SEPARAZION E CONIUGI INFELICI BOLOGNA

ART 244 CC DISCONOSCIMENTO PATERNITA’ SEMPRE MAGGIORE IMPORTANZA PROVA DNA

DISCONOSCIMENTO PATERNITA’

ART 244 CC DISCONOSCIMENTO PATERNITA’ SEMPRE MAGGIORE IMPORTANZA PROVA DNA DISCONOSCIMENTO PATERNITA’-in-lite

ART 244 CC DISCONOSCIMENTO PATERNITA’ SEMPRE MAGGIORE IMPORTANZA PROVA DNA DISCONOSCIMENTO PATERNITA’

  1. Nel primo motivo di ricorso incidentale viene dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 116, 244, 246 cod. proc. civ. Osserva al riguardo la parte controricorrente che la sequenza cronologica delle circostanze emerse dal complesso del materiale probatorio in atti, ed in particolare l’anteriorità dell’incarico all’agenzia investigativa perché prelevasse campioni biologici di S..P. rispetto alla conoscenza dell’adulterio appresa nel corso di una cena, avrebbe dovuto condurre in modo inequivoco a ritenere tardiva l’azione intrapresa. La Corte d’Appello ha trascurato l’inverosimiglianza delle circostanze poste a base della tempestività dell’azione, omettendo di rilevare l’incapacità come teste della moglie di P.F. . Nel secondo motivo di ricorso incidentale, la medesima censura viene dedotta sotto il profilo del vizio di motivazione nonché come violazione e falsa applicazione dell’art. 244 cod. proc. civ. sotto il profilo dell’omessa valutazione del raggiungimento della prova dell’anteriorità rispetto al termine annuale della prova dell’adulterio. Osserva al riguardo il controricorrente che, come dichiarato dall’attore nell’atto di citazione, prima dell’evento (maggio 2004) indicato come dies a quo

AFOTOGRAFICA1

  1. della conoscenza dell’adulterio, in realtà egli era già al corrente di alcune voci ed aveva avuto alcuni segnali. La Corte d’Appello aveva ingiustificatamente trascurato questa dichiarazione confessoria.

    AVVOCATO ESPERTO FAMIGLIA BOLOGNA

  2. Nel terzo motivo di ricorso incidentale viene dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 91 cod. proc. civ. in ordine alla statuizione sulla compensazione integrale delle spese di lite di entrambi i gradi, ritenuta illegittima alla luce della piena soccombenza della controparte.
  3. In ordine logico devono, preliminarmente, essere affrontati i primi due motivi del ricorso incidentale, in quanto relativi alla contestazione del rispetto del termine annuale di decadenza dall’azione previsto dall’art. 244, secondo comma, cod. civ..

AVVOCATO A BOLOGNA, AVVOCATO BOLOGNA, STUDIO LEGALE BOLOGNA

  1. Tali motivi possono essere trattati congiuntamente ed essere dichiarati infondati. Con essi il controricorrente pur se mediante l’astratta prospettazione anche del vizio di violazione di legge, mira ad una rivalutazione delle risultante probatorie, non consentita in sede di giudizio di legittimità.
INCIDENTE MORTALE RISARCIMENTO AI PARENTI FIRENZE, AREZZO, GROSSETO, LIVORNO, LUCCA, PISA, PISTOIA, PRATO, SIENA.

INCIDENTE MORTALE RISARCIMENTO AI PARENTI FIRENZE, AREZZO, GROSSETO, LIVORNO, LUCCA, PISA, PISTOIA, PRATO, SIENA.

  1. La Corte d’Appello non ha omesso di considerare le ragioni poste a base dell’eccezione d’intempestività dell’azione, già formulata nei precedenti gradi di giudizio (pag. 7,8 sentenza impugnata) ma ha fondato la propria statuizione di rigetto sulla base di un apprezzamento delle circostanze di fatto e dell’attendibilità dei testi del tutto difforme da quella proposta dal controricorrente, in particolare escludendo, con motivazione esauriente ed adeguata, il rilievo cruciale che il controricorrente ritiene di dare alla dedotta circostanza temporale relativa all’incarico all’agenzia investigativa. Tale specifica contestazione ha, tuttavia, come già premesso, ad esclusivo oggetto il riesame dei fatti e la richiesta, inammissibile, di una ricostruzione alternativa a quella fornita in sede di giudizio d’appello. Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, la Corte di Cassazione non ha il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e a della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione ; fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, (ex plurimis Cass.27162 del 2009; 6288 del 2011).
  1. I motivi del ricorso principale possono essere trattati anch’essi congiuntamente in quanto logicamente connessi.
  1. Il fulcro attorno al quale ruotano le censure formulate dal ricorrente è costituito dall’omessa considerazione da parte della Corte d’Appello di Roma dell’ingiustificato rifiuto da parte del convenuto di sottoporsi alla prova ematologica, nonostante la preminenza attribuita dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 266 del 2006 a tale accertamento rispetto alla prova dell’adulterio, di difficile dimostrazione pratica. Accanto a tale rilievo, che permea tutti e tre i motivi, viene specificamente censurato l’omesso rilievo delle circostanze di fatto apprese dai testi de relato e la valutazione d’inammissibilità di gran parte dei capitoli di prova.

la difettosa tenuta della cartella clinica da parte dei sanitari non può tradursi, sul piano processuale, in un pregiudizio per il paziente (cfr. Cass. n. 1538/2010) e che è anzi consentito il ricorso alle presunzioni "in ogni caso in cui la prova non possa essere data per un comportamento ascrivibile alla stessa parte contro la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato" (Cass. n. 11316/2003; cfr. Cass. n. 10060/2010);

  1. L’esame analitico dei motivi richiede una preliminare precisazione. Le due azioni rivolte all’accertamento della genitorialità biologica anche in contrasto con quella legittima, individuate dal legislatore nel disconoscimento della paternità e nella dichiarazione giudiziale di paternità (e maternità) presentano caratteristiche oggettive e soggettive diverse che ne conformano anche i requisiti probatori. Il favor veritatis, nell’azione giudiziale di paternità e maternità, sorregge un nucleo di diritti inviolabili della persona umana, quali quello alla genitorialità e ad uno dei profili costitutivi della propria identità personale del quale il richiedente è stato privato per effetto del mancato riconoscimento. Nell’altra azione, al contrario, in caso di esito positivo dell’accertamento della mancata corrispondenza tra filiazione biologica e filiazione legittima, si determina l’eliminazione di uno status e del medesimo complesso di diritti che dell’azione rivolta alla dichiarazione giudiziale di paternità (e maternità) costituiscono il risultato. La condizione filiale, nella prima azione, per effetto dell’accertamento giudiziale, viene fortemente potenziata. Nel disconoscimento di paternità, invece, si determina la privazione sopravvenuta dello status di figlio legittimo ex patre per cause estranee alla sfera di volontà e responsabilità del soggetto destinato a subire gli effetti dell’azione.
– redazione della dichiarazione di successione; – accettazione dell’eredità, accettazione con beneficio di inventario; – rinuncia all’eredità; – redazione del testamento e degli atti dispositivi di ultima volontà; – interpretazione delle clausole testamentarie; – impugnazione del testamento; – mediazione e contenzioso ereditario; – divisione ereditaria; – donazioni; – successioni internazionali.

