata l’agevolazione e quali sono i passaggi successivi per affrontare la situazione.
Possibili Cause di Revoca
La revoca del Superbonus 110% può avvenire per vari motivi, tra cui:
Irregolarità nella documentazione: Errori o omissioni nelle asseverazioni, nei visti di conformità, o nelle comunicazioni trasmesse all’Agenzia delle Entrate.
Mancanza dei requisiti tecnici: Gli interventi eseguiti non rispettano i requisiti tecnici previsti dalla normativa.
Frodi o abusi: Tentativi di ottenere l’agevolazione in modo fraudolento, come la presentazione di false dichiarazioni.
Inadempimenti contrattuali: Lavori non eseguiti o non completati, o eseguiti in modo non conforme alle norme.
Conseguenze della Revoca
Se l’Agenzia delle Entrate revoca il Superbonus, le conseguenze possono includere:
Recupero delle somme detratte: L’Agenzia delle Entrate può chiedere la restituzione delle somme detratte, con l’aggiunta di interessi e sanzioni.
Blocco dei lavori: In alcuni casi, la revoca può comportare il blocco dei lavori in corso.
Obbligo di regolarizzare la posizione: Può essere richiesto di regolarizzare la posizione fiscale e tecnica, completando o adeguando i lavori secondo le normative vigenti.
Passi da Seguire in Caso di Revoca
Analisi della Motivazione:
Ricezione della Comunicazione: Esaminare attentamente la comunicazione dell’Agenzia delle Entrate per capire i motivi della revoca.
Consultare un Esperto: Rivolgersi a un commercialista o un avvocato specializzato in diritto tributario per comprendere meglio la situazione e le possibili azioni da intraprendere.
Presentazione di Ricorso:
Ricorso in Autotutela: Se si ritiene che la revoca sia ingiustificata o frutto di un errore, è possibile presentare un ricorso in autotutela all’Agenzia delle Entrate, fornendo la documentazione corretta e le spiegazioni necessarie.
Ricorso alla Commissione Tributaria: Se il ricorso in autotutela non viene accolto, è possibile presentare un ricorso alla Commissione Tributaria Provinciale entro 60 giorni dalla notifica della revoca.
Regolarizzazione delle Irregolarità:
Correzione della Documentazione: Se la revoca è dovuta a errori o omissioni nella documentazione, correggere e integrare quanto necessario.
Adeguamento dei Lavori: Se i lavori non rispettano i requisiti tecnici, provvedere al loro adeguamento secondo le normative vigenti.
Restituzione delle Somme:
Calcolo degli Importi: Verificare l’esatto ammontare delle somme da restituire, inclusi interessi e sanzioni.
Piano di Rientro: Concordare con l’Agenzia delle Entrate un piano di rientro, se possibile, per il pagamento delle somme dovute.
Consigli Preventivi
Controlli e Verifiche Preventive: Prima di richiedere il Superbonus, assicurarsi che tutta la documentazione sia corretta e completa, e che i lavori rispettino pienamente le normative tecniche.
Consulenza di Professionisti: Affidarsi a professionisti qualificati per la redazione delle asseverazioni e dei visti di conformità.
Monitoraggio Costante: Durante l’esecuzione dei lavori, monitorare costantemente lo stato di avanzamento e la conformità alle normative.
Conclusione
Affrontare la revoca del Superbonus 110% può essere complesso e richiede un’azione tempestiva e strutturata. Con l’aiuto di esperti e seguendo i passi giusti, è possibile regolarizzare la propria posizione e minimizzare le conseguenze finanziarie e legali.
CESSIONE CREDITI SUPERBONUS
PRIVATI E CONDOMINI BOLOGNA
Il Superbonus 110%è una misura introdotta dal governo italiano per incentivare interventi di efficientamento energetico e di riduzione del rischio sismico degli edifici. Una delle caratteristiche principali del Superbonus è la possibilità di cedere il credito d’imposta derivante dagli interventi effettuati. Ecco una panoramica su come funziona la cessione dei crediti Superbonus:
Cos’è la cessione del credito?
La cessione del credito consiste nella possibilità per il beneficiario del Superbonus di trasferire il credito d’imposta maturato a terzi, anziché utilizzarlo direttamente in compensazione nelle proprie dichiarazioni fiscali.
Chi può essere il cessionario?
Il credito può essere ceduto a:
Fornitori di beni e servizi necessari alla realizzazione degli interventi.
Altri soggetti (persone fisiche, anche esercenti attività di lavoro autonomo o d’impresa, società ed enti).
Istituti di credito e altri intermediari finanziari.
Modalità di cessione del credito
Comunicazione all’Agenzia delle Entrate: Per effettuare la cessione, il beneficiario deve inviare una comunicazione all’Agenzia delle Entrate, utilizzando l’apposito modulo disponibile sul sito dell’agenzia.
Accettazione del credito: Il cessionario (colui che riceve il credito) deve accettare la cessione tramite l’area riservata del sito dell’Agenzia delle Entrate.
Utilizzo del credito: Una volta accettato, il credito può essere utilizzato dal cessionario in compensazione attraverso il modello F24, in cinque rate annuali di pari importo.
Vantaggi della cessione del credito
Liquidità immediata: Permette al beneficiario di non dover anticipare l’intero importo degli interventi.
Facilità di accesso ai lavori: Molte imprese offrono la possibilità di scontare direttamente in fattura, acquisendo il credito d’imposta.
Requisiti e adempimenti
Visto di conformità: Per la cessione del credito è necessario il visto di conformità rilasciato da un commercialista, consulente del lavoro o CAF.
Asseverazioni tecniche: Devono essere presentate asseverazioni tecniche da parte di professionisti abilitati che certifichino la conformità dei lavori ai requisiti richiesti e il rispetto dei massimali di costo.
Novità e aggiornamenti
Il Superbonus e le relative normative sono soggetti a modifiche. È importante tenersi aggiornati sulle ultime disposizioni legislative e sulle modifiche ai regolamenti attuativi. Ad esempio, modifiche recenti possono aver riguardato:
Le percentuali del beneficio fiscale.
Le scadenze per effettuare gli interventi.
Le modalità e le possibilità di cessione del credito.
Per informazioni dettagliate e aggiornate, è consigliabile consultare il sito ufficiale dell’Agenzia delle Entrate o rivolgersi a un professionista del settore fiscale e tributario.
CESSIONE CREDITI SUPERBONUS PER LAVORI NON ESEGUITI
CESSIONE CREDITI SUPERBONUS
PRIVATI E CONDOMINI BOLOGNA
La cessione del credito del Superbonus per lavori non eseguiti, comunemente nota come frode o truffa, rappresenta un grave illecito. Ecco una spiegazione dettagliata della situazione, delle conseguenze legali e delle recenti normative volte a contrastare tali pratiche:
Situazione di frode: cessione di crediti per lavori non eseguiti
Descrizione del problema:
Frode: La frode consiste nel dichiarare falsamente l’esecuzione di lavori di efficientamento energetico o antisismico, per ottenere e cedere crediti d’imposta non dovuti.
Meccanismo: I soggetti coinvolti presentano documenti falsi o gonfiati, attestando interventi mai realizzati o parzialmente realizzati, per ottenere il credito d’imposta da cedere a terzi.
Conseguenze legali
Per il beneficiario:
Recupero del credito: L’Agenzia delle Entrate può procedere al recupero del credito d’imposta indebitamente utilizzato, con interessi e sanzioni.
Sanzioni penali: In caso di dichiarazioni false e frodi, possono scattare anche sanzioni penali per truffa ai danni dello Stato.
Per il cessionario:
Responsabilità: Se il cessionario è consapevole della frode, può essere coinvolto nelle indagini e incorrere in sanzioni.
Perdita del credito: In caso di accertamento della frode, il credito d’imposta può essere annullato, e il cessionario può perdere il beneficio acquisito.
Normative e misure di controllo
Recenti interventi normativi:
Decreto Anti-Frode: Recenti decreti hanno introdotto misure stringenti per contrastare le frodi legate al Superbonus.
Obbligo di visto di conformità: È stato reso obbligatorio il visto di conformità rilasciato da un professionista abilitato per la cessione del credito.
Controlli dell’Agenzia delle Entrate: L’Agenzia delle Entrate ha intensificato i controlli e le verifiche sui lavori dichiarati e sulla correttezza dei documenti presentati.
Procedura corretta per evitare frodi
Per il beneficiario:
Accuratezza dei documenti: Assicurarsi che tutta la documentazione sia accurata e rispecchi i lavori realmente eseguiti.
Professionisti abilitati: Rivolgersi a professionisti abilitati per il rilascio del visto di conformità e delle asseverazioni tecniche.
Per il cessionario:
Due diligence: Effettuare verifiche approfondite sui crediti acquistati, richiedendo tutta la documentazione necessaria e verificando la correttezza dei lavori eseguiti.
Conclusione
La cessione del credito Superbonus per lavori non eseguiti è un illecito grave con conseguenze legali significative. È fondamentale seguire scrupolosamente le normative vigenti, utilizzare professionisti abilitati per tutte le certificazioni richieste e mantenere una rigorosa trasparenza in tutte le fasi del processo. Le misure di controllo e prevenzione sono state rafforzate per garantire l’integrità e l’efficacia del Superbonus, proteggendo sia i beneficiari legittimi che lo Stato.
CESSIONE CREDITI SUPERBONUS E RESPONSABILITAà DEL PROPRIETARIO
CESSIONE CREDITI SUPERBONUS
PRIVATI E CONDOMINI BOLOGNA
La cessione dei crediti derivanti dal Superbonus comporta responsabilità significative per il proprietario dell’immobile. Ecco una panoramica dettagliata sulle responsabilità e sugli obblighi del proprietario in questo contesto:
Responsabilità del Proprietario nella Cessione dei Crediti
Verifica della Conformità dei Lavori:
Accuratezza dei Lavori: Il proprietario è responsabile di garantire che i lavori di efficientamento energetico o antisismico siano eseguiti correttamente e nel rispetto delle normative vigenti.
Documentazione Completa: È fondamentale assicurarsi che tutta la documentazione, incluse le asseverazioni tecniche e il visto di conformità, sia completa e accurata.
Certificazioni e Asseverazioni:
Asseverazione Tecnica: Il proprietario deve ottenere una asseverazione tecnica da un professionista abilitato che certifichi la conformità degli interventi ai requisiti del Superbonus.
Visto di Conformità: Il visto di conformità, rilasciato da un commercialista, consulente del lavoro o CAF, attesta che la documentazione presentata è conforme alle norme.
Comunicazione all’Agenzia delle Entrate:
Dichiarazione del Credito: Il proprietario deve comunicare all’Agenzia delle Entrate l’intenzione di cedere il credito, utilizzando l’apposito modulo.
Tempistica: La comunicazione deve essere fatta entro i termini stabiliti dalla normativa.
Conseguenze di Irregolarità o Frodi
Recupero del Credito d’Imposta:
Accertamenti: In caso di irregolarità, l’Agenzia delle Entrate può procedere al recupero del credito d’imposta indebitamente utilizzato, richiedendo anche interessi e sanzioni.
Responsabilità Penale:
Frode: Se viene accertata una frode, ossia dichiarazioni false o documentazione alterata, il proprietario può essere soggetto a sanzioni penali per truffa ai danni dello Stato.
Coinvolgimento del Cessionario:
Perdita del Credito: Anche il cessionario del credito può subire conseguenze, come la perdita del credito acquistato, se è consapevole delle irregolarità.
Misure di Prevenzione
Utilizzo di Professionisti Qualificati:
Professionisti Abilitati: Rivolgersi a professionisti abilitati e di comprovata esperienza per tutte le certificazioni e asseverazioni necessarie.
Due Diligence: Effettuare una due diligence accurata su tutti gli aspetti tecnici e fiscali del progetto.
Trasparenza e Tracciabilità:
Documentazione Completa: Mantenere una documentazione completa e trasparente di tutte le fasi del progetto, dalla progettazione alla realizzazione.
