cropped-AVVOCATO-BOLOGNA-ESPERTO

ART 572 CP SOSPENSIONE PODESTA GENITORIALE

 

ha ridotto la pena nei confronti di H.M. per i reati di maltrattamenti in famiglia, sequestro di persona e lesioni aggravate ai danni della moglie V.A., ritenuta la recidiva reiterata specifica infraquinquennale, rideterminandola in anni quattro, mesi due e giorni venti di reclusione riducendo, altresì, la durata della misura di sicurezza della libertà vigilata ad anni uno e la durata della pena accessoria della sospensione della responsabilità genitoriale, oltre ad intervenire in melius sulle interdizioni disposte in primo grado. 2

 

la stessa motivazione della Corte d’Appello ammette, invece, che la condotta di sopraffazione contestata come sequestro di persona sarebbe manifestazione non già della volontà di coartare la libertà di movimento della vittima, quanto piuttosto di quella di mortificarla ed umiliarla, ed in tal modo si spiega anche il gesto di tagliarle i capelli. 2.4. La quarta censura attiene al vizio di violazione di legge in ordine alla ritenuta sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 576 c.p., comma 1, n. 5 con riferimento al reato di lesioni personali. Il ricorrente sostiene che, nell’ipotesi in cui – come nel caso di specie – il reato di lesioni concorra con quello di maltrattamenti, secondo lo schema della continuazione criminosa (ritenuta in concreto, ma il ragionamento viene svolto anche per l’ipotesi di concorso formale), non può configurarsi anche la circostanza aggravante della cd. connessione occasionale prevista dalla suddetta disposizione dell’art. 576 c.p., comma 1, n. 5: aver commesso due reati con una sola azione (od omissione) è una situazione logico-giuridica incompatibile con l’aver commesso un reato in occasione dell’altro. La difesa dell’imputato richiama, in tal senso, una sentenza della Corte di cassazione la n. 19700 del 2011 – che ha escluso la configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 61 c.p., comma 1, n. 2, in relazione al reato di lesioni personali lievi commesso in attuazione della condotta propria del delitto di maltrattamenti in famiglia, atteso che il nesso teleologico necessario per la sussistenza della suddetta aggravante esige che le azioni esecutive dei due diversi reati che pone in relazione siano distinte.

quinquies, ad una violenza e sopraffazione destinate ad avere inevitabilmente conseguenze sulla loro crescita ed evoluzione psico-fisica, segnandone il carattere e la memoria. Sussiste abuso della responsabilità genitoriale non solo nel caso in cui la violenza assistita – per come declinata dalla giurisprudenza di legittimità – sia stata idonea a configurare di per sè una condotta di maltrattamenti ai danni dei minori, spettatori della violenza o della vessazione di un altro familiare, ma anche quando la violenza assistita sia configurata come aggravante di un reato commesso nei confronti di costui. Il giudice di primo grado ha svolto in maniera esemplare, sotto questo profilo, il suo compito di verifica della sussistenza dell’aggravante in esame e della sua valenza sulla dosimetria sanzionatoria, complessivamente analizzando il tema in modo puntuale ed attento alle radici profonde che hanno convinto il legislatore ad introdurre la disposizione predetta. La Corte d’Appello, pur riducendo la pena della reclusione, ha tuttavia condiviso tali ragioni ed ha tenuto ferma la sanzione accessoria prevista dall’art. 34 c.p., comma 2, diminuendone correttamente la misura ad anni otto, mesi cinque e giorni 10, riproporzionandola rispetto alla diminuzione dell’entità della pena principale (vi è da dire, peraltro, che il ricorrente nulla aveva specificamente dedotto in merito a tale sanzione accessoria nell’atto di impugnazione di merito e non fa questione, oggi, nel ricorso, sulla misura della sua determinazione). Tale rivalutazione corrisponde adeguatamente anche, se si vuole, a quell’esigenza di effettuare una valutazione in concreto sul bilanciamento tra interesse del minore a mantenere il rapporto con il padre e sospensione della responsabilità genitoriale richiesta dalla Corte costituzionale nella recente sentenza n. 102 del 2020, sebbene con riferimento ad un diverso istituto giuridico

 

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Sentenza 3 dicembre 2020, n. 34504 Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. PALLA Stefano – Presidente – Dott. DE GREGORIO Eduardo – Consigliere – Dott. TUDINO Alessandrina – Consigliere – Dott. BORRELLI Paola – Consigliere – Dott. BRANCACCIO Matilde – rel. Consigliere – ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: H.M., nato a (OMISSIS); avverso la sentenza del 06/11/2019 della CORTE APPELLO di ROMA; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. MATILDE BRANCACCIO; udito il Sostituto Procuratore Generale Dr. BIRRITTERI LUIGI, che ha concluso chiedendo l’inammissibilità; udito il difensore, avv. Sacco, che chiede l’accoglimento del ricorso. Svolgimento del processo 1. Con il provvedimento impugnato la Corte d’Appello di Roma, in parziale riforma della sentenza del GUP del Tribunale di Latina emessa il 19.2.2019 all’esito di giudizio abbreviato, ha ridotto la pena nei confronti di H.M. per i reati di maltrattamenti in famiglia, sequestro di persona e lesioni aggravate ai danni della moglie V.A., ritenuta la recidiva reiterata specifica infraquinquennale, rideterminandola in anni quattro, mesi due e giorni venti di reclusione riducendo, altresì, la durata della misura di sicurezza della libertà vigilata ad anni uno e la durata della pena accessoria della sospensione della responsabilità genitoriale, oltre ad intervenire in melius sulle interdizioni disposte in primo grado. 