– redazione della dichiarazione di successione;
– accettazione dell’eredità, accettazione con beneficio di inventario;
– rinuncia all’eredità;
– redazione del testamento e degli atti dispositivi di ultima volontà;
– interpretazione delle clausole testamentarie;
– impugnazione del testamento;
– mediazione e contenzioso ereditario;
– divisione ereditaria;
– donazioni;
– successioni internazionali.

  1. Non può, conseguentemente, esservi una perfetta coincidenza dei requisiti probatori delle due azioni (peraltro esclusa anche dalla disciplina normativa di ciascuna di esse), pur dovendosi dare atto del progressivo, crescente rilievo che i mezzi di prova univocamente indicativi della discendenza biologica, ed in particolare la prova ematologica, hanno assunto in entrambe le azioni.
  1. La sentenza n. 266 del 2006 della Corte Costituzionale, avendo escluso la necessità della pregiudiziale prova dell’adulterio al fine di accedere alla prova ematologica, ha fortemente valorizzato la rilevanza e la preminenza che tale accertamento probatorio, per la sua univocità di risultato, assume. In particolare nella pronuncia è stata sottolineata da un lato la difficoltà pratica a fornire la prova dell’adulterio e l’insufficienza di questa prova al fine dell’accoglimento della domanda, dall’altro la risolutività ed indispensabilità della prova ‘tecnica’ che in virtù dei progressi della scienza biomedica costituisce l’unico mezzo per pervenire ad un accertamento tranquillizzante della esistenza o non esistenza della filiazione.
  1. Alla luce delle importanti indicazioni provenienti dal giudice delle leggi, gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità si sono progressivamente rivolti verso il riconoscimento di un rilievo crescente alla prova ematologica (Cass. 8356 del 2007; 15088 e 15089 del 2008), in considerazione ‘dell’alto grado di affidabilità’ di tale mezzo di prova, anche nei giudizi di disconoscimento della paternità, fino ad affermare con la pronuncia n. 4175 del 2007 che ‘a seguito della sentenza della Corte costituzionale 6 luglio 2006, n.: 266, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 235, secondo comma cod. civ., nella parte in cui subordinava l’esame delle prove ematologiche alla previa dimostrazione dell’adulterio della moglie, il giudice di merito deve procedere agli accertamenti genetici anche in mancanza di prova dell’adulterio, traendo argomenti di prova ex art. 116 cod. proc. civ. dall’eventuale rifiuto di una parte di sottoporsi al prelievo. (Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza della corte d’appello, che aveva respinto la domanda di disconoscimento in mancanza di prova dell’adulterio e dato il rifiuto della madre di sottoporre se e il figlio ad accertamenti, tenuto conto del mutato quadro normativo e della raggiunta maggiore età da parte del figlio, in condizione attualmente di autodeterminarsi in ordine alle prove genetiche)’.
  2. Non può, infatti, negarsi che di fronte ad un’indagine tecnica risolutiva, il rifiuto volontario di sottoporvisi da parte di un soggetto capace di autodeterminarsi è il frutto di una scelta non coercibile, ma certamente suscettibile di essere valutata ai sensi dell’art. 116 cod. proc. civ. in modo tendenzialmente coerente con il grado di efficacia probatoria dell’esame, e non alla stregua di un qualunque altro comportamento processuale omissivo della parte.

 

studio legale Bologna

CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. I CIVILE – SENTENZA 19 luglio 2013, n.17773 – Pres. Luccioli – est. Acierno

1Svolgimento del processo

Con la sentenza impugnata, la Corte d’Appello di Roma, confermando la pronuncia di primo grado, ha rigettato la domanda di disconoscimento di paternità proposta da P.F. nei confronti di P.S.M. , suo figlio legittimo, nato il … dal matrimonio con L..T. .

A sostegno della decisione assunta, la Corte d’Appello ha affermato:

– che l’azione è stata tempestivamente proposta, avendo l’attore adeguatamente provato di avere avuto conoscenza della relazione extraconiugale intrattenuta dalla moglie divorziata T.L. all’epoca del concepimento del figlio S. , entro l’anno dall’instaurazione del giudizio (maggio 2004);

– che la sentenza della Corte Costituzionale n. 266 del 2006, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 235, primo comma, n. 3 cod. civ. nella parte in cui subordina l’esame delle prove tecniche da cui dovrebbe risultare il fondamento dell’azione alla previa dimostrazione dell’adulterio, non ha tuttavia escluso la necessità di fornirne la prova nei giudizi di disconoscimento di paternità;

– che tale prova nella specie non risulta raggiunta in quanto, da un lato, le deposizioni testimoniali raccolte in primo grado sono state condivisibilmente ritenute inutilizzabili perché relative a circostanze apprese da terzi e non contestualizzate, dall’altro, i capitoli di prova testimoniale non ammessi sono stati fondatamente ritenuti generici, ininfluenti o anch’essi esclusivamente riguardanti circostanze apprese de relato;

– che tale grave lacuna probatoria non può essere colmata esclusivamente dal rifiuto di sottoporsi alla prova ematologica da parte di S.M..P. , in quanto si tratta di un comportamento processuale valutabile soltanto come argomento di prova ma non idoneo di per sé solo ad integrare un quadro probatorio sufficiente ed univoco in ordine all’insussistenza del rapporto di filiazione dovuta ad adulterio, attesa la lontananza temporale dei fatti da provare;

– che nel giudizio di disconoscimento di paternità la valutazione della prova non può essere conforme a quella relativa all’azione di dichiarazione giudiziale di paternità essendo l’una rivolta a rimuovere lo status filiale, l’altra a determinarlo. È necessario, conseguentemente, operare un corretto bilanciamento tra l’esigenza dell’identità biologica e quella di certezza e stabilità delle relazioni familiari.

Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione P.F. affidandosi a tre motivi. Ha resistito con controricorso e ricorso incidentale S.M..P. .

Ha replicato al ricorso incidentale, con proprio controricorso, il ricorrente P.F. . Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 cod. proc. civ..

Motivi della decisione

Con il primo motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 235 primo comma, n. 3 cod. civ., nel testo risultante a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 266 del 2006, nonché dell’art. 2697 cod. civ., in relazione all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ..