Contratti e Accordi: Stipulare contratti chiari con i fornitori e le imprese edili, specificando le responsabilità e le tempistiche dei lavori.
Consultazione con Esperti:
Consulenza Fiscale: Consultare un consulente fiscale per assicurarsi di rispettare tutte le normative fiscali e le procedure di cessione del credito.
Assistenza Legale: In caso di dubbi o complessità, è consigliabile consultare un avvocato esperto in diritto tributario e edilizio.
Conclusione
La cessione dei crediti Superbonus offre vantaggi significativi, ma richiede anche una gestione accurata e responsabile da parte del proprietario dell’immobile. È essenziale seguire scrupolosamente tutte le normative e procedure, utilizzare professionisti qualificati e mantenere una trasparenza totale per evitare rischi legali e finanziari.
quando e’ bancarotta fraudolenta? quando avviene la bancarotta? quando scatta la bancarotta ? come difendersi dalla bancarotta ? come difendersi dalla bancarotta fraudolenta?
1) la bancarotta fraudolenta che si realizza quando l’imprenditore distrae, occulta, dissimula, distrugge o dissipa in tutto o in parte i suoi beni ovvero, allo scopo di recare pregiudizio ai creditori, espone passività inesistenti (è la bancarotta fraudolenta patrimoniale);
2) oppure quando sottrae, distrugge o falsifica, in tutto o in parte, in modo tale da procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori, i libri o le altre scritture contabili o li tiene in modo da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari (bancarotta fraudolenta documentale),
3) oppure ancora, a scopo di favorire taluni creditori rispetto ad altri esegue pagamenti o simula titoli di prelazione (è la bancarotta fraudolenta preferenziale).
4) Con tale ultima previsione il Legislatore ha inteso garantire anche in via penale la c.d. par condicio tra la massa dei creditori, ovvero la possibilità che ognuno di essi possa essere soddisfatto nei propri crediti dalla procedura fallimentare che è concorsuale e riguarda tutta la situazione patrimoniale del debitore fallito;
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6) quando e’ bancarotta fraudolenta?
COME DIFENDERSI DALLA BANCAROTTA FRAUDOLENTA?
Dalle prime fasi del procedimento, o al massimo dall’avviso di conclusione indagini preliminari, chiedendo se necessario l’interrogatorio depositando memorie difensive.
Ricordiamo che l’avviso di conlusione indagini preclude alla richiesta di rinvio a giudizio ma a volte il PM puo’ alla luce di nuovi elementi proposti dalla difesa cambiare idea e chiedere l’archiviazione.!!!!
QUANDO AVVIENE LA BANCAROTTA?
La bancarotta documentale fraudolenta non scatta necessariamente per la mancata tenuta delle scritture contabili o per la mancata consegna del bilancio da parte dell’azienda al curatore fallimentare. È necessario provare l’intento di pregiudicare gli interessi dei creditori. Di più. L’amministratore di diritto è responsabile con l’amministratore di fatto per le distrazioni solo se sussiste la prova della «consapevolezza», dell’attività illecita.
Ecco i principi sanciti dalla Cassazione con due sentenze del 27 giugno 2012, la n. 25432 e 25438. Nella prima motivazione la quinta sezione penale ha ricordato che non costituisce, invero, discrimine fra la bancarotta documentale fraudolenta e quella semplice «il fatto che le scritture siano state del tutto omesse posto che l’omessa tenuta della contabilità interna può integrare gli estremi del reato di bancarotta documentale fraudolenta, e non quello di bancarotta semplice, solo qualora si accerti che scopo dell’omissione sia quello di recare pregiudizio ai creditori».
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REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. MARASCA Gennaro – Presidente - Dott. DE BERARDINIS Silvana – Consigliere - Dott. LAPALORCIA Grazia – Consigliere - Dott. PISTORELLI Luca – rel. Consigliere - Dott. DEMARCHI ALBENGO Paolo G – Consigliere - ha pronunciato la seguente:
sentenza
sui ricorsi presentati da: C.J., nato ad (OMISSIS); Co.Da., nato ad (OMISSIS); Ci.An., nato a (OMISSIS); P.P., nato ad (OMISSIS); Pr.Wa., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 16/11/2012 della Corte d’appello di Torino; visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Luca Pistorelli; udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. CEDRANGOLO Oscar, che ha concluso per il rigetto del ricorso del C. e per l’inammissibilità di tutti gli altri; uditi per gli imputati gli avv. Papuzzi Davide, Chieppa Giampiero, D’Alessandro Claudio e Cometti Mario, che hanno tutti concluso chiedendo l’accoglimento dei ricorsi presentati nell’interesse dei rispettivi assistiti.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 16 novembre 2012 la Corte d’appello di Torino confermava: a) la condanna di C.J. e Co.Da. per il reato di concorso in bancarotta impropria societaria aggravata commesso nella loro qualità di componenti del consiglio di amministrazione di Eurovie Costruzioni s.p.a., dichiarata fallita il (OMISSIS); b) la condanna del menzionato C. per il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale aggravata commesso nella sua qualità di legale rappresentante di Piemonte Costruzioni s.r.l., dichiarata fallita il (OMISSIS); c) la condanna di P. P. e Pr.Wa. per analogo reato commesso nelle rispettive qualità di amministratore delegato e di presidente del consiglio di amministrazione della Mecar s.r.l., dichiarata fallita il (OMISSIS). In parziale riforma della pronunzia di primo grado, invece, la Corte distrettuale dichiarava non doversi procedere nei confronti di Ci.An. per il reato di bancarotta preferenziale commesso in qualità di amministratore di fatto della fallita Piemonte Costruzioni s.r.l., rilevandone l’intervenuta prescrizione. Sempre in riforma della sentenza appellata, la stessa Corte procedeva altresì a rimodulare in senso favorevole agli imputati il trattamento sanzionatorio loro riservato dal giudice di prime cure, mente confermava infine le statuizioni civili adottate nel primo grado di giudizio.
I fatti per cui è processo si inquadrano in una più articolata vicenda ad oggetto la gestione illecita delle società a vario titolo rientranti nel perimetro del c.d. gruppo Follioley. In tal senso la Corte territoriale ha ritenuto il C. ed il Co. responsabili del reato di bancarotta impropria societaria per aver sottoscritto il bilancio relativo all’esercizio 1993 della menzionata Eurovie Costruzioni s.p.a. nonostante lo stesso attestasse fatti non conformi al vero, contenendo poste attive artatamente sopravalutate (riserve di cantiere e partecipazioni societarie), l’indicazione di sopravvenienze create attraverso la strumentale postergazione di crediti vantati da società controllate e la sottovalutazione del fondo rischi relativo ai suddetti crediti. Operazione questa che, nella prospettiva accolta dai giudici d’appello, era servita per ritardare il fallimento della società e consentirle nel frattempo di accedere ad altre e meno pervasive procedure concorsuali e che però aveva in tal modo provocato un aggravamento del dissesto.
Lo stesso C. è stato poi ritenuto responsabile del reato di bancarotta patrimoniale commesso nella gestione della Piemonte Costruzioni s.r.l. attraverso la distrazione del danaro impiegato per acquistare, per di più ad un prezzo largamente esagerato, beni eccentrici rispetto agli scopi aziendali e oggetto successivamente di iscrizione nel bilancio societario per un valore largamente inferiore a quello fissato all’atto dell’acquisto al fine di assicurare alla società venditrice (Aeroservice s.r.l.) il procacciamento di risorse in grado di stabilizzare la sua situazione finanziaria in vista dell’accesso ad un concordato preventivo.
Quanto alla posizione di P. e Pr., la Corte distrettuale ha ritenuto la loro responsabilità relativamente alla distrazione del controvalore di cespiti ceduti alla menzionata Eurovie Costruzioni senza incassarne il prezzo e postergando successivamente il relativo credito, nonostante tale società fosse già pesantemente esposta nei confronti di Mecar e il suo dissesto fosse già noto al momento delle cessioni.
Con riguardo infine al reato di bancarotta preferenziale addebitato al Ci. e dichiarato prescritto, la sentenza impugnata ne ha riconosciuto comunque la sussistenza in ragione del pagamento da parte di Piemonte Costruzioni, in prossimità del suo fallimento, di un debito della propria controllante verso una società di consulenza (costituita tra l’altro anche dal figlio dell’imputato) che la fallita si era accollata, saldandolo in più rate, l’ultima delle quali versata il giorno stesso della dichiarazione di fallimento.
2. Avverso la sentenza ricorrono, personalmente o a mezzo dei propri difensori, tutti gli imputati.
2.1 Il ricorso del C. articola cinque motivi. Con il primo deduce l’errata applicazione della legge penale, rilevando come la Corte distrettuale abbia affermato la sussistenza del delitto di bancarotta impropria societaria sulla base della causazione, attraverso il contestato falso in bilancio, di un mero aggravamento del dissesto, mentre invece per la perfezione del suddetto reato sarebbe necessario che l’illecito societario determini quest’ultimo e non solo lo aggravi. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta analogo vizio in ordine alla ritenuta sufficienza del dolo generico per la configurabilità del suddetto delitto, quando invece sarebbe necessario il dolo proprio del reato societario presupposto e cioè nella specie quello intenzionale e specifico previsto per la fattispecie di cui all’art. 2621 c.c.. Con il terzo motivo vengono denunciati vizi motivazionali della sentenza impugnata, che avrebbe omesso di rispondere ad alcune delle censure sollevate con il gravame di merito ed in particolare a quelle relative alla contestata consapevolezza da parte degli imputati della falsità del bilancio del 1993 da loro sottoscritto, alla effettiva efficienza causale di quest’ultimo nella determinazione dell’evento e del danno di rilevante gravità ai sensi della L. Fall., art. 219, alla individuazione, ai fini del calcolo della prescrizione e dell’effettiva sussistenza del reato contestato, del tempus commissi delicti, apoditicamente fatto coincidere con la declaratoria del fallimento della società nonostante questa fosse stata in precedenza ammessa dapprima all’amministrazione controllata e successivamente a concordato preventivo. Con il quarto motivo viene dedotta l’errata applicazione della legge penale in relazione all’affermata responsabilità dell’imputato per la bancarotta distrattiva in danno di Piemonte Costruzioni, nonostante la delibera del consiglio di amministrazione alla cui adozione aveva partecipato il C. non sarebbe l’atto con cui sarebbe stato effettivamente disposto l’acquisto del magazzino di Aeroservice, seguito, come da statuto della fallita, solo alla ratifica della stessa da parte dell’assemblea dei soci, peraltro intervenuta quando l’imputato aveva già dismesso la propria carica, così come successivi alle sue dimissioni sarebbero stati gli atti di disposizione patrimoniale finalizzati all’esecuzione del suddetto acquisto. Sempre con riguardo al reato menzionato, con il quinto motivo il ricorrente denuncia inoltre il difetto di motivazione della sentenza in merito al profilo oggetto del quarto motivo, nonchè alla obiezione sollevata con i motivi d’appello circa la falsità delle firme dell’imputato apposte in calce ad alcuni dei documenti relativi al negoziato svolto per giungere all’acquisizione dei menzionati beni.
2.2 Il ricorso del Co. articola due motivi con i quali denuncia il difetto di motivazione della sentenza impugnata e l’errata applicazione della legge penale in merito all’eccepita prescrizione del reato contestato all’imputato in ragione della necessità di retrocedere il momento consumativo dello stesso dalla data di dichiarazione del fallimento di Eurovie Costruzioni a quella di ammissione della società al concordato preventivo, avvenuta il 27 giugno 1995.
2.3 I ricorsi proposti nell’interesse del P. e del Pr., perfettamente sovrapponibili fra loro, con unico motivo deducono l’errata applicazione della legge penale e correlati vizi motivazionali della sentenza impugnata in merito alla ritenuta sussistenza del dolo del reato contestato ai due imputati, che la Corte distrettuale avrebbe desunto esclusivamente dalla carica formale ricoperta dai due imputati in seno alla fallita, senza tener conto del fatto che la stessa era invero governata da un amministratore di fatto e senza dunque verificare in concreto, come invece necessario per l’orientamento giurisprudenziale dominante, l’effettiva adesione psicologica del P. e del Pr. alla consumazione del reato o anche solo la loro consapevolezza della potenziale natura distrattiva delle operazioni effettuate ben otto anni prima dell’instaurazione della procedura concorsuale.