2. Propone ricorso contro la sentenza citata l’imputato, tramite il difensore, avv. Sacco, deducendo cinque diversi motivi. 2.1. Il primo motivo deduce vizio di contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione del provvedimento impugnato quanto al vaglio di attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa, già richiesto con il primo motivo d’appello e non adeguatamente svolto, nonostante alcune evidenti incoerenze nel racconto riportato nei due verbali di sommarie informazioni rese dalla persona offesa in merito all’aggressione del (OMISSIS) e nonostante il referto del pronto soccorso delle lesioni subite quel giorno non dia conto di segni di violenze compatibili con le accuse di gravi violenze ai suoi danni con schiaffi e pugni, come denunciato, ma solo di una distorsione e distrazione del collo. 2.2. Il secondo argomento difensivo attacca ancora l’illogicità manifesta della motivazione con riguardo, questa volta, al reato di sequestro di persona contestato al capo b). La Corte d’Appello ha contraddittoriamente motivato sulla circostanza decisiva per escludere il reato, rappresentata dalla difesa già nell’atto di impugnazione, relativa al fatto che le manette con cui erano stati bloccati i polsi della vittima erano risultate divise al momento dell’intervento della polizia, con la catenella di giuntura tra i due anelli metallici recisa, sì da essere inidonee a costituire una valida modalità di immobilizzazione. Tale evidenza di fatto era stata ritenuta irrilevante dalla Corte di merito sulla base degli atti processuali, risultando che gli operanti di polizia giudiziaria intervenuti sul luogo teatro del crimine avevano appreso dai figli della persona offesa che erano stati loro a rompere le suddette catenelle di giuntura per liberare la madre. La difesa, tuttavia, osserva che in atti vi sono anche dichiarazioni contrastanti degli stessi figli che ammettono, invece, di aver loro apposto le manette ai polsi della madre, per gioco. La motivazione impugnata sarebbe contraddittoria poichè ritiene credibili i testi quando riferiscono alla polizia giudiziaria e, viceversa, non credibili quando rendono dichiarazioni che scagionano il padre, fornendo un giudizio di attendibilità intermittente sugli stessi soggetti. 2.3. Il terzo motivo di ricorso deduce violazione di legge quanto alla ritenuta possibilità di concorso tra i reati di sequestro di persona e maltrattamenti in famiglia; la difesa propone la tesi dell’assorbimento del primo delitto nel secondo, poichè la compressione della libertà di movimento della vittima non è ulteriore ed autonoma rispetto alle condotte specificamente maltrattanti. A giudizio della difesa del ricorrente, la stessa motivazione della Corte d’Appello ammette, invece, che la condotta di sopraffazione contestata come sequestro di persona sarebbe manifestazione non già della volontà di coartare la libertà di movimento della vittima, quanto piuttosto di quella di mortificarla ed umiliarla, ed in tal modo si spiega anche il gesto di tagliarle i capelli. 2.4. La quarta censura attiene al vizio di violazione di legge in ordine alla ritenuta sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 576 c.p., comma 1, n. 5 con riferimento al reato di lesioni personali. Il ricorrente sostiene che, nell’ipotesi in cui – come nel caso di specie – il reato di lesioni concorra con quello di maltrattamenti, secondo lo schema della continuazione criminosa (ritenuta in concreto, ma il ragionamento viene svolto anche per l’ipotesi di concorso formale), non può configurarsi anche la circostanza aggravante della cd. connessione occasionale prevista dalla suddetta disposizione dell’art. 576 c.p., comma 1, n. 5: aver commesso due reati con una sola azione (od omissione) è una situazione logico-giuridica incompatibile con l’aver commesso un reato in occasione dell’altro. La difesa dell’imputato richiama, in tal senso, una sentenza della Corte di cassazione la n. 19700 del 2011 – che ha escluso la configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 61 c.p., comma 1, n. 2, in relazione al reato di lesioni personali lievi commesso in attuazione della condotta propria del delitto di maltrattamenti in famiglia, atteso che il nesso teleologico necessario per la sussistenza della suddetta aggravante esige che le azioni esecutive dei due diversi reati che pone in relazione siano distinte. L’esclusione dell’aggravante di cui all’art. 576 c.p., comma 1, n. 5, nel caso di specie, rende procedibile a querela di parte la contestazione del reato di lesioni di cui al capo c), querela che non è stata proposta validamente dalla persona offesa, sicchè la conseguenza è che in relazione a tale contestazione deve pronunciarsi l’improcedibilità dell’azione. 2.5. Infine, il quinto motivo di ricorso deduce erronea applicazione dell’art. 34 c.p. in relazione alla pena accessoria della sospensione della responsabilità genitoriale, disposta in assenza del presupposto di legge, rappresentato dal fatto che la condanna sia intervenuta per delitti commessi con abuso della responsabilità genitoriale, circostanza che di fatto non sussiste nel caso di specie. E difatti, il reato di maltrattamenti risulta commesso soltanto nei confronti della convivente e madre dei figli del ricorrente, ma non nei confronti di questi ultimi, benchè in loro presenza. Si chiede, pertanto, la revoca della pena accessoria suddetta. Motivi della decisione 1. Il ricorso deve essere rigettato. 