Secondo la parte ricorrente, nella pronuncia citata la Corte non si è limitata soltanto a rimuovere la pregiudizialità della prova dell’adulterio rispetto a quella ematologica, come riduttivamente ritenuto nella sentenza impugnata, ma ne ha affermato la decisività e la preminenza, tenuto conto della difficoltà pratica di fornire la prova dell’adulterio stesso. Pertanto, non può essere condivisa l’affermazione, posta a base della decisione della Corte d’Appello di Roma, secondo la quale, mancata un’adeguata prova dell’adulterio, non si sarebbe potuta dare rilevanza alla prova ematologica ed, in particolare, al rifiuto da parte del convenuto di sottoporsi ad essa. In conclusione l’interpretazione data all’art. 235 cod. civ. dalla sentenza impugnata, non sembra tenere conto della portata dell’innovazione introdotta con la sentenza della Corte Costituzionale n. 266 del 2006, continuando a centrare l’oggetto del proprio giudizio sulla prova puntuale e rigorosa dell’adulterio.

Nel secondo motivo di ricorso viene dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 116, 118 cod. proc. civ. e 2697 cod. civ. in relazione alle censure di cui all’art. 360 n. 3 e 4 cod. proc. civ., nonché il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto decisivo ex art. 360 n. 5 cod. proc. civ.. Nella sentenza impugnata è stato affermato che dall’ingiustificato e reiterato rifiuto del convenuto di sottoporsi alla prova ematologica non poteva trarsi alcun argomento utile alla prova dell’adulterio della madre, in quanto i fatti dedotti a sostegno dell’esistenza di una relazione extraconiugale all’epoca del concepimento erano da collocarsi temporalmente a circa un quarantennio prima dell’azione intrapresa. Con tale assunto, la Corte d’Appello di Roma, secondo il ricorrente, ha escluso alcun rilievo probatorio al dedotto comportamento processuale, ritenuto, invece, negli orientamenti di questa Corte, elemento decisivo anche nei giudizi di disconoscimento di paternità, così operando una non corretta interpretazione dell’art. 116 cod. proc. civ..

Peraltro, osserva la parte ricorrente, l’oggettiva difficoltà di fornire la prova dell’esistenza dell’adulterio e del rapporto tra adulterio e concepimento, dovuta al lungo tempo trascorso, avrebbe dovuto condurre ad una valorizzazione del comportamento processuale del convenuto ai sensi dell’art. 116 cod. proc. civ., nel solco della pronuncia della Corte Costituzionale n. 266 del 2006. Ove fosse condiviso l’iter argomentativo della Corte d’Appello, risulterebbe frustrato, a giudizio del ricorrente, il diritto di azione in tali controversie dal momento che l’ingiustificato rifiuto di sottoporsi alla prova ematologica sarebbe sufficiente a paralizzare l’azione.

Sotto il profilo del vizio di motivazione, la pronuncia viene censurata per la forma apodittica ed astratta con la quale viene escluso il rilievo probatorio ex art. 116 cod. proc. civ. del comportamento processuale del convenuto, non risultando concretamente spiegato perché alla luce di ‘una rigorosa applicazione delle regole di formazione del convincimento del giudice’ dall’ingiustificato rifiuto di sottoporsi alla prova ematologica da parte del convenuto non possa trarsi alcun argomento di prova.

Nel terzo motivo di ricorso viene dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 116 e 244 cod proc. civ. in relazione all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., nonché sotto il profilo del vizio di motivazione ex art. 360 n. 5 cod. proc. civ.. La censura del ricorrente si rivolge sia verso la valutazione d’inutilizzabilità delle prove espletate, sia verso la declaratoria d’inammissibilità dei capitoli di prova non ammessi.

In ordine alle prove espletate, secondo la parte ricorrente, l’inutilizzabilità non può farsi discendere dalla generica affermazione della natura ‘de relato’ della deposizione, senza precisare in concreto se si tratti di circostanze de relato ex parte actoris o provenienti da un terzo, come è accaduto nel caso di specie. In tale seconda ipotesi, infatti, secondo l’orientamento di questa Corte, non può essere escluso, in via generale ed astratta, il rilievo di tali deposizioni, tenuto conto della natura delle circostanze da provare e dell’oggettiva difficoltà, se non impossibilità, di pervenire ad una prova diretta dell’adulterio, come sottolineato dalla stessa Corte Costituzionale nella pronuncia più volte citata.

In ordine ai capitoli dichiarati inammissibili il ricorrente svolge analoga censura. La valutazione di genericità ed ininfluenza viene espressa in forma apodittica, mentre il rilievo relativo alla natura de relato delle circostanze capitolate viene formulato in generale e non con riferimento ai singoli capitoli, così come quello della mancata contestualizzazione dei fatti indicati. Anche in questa valutazione la Corte incorre nell’illegittima esclusione del rilievo della distinzione tra circostanze apprese de relato dalla parte attrice o da terzi, rigettando le prove con motivazione del tutto insufficiente.

Nel primo motivo di ricorso incidentale viene dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 116, 244, 246 cod. proc. civ. Osserva al riguardo la parte controricorrente che la sequenza cronologica delle circostanze emerse dal complesso del materiale probatorio in atti, ed in particolare l’anteriorità dell’incarico all’agenzia investigativa perché prelevasse campioni biologici di S..P. rispetto alla conoscenza dell’adulterio appresa nel corso di una cena, avrebbe dovuto condurre in modo inequivoco a ritenere tardiva l’azione intrapresa. La Corte d’Appello ha trascurato l’inverosimiglianza delle circostanze poste a base della tempestività dell’azione, omettendo di rilevare l’incapacità come teste della moglie di P.F. . Nel secondo motivo di ricorso incidentale, la medesima censura viene dedotta sotto il profilo del vizio di motivazione nonché come violazione e falsa applicazione dell’art. 244 cod. proc. civ. sotto il profilo dell’omessa valutazione del raggiungimento della prova dell’anteriorità rispetto al termine annuale della prova dell’adulterio. Osserva al riguardo il controricorrente che, come dichiarato dall’attore nell’atto di citazione, prima dell’evento (maggio 2004) indicato come dies a quo

della conoscenza dell’adulterio, in realtà egli era già al corrente di alcune voci ed aveva avuto alcuni segnali. La Corte d’Appello aveva ingiustificatamente trascurato questa dichiarazione confessoria.

Nel terzo motivo di ricorso incidentale viene dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 91 cod. proc. civ. in ordine alla statuizione sulla compensazione integrale delle spese di lite di entrambi i gradi, ritenuta illegittima alla luce della piena soccombenza della controparte.

In ordine logico devono, preliminarmente, essere affrontati i primi due motivi del ricorso incidentale, in quanto relativi alla contestazione del rispetto del termine annuale di decadenza dall’azione previsto dall’art. 244, secondo comma, cod. civ..