2.4 Da ultimo il ricorso del Ci. articola tre motivi. Con il primo viene eccepito il difetto di motivazione della sentenza in merito ai criteri di quantificazione delle spese sostenute nel grado d’appello dalla parte civile Piemonte Costruzioni e poste a carico dell’imputato. Con il secondo ed il terzo vengono dedotti ulteriori vizi motivazionali in merito al rigetto della richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, alla ritenuta attribuibilità al Ci. della qualifica di amministratore di fatto della fallita, alla illiceità dell’accollo da parte di quest’ultima del debito relativo al contratto stipulato dalla controllante, relativamente al quale la Corte distrettuale non avrebbe considerato che lo stesso riguardava prestazioni eseguite in favore proprio della Piemonte Costruzioni, nonchè alla sussistenza di una effettiva lesione della par condicio creditorum, atteso che il fallimento è risultato in bonis ed il credito soddisfatto, in quanto relativo a prestazione d’opera, assistito da privilegio.
Motivi della decisione
1. Preliminarmente deve essere affrontata la questione relativa alla prescrizione del reato di cui al capo 1), proposta con il terzo motivo del ricorso del C. e con il ricorso del Co..
1.1 I due ricorrenti, oltre a denunciare il difetto di motivazione sul punto (profilo su cui si tornerà in seguito), lamentano che il termine di prescrizione del menzionato reato non avrebbe iniziato a decorrere dalla sentenza dichiarativa del fallimento di Eurovie Costruzioni (intervenuta come accennato il 17 dicembre 1999), bensì dal momento anteriore (il 27 giugno 1995) in cui la società venne ammessa al concordato preventivo.
1.1.1 La censura è infondata. Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, che si intende qui ribadire, nel caso in cui alla ammissione alla procedura di concordato preventivo segua la dichiarazione di fallimento, la prescrizione decorre dalla sentenza dichiarativa di fallimento e non dalla ammissione al concordato preventivo, stante la disuguaglianza tra le due procedure che non consente di intravedere nella successione delle vicende concorsuali la medesima connotazione e quella uniformità che può consentire l’assorbimento cronologico della seconda nella prima (Sez. 5, n. 31117 del 30 giugno 2011, Sbrocchi, Rv. 250588).
1.1.2 La tesi difensiva suppone, infatti, che tra gli istituti del concordato preventivo ed il fallimento corra una relazione di sostanziale assorbimento, nel senso che – apertasi la prima procedura – tutto quanto consegue si sviluppi per un tracciato ormai necessitato ed unitario. Donde la fissazione della genesi della vicenda estintiva prescrizionale nel primo, in ordine di tempo, degli interventi giudiziali che consentono l’avvio di ciascuna vicenda concorsuale. Siffatta convinzione non ha però fondamento. Giovano alcune premesse. Non può negarsi un nesso funzionale tra il concordato rispetto al fallimento, nel senso che sovente, alla denuncia di insolvenza, qualificata inizialmente come crisi, si accerti uno stato di sostanziale ed irredimibile incapacità a fronteggiare le obbligazioni di impresa. Ed è noto il fenomeno della “consecuzione” dei due riti, profilo che si fonda sull’unitarietà delle procedure, discendenti dalla situazione di difficoltà dell’impresa. Ma tanto non consente di omologare a tutti gli effetti le due procedure, soprattutto in ragione dell’offesa portata ai creditori, eliminando le rispettive diversità ed anche le difformità nell’ottica penalistica, dove le conseguenze sono state dal legislatore assegnate a due distinte figure di reato – rispettivamente previste dalla L. Fall., artt. 236 e 216/223 – che dispongono di una propria significativa autonomia strutturale.
1.1.3 Il punto di contatto sta – come si è accennato – nell’insolvenza, una situazione omogenea alla crisi (come espressamente stabilito dalla L. Fall., art. 160, comma 3), in forza della quale sorge la legittimazione sia al concordato sia alla procedura fallimentare. Ma tanto acclarato, non può che sottolinearsi il divario corrente tra i due casi. Innanzitutto con l’occhio rivolto alla dinamica procedimentale. La natura diversa dei provvedimenti genetici (uno è decreto bisognoso di omologa, l’altro è sentenza), il che non è indifferente anche per il versante penale, perchè essi rappresentano la premessa essenziale dei reati fallimentari, secondo la costante lettura di questa Corte. Ma, al di là della genesi e dei meri aspetti formali, è di importanza decisiva la circostanza che in sede concordataria l’imprenditore non perde il possesso dell’impresa (e ne mantiene l’amministrazione ai sensi dell’art. 167 e, conseguentemente, anche gli obblighi documentativi, come previsto dal successivo art. 170). L’impresa prosegue nella sua attività (tanto che, proprio in ragione di possibili atti di frode commessi in questo prosieguo di gestione, è prevista la speciale revoca dell’ammissione e la obbligatoria dichiarazione di ufficio del fallimento ai sensi dell’art. 173). Donde, tra l’altro, anche la diversa disciplina circa il divieto di azioni esecutive, che vale soltanto per i creditori anteriori all’ammissione dell’impresa alla procedura (con riflessi in tema di prescrizione e decadenza, cfr. art. 168).
1.1.4 E’ di grande rilievo, ancora, il controllo dispiegato dai creditori nel concordato, che “pesano” con il loro voto iniziale e mantengono questa influenza durante lo sviluppo successivo. L’organo esecutivo (il commissario giudiziale) ha poteri diversi che esercita in guisa di vigilanza sulla condotta dell’imprenditore, mentre nel caso del fallimento lo spossessamento attuato dalla procedura impedisce l’ingerenza gestoria del fallito. In siffatta prospettiva non vi è dubbio che la procedura fallimentare, considerata la spiccata funzione liquidatoria, per così dire ricapitola in sè gli approdi a cui era giunta la precedente vicenda concordataria e, salve alcune sporadiche eccezioni, li fa propri.
1.1.5 A queste cospicue diversità concorsuali si prospettano – per l’ambito strettamente penalistico – non minori discrasie. Basti osservare che le stesse fattispecie incriminatrici evidenziano limitazioni (la fattispecie di cui all’art. 236, comma 1, non è applicabile al’imprenditore societario, mentre quella prevista dal comma 2 dello stesso articolo è inapplicabile all’imprenditore individuale) e che soltanto una parte del catalogo dei reati fallimentari è “esportabile” in seno all’art. 236. Ed anche per il versante processuale, non deve sfuggire che – mentre per la bancarotta l’azione penale può essere esercitata anche prima della sentenza dichiarativa di fallimento, con anticipazione degli atti istruttori rispetto allo sviluppo concorsuale – questa possibilità non è data per il concordato preventivo, ostandovi la lettera dell’art. 238 che allude soltanto alla “sentenza dichiarativa di fallimento” (senza possibilità di estensione analogica, per l’eccezionalità dell’istituto che la norma disciplina). E’ aderente al sistema, pertanto, affermare la diversità delle due procedure, in cui quella fallimentare ingloba in sè – in buona misura – caratteristiche salienti della prima. Onde se, per alcune situazioni è ammissibile rinvenire a ritroso la data saliente per alcuni effetti concorsuali (si pensi, nella consecuzione delle procedure, la data che da avvio al periodo c.d. sospetto per l’azione revocatoria), per il rapporto che coinvolge complessivamente le masse passive, come accade negli illeciti fallimentari, siffatta uniformità non sembra proponibile.
1.1.6 Questo discorso, tratteggiato per sommari cenni, porta a concludere per una disuguaglianza di situazioni che non permette, ragionevolmente, di intravvedere nella successione delle vicende concorsuali la medesima connotazione e quell’uniformità che può consentire l’”assorbimento” della seconda nella prima cronologicamente intervenuta. Ma, casomai, una lettura opposta, in cui la sentenza dichiarativa di fallimento e la vicenda procedimentale che da essa sorge ricapitola in sè quanto occorso in precedenza e, per il versante penale, fornisce maggiore sostanza nell’elemento costituivo dei reati concorsuali.
1.1.7 Arresto che già questa Corte aveva raggiunto, per altro percorso, quando affermò che in tema di bancarotta fraudolenta, nel caso in cui alla ammissione alla procedura di concordato preventivo segua la dichiarazione di fallimento, poichè il concorso di norme tra l’art. 236, comma 2, n. 1, e l’art. 223, va risolto utilizzando il principio di specialità, con l’applicazione della fattispecie di bancarotta fallimentare (ex multis Sez. 5, n. 39307 del 18 settembre 2007, Botticelli, Rv. 238183). Da qui la conclusione che la prescrizione decorre dalla successiva sentenza dichiarativa di fallimento.
1.1.8 Quanto infine al lamentato difetto di motivazione della sentenza sul punto la doglianza si rivela manifestamente infondata. Atteso, infatti, che lo stesso sarebbe caduto su una quaestio iuris e che questa è stata comunque correttamente risolta dalla Corte distrettuale, che non ha ritenuto estinto il reato confermando la condanna degli imputati, deve ribadirsi che il vizio di motivazione denunciabile nel giudizio di legittimità è solo quello attinente alle questioni di fatto e non anche di diritto, giacchè ove queste ultime, anche se in maniera immotivata o contraddittoriamente od illogicamente motivata, siano comunque esattamente risolte, non può sussistere ragione alcuna di doglianza (Sez. 2, n. 19696 del 20 maggio 2010, Maugeri e altri, Rv. 247123; Sez. Un., n. 155/12 del 29 settembre 2011, Rossi e altri, in motivazione).
1.2 Venendo agli altri motivi del ricorso del C., il primo motivo deve ritenersi parimenti infondato. Come da tempo chiarito da questa Corte, infatti, il reato di bancarotta impropria da reato societario sussiste anche quando la condotta illecita abbia concorso a determinare anche solo un aggravamento del dissesto già in atto della società (ex multis Sez. 5, n. 17021 del 11 gennaio 2013, Garuti e altro, Rv. 255090). Nè, in senso contrario, assume rilevanza la presunta diversa formulazione delle fattispecie descritte, rispettivamente, nella L. Fall., artt. 223 e 224, evocata dal ricorrente.
1.2.1 L’obiezione difensiva fonda, infatti, sull’interpretazione meramente letterale la conclusione che soltanto l’art. 224, e non anche l’art. 223, sanzioni l’aggravamento del dissesto, mentre il secondo esigerebbe, quale evento del reato, necessariamente la causazione del dissesto, con la conseguenza che l’aggravamento, in quest’ultimo caso, resterebbe privo di punizione.
1.2.2 Tale interpretazione presenta già in sè una nota di irragionevolezza, lasciando ingiustificatamente orfana di sanzione penale una condotta comunque incidente sullo stato di dissesto mediante aggravamento dello stesso. Ma vi è di più. Il dato testuale valorizzato dal ricorrente appare infatti in contrasto con un’interpretazione sistematica della norma che tenga conto della disciplina del concorso di cause di cui all’art. 41 c.p., applicando la quale assumono rilievo ai fini della responsabilità penale nel caso di bancarotta fraudolenta impropria, anche le condotte successive alla irreversibilità del dissesto, in quanto sia il richiamo alla rilevanza delle cause successive, espressamente contenuto nella norma predetta -che disciplina il legame eziologico tra il comportamento illecito e l’evento-, sia la circostanza per cui il fenomeno del dissesto non si esprime istantaneamente, ma con progressione e durata nel tempo, assegnano influenza ad ogni condotta che incida, aggravandolo, sullo stato di dissesto già maturato (Sez. 5, n. 16259 del 4 marzo 2010, Chini, Rv. 247254).