1.2. E’ opportuno premettere all’analisi dei motivi dedotti, qualche dettaglio sulla vicenda, in base a ciò che risulta accertato secondo le sentenze di merito e, in particolare, al provvedimento impugnato. Risulta che l’imputato si sia reso autore per anni di maltrattamenti fisici e psicologici nei confronti della moglie, alla presenza dei loro cinque figli minori, instaurando un regime familiare improntato alla prevaricazione e alla violenza, soprattutto scatenantesi dopo l’abuso di sostanze alcoliche cui era dedito, allorquando era solito percuoterla con calci, pugni e schiaffi e ingiuriarla. La condotta di soprusi costante e continuativa ha visto due episodi parossistici verificarsi, uno, il (OMISSIS), giorno in cui l’imputato, dopo aver gravemente aggredito la moglie picchiandola, l’ha bloccata sul letto della propria abitazione nel campo nomadi di (OMISSIS), costringendola con delle manette ai polsi a non muoversi per oltre sei ore, tagliandole anche i capelli contro la sua volontà, fino a quando la donna non veniva liberata dagli agenti di polizia chiamati da una delle figlie: i fatti sono stati contestati al capo b) dell’imputazione e configurati come delitto di sequestro di persona aggravato ai sensi dell’art. 61 c.p., comma 1, n. 11- quinquies, per essere stato posto in essere il reato alla presenza dei figli minori della coppia. L’altra manifestazione di particolare violenza è quella registrata il giorno (OMISSIS) quando l’imputato ha stretto al collo in una morsa con le braccia la moglie procurandole le lesioni personali contestate al capo c), dalle quali sono derivate la distorsione e la distrazione del collo della vittima. 2. Alla luce di tale premessa è necessario affrontare i motivi di ricorso. 2.1. Il primo ed il secondo argomento di censura che propone l’imputato sono inammissibili perchè manifestamente infondati e formulati sostanzialmente in fatto, coinvolgendo il Collegio in una verifica di merito sui risultati istruttori non consentita in sede di legittimità. Richiamando quanto sintetizzato al par. 1.2., deve qui evidenziarsi che la ricostruzione dell’odiosa condotta prevaricatrice e violenta posta in essere dall’imputato è stata ben svolta dalla sentenza di primo grado, forte di un materiale probatorio particolarmente ricco e completo proveniente dalla scelta del rito abbreviato e di un notevole approfondimento motivazionale, sia dal punto di vista fattuale che sotto il profilo dell’inquadramento giuridico. Il convincimento e le argomentazioni della Corte d’Appello, fusi con quelli del primo giudice, danno vita, complessivamente, ad una motivazione composita e dotata di quella particolare capacità accertativa racchiusa dallo schema della cd. doppia pronuncia conforme (cfr. tra le molte Sez. 4, n. 44765 del 22/10/2013, Buonfine, Rv. 256837; Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, La Gumina, Rv. 269217; Sez. 2, n. 5336 del 9/1/2018, L, Rv. 272018). Le osservazioni difensive, d’altro canto, si risolvono anzitutto in una sterile ricerca di incoerenze nel narrato della persona offesa, evidenziando, anche in maniera apodittica, presunte divergenze su particolari irrilevanti e desumendo in modo del tutto improprio, dal verbale di pronto soccorso relativo alle lesioni subite dalla moglie dell’imputato il (OMISSIS), inconciliabilità inesistenti tra i danni riportati dalla donna (“solo” una distrazione e una distorsione al collo) e il racconto delle violenze subite, delle quali evidentemente la stessa difesa non riesce a nascondere la gravità tanto che le sembra impossibile siano derivate, da una simile aggressione, danni tutto sommato non eccessivi. La sentenza impugnata, peraltro, ha già risposto all’analoga contestazione mossa in appello, segnalando la compatibilità tra la dinamica violenta riferita e il contenuto del referto del pronto soccorso, nonchè svolgendo un’accurata analisi di credibilità della persona offesa (che nel 2016 aveva consapevolmente violato il regime degli arresti domiciliari ai quali era sottoposta, pur di sfuggire alle violenze del marito, come risulta dall’annotazione sul suo arresto di cui dà atto il GUP in sentenza); il giudice di primo grado ha dato conto, infine, che nel referto del pronto soccorso è stato annotato dai sanitari la significativa indicazione che la vittima riferiva loro di una “ennesima aggressione da parte del marito”. Nel secondo motivo di ricorso in particolare, il ricorrente impegna il Collegio in un’improponibile verifica tra gli esiti del racconto della vittima e quelli, solo parzialmente riproposti, dei suoi figli, attraverso l’espediente difensivo di insinuare il dubbio di attendibilità di questi ultimi, avuto riguardo alla ricostruzione dell’episodio contestato (anche) come sequestro di persona. Si assume che le manette ai polsi di V.A. sarebbero state apposte non già dal ricorrente per soggiogarla e maltrattarla oltremodo, bensì dai figli “per gioco”. Ebbene, al di là della evidente scarsa credibilità della ricostruzione alternativa di quanto è stato accertato, invece, direttamente dalla polizia giudiziaria