Tali motivi possono essere trattati congiuntamente ed essere dichiarati infondati. Con essi il controricorrente pur se mediante l’astratta prospettazione anche del vizio di violazione di legge, mira ad una rivalutazione delle risultante probatorie, non consentita in sede di giudizio di legittimità. La Corte d’Appello non ha omesso di considerare le ragioni poste a base dell’eccezione d’intempestività dell’azione, già formulata nei precedenti gradi di giudizio (pag. 7,8 sentenza impugnata) ma ha fondato la propria statuizione di rigetto sulla base di un apprezzamento delle circostanze di fatto e dell’attendibilità dei testi del tutto difforme da quella proposta dal controricorrente, in particolare escludendo, con motivazione esauriente ed adeguata, il rilievo cruciale che il controricorrente ritiene di dare alla dedotta circostanza temporale relativa all’incarico all’agenzia investigativa. Tale specifica contestazione ha, tuttavia, come già premesso, ad esclusivo oggetto il riesame dei fatti e la richiesta, inammissibile, di una ricostruzione alternativa a quella fornita in sede di giudizio d’appello. Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, la Corte di Cassazione non ha il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e a della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione ; fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, (ex plurimis Cass.27162 del 2009; 6288 del 2011).

I motivi del ricorso principale possono essere trattati anch’essi congiuntamente in quanto logicamente connessi.

Il fulcro attorno al quale ruotano le censure formulate dal ricorrente è costituito dall’omessa considerazione da parte della Corte d’Appello di Roma dell’ingiustificato rifiuto da parte del convenuto di sottoporsi alla prova ematologica, nonostante la preminenza attribuita dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 266 del 2006 a tale accertamento rispetto alla prova dell’adulterio, di difficile dimostrazione pratica. Accanto a tale rilievo, che permea tutti e tre i motivi, viene specificamente censurato l’omesso rilievo delle circostanze di fatto apprese dai testi de relato e la valutazione d’inammissibilità di gran parte dei capitoli di prova.

L’esame analitico dei motivi richiede una preliminare precisazione. Le due azioni rivolte all’accertamento della genitorialità biologica anche in contrasto con quella legittima, individuate dal legislatore nel disconoscimento della paternità e nella dichiarazione giudiziale di paternità (e maternità) presentano caratteristiche oggettive e soggettive diverse che ne conformano anche i requisiti probatori. Il favor veritatis, nell’azione giudiziale di paternità e maternità, sorregge un nucleo di diritti inviolabili della persona umana, quali quello alla genitorialità e ad uno dei profili costitutivi della propria identità personale del quale il richiedente è stato privato per effetto del mancato riconoscimento. Nell’altra azione, al contrario, in caso di esito positivo dell’accertamento della mancata corrispondenza tra filiazione biologica e filiazione legittima, si determina l’eliminazione di uno status e del medesimo complesso di diritti che dell’azione rivolta alla dichiarazione giudiziale di paternità (e maternità) costituiscono il risultato. La condizione filiale, nella prima azione, per effetto dell’accertamento giudiziale, viene fortemente potenziata. Nel disconoscimento di paternità, invece, si determina la privazione sopravvenuta dello status di figlio legittimo ex patre per cause estranee alla sfera di volontà e responsabilità del soggetto destinato a subire gli effetti dell’azione.

Non può, conseguentemente, esservi una perfetta coincidenza dei requisiti probatori delle due azioni (peraltro esclusa anche dalla disciplina normativa di ciascuna di esse), pur dovendosi dare atto del progressivo, crescente rilievo che i mezzi di prova univocamente indicativi della discendenza biologica, ed in particolare la prova ematologica, hanno assunto in entrambe le azioni.

La sentenza n. 266 del 2006 della Corte Costituzionale, avendo escluso la necessità della pregiudiziale prova dell’adulterio al fine di accedere alla prova ematologica, ha fortemente valorizzato la rilevanza e la preminenza che tale accertamento probatorio, per la sua univocità di risultato, assume. In particolare nella pronuncia è stata sottolineata da un lato la difficoltà pratica a fornire la prova dell’adulterio e l’insufficienza di questa prova al fine dell’accoglimento della domanda, dall’altro la risolutività ed indispensabilità della prova ‘tecnica’ che in virtù dei progressi della scienza biomedica costituisce l’unico mezzo per pervenire ad un accertamento tranquillizzante della esistenza o non esistenza della filiazione.

Alla luce delle importanti indicazioni provenienti dal giudice delle leggi, gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità si sono progressivamente rivolti verso il riconoscimento di un rilievo crescente alla prova ematologica (Cass. 8356 del 2007; 15088 e 15089 del 2008), in considerazione ‘dell’alto grado di affidabilità’ di tale mezzo di prova, anche nei giudizi di disconoscimento della paternità, fino ad affermare con la pronuncia n. 4175 del 2007 che ‘a seguito della sentenza della Corte costituzionale 6 luglio 2006, n.: 266, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 235, secondo comma cod. civ., nella parte in cui subordinava l’esame delle prove ematologiche alla previa dimostrazione dell’adulterio della moglie, il giudice di merito deve procedere agli accertamenti genetici anche in mancanza di prova dell’adulterio, traendo argomenti di prova ex art. 116 cod. proc. civ. dall’eventuale rifiuto di una parte di sottoporsi al prelievo. (Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza della corte d’appello, che aveva respinto la domanda di disconoscimento in mancanza di prova dell’adulterio e dato il rifiuto della madre di sottoporre se e il figlio ad accertamenti, tenuto conto del mutato quadro normativo e della raggiunta maggiore età da parte del figlio, in condizione attualmente di autodeterminarsi in ordine alle prove genetiche)’.

Non può, infatti, negarsi che di fronte ad un’indagine tecnica risolutiva, il rifiuto volontario di sottoporvisi da parte di un soggetto capace di autodeterminarsi è il frutto di una scelta non coercibile, ma certamente suscettibile di essere valutata ai sensi dell’art. 116 cod. proc. civ. in modo tendenzialmente coerente con il grado di efficacia probatoria dell’esame, e non alla stregua di un qualunque altro comportamento processuale omissivo della parte.

Tale indubbio rilievo non esclude, tuttavia, l’esigenza di procedere all’accertamento istruttorio dell’intervenuto adulterio, essendo l’azione di disconoscimento di paternità consentita soltanto in presenza di condizioni tipizzate e non suscettibili d’interpretazione analogica (Corte Cost. n. 347 del 1998), nella consapevolezza, riconosciuta anche dalla citata pronuncia n. 266 del 2006, della oggettiva difficoltà pratica di fornirne la prova e della conseguente incisività, in tali controversie, ex art. 116 cod. proc. civ., dell’eventuale rifiuto di sottoporsi all’esame ematologico da parte del convenuto.