1.2.3 Del resto l’irrilevanza del dato testuale di cui sopra risulta confermata dalla giurisprudenza di questa corte che, anche in ordine al reato di cui alla L. Fall., art. 223, comma 2, n. 2, (che prevede l’ipotesi di fatti di causazione con dolo o per effetto di operazioni dolose del fallimento della società), ha affermato che la configurabilità di quel reato non è esclusa dal fatto che la condotta abbia determinato soltanto l’aggravamento di una situazione di dissesto già in atto (Sez. 5, n. 19806 del 28 marzo 2003, Negro ed altri, Rv. 224947).
1.2.4 La differente formulazione delle due norme (art. 223, comma 2, n. 1, nell’attuale formulazione dettata con D.Lgs. n. 61 del 2002, e L. Fall., art. 224) appare quindi verosimilmente ascrivibile alla loro redazione in tempi diversi, che può giustificare il mancato richiamo espresso in quella più recente all’aggravamento del dissesto, comunque sottinteso in base ai principi generali sul concorso di cause sopra richiamati.
1.3 Infondato è altresì il secondo motivo del ricorso dell’imputato e, di riflesso, il terzo nella parte in cui denuncia il difetto di motivazione sulla sussistenza in capo al C. dell’elemento psicologico della bancarotta impropria di Eurovie.
1.3.1 Non è in dubbio che, come sostenuto dalla dottrina più autorevole, i reati societari entrano nella tipologia della bancarotta impropria in forza del quid pluris rappresentato dalla loro influenza sulla causazione del dissesto della società, conservando però la loro fattispecie materiale e psicologica. L’espressione “fatti preveduti dagli articoli….” dispiegata dal legislatore nella L. Fall., art. 223, comma 2, n. 1, non può essere dunque intesa in senso restrittivo, con esclusivo riguardo all’elemento materiale. La scarsa impegnatività in tal senso del dato testuale è infatti agevolmente deducibile dal confronto con la rubrica dello stesso art. 223, intitolato “fatti di bancarotta fraudolenta”, che testimonia come il legislatore abbia evocato il termine “fatti” in senso lato e non vincolante per l’interprete.
1.3.2 Va dunque ribadito che il dolo della bancarotta impropria da false comunicazioni sociali, così come riconfigurata dal D.Lgs. n. 61 del 2002, vanta una struttura complessa. Esso innanzi tutto si alimenta delle componenti che concorrono a definire l’elemento soggettivo del reato societario presupposto e dunque, in tal senso, si atteggia come generico con riguardo al mendacio, come intenzionale in riferimento all’inganno dei destinatari della comunicazione sociale (risultando dunque incompatibile sul punto con letture in chiave di dolo eventuale) e come specifico rispetto al contenuto dell’offesa qualificata da ingiusto profitto (Sez. 5, n. 2784/11 del 24 novembre 2010, Piccolo e altri, Rv. 249258). Quanto poi all’evento che caratterizza la fattispecie nell’ambito dello statuto penale del fallimento esso presuppone, come già chiarito da questa Corte, una volontà protesa al dissesto, da intendersi non già quale intenzionalità di insolvenza, bensì quale consapevole rappresentazione della probabile diminuzione della garanzia dei creditori e del connesso squilibrio economico (Sez. 5, n. 23091 del 29 marzo 2012, P.G., Baraldi e altro, Rv. 252804).
1.3.3 La sentenza impugnata, nel riconoscere la responsabilità dell’imputato per l’aggravamento del dissesto conseguito al proseguimento dell’attività di Eurovie garantita dall’approvazione del bilancio del 1993, non si è discostata da questi principi, fornendo logica ed esauriente, seppur sintetica, motivazione delle ragioni per cui la condotta del C. deve ritenersi supportata dall’elemento soggettivo tipico del reato, completo in tutte le sue componenti come in precedenza descritte, argomentando non solo dal fatto che egli abbia effettivamente sottoscritto il suddetto bilancio nella sua qualità di componente del consiglio di amministrazione della fallita, ma altresì dalla pluralità e macroscopicità delle false appostazioni, nonchè dalla circostanza che molte di queste attenevano proprio la gestione degli appalti rientrante nella specifica sfera della sua competenza.
1.3.4 La linea argomentativa così sviluppata dai giudici torinesi risulta immune da qualsiasi caduta di consequenzialità logica, evidenziabile dal testo del provvedimento, mentre il tentativo del ricorrente di prospettare una diversa ricostruzione del fatto si risolve nella prospettazione di una lettura soggettivamente orientata del materiale probatorio alternativa a quella fatta motivatamente propria dal giudice di merito nel tentativo di sollecitare quello di legittimità ad una rivisitazione degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o all’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei medesimi, che invece gli sono precluse ai sensi della lett. e) dell’art. 606 c.p.p.. Quanto, infine, all’evocazione in sentenza dei principi dettati da questa Corte in materia di dolo del consigliere di amministrazione per fatti di bancarotta, la stessa è stata operata all’evidente fine di supportare l’affermazione – corretta come si è visto in precedenza – della mera prevedibilità dell’evento del reato.
1.4 Il quarto ed il quinto motivo del ricorso del C. colgono invece nel segno.
1.4.1 Con il gravame di merito, infatti, la difesa aveva confutato l’idoneità della delibera del Consiglio di Amministrazione di Piemonte Costrizioni a determinare l’acquisto del magazzino di Aeroservice, disposizione invero assunta, trattandosi di atto di straordinaria amministrazione, solo successivamente dall’assemblea dei soci, quando peraltro l’imputato aveva già abbandonato la società. Non di meno, anche ai fini dell’accertamento dell’elemento soggettivo, con l’atto d’appello lo stesso imputato aveva eccepito la falsità della firma del C. apposta in calce ad alcuni documenti in cui veniva precisata la sopravalutazione dei beni acquisiti.
1.4.2 La motivazione della sentenza, pur intercettando sommariamente le questioni proposte dalla difesa nella parte dedicata all’illustrazione del contenuto del gravame di merito, non dimostra di averne poi in alcun modo tenuto conto, nemmeno implicitamente, giacchè il discorso giustificativo si è concentrato esclusivamente sulla dimostrazione della natura oggettivamente distrattiva dell’operazione di acquisto del magazzino di Aeroservice, senza occuparsi della contestata rilevanza concorsuale della condotta effettivamente attribuita all’imputato. In proposito la Corte distrettuale avrebbe potuto eventualmente argomentare sulla rilevanza della delibera del consiglio di amministrazione quale ineludibile presupposto dell’atto di disposizione patrimoniale adottato dall’assemblea dei soci ovvero stabilire, laddove le emergenze processuali lo avessero consentito, che la composizione di quest’ultima riduceva ad una mera formalità il suo intervento o, ancora, contestare le premesse di fatto delle obiezioni difensive, ma averle invece semplicemente ignorate costituisce una evidente e insanabile lacuna dell’apparato motivazionale della sentenza, che, limitatamente al capo in trattazione, deve dunque essere annullata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Torino per nuovo esame.
2. I ricorsi del P. e del Pr., che possono essere trattati congiuntamente attesa l’identità delle doglianze proposte, sono infondati.
La Corte distrettuale ha infatti puntualmente motivato sulla sussistenza del dolo del reato attribuito ai due imputati, argomentando dal fatto che gli stessi ricoprissero non solo formalmente le cariche apicali della società e dall’entità e natura delle operazioni distrattive realizzate, nonchè evidenziando come non sia stato loro contestata l’omessa vigilanza sull’operato dell’eventuale amministratore di fatto della fallita, bensì la diretta deliberazione degli atti illeciti ancorchè eventualmente in concorso con quest’ultimo. In proposito le censure dei ricorrenti si limitano invece a riproporre proprio le argomentazioni confutate dai giudici dell’appello, le quali risultano peraltro meramente assertive e comunque non tengono irrimediabilmente conto dell’effettivo contenuto della motivazione della sentenza, talchè non rileva l’obiezione sul cattivo governo delle regole fissate da questa Corte sulle condizioni di imputazione soggettiva degli atti dell’amministratore di fatto a quello di diritto che abbia ricoperto solo formalmente tale carica.
3. Il ricorso del Ci., infine, risulta fondato nei limiti che di seguito verranno illustrati.
3.1 Invero inammissibili, in quanto generici, devono ritenersi i denunciati travisamenti elencati nel secondo e nel terzo motivo, in quanto le prove asseritamente trascurate o per l’appunto travisate sono solo sommariamente indicate dal ricorrente. Quanto poi alla eccepita legittimità dell’accollo da parte della fallita del debito assunto dalla controllante con Finparte s.r.l., la doglianza si rivela manifestamente infondata, atteso che la conferma condanna dell’imputato, per come si evince dal testo della sentenza, non ha riguardato il fatto dell’assunzione del debito, ma quello del suo pagamento preferenziale in prossimità del fallimento.
3.2 Coglie invece nel segno la doglianza, avanzata sempre con il terzo motivo, relativa al difetto di motivazione sulla effettiva sussistenza dei presupposti oggettivi e soggettivi per la configurabilità del reato di bancarotta preferenziale, profilo specificamente proposto con il gravame di merito e in alcun modo affrontato dalla sentenza impugnata.
3.3 In proposito va innanzi tutto ricordato che la fattispecie di cui alla L. Fall., art. 216, comma 3, si riferisce al fallito il quale esegue pagamenti o simula titoli di prelazione allo scopo di favorire, a danno di altri creditori, alcuni di essi.
3.3.1 Ai fini della sussistenza del reato occorre, quindi, la violazione della par condicio creditorum nella procedura fallimentare (espressione del principio inteso ad evitare disparità di trattamento che non trovino giustificazione nelle cause legittime di prelazione fatte salve dall’art. 2741 c.c.) e, in relazione all’elemento psicologico, il dolo specifico, costituito dalla volontà di recare un vantaggio al creditore soddisfatto, con l’accettazione della eventualità di un danno per gli altri.
3.3.2 L’offesa non consiste, dunque, nell’indebito depauperamento del patrimonio del debitore, ma nell’alterazione dell’ordine, stabilito dalla legge, di soddisfazione dei creditori. L’evento “giuridico” della “preferenziale” è, in altri termini, costituito dalla minore percentuale riservata ai creditori a causa degli avvenuti pagamenti o dal fatto che il creditore favorito dal titolo di prelazione simulato lo abbia fatto valere in sede di riparto dell’attivo fallimentare. La ragione dell’incriminazione va, pertanto, reperita sul piano della giustizia distributiva del sacrificio che avvince tutti i creditori di uno stesso debitore in stato d’insolvenza, il quale cioè versi in una situazione tale da giustificare la presunzione di incapienza del patrimonio e quindi di lesione dei diritti dei creditori.
3.3.3 In tal senso, pertanto, nel caso in cui il fallito provveda al pagamento di crediti privilegiati, la configurabilità del reato presuppone il concorso di altri crediti con privilegio di grado prevalente o eguale rimasti insoddisfatti per effetto dei pagamenti de quibus e non già di qualsiasi altro credito (Sez. 5, n. 7230 del 28 maggio 1991, Martelli, Rv. 187698). Ed in senso analogo deve escludersi la sussistenza del reato in caso di pagamento di un credito garantito da pegno, ipoteca, anticresi o privilegio speciale, sempre che il bene oggetto della garanzia abbia un valore pari o superiore all’ammontare del credito ovvero in caso di pagamento di un credito con beni che, ai sensi della L. Fall., art. 46, non sono destinati al soddisfacimento della massa dei creditori o di pagamento di un credito chirografario pro quota nei limiti di una percentuale garantita anche agli altri crediti o ancora in caso di pagamento effettuato da un terzo con mezzi propri. A maggior ragione, infine, deve escludersi la configurabilità del reato qualora la massa passiva venga pagata integralmente, prescindendosi dall’eventuale integrazione conseguente alla revoca dell’avvenuto pagamento supposto come “preferenziale”.