intervenuta sul luogo teatro dei fatti, va notato come, anche in tal caso, il ricorrente non si confronti con le ragioni del provvedimento impugnato; secondo la Corte d’Appello, infatti, sono stati gli stessi operanti, intervenuti perchè chiamati dai figli della vittima, a riscontrare – al momento del loro arrivo nella dimora del nucleo familiare – che questa aveva ancora ai polsi le manette, verosimilmente – secondo l’analisi più probabile dell’accaduto – rotte dai figli nella catenella che le teneva unite, proprio nel tentativo di liberare la madre. Allo stesso modo, la polizia giudiziaria ha dato atto del fatto che in terra vi fossero i capelli tagliati della vittima – altro formidabile riscontro del suo racconto e ragione di smentita della ricostruzione difensiva – e del comportamento sospetto di costei e dei ragazzi, i quali, per la presenza di tutti i familiari della coppia e di molti abitanti del campo nomadi, apparivano tutti intimoriti nel corso dell’intervento delle forze dell’ordine e hanno messo in scena una versione di comodo (il gioco “finito male” della figlia piccola della vittima), del tutto configgente con quanto osservato direttamente dalla polizia e con le denunce successive della persona offesa, al fine di scagionare il ricorrente; tra l’altro, risulta in particolare dal racconto degli operanti che V.A. aveva avuto più volte delle crisi di pianto, fintamente addebitate dal dolore per i polsi serrati. Insomma, è chiaro il tentativo del ricorrente di spostare l’asse della piattaforma probatoria da quello, ampio e coerente, derivato dai diretti accertamenti delle indagini di polizia giudiziaria, a quello puramente narrativo, peraltro parcellizzando e piegando quest’ultimo secondo crinali di unilaterale ricostruzione dei fatti. 2.2. Il terzo argomento di censura è infondato. Il reato di sequestro di persona è assorbito in quello di maltrattamenti in famiglia previsto dall’art. 572 c.p. soltanto quando le condotte di arbitraria compressione della libertà di movimento della vittima non sono ulteriori ed autonome rispetto a quelle specificatamente maltrattanti (Sez. 5, n. 15299 del 19/12/2016, dep. 2017, P., Rv. 270395 in una fattispecie in cui la Corte ha ritenuto sussistente il concorso tra i due reati in relazione alle condotte di imbragare o legare su passeggini o seggiolini bambini in tenerissima età nell’ambito di maltrattamenti compiuti in loro danno all’interno di un asilo). Più in generale, secondo un tradizionale filone interpretativo della giurisprudenza di questa Corte, in cui si inscrive anche la sentenza poco sopra richiamata ed a cui si è richiamata la pronuncia impugnata, è ammesso il concorso tra i due reati in esame, poichè non è configurabile un rapporto di specialità tra il delitto di maltrattamenti in famiglia e quello di sequestro di persona, giacchè sono figure di reato dirette a tutelare beni diversi e, l’uno, è integrato dalla condotta di programmatici e continui maltrattamenti psico-fisici ai danni di famigliari; l’altro, da quella di privare taluno della libertà personale (Sez. 1, n. 18447 del 2/5/2006, Capuano, Rv. 234673). Molto opportunamente la pronuncia n. 15299 del 2017 ha operato un parallelismo, ai fini della verifica della sussistenza di ipotesi di concorso tra il reato di sequestro di persona e quella di maltrattamenti, con la giurisprudenza elaborata in tema di sequestro di persona ed altre fattispecie delittuose. Si è così evidenziato, ad esempio, che il reato di sequestro di persona è assorbito in quello di rapina aggravata previsto dall’art. 628 c.p., comma 3, n. 2, soltanto quando la violenza usata per il sequestro si identifica e si esaurisce col mezzo immediato di esecuzione della rapina stessa, non quando invece ne preceda l’attuazione con carattere di reato assolutamente autonomo anche se finalisticamente collegato alla rapina ancora da porre in esecuzione o ne segua l’attuazione per un tempo non strettamente necessario alla consumazione (Sez. 2, n. 22096 del 19/5/2015, Coppola, Rv. 263788). Si aggiunga che, anche nel rapporto tra il reato di maltrattamenti in famiglia e quelli di ingiuria, minacce e violenza privata si è affermato che questi ultimi vengono assorbiti nella prima figura criminosa quando le ingiurie, minacce e violenze rientrano nella materialità di detto delitto (Sez. 5, n. 22790 del 14/5/2010, B., Rv. 247521); mentre, quando tali condotte non si esauriscano in tale materialità è ipotizzabile il concorso tra reati (Sez. 3, n. 10497 del 7/4/2016, V., Rv. 269340 nell’ipotesi in cui la minaccia sia finalizzata al conseguimento dell’impunità per i maltrattamenti). Ebbene, alla questione posta dal ricorrente deve rispondersi, sul piano dell’analisi giuridica, che è configurabile il concorso tra i reati di maltrattamenti in famiglia e sequestro di persona se la condotta di sopraffazione che privi la vittima della libertà personale non si esaurisce in una delle modalità in cui si esprime l’abituale coercizione fisica e psicologica costituente una delle fasi del reato abituale di maltrattamenti, ma ne configura un picco esponenziale dotato di autonoma valenza e carico di ulteriore disvalore, idoneo a produrre, per un tempo apprezzabile, un’arbitraria compressione della libertà di movimento della persona offesa, quand’anche in modo non assoluto. Nel caso di specie, dal punto di vista dell’oggettività giuridica, è evidente che la vittima sia stata