Deve osservarsi, al riguardo, che le circostanze di fatto afferenti la sfera intima dei rapporti interpersonali, quali quelle riguardanti relazioni esclusive a carattere sentimentale e sessuale, sono difficilmente accertabili mediante prova diretta, risultando statisticamente particolarmente ampio il ricorso alla prova presuntiva raggiunta mediante una pluralità d’indizi probanti. In questo ambito, peraltro, non può negarsi, in via generale ed astratta, ingresso e rilevanza, come invece emerge nella sentenza impugnata, alle deposizioni testimoniali che abbiano ad oggetto fatti acquisiti de relato. Al riguardo sono fermi gli orientamenti di questa Corte. In linea generale le deposizioni testimoniali che riferiscono circostanze apprese de relato sono idonee ad integrare, unitamente ad altri elementi di prova indiziari valutabili ex art. 116 cod. proc. civ., il quadro probatorio ‘utilizzabile’ dal giudice del merito, tanto più nei procedimenti nei quali sono in gioco diritti personalissimi afferenti alla sfera intima e personale (Cass. 2815 del 2006; 11844 del 2006; 3709 del 2008). In tali controversie possono contribuire ad integrare il quadro probatorio anche le deposizioni de relato ‘ex parte actoris’ (Cass. 2815 del 2006; 11844 del 2006; 3709 del 2008). Peraltro, le deposizioni de relato apprese da terzi hanno, anche nei procedimenti diversi da quelli prima individuati, maggiore pregnanza probatoria.(Cass. 8358 del 2007; 313 del 2011).

Alla luce dei principi esposti deve ritenersi fondato il vizio di violazione dell’art. 116 cod. proc. civ. con riferimento ai parametri astratti, utilizzati dalla Corte d’Appello per escludere radicalmente ed in via generale l’ammissibilità ed il rilievo delle testimonianze de relato. La Corte ne ha, infatti, escluso qualsiasi rilevanza omettendo, in primo luogo, di valutare i capitoli di prova e le deposizioni testimoniali all’interno del peculiare ambito di accertamento imposto dal giudizio, nel quale, come rilevato, si sviluppa il maggior grado di utilizzabilità delle cosiddette prove testimoniali de relato. In secondo luogo, la Corte d’Appello ha omesso di distinguere in sede di ammissibilità e apprezzamento delle prove testimoniali il diverso rilievo che hanno le deposizioni de relato ex parte actoris e quelle provenienti da terzi, trascurando che nella specie, sia le prove espletate sia i capitoli dichiarati inammissibili avevano ad oggetto circostanze apprese da terzi. Deve, peraltro, rilevarsi Xun’ulteriore violazione dell’art. 116 cod. proc. civ., incidente anche sul dedotto vizio di motivazione, consistente nell’esame del tutto atomistico e non d’insieme delle emergenze probatorie disponibili. La Corte d’Appello ha infatti isolatamente escluso il rilievo del rifiuto ingiustificato a sottoporsi all’esame ematologico da parte del convenuto ed altrettanto isolatamente depotenziato le risultanze delle prove testimoniali, senza operare un esame complessivo dei due aspetti, ritenendo non valorizzabile il primo sulla mera constatazione della lontananza temporale dei fatti di causa.

In conclusione, nella sentenza impugnata, con riferimento alle prove espletate, è stata formulata una generale e generica valutazione di inutilizzabilità fondata sulla loro natura de relato senza dare adeguato conto dei parametri normativi e dei principi interpretativi sulla base dei quali devono essere valutate tali deposizioni nei giudizi in questione e senza correlarne il contenuto con gli altri elementi indizianti (quali il rifiuto ingiustificato di sottoporsi alla prova ematologica da parte del convenuto).

In ordine ai capitoli di prova non ammessi, la declaratoria d’inammissibilità si fonda sulla medesima errata valutazione astratta delle deposizioni de relato e su un giudizio genericamente rivolto a tutte le circostanze, formulato in modo assertivo e senza offrirne adeguata e puntuale giustificazione.

In conclusione, il ricorso principale deve essere accolto e la sentenza impugnata cassata con rinvio alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione perché nell’esame delle istanze istruttorie formulate dalla parte ricorrente e degli elementi ed argomenti di prova acquisiti, ancorché liberamente ed incensurabilmente apprezzabili/si fondi sui seguenti principi di diritto:

  1. a) nella selezione di ammissibilità e rilevanza dei capitoli di prova per testi devono essere osservati i principi elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte in tema di deposizioni de relato, come sopra illustrati, mediante un esame puntuale delle circostanze capitolate, tenendo nel debito conto che la lontananza temporale dei fatti non può costituire ostacolo all’esercizio del diritto alla prova, in particolare in un’azione già caratterizzata dalla sottoposizione ad un rigido termine di decadenza dalla conoscenza dei fatti;
  2. b) alla luce dei medesimi principi deve essere considerata la prova orale espletata;
  3. c) gli elementi ed argomenti di prova disponibili devono essere valutati alla luce dei principi che governano la prova presuntiva complessivamente e non separatamente.

Il terzo motivo del ricorso incidentale deve ritenersi assorbito dall’accoglimento del ricorso principale.

P.Q.M.

La Corte, accoglie il ricorso principale. Rigetta il primo e secondo motivo del ricorso incidentale, assorbito il terzo motivo.

Cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di Appello di Roma in diversa composizione anche per le spese del presente procedimento.

in tema di azione di disconoscimento di paternità, il termine previsto dall’art. 244 cod. civ., di natura decadenziale,

afferisce a materia sottratta alla disponibilità delle parti, così che il giudice, a norma dell’art. 2969 cod. civ., deve accertarne ‘ex officio’ il rispetto, dovendo correlativamente l’attore fornire la prova che l’azione sia stata proposta entro il termine previsto, senza neppure che possa spiegare rilievo, in proposito, la circostanza che nessuna delle parti abbia eccepito l’eventuale decorso del termine stesso.

A norma dell’art. 231 c. civ. “il marito è padre del figlio concepito durante il matrimonio”, si presumono concepiti in costanza di matrimonio i figli di donna coniugata, nati non prima di 180 giorni dalla celebrazione e non oltre 300 giorni dallo scioglimento del matrimonio  o dalla separazione dei coniugi (art. 232 c. civ.). Si può promuovere azione volta al disconoscimento di paternità sia per il figlio concepito durante il matrimonio, sia per i figli nati al di fuori di un’unione coniugale. La prima azione, ossia il disconoscimento del matrimonio per il figlio concepito durante il matrimonio, è consentita soltanto nei seguenti casi (art. 235 c.civ.):

se i coniugi non hanno coabitato nel periodo compreso fra il trecentesimo ed il centottantesimo giorno prima della nascita;

se durante il tempo predetto il marito era affetto da impotenza, anche se soltanto di generare;

se nel detto periodo la moglie ha commesso adulterio o ha tenuto celata al marito la propria gravidanza.