3.4 Con il gravame di merito l’imputato, richiamandosi ai suddetti principi, aveva contestato che il pagamento del credito vantato da Finparte s.r.l. potesse essere considerato preferenziale, essendo tale credito assistito da privilegio e comunque rivendicando la sufficiente capienza del patrimonio della fallita a soddisfare anche le altre pretese creditorie. Era dunque compito della Corte distrettuale confutare tali specifiche doglianze, anche solo per escluderne la fondatezza. Cosa che, come già accennato, non è invero avvenuta, atteso che la motivazione della sentenza impugnata, nemmeno implicitamente, affronta la questione evidenziando in tal senso una indubbia e insanabile lacuna cui deve conseguire il suo annullamento, il quale, alla luce della già dichiarata estinzione del reato, deve essere disposto con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello per nuovo esame.
L’accoglimento in parte qua del terzo motivo di ricorso determina poi l’assorbimento delle ulteriori censure proposte con il primo in merito alla liquidazione delle spese sostenute nel giudizio d’appello dalla parte civile.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente al capo 13) dell’imputazione contestato a C.J. con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Torino per nuovo esame. Rigetta nel resto il ricorso del C.. Annulla sentenza impugnata in relazione alla posizione di Ci.A. con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello per nuovo esame. Rigetta i ricorsi di Co.Da., P.P. e Pr.Wa. e condanna gli stessi singolarmente al pagamento delle spese del procedimento.
Così deciso in Roma, il 12 marzo 2014.
Depositato in Cancelleria il 8 aprile 2014
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE V PENALE
Sentenza 3 aprile – 23 settembre 2014, n. 38728
(Presidente Ferrua – Relatore Fumo)
Ritenuto in fatto
1. Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte d’appello di Lecce confermava la sentenza del 18 dicembre 2009 con la quale il Tribunale di quella stessa città aveva dichiarato R.A. – nella qualità di amministratore, prima formale e, poi, di fatto, della società fallita “Panorama S.r.l.” – colpevole del reato di cui all’art. 223, comma 2, n. 2, legge fall., e, concesse attenuanti generiche, l’aveva condannato alla pena condizionalmente sospesa di anni due di reclusione, oltre conseguenziali statuizioni. 2. Avverso l’anzidetta pronuncia l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, lamentando violazione dell’art. 606 lett. b) c) ed e) in relazione agli artt. 125, 127, 191, 197 e 192 cod. proc. pen. Si duole, al riguardo, dell’assoluto difetto di motivazione e dell’erronea valutazione delle risultanze processuali. Sostiene, inoltre, la mancanza dei presupposti della contestata fattispecie delittuosa e del rapporto di causalità. Con la memoria in epigrafe indicata, l’avv. Valentini ha proposto motivi nuovi, con i quali ha eccepito violazione dell’art. 606, lett. b) ed e) cod. proc. pen. in relazione all’art. 223, comma 2, n. 2 legge fall., ribadendo la mancanza degli elementi costitutivi della stessa fattispecie delittuosa.
Considerato in diritto
1. Le censure del ricorrente sono destituite di fondamento. Ed invero, la sentenza impugnata non può, di certo, ritenersi priva di compiuta motivazione a sostegno del ribadito giudizio di colpevolezza a carico dell’imputato. Non può neppure dirsi che la stessa sia affetta da errori di diritto o da distorta valutazione delle risultanze di causa. È, invece, ineccepibile il percorso giustificativo che ha portato all’individuazione, nella fattispecie in esame, dei presupposti necessari ai fini della relativa riconducibilità al paradigma del reato di cui all’art. 223, comma 2, sub specie dell’aver cagionato il fallimento della società “per effetto di operazioni dolose“. Le premesse metodologiche di tale sviluppo argomentativo sono del tutto corrette, posto che il giudice di appello ha preso le mosse da ineccepibile puntualizzazione in diritto degli elementi strutturali e soggettivi dell’ipotesi di reato in questione, sulla base di indiscussa lezione giurisprudenziale di questa Corte di legittimità; per poi condividere la corretta sussumibilità della fattispecie concreta nell’alveo dell’ipotizzata norma incriminatrice. Così è del tutto corretto il richiamo alla nozione di “operazioni dolose”; tratteggiata dalla giurisprudenza di legittimità, in termini di ampia accezione, che prescinde da qualsivoglia riferimento a fatti costituenti reato o comunque illeciti, in chiave civilistica, per ricomprendere in essa qualsiasi comportamento del soggetto agente (tra quelli espressamente indicati dallo stesso art. 223 l.f.), che, concretandosi in un abuso od in un’infedeltà delle funzioni e nella violazione dei doveri derivanti dalla relativa qualità, cagioni lo stato di decozione della società, con pregiudizio della stessa, dei soci, dei creditori e di terzi interessati. Alla corretta individuazione della componente obiettiva, ha fatto poi riscontro l’esatta focalizzazione del requisito soggettivo, consistente nella volontà diretta non già al fallimento (a differenza della diversa ipotesi, prevista dalla stessa norma, della causazione dolosa del fallimento), bensì alla stessa “operazione” dalla quale poi consegua, sul piano della mera causalità materiale, il dissesto fallimentare, che si ponga, dunque, come conseguenza prevedibile e persino accettata nel rischio del suo verificarsi. All’indubbia giustezza di siffatte affermazioni, possono solo aggiungersi i seguenti rilievi. Nel ribadire l’accezione lata della locuzione “operazioni dolose” va precisato che a differenza delle ipotesi generali di bancarotta fraudolenta patrimoniale c.d. impropria, nella specifica fattispecie in esame la nozione di “operazioni” postula una modalità di pregiudizio patrimoniale discendente non già, direttamente, dall’azione dannosa del soggetto attivo (distrazione, dissipazione, occultamento, distruzione), bensì da un fatto di maggiore complessità strutturale riscontrabile in qualsiasi iniziativa societaria implicante un procedimento o, comunque, una pluralità di atti coordinati all’esito divisato (così Sez. 5, n. 17690 del 18/02/2010, Rv. 247314). Non è, del resto, revocabile in dubbio che, in mancanza di puntualizzazione normativa del relativo concetto, l’individuazione dell’essenza precipua della norma incriminatrice vada effettuata per esclusione rispetto ad altre ipotesi incriminatrici meglio definite o di più immediata percezione. Così rispetto all’analoga, diversa, fattispecie prevista nello stesso capoverso dell’art. 223, al n. 2, ossia la causazione volontaria del fallimento, balza evidente che alla sostanziale identità, o possibile sovrapponibilità sul piano oggettivo, fa riscontro una netta divaricazione della componente soggettiva. Infatti, in tema di fallimento determinato da operazioni dolose, configurabile come eccezionale ipotesi di fattispecie a sfondo preterintenzionale, l’elemento soggettivo risiede nella mera dimostrazione della consapevolezza e volontà della natura “dolosa” dell’operazione alla quale segue il dissesto, nonché dell’astratta prevedibilità di tale evento quale effetto dell’azione antidoverosa, non essendo necessarie, ai fini dell’integrazione dell’elemento soggettivo, la rappresentazione e la volontà dell’evento fallimentare. Deve, infatti, reputarsi sufficiente, per la configurabilità del reato in questione la rappresentazione dell’azione nei suoi elementi naturalistici e nel suo contrasto con i doveri propri del soggetto societario a fronte degli interessi della società (Sez. 5, n. 17690 del 18.2.2010, rv. 247315). 2. Così delineata la corretta cornice giuridica di riferimento, non v’è dubbio che l’inquadramento in essa della concreta fattispecie non appare né erroneo né implausibile. Ed infatti, con insindacabile apprezzamento di merito, tale in quanto congruamente motivato, il giudice di appello ha ritenuto che l’accensione di un ingente mutuo, al fine dichiarato del consolidamento di posizione debitoria nei confronti di due istituti di credito, che, singolarmente, prestavano onerose fideiussioni bancarie a garanzia dello stesso finanziamento; il pagamento delle sole due prime rate del piano di ammortamento, nonostante la società avesse liquidità per farvi fronte; la custodia, assolutamente imprudente ed irragionevole di tali liquidità non già in banca, bensì nella cassaforte della sede sociale ed il successivo furto delle stesse ad opera di ignoti, sono state ritenute integranti la nozione di operazioni dolose, caratterizzate da abusività degli elementari doveri inerenti alla qualità di amministratore. Con apprezzamento, parimenti, insindacabile è stato ritenuto che tali dolose condotte abbiano causato il dissesto della società, le cui condizioni economiche, peraltro, erano tutt’altro che floride, avendo presentato, nelle ultime annualità, bilanci sempre in perdita. In piena coerenza con quanto in precedenza affermato, in ordine all’irrilevanza delle illiceità delle dette condotte sotto il profilo civilistico, è stato correttamente ritenuto irrilevante l’esito positivo del giudizio civile di responsabilità a carico dell’odierno ricorrente, posto che la prospettiva penalistica risponde a logiche diverse, nei termini sopra puntualizzati. 3. Per quanto precede, il ricorso – globalmente considerato – deve essere rigettato, con le consequenziali statuizioni dettate in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna ricorrente al pagamento delle spese processuali.
lesioni parto AVVOCATO ESPERTO BOLOGNA RAVENNA FORLI CESENA
Ancora oggi si verificano danni al nascituro nel parto , danni che a volte sono assai gravi e portano a forti Handicap nel neonato.
ERRORI MEDICI ALLA BASE DEI DANNI CEREBRALI AL NEONATO DURANTE IL PARTO
I tipi più comuni di errore medico nel parto includono:
Errore nell’identificare e nel trattare la sofferenza fetale e nel trattamento in caso di risultati del monitor fetale poco rassicuranti Errore ne diagnosticare od interrompere il parto prematuro Errori di somministrazione di farmaci Uso non corretto di strumenti durante il parto (forcipe e ventosa ostetrica) Errori nell’identificare e gestire fattori di rischio come la macrosomia (grandi dimensioni del feto) Errore nel diagnosticare e trattare problemi precedenti al parto come la placenta previa e le infezioni materne. Errore nel diagnosticare problemi relativi al cordone ombelicale Ritardo nell’effettuare il taglio cesareo, quando tale procedura sia necessaria per evitare lesioni del bambino.
“Danni al nascituro” si riferisce ai danni che possono essere causati al feto durante la gravidanza. Questi danni possono derivare da diversi fattori, tra cui esposizione a sostanze tossiche, infezioni, malattie materne, traumi fisici o stress estremo. I “danni al nascituro” possono portare a complicazioni come malformazioni congenite, ritardo della crescita fetale, problemi neurologici o morte intrauterina.
Se il danno è provocato da terzi o da negligenza (come ad esempio in caso di esposizione a sostanze chimiche pericolose o in seguito a un incidente), esistono implicazioni legali, e i genitori potrebbero avere diritto a richiedere un risarcimento.
Il termine “parto” indica il processo di nascita del bambino. In un contesto legale, “danni al nascituro” possono essere discussi in relazione a responsabilità legali che riguardano la salute del feto durante la gravidanza e al momento del parto.
Hai una domanda specifica su questo argomento?
danno parto morte
Il “danno da parto con morte” si riferisce a situazioni in cui si verificano lesioni gravi o la morte del nascituro (o del neonato) durante il processo di parto. Questi eventi possono essere causati da complicazioni mediche, errori del personale sanitario o altre circostanze impreviste. Le cause principali possono includere:
Complicazioni mediche: sofferenza fetale, distocia (difficoltà nel parto), problemi con il cordone ombelicale, travaglio prolungato, o anomalie della placenta.
Errori medici: mancata diagnosi o trattamento tempestivo di condizioni critiche (come la preeclampsia), uso improprio di strumenti medici (ad esempio, forcipe o ventosa), o mancanza di monitoraggio adeguato del benessere del feto durante il travaglio.
Emergenze ostetriche: rottura uterina, distacco della placenta, o emorragia massiva.
In caso di morte durante il parto, si può parlare di morte perinatale, che comprende la morte fetale dopo 28 settimane di gravidanza (morte endouterina) o la morte del neonato nei primi 7 giorni di vita.
Implicazioni legali
Se la morte o il danno sono stati causati da negligenza medica o errori da parte del personale sanitario, i genitori possono intraprendere un’azione legale per ottenere un risarcimento. Le richieste di risarcimento possono basarsi su:
Mancato rispetto degli standard di cura medica: se i medici o il personale ospedaliero non hanno agito secondo gli standard professionali.