privata della propria libertà personale, per numerose ore durante le quali ha subito angherie e violenze sì tali da determinare un senso di coazione psicologica profonda e di svilimento della sua dignità personale – si pensi all’aver subito il taglio dei capelli e, soprattutto, all’ammanettamento, simbolo inequivoco di mortificazione ed umiliazione – ma certamente ultronee rispetto alla condotta di maltrattamenti e dotate di autonoma efficacia lesiva del bene della libertà personale non necessariamente coinvolto dalla condotta abituale del reato. Il ricorrente pare confondere, dunque, il profilo soggettivo del reato di sequestro di persona che, come noto, non richiede il dolo specifico ma solo quello generico della consapevolezza di infliggere alla vittima la restrizione illegittima della sua libertà fisica (Sez. 5, n. 19548 del 17/4/2013, M., Rv. 256747), con le ragioni a delinquere ed il movente delittuoso, sicuramente ricompreso, nel suo caso, nell’orbita più generale della vessazione violenta della vittima, che costituiva il leit motiv malato e criminale del legame che lo univa a lei. 2.3. Il quarto motivo di ricorso è privo di pregio quanto al presupposto di partenza in punto di diritto e, risolto nel senso dell’infondatezza tale profilo, inammissibile per genericità. Il ricorrente, per sostenere l’improcedibilità del reato di lesioni di cui al capo c), legata, in mancanza di querela della persona offesa, all’aggravante del nesso teleologico contestata ai sensi dell’art. 576 c.p., comma 1, n. 5, sostiene che, nell’ipotesi in cui – come nel caso di specie – il reato di lesioni concorra con quello di maltrattamenti, secondo lo schema della continuazione criminosa (ritenuta in concreto, ma il ragionamento viene svolto anche per l’ipotesi di concorso formale), non può configurarsi anche la circostanza aggravante della cd. connessione occasionale prevista dalla suddetta disposizione: aver commesso due reati con una sola azione (od omissione) è una situazione logico-giuridica incompatibile con l’aver commesso un reato in occasione dell’altro. L’affermazione non è esatta e non corrisponde alle più recenti prese di posizione della giurisprudenza di legittimità secondo cui – sebbene l’affermazione sia stata svolta in relazione alla fattispecie gemella prevista all’art. 61 c.p., comma 1, n. 2, – la circostanza aggravante del nesso teleologico è configurabile anche in ipotesi di concorso formale di reati, non richiedendo una alterità di condotte quanto piuttosto la specifica finalizzazione dell’un reato alla realizzazione dell’altro (così Sez. 6, n. 14168 del 22/1/2020, Z., Rv. 278844, in un’ipotesi analoga a quella in esame e relativa all’applicazione della suddetta aggravante in un caso di condanna per il reato di lesioni personali, strumentalmente diretto a commettere quello di maltrattamenti in famiglia). Di conseguenza, il reato di lesioni personali, quando aggravato ai sensi dell’art. 576 c.p., comma 1, n. 5, perchè commesso in occasione del delitto di maltrattamenti, è procedibile d’ufficio, anche nell’ipotesi di lesioni lievissime, per effetto del richiamo operato dall’art. 582 c.p., comma 2, c.p. all’art. 585 e di questo al citato art. 576 (Sez. 6, n. 11002 del 22/1/2020, B., Rv. 278714; Sez. 6, n. 3368 del 12/1/2016, C., Rv. 266007. Vedi anche, avuto riguardo al tema della procedibilità del reato di lesioni collegato a quello di rapina, Sez. 2, n. 22081 del 3/7/2020, Quarta, Rv. 279436). Il Collegio non ignora che la Suprema Corte abbia espresso in passato indicazioni diverse sul tema sollevato dalla difesa e relativo all’applicabilità dell’aggravante del nesso teleologico al reato di lesioni che rappresenti anche un segmento della condotta di maltrattamenti. Precisamente, si è affermato da parte di tale opposto orientamento che non è configurabile la circostanza aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 2 in relazione al reato di lesioni personali lievi commesso in attuazione della condotta del delitto di maltrattamenti in famiglia, atteso che il nesso teleologico necessario per la sussistenza della suddetta aggravante esige che le azioni esecutive dei due diversi reati che pone in relazione siano distinte (Sez. 6, n. 19700 del 3/5/2011, Rossi, Rv. 249799; Sez. 6, n. 23827 del 7/5/2013, A., Rv. 256312; Sez. 6, n. 5738 del 19/1/2016, R., Rv. 266122). Più problematica la posizione di Sez. 6, n. 3368 del 12/1/2016, C., Rv. 266008: la pronuncia ha affermato, infatti, che, nel caso di reato di lesioni personali commesso in occasione del delitto di maltrattamenti, i due fatti non possono essere ritenuti automaticamente aggravati dalla circostanza del nesso teleologico, prevista dall’art. 61 c.p., n. 2, essendo necessario accertare sul piano oggettivo che le azioni costitutive dei due reati siano distinte e, su quello soggettivo, la volontà dell’agente di commettere il reato-mezzo in direzione della commissione del reato scopo. Ad ogni modo, orientando la prospettiva in senso più generale con riferimento alla medesima questione, si nota come tendenzialmente la configurabilità dell’aggravante del nesso teleologico in caso di concorso formale tra reati sia stata ammessa da questa Corte regolatrice (avuto riguardo al delitto di lesioni ed a quello di stalking, cfr. Sez. 5, n. 38399 del 10/7/2017 E F., Rv. 271211; nonchè per il delitto di lesioni e quello di rapina, cfr. Sez. 2, n. 29486 del 19/5/2009, Kotbani, Rv. 