La paternità legittima non può essere messa in discussione e neppure difesa da colui che è indicato come padre naturale, il quale, allorché deduca che l’esito (positivo) dell’azione di disconoscimento di paternità si riverbera sull’azione di riconoscimento della paternità intentata nei suoi confronti, si limita in realtà a far valere un pregiudizio di mero fatto, laddove il rimedio contemplato dall’art. 404 cod. proc. civ. presuppone in capo all’opponente un diritto autonomo la cui tutela sia però incompatibile con la situazione giuridica risultante dalla sentenza impugnata’ (Sez. 1, Sentenza n. 12167/2005. V. anche Sez. 1, Sentenza n. 14315/2001, secondo la quale il padre naturale non è legittimato neppure ad intervenire in appello in un giudizio di disconoscimento della paternità, essendo tale legittimazione riconosciuta a chi potrebbe proporre opposizione ai sensi dell’art. 404 cod. proc. civ., rimedio esperibile solo da chi faccia valere un diritto autonomo e incompatibile col rapporto giuridico accertato o costituito dalla sentenza opposta, e quindi solo a favore di chi sia pregiudicato in un suo diritto).

La Cassazione ha già affermato che tra il procedimento di disconoscimento della paternità legittima e quello instaurato per il riconoscimento della paternità naturale non sussiste un nesso di pregiudizialità dal momento che il solo oggetto di quest’ultimo giudizio è costituito per il padre biologico dal suo diritto ad escludere la paternità naturale ‘ex adverso’ pretesa, non anche da quello a vedere affermata la paternità disconosciuta nell’altro procedimento (Sez. 1, Sentenza n. 12167/2005).

D’altra parte né colui che sia indicato come padre naturale, né i suoi eredi, sono legittimati passivi nel giudizio di disconoscimento della paternità e la sentenza che accoglie la domanda di disconoscimento è opponibile nei confronti di tali soggetti, anche se non hanno partecipato al relativo giudizio (Sez. 1, Sentenza n. 430/2012). Inoltre, neppure è ammissibile, nel giudizio per il disconoscimento della paternità, ‘l’intervento di colui che è indicato come padre naturale, non potendo la controversia sul relativo riconoscimento avere ingresso sino a quando la presunzione legale di legittimità della filiazione non sia venuta meno con il vittorioso esperimento dell’azione di disconoscimento’ (Sez. 1, Sentenza n. 1784/2012).

Non essendo il padre naturale legittimato a proporre opposizione di terzo contro la sentenza di disconoscimento di paternità, il primo motivo è infondato mentre il secondo motivo – attinente al merito dell’opposizione ex art. 404 c.p.c. – è inammissibile.

 CHI SPETTA E IN QUALI TERMINI L’AZIONE DI DISCONOSCIMENTO PATERNITA’

la legittimazione ad agire spetta a:

–        il padre entro l’anno dalla nascita del figlio ovvero da quando egli ha avuto notizia della nascita del figlio;

–        la madre entro sei mesi dalla nascita del figlio;

–        il figlio entro un anno dal compimento della maggiore età o dal momento in cui viene a conoscenza di fatti che rendano ammissibile il disconoscimento;

–        il curatore speciale del figlio maggiore dei 16 anni;

–        il pubblico ministero se il minore non ha ancora compiuto sedici anni.

La cassazione sottolinea che :va rilevato che l’art. 276 c.c. è estraneo alla fattispecie in esame, così come l’art. 248 c.c., avendo tale ultima azione un carattere residuale, riferendosi cioè alle contestazioni della legittimità che investano presupposti diversi da quello della paternità (Sez. 1, n. 3529/2000), mentre l’enunciato normativo ‘presunto padre’ contenuto nell’art. 247 c.c., riferito al legittimato passivo dell’azione di disconoscimento, è speculare a quello – identico – contenuto nell’art. 235 c.c. che disciplina le condizioni di ammissibilità della stessa azione e fa riferimento al ‘presunto padre’ come a quello così risultante dalle norme sullo stato di figlio legittimo (231-234).

“La determinazione dei soggetti legittimati a proporre l’azione di disconoscimento della paternità è una scelta insindacabile del legislatore che ha ritenuto di riservare ai soli soggetti direttamente interessati, e cioè ai membri della famiglia legittima, il potere di decidere circa la prevalenza della verità ‘biologica’ o della verità ‘legale’: una innovazione, che attribuisse direttamente la legittimazione ad agire a soggetti privati estranei alla famiglia legittima, quale è il presunto padre naturale, rappresenterebbe la scelta di un criterio diverso, legato ad una ulteriore evoluzione della coscienza collettiva, che solo il legislatore può compiere. Né vale opporre che l’equilibrio tra verità legale, che tutela l’unità della famiglia legittima (art. 29 Cost.), e verità biologica (art. 30 Cost.) è stato già modificato dalla legge n. 184/1983 con l’ammettere la promozione dell’azione di disconoscimento della paternità su iniziativa del P.M., fino a quando il figlio non abbia compiuto sedici anni, giacché la nuova norma, prevedendo che l’azione sia poi esercitata non dal pubblico ministero, ma, in nome e nell’interesse del figlio, da un curatore speciale, è rimasta formalmente nei limiti del criterio di determinazione dei soggetti titolari dell’azione assunto dalla legge n. 151 del 1975” (Corte cost., sent. n. 429 del 1991, con la quale è stata ritenuta l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 244, ultimo comma, cod. civ., in parte qua, sollevata in riferimento agli artt. 3 e 30 Cost.).

Ve rilevato, infatti, che la Corte costituzionale, sin dal 1994 (Corte cost., 3 febbraio 1994, n. 13) ha osservato che, posto che nella disciplina giuridica del nome confluiscono esigenze di natura sia pubblica che privata, ove si accerti che il cognome già attribuito ad un soggetto non è quello spettantegli per legge in base allo ‘status familiae’, l’interesse pubblico a garantire la fede del registro degli atti dello stato civile è soddisfatto mediante la rettifica dell’atto riconosciuto non veritiero, ma non può condurre a sacrificare l’interesse individuale a conservare il cognome mantenuto fino a quel momento nella vita di relazione e divenuto ormai segno distintivo dell’identità personale, tutelata dall’art. 2 Cost.; tanto più che, nel caso in cui la rettifica riguardi persona in età avanzata con discendenti, la negazione dell’interesse individuale finirebbe col pregiudicare lo stesso interesse generale alla certa e costante identificazione delle persone. Pertanto, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo – per contrasto con l’art. 2 Cost. – l’art. 165 del r. d. 9 luglio 1939 n. 1238, nella parte in cui non prevedeva che, quando la rettifica degli atti dello stato civile, intervenuta per ragioni indipendenti dal soggetto cui si riferisce, comportava il cambiamento del cognome, il soggetto stesso potesse ottenere dal giudice il riconoscimento del diritto a mantenere il cognome originariamente attribuitogli ove questo fosse ormai da ritenersi autonomo segno distintivo della sua identità personale.