Danno morale: il dolore e la sofferenza psicologica dei genitori.
Danno economico: eventuali costi per cure mediche e altri danni materiali.
Se desideri approfondire un caso specifico o avere maggiori dettagli su una particolare situazione legale, posso fornirti ulteriori informazioni.
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ESAMINIAMO UN CASO DI GIUDIZIO PENALE SU ERRORE MEDICO PER GRAVISSIME LESIONI DURANTE IL PARTO
Con sentenza del 18/10/2012 la Corte d’Appello di Catania, in riforma della sentenza di primo grado, assolveva, per insussistenza del fatto, S.A. dal delitto p. e p. dagli artt. 590, commi 1 e 2, e 583, comma 2 n. 1, cod. pen., a lui ascritto per aver cagionato, per colpa medica consistita nella esecuzione di inappropriata manovra (c.d. manovra di Kristeller) sulla paziente C.F. durante il parto, il distacco intempestivo della placenta e le conseguenti gravissime lesioni riportate dal bambino: fatto avvenuto in (omissis) .
Premetteva la Corte doversi dare per acquisito, sulla scorta dell’istruttoria espletata nel giudizio di primo grado, che:
le lesioni gravissime riportate dal bambino sono state direttamente causate da un distacco intempestivo di placenta;
l’imputato ha effettivamente eseguito durante il parto la manovra suddetta, ha cioè esercitato una o più spinte sull’addome della partoriente con la mano prima e poi con il braccio sebbene non risultasse che la testa del bambino avesse già impegnato il canale del parto, e dunque in un momento in cui quella manovra non era consigliabile;
la partoriente non presentava alcuno dei fattori di rischio individuati dalla letteratura medica come possibile causa, in alternativa ad eventi di natura traumatica, del distacco di placenta.
Ciò premesso i giudici d’appello osservavano tuttavia che tale ultima circostanza “determina che la probabilità che si verifichi un distacco intempestivo di placenta si attesta intorno allo 0,5%” e che pertanto “non potendo stabilirsi con un grado di certezza ma soltanto con un elevato grado di probabilità logica che, in difetto di esercizio della pressione sull’addome della partoriente da parte dell’imputato, il distacco di placenta non si sarebbe verificato, non può affermarsi al di là di ogni ragionevole dubbio la responsabilità penale dell’imputato per il reato oggetto di contestazione”.
Pervenivano pertanto alla pronuncia assolutoria per la ritenuta mancanza di prova certa di un nesso di causalità tra la condotta dell’imputato e le lesioni personali gravissime riportate dal bambino.
le lesioni gravissime riportate dal bambino sono state direttamente causate da un distacco intempestivo di placenta;
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l’imputato ha effettivamente eseguito durante il parto la manovra suddetta, ha cioè esercitato una o più spinte sull’addome della partoriente con la mano prima e poi con il braccio sebbene non risultasse che la testa del bambino avesse già impegnato il canale del parto, e dunque in
Emerge evidente dai passaggi della motivazione sopra riportati l’errore concettuale in cui incorre la corte di merito e la conseguente contraddizione in termini rappresentata dall’esclusione del nesso causale che in realtà proprio in forza degli elementi fattuali dati per certi nella stessa sentenza e dell’elevata probabilità logica assegnata al ragionamento che da essi per via induttiva consentiva di risalire alla spiegazione causale ipotizzata risultava già implicitamente accertato.
È la stessa Corte d’Appello invero a evidenziare, peraltro del tutto correttamente alla stregua delle emergenze processuali di cui si da conto in motivazione, che i fatti accertati consentono di stabilire “con un elevato grado di probabilità logica” che “in difetto di esercizio della pressione sull’addome della partoriente da parte dell’imputato, il distacco di placenta non si sarebbe verificato”.
Ebbene la Corte non si è avveduta che proprio tale rilievo in sé implica l’accertamento del nesso causale tra condotta ed evento richiesto, ai sensi dell’art. 40 cod. pen., per l’affermazione della penale responsabilità dell’imputato, di tal che la successiva considerazione contenuta in sentenza secondo cui, su tali premesse, a tale affermazione non è possibile pervenire (nella pur certa sussistenza dell’elemento soggettivo: colpa medica ravvisabile nella esecuzione della descritta manovra in mancanza delle condizioni che soltanto l’avrebbero consentita), rappresenta nient’altro che una contraddizione in termini.
In proposito, è il caso di rammentare che, secondo i principi affermati nella sentenza Franzese (Sez. U, n. 30328 del 10/07/2002, Rv. 222138), al fine di stabilire la sussistenza del nesso di causalità, occorre un duplice controllo:
posta in premessa una spiegazione causale dell’evento sulla base di una legge statistica o universale di copertura sufficientemente valida e astrattamente applicabile al caso concreto, occorre successivamente verificare, attraverso un giudizio di alta probabilità logica, l’attendibilità, in concreto, della spiegazione causale così ipotizzata. Bisogna cioè verificare sulla base delle evidenze processuali che, ipotizzandosi come avvenuta l’azione doverosa omessa o al contrario non compiuta la condotta commissiva assunta a causa dell’evento, esclusa l’interferenza di decorsi causali alternativi, l’evento, con elevato grado di credibilità razionale, non si sarebbe verificato, oppure sarebbe avvenuto molto dopo, o avrebbe comunque avuto minore intensità lesiva.
Appare chiaro pertanto che il giudizio di elevata probabilità logica non definisce il nesso causale in sé e per sé (che, sul piano sostanziale, resta invero legato alla rigorosa nozione dettata dalla teoria condizionalistica recepita nel nostro ordinamento dall’art. 40 cod. pen., sia pur temperata dai correttivi della c.d. causalità umana) ma piuttosto il criterio con il quale procedere all’accertamento probatorio di tale nesso causale, il quale (criterio), non diversamente da quanto accade per l’accertamento di ogni altro elemento costitutivo del reato, deve consentire di fondare, all’esito di un completo e attento vaglio critico di tutti gli elementi disponibili, un convincimento sul punto (positivo o negativo che sia) dotato di un elevato grado di credibilità razionale.
Per dirla secondo efficace definizione dottrinale “la probabilità logica alla quale è interessato il giudice non è quella del sapere nomologico utilizzato per la spiegazione del caso, bensì attiene ai profili inferenziali della verifica probatoria condotta in chiave induttiva, cioè alla luce delle emergenze del caso concreto”.
Per converso, e in ciò sta probabilmente l’equivoco in cui è incorsa la corte territoriale, ai fini della prova giudiziaria della causalità, decisivo non è il coefficiente percentuale più o meno elevato (vicino a 100 o a 90 o a 50, etc.) di probabilità frequentistica desumibile dalla legge di copertura utilizzata; ciò che conta è potere ragionevolmente confidare nel fatto che la legge statistica in questione trovi applicazione anche nel caso concreto oggetto di giudizio, stante l’alta probabilità logica che siano da escludere fattori causali alternativi, di tal che, in presenza di un elevato grado di credibilità razionale dell’ipotesi privilegiata, ben può ritenersi consentito per la spiegazione causale dell’evento fare impiego di leggi o criteri probabilistico statistici con coefficienti percentuali anche medio bassi; per contro, ove la valutazione degli elementi di prova acquisiti non consentano di assegnare ad es. per l’impossibilità di escludere ragionevolmente nel caso concreto l’intervento di fattori causali diversi un elevato grado di ‘ credibilità razionale alla spiegazione causale ipotizzata, quest’ultima non può essere affermata anche se riconducibile a leggi di copertura dotate di frequenza statistica tendenzialmente pari a 100.
L’errore della corte territoriale sta dunque nell’aver presupposto che il criterio di elevata probabilità logica, nel quale si sostanza il ragionamento induttivo inferenziale circa la sussistenza del nesso causale (e l’esclusione di altri ipotizzagli fattori) possa o debba esprimersi in termini percentuali e, correlativamente, l’aver riferito ad esso, intendendolo come fattore che osta alla credibilità razionale del risultato cui esso conduce, la percentuale di frequenza statistica assegnata ad altri fattori in astratto ipotizzabili (nel caso concreto la percentuale dello 0,5% che, in mancanza di alcuno dei fattori di rischio individuati dalla letteratura come possibile causa del distacco di placenta, quest’ultimo possa nondimeno verificarsi per cause naturali).
Ed invece, come è stato affermato in dottrina, la probabilità logica “ha come carattere fondamentale (quello) di non ricercare la determinazione quantitativa delle frequenze relative di classi di eventi, ma di razionalizzare l’incertezza relativa all’ipotesi su un fatto riconducendone il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma (o di prova) disponibili in relazione a quell’ipotesi”.
La probabilità logica, dunque, come criterio di giudizio per la ricostruzione del fatto nel caso concreto, è un concetto che non designa una frequenza statistica, ma piuttosto “un rapporto di conferma tra un’ipotesi e gli elementi che ne fondano l’attendibilità”.
Né può essere diversamente, posto che come è stato sottolineato mentre le leggi di copertura riguardano classi di dati, la certezza processuale richiesta si riferisce al caso concreto. Mentre dunque è spesso possibile disporre di un risultato statistico per la legge di copertura che si ritiene governare il fenomeno, è quasi sempre impossibile riferire questo dato al caso concreto da accertare perché la sua non riproducibilità ne fa un evento unico che non tollera inquadramenti statistici su base percentuale.
Insomma le percentuali statistiche possono valere a delimitare l’ambito di applicazione della legge scientifica e possono essere utili come punto di partenza per quanto riguarda l’applicazione della legge al caso concreto.
Avendo peraltro esse un’efficacia esclusivamente prognostica, porle a base o a contenuto del ragionamento probatorio circa la sussistenza del nesso causale nel caso concreto rischia di trasformare tale giudizio in una valutazione ex ante, mentre la causalità va sempre accertata ex post con riferimento all’evento concretamente verificatosi.
Con riferimento invece al grado di inferenza probatoria richiesto a supporto del giudizio di fatto sulla spiegazione causale nel caso concreto “non è sensato cristallizzare in precise entità numeriche la probabilità esigibile: la valutazione va piuttosto fatta caso per caso, tenendo conto di tutte le circostanze concrete ed in particolare… considerando il numero e la consistenza delle assunzioni tacite contenute nelle premesse del ragionamento causale”.
Su tale piano probatorio processuale “può solo richiedersi che il grado di conferma sia alto, o elevato”, senza che in ciò possa vedersi un vulnus del principio di legalità, “dovendo la stessa determinatezza delle fattispecie essere interpretata in rapporto al problema concreto da risolvere”.
Del resto, non è fuor di luogo rammentare che non ad altro può tendere un giudizio di verità o certezza processuale, restando invece fuori delle possibilità dell’esperienza umana che è pur sempre una esperienza storica e relativa l’obiettivo della certezza assoluta o verità materiale.
In proposito avvertiva oltre cinquant’anni fa autorevole dottrina che “la pretesa di conseguire una verità totale o assoluta… è fuori delle reali e concrete possibilità umane e può essere concepita o come realtà divina, oppure come estremo limite tendenziale, astratta creazione dell’intelletto o simbolo operativo (come l’infinito matematico). La verità alla quale l’uomo può aspirare e della quale vive, come verità umana, appunto, è di necessità parziale e (o) relativa, concretamente (storicamente) condizionata ed implica limitazioni e scelte, compiute più o meno coscientemente.
E dentro tale limite si mantiene sia che si tratti di verità scientifica, empirica o storica”. Conseguentemente “nel campo dell’esperienza giuridica… non ha senso una verità che stia fuori dalle istituzioni giuridiche che la storia umana ha foggiate, e se codesta verità si qualifica giuridica, per essere collegata al tipo di esperienza a cui va riferita, non vuoi dire che si tratti di una (finta) verità, rispetto ad una (astratta) verità (vera), bensì dell’unica verità che si può (e si deve) aspirare a realizzare in quel campo di esperienza. Sulla base di queste considerazioni, è lecito affermare che i limiti posti all’indagine del giudice si traducono in metodi di ricerca (della verità), in altrettanti canoni e precetti tecnici di metodologia ermeneutica…”.