244434). In entrambi i casi, il principio enunciato si esprime nel senso che la circostanza aggravante del nesso teleologico è configurabile indipendentemente dalla unicità o pluralità delle condotte criminose, o dalla contestualità di queste ultime, essendo sufficiente che la volontà del soggetto agente sia diretta alla commissione del reatofine e che a tale scopo egli si sia servito del reato-mezzo. L’orientamento generale, che punta all’ammissibilità dell’aggravante del nesso teleologico in caso di concorso formale tra reati, affonda le sue radici in una risalente pronuncia delle Sezioni Unite che ha ritenuto detta aggravante applicabile anche nel caso in cui il reato-mezzo ed il reato-fine siano commessi con un’unica azione (ciò che accade nei cosiddetti reati contestuali), giacchè è irrilevante qualsiasi considerazione di ordine cronologico tra un reato e l’altro, posto il fondamento essenzialmente soggettivo della aggravante stessa nel sistema legislativo: anzi, per tale ragione che svincola la struttura dell’aggravante da qualunque elemento di carattere temporale, può anche accadere che l’esecuzione del reato che realizza lo scopo finale preceda l’altro reato che si è previsto di dover necessariamente compiere in relazione al primo (Sez. U, n. 19 del 00/00/1958, Esposito, Rv. 098052). Successivamente, in senso adesivo, si è ribadito che la contestualità del reato fine e del reato mezzo non costituisce un carattere in grado di alterare il presupposto intenzionale che giustifica l’aggravante della pena ai sensi dell’art. 61 c.p., n. 2 (Sez. 6, n. 6866 del 17/3/1994, Casasole, Rv. 198746) e che l’aggravante del nesso teleologico non è esclusa dal fatto che il reato mezzo e il reato fine siano commessi mediante un’unica condotta criminosa che dà luogo ad un concorso formale di reati, nè dalla contestualità delle azioni od omissioni (Sez. 2, n. 556 del 29/6/1981, Furlani, Rv. 151716 e le conformi pronunce indicate nella massimazione di tale sentenza). La ricostruzione della questione interpretativa formulata dall’imputato, dunque, coerentemente alla soluzione in generale offerta dalla giurisprudenza di questa Corte, può agevolmente essere risolta affermando che l’aggravante del nesso teleologico, prevista dall’art. 61 c.p., comma 1, n. 2, come dall’art. 576 c.p., comma 1, n. 5, è applicabile al reato di lesioni che rappresenti un momento della condotta abituale del reato di maltrattamenti, purchè vi sia il relativo coefficiente psicologico, così come indicato nella decisione cui il Collegio ha scelto di aderire (n. 14168 del 2020 cit.). L’affermazione, secondo tale pronuncia, “è coerente con le regole generali in ordine al rapporto tra la citata aggravante ed i reati in concorso formale”, ipotesi che ricorre anche “quando la condotta di uno dei reati (come il reato di maltrattamenti, che è reato abituale) sia più ampia e solo per una parte vi sia identità di azione con un altro reato a consumazione istantanea” e risponde all’opzione prescelta dalla Sezioni Unite nel 1958 che, nonostante sia datata, tuttavia è vincolante alle condizioni previste dall’art. 618 c.p.p., comma 1-bis. Non sussistono d’altra parte limiti normativi o logici “a ritenere che, con una azione contestuale, possano commettersi due reati con la specifica finalizzazione dell’uno alla realizzazione dell’altro”. L’unica verifica che va svolta, dunque, è quella soggettiva sulla sussistenza della finalizzazione della condotta del reato di lesioni alla realizzazione di quello di maltrattamenti, sotto il profilo del coefficiente psicologico. Nella specie, ferma l’immediata percepibilità dalla motivazione del provvedimento impugnato di tale condizione, tuttavia, il ricorrente nulla ha osservato riguardo al difetto di tale connessione teleologica in concreto, limitandosi a formulare una mera questione astratta di incompatibilità, sicchè il motivo deve ritenersi inammissibile in quanto, risolto nel senso dell’infondatezza il quesito in diritto, risulta genericamente formulato. 2.4. Infine, il quinto argomento di ricorso è da rigettare perchè privo di pregio. Il ricorrente ritiene che gli sia stata illegittimamente applicata la sanzione accessoria della sospensione della responsabilità genitoriale, prevista dall’art. 34 c.p., nonostante il reato commesso di maltrattamenti in famiglia fosse contestato ai danni della sola V.A. e non dei suoi figli e che, quindi, non vi fosse stato alcun abuso della responsabilità genitoriale nel senso previsto dalla norma. Orbene, il Collegio rammenta che il delitto di maltrattamenti in famiglia ai danni dei figli è stato ritenuto configurabile da questa Corte anche nel caso in cui i comportamenti vessatori non siano rivolti direttamente in danno dei figli minori, ma li coinvolgano indirettamente, come involontari spettatori delle liti tra i genitori che si svolgono all’interno delle mura domestiche (c.d. violenza assistita), sempre che sia stata accertata l’abitualità delle condotte e la loro idoneità a cagionare uno stato di sofferenza psicofisica nei minori spettatori passivi (Sez. 6, n. 18833 del 23/2/2018, B., Rv. 272985). E’ stata sottolineata, altresì, anche l’ampiezza dei beni giuridici coinvolti dalla fattispecie incriminatrice di reato abituale prevista dall’art. 572 c.p., costituiti dall’interesse dello Stato alla salvaguardia della famiglia da comportamenti vessatori e violenti e dalla difesa dell’incolumità