L’art. 95, comma 3, del DPR 3 novembre 2000, n. 396 ha codificato il principio enunciato con la pronuncia della Corte costituzionale, prevedendo che nell’ipotesi di rettificazione di atti dello stato civile «l’interessato può comunque richiedere il riconoscimento del diritto al mantenimento del cognome originariamente attribuitogli se questo costituisce ormai autonomo segno distintivo della sua identità personale».

La Corte ha affermato che in sede di giudizio di merito sul disconoscimento di paternità non può trovare ingresso l’indagine sull’interesse del minore sostenendo che tale interesse deve essere valutato solo in sede di nomina del curatore speciale ai sensi dell’artt. 244 c.c. e 737 c.p.c. Le ragioni della affermata centralità del favor veritatis sono state rintracciate nel processo di equiparazione tra filiazione naturale e legittima (da ultimo riconfermato dal legislatore con il D.lgs n. 154/2013) in ragione del quale non sarebbe più necessario porre baluardi a difesa dello status di figlio legittimo tenendo anche conto che “la ricerca della verità naturale risulta agevolata dalle avanzate acquisizioni scientifiche nel campo della genetica e dall’elevatissimo grado di attendibilità dei risultati delle indagini” (C. Cost. n. 170/1999). Inoltre ha sottolineato la Corte che la ricerca della verità biologica viene oggi considerata dalla giurisprudenza nazionale e sovranazionale espressione del diritto fondamentale all’identità personale che si esplica anche attraverso la ricerca della propria origine biologica. Da qui il favor veritatis quale cardine della disciplina in materia di accertamento dei rapporti familiari.

Può dunque sostenersi che la Suprema Corte abbia operato un contemperamento degli interessi rilevanti nel giudizio sul disconoscimento giungendo a ritenere prevalente il favor veritatis rispetto all’interesse del minore il cui accertamento viene relegato nel solo procedimento per la nomina del curatore speciale. Ѐ evidente come la posizione sposata dalla Corte lasci adito a molti dubbi non essendo chiaro perché una questione delicata come il mutamento di status di un soggetto debba essere espunta dal giudizio di merito a cognizione piena per esser relegata ad un giudizio sommario in cui, in ragione della necessaria speditezza del procedimento camerale ex art. 737 c.p.c., non può essere garantita un’analisi approfondita degli interessi del minore infraquattordicenne. Basti pensare che in sede di nomina del curatore speciale non sono parti necessarie i genitori legali del minore la cui partecipazione al giudizio non può non essere ritenuta rilevante ai fini dell’accertamento dell’interesse del minore.

Tale orientamento, pur desumibile da un risalente arresto di questa Corte (Cass., 5 gennaio 1994, n. 71), deve ritenersi superato al lume delle successive pronunce che hanno affermato la carenza di definitività e decisorietà del provvedimento di nomina del curatore speciale ai sensi dell’art. 244 c.c., u.c., (Cass., 25 novembre 1998, n. 11947), peraltro all’esito di un procedimento in cui soltanto il pubblico ministero assume la qualità di parte (Cass., 11 settembre 2003, n. 13892). Appare di intuitiva evidenza come il giudizio circa la valutazione dell’interesse del minore, ove si consideri anche la rilevanza del principio del contraddittorio e la delicatezza della materia, non possa non conseguire all’esito di un giudizio di cognizione piena, e non possa essere affidato alle valutazioni, all’esito di “sommarie informazioni”, inerenti all’opportunità o meno di procedere alla nomina del curatore speciale, vale a dire al promovimento dell’azione di disconoscimento in nome e per conto del minore. Il rilievo attribuito alla volontà di quest’ultimo, assolutamente inesplorata nella decisione impugnata, emerge dalla novellata disciplina in materia di ascolto quale emerge dall’art. 336 bis c.c.(su tali aspetti cfr. Cass., 6 marzo 2015, n. 6129; Cass., 5 marzo 2014, n. 5237; Cass., 2 agosto 2013, n. 18538)” (C. Cass. n. 26767/2016).

La stessa sentenza da ultimo citata ha dato atto dell’accentuato favore per la conformità dello status alla realtà della procreazione, chiaramente espresso nel progressivo ampliamento in sede legislativa delle ipotesi di accertamento della verità biologica, nonché – si deve aggiungere – nel diritto vivente che ne ha evidenziato il valore di rilevanza costituzionale primaria (v, tra le altre, Corte cost. n. 7/2012 e Cass., sez. I, n. 19599/2016).

Infatti, non si può negare l’importanza del legame genetico sotto il profilo dell’identità personale, nella quale sono compresi il diritto di accertare la propria discendenza biologica (Corte Edu, 14 gennaio 2016, Mandet c. Francia) e il diritto dell’adottato di conoscere le proprie origini (Corte cost. n. 278 del 2013). L’imprescrittibilità riguardo al figlio delle azioni di stato (artt. 270, primo comma; 263, secondo comma; 244, quinto comma, c.c.) dimostra l’importanza della discendenza biologica e della connessa identità personale, la cui tutela rientra a pieno titolo nell’ambito dei diritti fondamentali della persona riconosciuti dalla nostra Costituzione, prima ancora che dalle fonti internazionali. La Corte costituzionale ha ritenuto (nell’ordinanza n. 7 del 2012) che “la crescente considerazione del favor veritatis (la cui ricerca risulta agevolata dalle avanzate acquisizioni scientifiche nel campo della genetica e dall’elevatissimo grado di attendibilità dei risultati delle indagini: sentenze n. 50 e n. 266 del 2006) non si ponga in conflitto con il favor minoris, poiché anzi la verità biologica della procreazione costituisce una componente essenziale dell’interesse del medesimo minore, che si traduce nella esigenza di garantire ad esso il diritto alla propria identità e, segnatamente, alla affermazione di un rapporto di filiazione veridico (sentenze 322 del 2011, n. 216 e n. 112 del 1997)”.

È alla luce di questa complessiva evoluzione normativa e giurisprudenziale che, come rilevato da un’attenta dottrina, dev’essere letto il citato art. 30, quarto comma, Cost., così come il terzo comma, la cui portata limitativa della tutela dei figli nati fuori del matrimonio (nei limiti in cui sia “compatibile con i diritti della famiglia legittima”) è ormai superata dall’evoluzione normativa (v. legge n. 219/2012 e d.lgs. n. 154/2013). Come osservato dalla Corte costituzionale, “il legislatore della riforma del diritto di famiglia ha superato la impostazione tradizionale che attribuiva preminenza al favor legitimitatis attraverso la equiparazione della filiazione naturale a quella legittima ed ha di conseguenza reso omogenee le situazioni che discendono dalla conservazione dello stato ancorato alla certezza formale rispetto a quelle che si acquisiscono con l’affermazione della verità naturale, la cui ricerca risulta agevolata dalle avanzate acquisizioni scientifiche nel campo della genetica e dall’elevatissimo grado di attendibilità dei risultati delle indagini” (Corte cost. n. 170/1999).