Alla luce delle considerazioni che precedono appare pertanto evidente come nella specie null’altro o nulla di più poteva pretendersi, per giungere alla conferma, con elevato grado di credibilità razionale, dell’ipotesi causale prospettata nel capo d’imputazione, se non proprio quel giudizio di elevata probabilità logica che la Corte d’appello ha chiaramente espresso e che pertanto di per sé ben poteva portare, a conferma peraltro della sentenza di primo grado, all’affermazione della responsabilità penale dell’imputato.
Né può dubitarsi che tale giudizio di elevato grado di probabilità logica non sia correttamente e coerentemente formato sulla base delle evidenze probatorie che la stessa Corte d’appello pur non manca di evidenziare, quale in particolare:
a) l’accertata genesi ipossica della encefalopatia neonatale che ha colpito il piccolo nato nelle condizioni descritte;
b) l’accertata errata adozione di manovra ostetrica (manovra di Kristeller) in condizioni che non la consentivano, nel senso appunto di renderla estremamente pericolosa per il bambino (in ciò come detto dovendosi ravvisare in dubbio profilo di colpa medica consistita nella grave inosservanza di protocollo medico);
c) l’accertata mancanza di altri ipotizzabili fattori causali, associati alla gravidanza o al parto.
In tale contesto, essendo l’unico antecedente accertato dell’evento dannoso l’esecuzione della detta errata manovra ostetrica, in presenza di una legge di copertura che certamente la indica come idonea a cagionare l’evento in forza di una elevata probabilità statistica, una volta accertata la mancanza nel caso concreto di altri fattori causali noti nella letteratura e ragionevolmente ipotizzabili, congruo e logicamente persuasivo (ossia, per l’appunto, dotato di elevata probabilità logica) è il ragionamento che coordinando tali evidenze e rapportandole alla detta legge di copertura conduce al risultato dell’affermazione (della prova) della responsabilità penale dell’imputato: risultato al quale dunque si addice in tali condizioni il giudizio di elevato grado di credibilità razionale.
Il fatto che la letteratura scientifica dia conto dell’esistenza di una percentuale dello 0,5% di casi in cui il
distacco di placenta si riscontri per cause naturali non meglio precisate, distinte dei fattori associati prima indicati (ed esclusi nel caso concreto), non assume rilievo sul piano del ragionamento probatorio e, dunque, della elevata probabilità logica (la quale resterebbe tale anche se mancasse tale dato statistico), ma semmai sul piano della valutazione della validità scientifica della legge indicata a copertura della ipotizzata spiegazione causale.
Appare evidente tuttavia che trattasi di un dato pressoché insignificante e certamente inidoneo a revocare in dubbio la teoria scientifica della spiegazione causale ipotizzata nella specie: ossia quella secondo cui l’evento dannoso sia da ricondurre causalmente alla errata manovra ostetrica, tanto più che non viene nemmeno precisato se il dato statistico (dello 0,5%) riferito a cause non meglio precisate si riferisca anche ad ipotesi in cui risultava eseguita la detta manovra ostetrica.
Fuori luogo è al riguardo il richiamo al principio dell’oltre il ragionevole dubbio.
Questo infatti segna il limite del ragionamento probatorio, non il requisito di validità della legge scientifica di copertura. Rappresenta nient’altro che, a contrario, la verifica del grado di probabilità logica attribuibile al ragionamento inferenziale con cui il giudice ricollega, sulla base delle prove raccolte, il fatto concreto alla ipotizzata spiegazione causale.
Ed invero, intanto tale ragionamento può ritenersi dotato di elevato grado di probabilità logica ed in grado pertanto di supportare il convincimento della sussistenza del nesso causale con “elevato grado di credibilità razionale”, in quanto non permanga un “dubbio ragionevole” (ossia, non meramente congetturale) che l’evento possa essere stato determinato da una causa diversa.
Invocare pertanto il principio dell’oltre il ragionevole dubbio per determinare la validità della legge di copertura, significa confondere il piano processuale con quello sostanziale.
Né ad una diversa conclusione sul punto può indurre la modifica introdotta dall’art. 5 della legge 6 febbraio 2006, n. 46, mediante la sostituzione del comma 1 dell’art. 533 del codice di procedura penale con la disposizione secondo cui “il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato al di là di ogni ragionevole dubbio”.
Secondo l’opinione prevalente in giurisprudenza, tale novella non ha avuto sul punto un reale contenuto innovativo, non avendo introdotto un diverso e più restrittivo criterio di valutazione della prova, essendosi invece limitata a codificare un principio già desumibile dal sistema, in forza del quale il giudice può pronunciare sentenza di condanna solo quando non ha ragionevoli dubbi sulla responsabilità dell’imputato.
La novella, dunque, non avrebbe inciso sulla funzione di controllo del giudice di legittimità che rimarrebbe limitata alla struttura del discorso giustificativo del provvedimento, con l’impossibilità di procedere alla rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della sentenza e dunque di adottare autonomamente nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (v., in tal senso, tra le ultime pronunce, Sez. 5, n. 10411 del 28/01/2013, Viola, Rv. 254579, la quale ha precisato, in senso evidentemente conforme all’impostazione sopra accolta, che tale regola di giudizio impone al giudice di giungere alla condanna solo se è possibile escludere ipotesi alternative dotate di razionalità e plausibilità; cfr. anche in tal senso Sez. 1, n. 41110 del 24/10/2011, Javad, Rv. 251507).
NALEIn accoglimento del ricorso, deve pertanto pervenirsi all’annullamento della sentenza impugnata.
Trattandosi tuttavia di ricorso della sola parte civile e quindi di controversia di natura esclusivamente risarcitoria, si impone il rinvio degli atti al competente giudice civile, ai sensi dell’art. 622 cod. proc. pe
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE IV PENALE
Sentenza 12-27 febbraio 2014, n. 9695
(Presidente Brusco – Relatore Iannello)
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 18/10/2012 la Corte d’Appello di Catania, in riforma della sentenza di primo grado, assolveva, per insussistenza del fatto, S.A. dal delitto p. e p. dagli artt. 590, commi 1 e 2, e 583, comma 2 n. 1, cod. pen., a lui ascritto per aver cagionato, per colpa medica consistita nella esecuzione di inappropriata manovra (c.d. manovra di Kristeller) sulla paziente C.F. durante il parto, il distacco intempestivo della placenta e le conseguenti gravissime lesioni riportate dal bambino: fatto avvenuto in (omissis) .
Premetteva la Corte doversi dare per acquisito, sulla scorta dell’istruttoria espletata nel giudizio di primo grado, che:
le lesioni gravissime riportate dal bambino sono state direttamente causate da un distacco intempestivo di placenta;
l’imputato ha effettivamente eseguito durante il parto la manovra suddetta, ha cioè esercitato una o più spinte sull’addome della partoriente con la mano prima e poi con il braccio sebbene non risultasse che la testa del bambino avesse già impegnato il canale del parto, e dunque in un momento in cui quella manovra non era consigliabile;
la partoriente non presentava alcuno dei fattori di rischio individuati dalla letteratura medica come possibile causa, in alternativa ad eventi di natura traumatica, del distacco di placenta.
Ciò premesso i giudici d’appello osservavano tuttavia che tale ultima circostanza “determina che la probabilità che si verifichi un distacco intempestivo di placenta si attesta intorno allo 0,5%” e che pertanto “non potendo stabilirsi con un grado di certezza ma soltanto con un elevato grado di probabilità logica che, in difetto di esercizio della pressione sull’addome della partoriente da parte dell’imputato, il distacco di placenta non si sarebbe verificato, non può affermarsi al di là di ogni ragionevole dubbio la responsabilità penale dell’imputato per il reato oggetto di contestazione”.
Pervenivano pertanto alla pronuncia assolutoria per la ritenuta mancanza di prova certa di un nesso di causalità tra la condotta dell’imputato e le lesioni personali gravissime riportate dal bambino.
2. Avverso tale sentenza propongono ricorso per cassazione le parti civili, deducendo violazione di legge e mancanza e contraddittorietà della motivazione.
Deducono in sintesi che, con motivazione erronea e contraddittoria, la Corte d’Appello, pur avendo dato atto della mancanza nel caso concreto di ipotizzabili fattori causali alternativi associati al parto (quali ipertensione in gravidanza, pluriparità, pregresso parto cesareo, rottura prematura della membrana, trombofilia congenita o acquisita, etc.), ha omesso di individuare la condotta dell’imputato (ossia la pur accertata esecuzione di manovra di Kristeller) quale unico possibile antecedente causale dell’evento lesivo.
Rilevano che, a giustificazione del proprio convincimento sul punto, i giudici hanno fatto uso di una erronea nozione di nesso causale, contrastante con quella ormai acquisita in dottrina e giurisprudenza, in particolare a seguito della sentenza Franzese delle Sezioni Unite del 2002.
Considerato in diritto
3. Il ricorso si appalesa fondato e merita accoglimento nei sensi di cui in dispositivo.
Emerge evidente dai passaggi della motivazione sopra riportati l’errore concettuale in cui incorre la corte di merito e la conseguente contraddizione in termini rappresentata dall’esclusione del nesso causale che in realtà proprio in forza degli elementi fattuali dati per certi nella stessa sentenza e dell’elevata probabilità logica assegnata al ragionamento che da essi per via induttiva consentiva di risalire alla spiegazione causale ipotizzata risultava già implicitamente accertato.
È la stessa Corte d’Appello invero a evidenziare, peraltro del tutto correttamente alla stregua delle emergenze processuali di cui si da conto in motivazione, che i fatti accertati consentono di stabilire “con un elevato grado di probabilità logica” che “in difetto di esercizio della pressione sull’addome della partoriente da parte dell’imputato, il distacco di placenta non si sarebbe verificato”.
Ebbene la Corte non si è avveduta che proprio tale rilievo in sé implica l’accertamento del nesso causale tra condotta ed evento richiesto, ai sensi dell’art. 40 cod. pen., per l’affermazione della penale responsabilità dell’imputato, di tal che la successiva considerazione contenuta in sentenza secondo cui, su tali premesse, a tale affermazione non è possibile pervenire (nella pur certa sussistenza dell’elemento soggettivo: colpa medica ravvisabile nella esecuzione della descritta manovra in mancanza delle condizioni che soltanto l’avrebbero consentita), rappresenta nient’altro che una contraddizione in termini.
3.1. In proposito, è il caso di rammentare che, secondo i principi affermati nella sentenza Franzese (Sez. U, n. 30328 del 10/07/2002, Rv. 222138), al fine di stabilire la sussistenza del nesso di causalità, occorre un duplice controllo:
posta in premessa una spiegazione causale dell’evento sulla base di una legge statistica o universale di copertura sufficientemente valida e astrattamente applicabile al caso concreto, occorre successivamente verificare, attraverso un giudizio di alta probabilità logica, l’attendibilità, in concreto, della spiegazione causale così ipotizzata. Bisogna cioè verificare sulla base delle evidenze processuali che, ipotizzandosi come avvenuta l’azione doverosa omessa o al contrario non compiuta la condotta commissiva assunta a causa dell’evento, esclusa l’interferenza di decorsi causali alternativi, l’evento, con elevato grado di credibilità razionale, non si sarebbe verificato, oppure sarebbe avvenuto molto dopo, o avrebbe comunque avuto minore intensità lesiva.
Appare chiaro pertanto che il giudizio di elevata probabilità logica non definisce il nesso causale in sé e per sé (che, sul piano sostanziale, resta invero legato alla rigorosa nozione dettata dalla teoria condizionalistica recepita nel nostro ordinamento dall’art. 40 cod. pen., sia pur temperata dai correttivi della c.d. causalità umana) ma piuttosto il criterio con il quale procedere all’accertamento probatorio di tale nesso causale, il quale (criterio), non diversamente da quanto accade per l’accertamento di ogni altro elemento costitutivo del reato, deve consentire di fondare, all’esito di un completo e attento vaglio critico di tutti gli elementi disponibili, un convincimento sul punto (positivo o negativo che sia) dotato di un elevato grado di credibilità razionale.