fisica e psichica delle persone indicate nella norma, alle quali si deve riconoscere il diritto al rispetto della loro personalità nello svolgimento di un rapporto fondato su vincoli familiari (Sez. 6, n. 37019 del 27/5/2003, Caruso, Rv. 226794; vedi anche Sez. 6, n. 3570 del 1/2/1999, Valente, Rv. 213516; Sez. 6, n. 8510 del 26/6/1996, Lombardo, Rv. 205901). Nel caso di specie, tuttavia, il reato di maltrattamenti non è stato espressamente contestato come rivolto ai figli minori, ma soltanto alla loro madre, moglie del ricorrente. Le condotte di reato, d’altra parte, risultano tutte esplicitamente essere state imputate e ritenute aggravate ai sensi dell’art. 61 c.p., comma 1, n. 11-quinquies per averle l’autore del reato commesse alla presenza dei figli minori della coppia ( L., Lo., D. e H.S., nonchè A.S.). Il giudice di primo grado, in particolare, ha ritenuto che i figli dell’imputato abbiano dovuto soggiacere per anni ad una vita caratterizzata da un clima di vero e proprio terrore, con inevitabili ripercussioni fisiopsichiche che li segneranno per sempre, proprio in seguito alle violenze e vessazioni continue alle quali hanno dovuto assistere per il comportamento del padre nei confronti della madre; in molti casi risulta che i minori siano stati veri e propri protagonisti, sebbene nei loro confronti non siano contestate condotte violente dirette da parte del ricorrente. La circostanza aggravante dell’essere stato il delitto commesso alla presenza del minore, nelle ipotesi previste dall’art. 61 c.p., n. 11-quinquies disposizione introdotta dal D.L. n. 93 del 2013, conv. in L. n. 119 del 2013 in attuazione della Convenzione di Instanbul adottata dal Consiglio d’Europa il 7 aprile 2011 -, è configurabile tutte le volte in cui il minore degli anni diciotto percepisca la commissione del reato, anche quando addirittura la sua presenza non sia visibile all’autore dello stesso, sempre che questi ne abbia la consapevolezza ovvero avrebbe dovuto averla usando l’ordinaria diligenza (Sez. 1, n. 44965 del 25/6/2018, R., Rv. 274027) e senza che sia necessario che gli atti di violenza posti in essere alla presenza del minore rivestano il carattere dell’abitualità, essendo sufficiente che egli assista ad uno dei fatti che si inseriscono nella condotta costituente reato (Sez. 6, n. 2003 del 25/10/2018, dep. 2019, Z., Rv. 274924). Neppure è necessario che il minore, esposto alla percezione della condotta illecita, abbia la maturità psico-fisica necessaria per comprendere la portata offensiva o lesiva degli atti commessi in sua presenza (Sez. 6, n. 55833 del 18/10/2017, V., Rv. 271670). Orbene, nel caso di specie, dalla ricostruzione in fatto convergente svolta dai giudici di merito, non vi è dubbio che la percezione dei figli della vittima sulla gravità delle violenze che si sono realizzate per anni ai danni della loro madre nell’ambiente domestico sia stata consapevole ed evidente, tanto che purtroppo essi sono stati costretti anche più volte ad intervenire in sua difesa e addirittura a coinvolgere le forze dell’ordine in interventi che evitassero epiloghi più gravi dei maltrattamenti. Resta, pertanto, da verificare se la violenza assistita che integra la circostanza aggravante descritta dall’art. 61 c.p., comma 1, n. 11-quinquies sia idonea a costituire la base giuridica per la sospensione della responsabilità genitoriale del ricorrente ai sensi dell’art. 34 c.p., comma 2. Il Collegio ritiene che non vi possa essere dubbio al riguardo. L’art. 34 c.p., comma 2, costituisce una disposizione semanticamente e strutturalmente diversa dal comma 1 della stessa norma. Mentre quest’ultimo, infatti, abbina il diverso istituto della decadenza dalla responsabilità genitoriale all’esistenza di un’espressa previsione di legge dettata per ciascun caso, la sospensione della responsabilità genitoriale è ricollegata alla più generale clausola normativa di aver riportato condanna per un reato commesso con abuso della responsabilità genitoriale. Bisogna, dunque, sciogliere il nodo interpretativo relativo a quali reati possano rientrare nel novero di quelli commessi abusando di tale responsabilità, tenendo presente che, dal punto di vista della disciplina privatistica, la responsabilità genitoriale determina il dovere di crescere i figli tenendo conto delle loro capacità, inclinazioni ed aspirazioni (cfr. art. 316 c.c.). Specularmente, al venir meno del genitore a tali doveri consegue la decadenza da tale responsabilità (art. 330 c.c.); mentre, quando la condotta non sia tale da dare luogo alla pronuncia di decadenza, il giudice può adottare “provvedimenti convenienti” ad interrompere l’agire del genitore comunque pregiudizievole al figlio (art. 333 c.c.). Il significato del concetto di abuso della responsabilità genitoriale è individuato in dottrina, proprio attraverso un richiamo all’art. 330 c.c., nell’uso abnorme dei poteri e nella violazione o inosservanza dei doveri inerenti alla responsabilità. Ebbene, ritiene il Collegio che nella categoria dei reati commessi con abuso della responsabilità genitoriale, ai sensi dell’art. 34 c.p., comma 2, possano essere inserite anche le fattispecie aggravate ai sensi dell’art. 61 c.p., comma 11-quinquies. Non soltanto, infatti, rispondono ad un canone comportamentale abusivo della responsabilità genitoriale le condotte di reato direttamente rivolte contro i figli minori (siano esse violente o solo