Nella specie, con riguardo al profilo dell’interesse del minore che non sarebbe stato valutato nella fase della nomina del curatore speciale, si deve dare continuità all’orientamento secondo cui la proposizione da parte del minore infrasedicenne (o, a seguito della riforma, infraquattordicenne) di azione di disconoscimento di paternità postula l’apprezzamento in sede giudiziaria dell’interesse di questi, non potendo considerarsi utile equipollente la circostanza che sia l’ufficio del pubblico ministero a richiedere la nomina del curatore speciale abilitato all’esercizio dell’azione stessa; tuttavia, siffatto apprezzamento trova istituzionale collocazione nel procedimento diretto a quella nomina – essendo, nel corso di esso, possibile l’acquisizione dei necessari elementi di valutazione e dovendosi, col provvedimento conclusivo, che secondo l’art. 737 c.p.c. ha la forma del decreto motivato, giustificare congruamente le conclusioni raggiunte in ordine alla sussistenza dell’interesse – ma non anche nel successivo giudizio di merito (v. Cass. n. 71/1994, coerentemente con Corte cost. n. 429/1991). Una diversa interpretazione, in base alla quale la valutazione dell’interesse del minore dovrebbe essere effettuata anche nel giudizio di merito, ai fini dell’ammissibilità dell’azione di disconoscimento proposta dal curatore, non solo, è priva di basi normative, non essendo prevista dall’art. 244, ult. comma, c.c. (nemmeno dopo la riforma apportata dall’art. 18, comma 1, d.lgs. n. 154/2013), ma rappresenterebbe un’inutile duplicazione di una indagine già compiuta e sottoposta al vaglio del giudice ai fini della nomina del curatore.

In ogni caso, nella specie, la corte di merito ha ampiamente argomentato – con apprezzamento di fatto non censurato con idoneo mezzo ex art. 360 n. 5 c.p.c. – in ordine all’interesse del minore, evidenziando il valore positivo della conoscenza della verità, non contrastata da elementi idonei a fare presumere il rischio di un concreto pregiudizio, tenuto conto che non era posto in discussione il valore della positiva relazione genitoriale con il padre legale e che non era possibile compiere alcuna valutazione negativa in ordine al profilo del padre biologico, il quale, tra l’altro, aveva dimostrato un serio interesse nei confronti del figlio.

Con il sesto motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 95, comma 3, dPR n. 396 del 2000, 316 e 320 c.c., in ordine alla sua negata legittimazione a chiedere la conservazione del cognome F. da parte del minore, avendo la corte di merito omesso di valutare che egli aveva la potestà genitoriale sul figlio e che era tenuto a tutelarlo rispetto ai pregiudizi personali e sociali derivanti dal disconoscimento.

Secondo la suprema corte Cassazione civile sez. VI  03 settembre 2014 n. 18649   

presupposto indefettibile per la legittima adozione del provvedimento di sospensione necessaria del giudizio, ex art. 295 cod. proc. civ.,

è la pendenza, dinanzi allo stesso o ad altro giudice, di una controversia avente ad oggetto questioni pregiudiziali rispetto a quelle dibattute nel giudizio da sospendere. (In applicazione dell’anzidetto principio, la S.C. ha revocato il provvedimento impugnato, reso nel corso di un’azione di dichiarazione giudiziale di paternità naturale, in quanto il giudizio presupposto, inerente l’azione ex art. 244 cod. civ., non era stato ancora instaurato). Regola sospensione

L’imprescrittibilità dell’azione di disconoscimento di paternità proposta dal figlio Cassazione civile sez. VI  03 settembre 2014 n. 18649   

, introdotta dall’art. 244 comma 5 c.c. come riformulato dall’art. 18 d.lg. 28 dicembre 2013 n. 154, si applica, in quanto non esclusa dalle disposizioni transitorie di cui all’art. 104, commi 7 e 9 del medesimo d.lg., anche ai giudizi già pendenti alla data di entrata in vigore della nuova normativa. Cassa con rinvio, App. Venezia, 13/05/2010

In tema di azione di disconoscimento di paternità e quindi di tutela della famiglia Cassazione civile sez. I  26 giugno 2014 n. 14556

, la legittimazione e la formulazione comune della domanda giudiziale di disconoscimento costituiscono i presupposti necessari e sufficienti per la validità e la procedibilità formale della medesima azione processuale. È , così, illegittima la sentenza di merito con cui, accertata la legittimazione del ricorrente, l’intervento adesivo degli altri legittimati e l’assenza di contrasti od opposizioni in sede di contraddittorio regolarmente costituitosi, nonché la prova ematogenetica tra fratelli disposta successivamente al decesso del padre e le conclusioni favorevoli del p.m., venga dichiarata improcedibile l’azione di disconoscimento proposta nei confronti del fratello in quanto il ricorrente non ha indicato il fatto determinante della decorrenza del termine decadenziale della medesima azione.

L’art. 244 comma 2 c.c., novellato dall’art. 18 d.lg. 28 dicembre 2013 n. 154, per il quale il marito può disconoscere il figlio nel termine di un anno che decorre, nel caso in cui provi di aver ignorato l’adulterio della moglie Cassazione civile sez. I  26 giugno 2014 n. 14556

 al momento del concepimento, dal giorno in cui ne ha avuto conoscenza, si applica anche ai giudizi pendenti alla sua entrata in vigore. Cassa App. Roma 13 dicembre 2012

In tema di azione di disconoscimento di paternità, ed alla stregua della disciplina transitoria della riforma della filiazione prevista dall’art. 104, commi 7 e 9, d.lg. 28 dicembre 2013 n. 154, mentre la normativa sostanziale di cui al novellato art. 244 c.c. si applica a tutte le azioni su cui la riforma è intervenuta, anche se relative a figli nati prima della data di entrata in vigore (7 febbraio 2014) del citato decreto, i nuovi termini di cui al quarto comma della medesima disposizione codicistica operano solo per i figli già nati alla predetta data per i quali non sia stata già proposta l’azione di disoconoscimento (persistendo altrimenti l’utilizzabilità del regime decadenziale pregresso), fermi, in entrambe le ipotesi, gli effetti del giudicato formatosi prima della entrata in vigore della l. 10 dicembre 2012 n. 219. Cassa con rinvio, App. Roma, 13/12/2012

Cassazione civile sez. I  26 giugno 2014 n. 14556

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