Per dirla secondo efficace definizione dottrinale “la probabilità logica alla quale è interessato il giudice non è quella del sapere nomologico utilizzato per la spiegazione del caso, bensì attiene ai profili inferenziali della verifica probatoria condotta in chiave induttiva, cioè alla luce delle emergenze del caso concreto”.
Per converso, e in ciò sta probabilmente l’equivoco in cui è incorsa la corte territoriale, ai fini della prova giudiziaria della causalità, decisivo non è il coefficiente percentuale più o meno elevato (vicino a 100 o a 90 o a 50, etc.) di probabilità frequentistica desumibile dalla legge di copertura utilizzata; ciò che conta è potere ragionevolmente confidare nel fatto che la legge statistica in questione trovi applicazione anche nel caso concreto oggetto di giudizio, stante l’alta probabilità logica che siano da escludere fattori causali alternativi, di tal che, in presenza di un elevato grado di credibilità razionale dell’ipotesi privilegiata, ben può ritenersi consentito per la spiegazione causale dell’evento fare impiego di leggi o criteri probabilistico statistici con coefficienti percentuali anche medio bassi; per contro, ove la valutazione degli elementi di prova acquisiti non consentano di assegnare ad es. per l’impossibilità di escludere ragionevolmente nel caso concreto l’intervento di fattori causali diversi un elevato grado di ‘ credibilità razionale alla spiegazione causale ipotizzata, quest’ultima non può essere affermata anche se riconducibile a leggi di copertura dotate di frequenza statistica tendenzialmente pari a 100.
L’errore della corte territoriale sta dunque nell’aver presupposto che il criterio di elevata probabilità logica, nel quale si sostanza il ragionamento induttivo inferenziale circa la sussistenza del nesso causale (e l’esclusione di altri ipotizzagli fattori) possa o debba esprimersi in termini percentuali e, correlativamente, l’aver riferito ad esso, intendendolo come fattore che osta alla credibilità razionale del risultato cui esso conduce, la percentuale di frequenza statistica assegnata ad altri fattori in astratto ipotizzabili (nel caso concreto la percentuale dello 0,5% che, in mancanza di alcuno dei fattori di rischio individuati dalla letteratura come possibile causa del distacco di placenta, quest’ultimo possa nondimeno verificarsi per cause naturali).
Ed invece, come è stato affermato in dottrina, la probabilità logica “ha come carattere fondamentale (quello) di non ricercare la determinazione quantitativa delle frequenze relative di classi di eventi, ma di razionalizzare l’incertezza relativa all’ipotesi su un fatto riconducendone il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma (o di prova) disponibili in relazione a quell’ipotesi”.
La probabilità logica, dunque, come criterio di giudizio per la ricostruzione del fatto nel caso concreto, è un concetto che non designa una frequenza statistica, ma piuttosto “un rapporto di conferma tra un’ipotesi e gli elementi che ne fondano l’attendibilità”.
Né può essere diversamente, posto che come è stato sottolineato mentre le leggi di copertura riguardano classi di dati, la certezza processuale richiesta si riferisce al caso concreto. Mentre dunque è spesso possibile disporre di un risultato statistico per la legge di copertura che si ritiene governare il fenomeno, è quasi sempre impossibile riferire questo dato al caso concreto da accertare perché la sua non riproducibilità ne fa un evento unico che non tollera inquadramenti statistici su base percentuale.
Insomma le percentuali statistiche possono valere a delimitare l’ambito di applicazione della legge scientifica e possono essere utili come punto di partenza per quanto riguarda l’applicazione della legge al caso concreto. Avendo peraltro esse un’efficacia esclusivamente prognostica, porle a base o a contenuto del ragionamento probatorio circa la sussistenza del nesso causale nel caso concreto rischia di trasformare tale giudizio in una valutazione ex ante, mentre la causalità va sempre accertata ex post con riferimento all’evento concretamente verificatosi.
Con riferimento invece al grado di inferenza probatoria richiesto a supporto del giudizio di fatto sulla spiegazione causale nel caso concreto “non è sensato cristallizzare in precise entità numeriche la probabilità esigibile: la valutazione va piuttosto fatta caso per caso, tenendo conto di tutte le circostanze concrete ed in particolare… considerando il numero e la consistenza delle assunzioni tacite contenute nelle premesse del ragionamento causale”.
Su tale piano probatorio processuale “può solo richiedersi che il grado di conferma sia alto, o elevato”, senza che in ciò possa vedersi un vulnus del principio di legalità, “dovendo la stessa determinatezza delle fattispecie essere interpretata in rapporto al problema concreto da risolvere”.
Del resto, non è fuor di luogo rammentare che non ad altro può tendere un giudizio di verità o certezza processuale, restando invece fuori delle possibilità dell’esperienza umana che è pur sempre una esperienza storica e relativa l’obiettivo della certezza assoluta o verità materiale.
In proposito avvertiva oltre cinquant’anni fa autorevole dottrina che “la pretesa di conseguire una verità totale o assoluta… è fuori delle reali e concrete possibilità umane e può essere concepita o come realtà divina, oppure come estremo limite tendenziale, astratta creazione dell’intelletto o simbolo operativo (come l’infinito matematico). La verità alla quale l’uomo può aspirare e della quale vive, come verità umana, appunto, è di necessità parziale e (o) relativa, concretamente (storicamente) condizionata ed implica limitazioni e scelte, compiute più o meno coscientemente. E dentro tale limite si mantiene sia che si tratti di verità scientifica, empirica o storica”. Conseguentemente “nel campo dell’esperienza giuridica… non ha senso una verità che stia fuori dalle istituzioni giuridiche che la storia umana ha foggiate, e se codesta verità si qualifica giuridica, per essere collegata al tipo di esperienza a cui va riferita, non vuoi dire che si tratti di una (finta) verità, rispetto ad una (astratta) verità (vera), bensì dell’unica verità che si può (e si deve) aspirare a realizzare in quel campo di esperienza. Sulla base di queste considerazioni, è lecito affermare che i limiti posti all’indagine del giudice si traducono in metodi di ricerca (della verità), in altrettanti canoni e precetti tecnici di metodologia ermeneutica…”.
3.2. Alla luce delle considerazioni che precedono appare pertanto evidente come nella specie null’altro o nulla di più poteva pretendersi, per giungere alla conferma, con elevato grado di credibilità razionale, dell’ipotesi causale prospettata nel capo d’imputazione, se non proprio quel giudizio di elevata probabilità logica che la Corte d’appello ha chiaramente espresso e che pertanto di per sé ben poteva portare, a conferma peraltro della sentenza di primo grado, all’affermazione della responsabilità penale dell’imputato.
Né può dubitarsi che tale giudizio di elevato grado di probabilità logica non sia correttamente e coerentemente formato sulla base delle evidenze probatorie che la stessa Corte d’appello pur non manca di evidenziare, quale in particolare:
a) l’accertata genesi ipossica della encefalopatia neonatale che ha colpito il piccolo nato nelle condizioni descritte;
b) l’accertata errata adozione di manovra ostetrica (manovra di Kristeller) in condizioni che non la consentivano, nel senso appunto di renderla estremamente pericolosa per il bambino (in ciò come detto dovendosi ravvisare in dubbio profilo di colpa medica consistita nella grave inosservanza di protocollo medico);
c) l’accertata mancanza di altri ipotizzabili fattori causali, associati alla gravidanza o al parto.
In tale contesto, essendo l’unico antecedente accertato dell’evento dannoso l’esecuzione della detta errata manovra ostetrica, in presenza di una legge di copertura che certamente la indica come idonea a cagionare l’evento in forza di una elevata probabilità statistica, una volta accertata la mancanza nel caso concreto di altri fattori causali noti nella letteratura e ragionevolmente ipotizzabili, congruo e logicamente persuasivo (ossia, per l’appunto, dotato di elevata probabilità logica) è il ragionamento che coordinando tali evidenze e rapportandole alla detta legge di copertura conduce al risultato dell’affermazione (della prova) della responsabilità penale dell’imputato: risultato al quale dunque si addice in tali condizioni il giudizio di elevato grado di credibilità razionale.
Il fatto che la letteratura scientifica dia conto dell’esistenza di una percentuale dello 0,5% di casi in cui il
distacco di placenta si riscontri per cause naturali non meglio precisate, distinte dei fattori associati prima indicati (ed esclusi nel caso concreto), non assume rilievo sul piano del ragionamento probatorio e, dunque, della elevata probabilità logica (la quale resterebbe tale anche se mancasse tale dato statistico), ma semmai sul piano della valutazione della validità scientifica della legge indicata a copertura della ipotizzata spiegazione causale.
Appare evidente tuttavia che trattasi di un dato pressoché insignificante e certamente inidoneo a revocare in dubbio la teoria scientifica della spiegazione causale ipotizzata nella specie: ossia quella secondo cui l’evento dannoso sia da ricondurre causalmente alla errata manovra ostetrica, tanto più che non viene nemmeno precisato se il dato statistico (dello 0,5%) riferito a cause non meglio precisate si riferisca anche ad ipotesi in cui risultava eseguita la detta manovra ostetrica.
3.3. Fuori luogo è al riguardo il richiamo al principio dell’oltre il ragionevole dubbio.
Questo infatti segna il limite del ragionamento probatorio, non il requisito di validità della legge scientifica di copertura. Rappresenta nient’altro che, a contrario, la verifica del grado di probabilità logica attribuibile al ragionamento inferenziale con cui il giudice ricollega, sulla base delle prove raccolte, il fatto concreto alla ipotizzata spiegazione causale. Ed invero, intanto tale ragionamento può ritenersi dotato di elevato grado di probabilità logica ed in grado pertanto di supportare il convincimento della sussistenza del nesso causale con “elevato grado di credibilità razionale”, in quanto non permanga un “dubbio ragionevole” (ossia, non meramente congetturale) che l’evento possa essere stato determinato da una causa diversa.
Invocare pertanto il principio dell’oltre il ragionevole dubbio per determinare la validità della legge di copertura, significa confondere il piano processuale con quello sostanziale.
Né ad una diversa conclusione sul punto può indurre la modifica introdotta dall’art. 5 della legge 6 febbraio 2006, n. 46, mediante la sostituzione del comma 1 dell’art. 533 del codice di procedura penale con la disposizione secondo cui “il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato al di là di ogni ragionevole dubbio”.
Secondo l’opinione prevalente in giurisprudenza, tale novella non ha avuto sul punto un reale contenuto innovativo, non avendo introdotto un diverso e più restrittivo criterio di valutazione della prova, essendosi invece limitata a codificare un principio già desumibile dal sistema, in forza del quale il giudice può pronunciare sentenza di condanna solo quando non ha ragionevoli dubbi sulla responsabilità dell’imputato.
La novella, dunque, non avrebbe inciso sulla funzione di controllo del giudice di legittimità che rimarrebbe limitata alla struttura del discorso giustificativo del provvedimento, con l’impossibilità di procedere alla rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della sentenza e dunque di adottare autonomamente nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (v., in tal senso, tra le ultime pronunce, Sez. 5, n. 10411 del 28/01/2013, Viola, Rv. 254579, la quale ha precisato, in senso evidentemente conforme all’impostazione sopra accolta, che tale regola di giudizio impone al giudice di giungere alla condanna solo se è possibile escludere ipotesi alternative dotate di razionalità e plausibilità; cfr. anche in tal senso Sez. 1, n. 41110 del 24/10/2011, Javad, Rv. 251507).
4. In accoglimento del ricorso, deve pertanto pervenirsi all’annullamento della sentenza impugnata.
Trattandosi tuttavia di ricorso della sola parte civile e quindi di controversia di natura esclusivamente risarcitoria, si impone il rinvio degli atti al competente giudice civile, ai sensi dell’art. 622 cod. proc. pen.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello.
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