moralmente vessatorie, maltrattanti ai sensi dell’art. 572 c.p. ovvero persecutorie o idonee ad integrare altri e diversi delitti), ma anche quelle indirettamente rivolte contro di loro, che, colpendo, come nel caso di specie, pervicacemente e brutalmente l’altro genitore, li costringono ad assistere, secondo i parametri normativi dettati dall’art. 61 c.p., comma 1, n. 11-quinquies, ad una violenza e sopraffazione destinate ad avere inevitabilmente conseguenze sulla loro crescita ed evoluzione psico-fisica, segnandone il carattere e la memoria. Sussiste abuso della responsabilità genitoriale non solo nel caso in cui la violenza assistita – per come declinata dalla giurisprudenza di legittimità – sia stata idonea a configurare di per sè una condotta di maltrattamenti ai danni dei minori, spettatori della violenza o della vessazione di un altro familiare, ma anche quando la violenza assistita sia configurata come aggravante di un reato commesso nei confronti di costui. Il giudice di primo grado ha svolto in maniera esemplare, sotto questo profilo, il suo compito di verifica della sussistenza dell’aggravante in esame e della sua valenza sulla dosimetria sanzionatoria, complessivamente analizzando il tema in modo puntuale ed attento alle radici profonde che hanno convinto il legislatore ad introdurre la disposizione predetta. La Corte d’Appello, pur riducendo la pena della reclusione, ha tuttavia condiviso tali ragioni ed ha tenuto ferma la sanzione accessoria prevista dall’art. 34 c.p., comma 2, diminuendone correttamente la misura ad anni otto, mesi cinque e giorni 10, riproporzionandola rispetto alla diminuzione dell’entità della pena principale (vi è da dire, peraltro, che il ricorrente nulla aveva specificamente dedotto in merito a tale sanzione accessoria nell’atto di impugnazione di merito e non fa questione, oggi, nel ricorso, sulla misura della sua determinazione). Tale rivalutazione corrisponde adeguatamente anche, se si vuole, a quell’esigenza di effettuare una valutazione in concreto sul bilanciamento tra interesse del minore a mantenere il rapporto con il padre e sospensione della responsabilità genitoriale richiesta dalla Corte costituzionale nella recente sentenza n. 102 del 2020, sebbene con riferimento ad un diverso istituto giuridico. Il giudice delle leggi, infatti, giudicando della fattispecie di automatica sanzione della sospensione della responsabilità genitoriale prevista dall’art. 574-bis c.p., comma 3, ha fornito argomenti di valenza anche generale. La Corte costituzionale, invero, considerato che tale sanzione accessoria presenta caratteri del tutto peculiari rispetto alle altre pene previste dal codice penale, dal momento che, incidendo su una relazione, colpisce direttamente, accanto al condannato, anche il minore, che di tale relazione è il co-protagonista, con un impatto tutt’altro che trascurabile, tuttavia ha richiamato il principio generale secondo cui “le ragioni di tutela del diritto del minore di intrattenere regolarmente relazioni e contatti personali con il genitore vengono meno, come prevedono all’unisono l’art. 9, comma 1, della Convenzione sui diritti del fanciullo e l’art. 24, comma 3, CDFUE, allorchè la prosecuzione di tale rapporto sia contraria all’interesse preminente del minore”. Si è evidenziato, infatti, che la legittimazione di una misura che indubbiamente frappone significativi ostacoli alla relazione tra il figlio e il genitore deriva dalla constatazione che tale relazione risulti in concreto pregiudizievole per il figlio, in base al principio generale secondo cui ogni decisione che riguarda il minore deve essere guidata dal criterio della ricerca della soluzione ottimale per il suo interesse (la Corte costituzionale richiama, in particolare, l’art. 9, comma 1, della Convenzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza del 1989 e l’art. 24, comma 3, CDFUE). Orbene, alla luce di tali principi generalissimi, l’applicazione della pena accessoria ora all’esame potrà giustificarsi solo ove risponda in concreto agli interessi del minore ed interrompa un rapporto genitoriale a lui pregiudizievole, da apprezzare secondo le circostanze di fatto esistenti al momento della sua applicazione. E non vi è dubbio che tale valutazione concreta sia certamente favorevole, nel caso di specie, per le ragioni sinora esposte in fatto, ad una soluzione positiva sull’applicazione della sanzione sospensiva della responsabilità genitoriale nel caso del ricorrente, il quale emerge come modello negativo comportamentale idoneo non soltanto a condizionare pregiudizievolmente la vita delle piccole vittime, ma anche ad influire sulle scelte violente interne al nucleo familiare secondo un pericoloso e biasimevole schema di sopraffazione di genere (si dà atto nella sentenza di primo grado, infatti, di una denuncia a carico del figlio maschio della coppia – D. – per maltrattamenti nei confronti della madre, a riprova della carica riprovevole della personalità paterna sui figli). 3. Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. 3.1. Data la materia trattata, in caso di diffusione del provvedimento devono essere omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. In caso di diffusione del provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge. Così deciso in Roma, il 12 ottobre 2020. Depositato in Cancelleria il 3 dicembre 2020

 

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