AREZZO FIRENZE INCIDENTE MORTALE DANNO PARENTI MINISTERO Morte del congiunto – Danno non patrimoniale – Liquidazione – In via equitativa – Sussiste

Tanto accertato in merito alla sussistenza della responsabilità del Ministero degli Interni, relativamente alla tipologia di danni risarcibili occorre innanzitutto fare riferimento al danno da perdita del rapporto parentale subito sia dalla madre, che dal fratello di Si.Ma..

Il Ministero degli Interni, pertanto, avrebbe utilizzato un mezzo privo dei requisiti imposti ex lege, in grado di provocare danni a chi lo utilizza. Così facendo sarebbe venuto meno all’obbligo sancito dall’art. 35 Dlgs 626/1994, come modificato dal Dlgs 359/1999 di porre a disposizione dei lavoratori strumenti ed attrezzature idonei ai fini della sicurezza. Secondo le argomentazioni di parte attrice, eventuali concorrenti profili colposi addebitabili al fabbricante o al fornitore dei macchinari messi a disposizione dei lavoratori, non eliderebbero il nesso causale tra la condotta del datore di lavoro e l’evento lesivo in danno del lavoratore. Inoltre non assumerebbe alcun rilievo la circostanza che nel corso del procedimento penale sia stato accertato che né le verifiche interne programmate, né le revisioni periodiche eseguite dalla USL sarebbero comunque state inidonee a rilevare il malfunzionamento che ha causato il sinistro, proprio perché queste non esaurivano le iniziative che il datore di lavoro avrebbe dovuto intraprendere prima di rendere disponibile l’autogrù ai propri dipendenti. A tal riguardo parte attrice ha rappresentato che, nonostante detto mezzo fosse stato in dotazione al Comando Provinciale di Arezzo fin dal 1982, da allora non erano mai state effettuate verifiche complete sullo stesso, volte ad individuare eventuali carenze occulte del mezzo, non rilevabili a vista o nell’uso quotidiano

Per tale si intende infatti il danno di natura non patrimoniale che un soggetto subisce per la morte di una persona cara, a cui era legata da un rapporto di natura familiare o affettiva. Anche recentemente la Corte di Cassazione ha affermato che tale danno si concretizza “nel vuoto costituito dal non potere più godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno e perciò nell’irrimediabile distruzione di un sistema di vita basato sull’affettività, sulla condivisione, sulla rassicurante quotidianità dei rapporti tra moglie e marito, tra madre e figlio, tra fratello e fratello, nel non poter più fare ciò che per anni si è fatto, nonché nell’alterazione che una scomparsa del genere inevitabilmente produce anche nelle relazioni tra i superstiti’ (Cass. n. 9196/2018).

La liquidazione di detto danno non può che essere compiuta in via equitativa, tenendo conto di vari fattori quali l’intensità del vincolo familiare, la presenza o meno di una situazione di convivenza e ogni altra circostanza utile quali la consistenza più o meno ampia del nucleo familiare, le abitudini di vita, l’età della vittima e dei superstiti.

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Per quanto riguarda il fratello della vittima, Lu.Ma., questi all’epoca del sinistro aveva 27 anni e pur non convivendo con Si.Ma., all’epoca ventinovenne, è sicuramente presumibile il forte legame che lega due fratelli di età molto ravvicinata. I due inoltre risiedevano comunque all’interno del medesimo Comune e, come emerso dalla consulenza tecnica svolta in corso di causa, frequentemente Si.Ma. si recava nella casa in cui vivevano la madre ed il fratello, avendo uno stabile legame affettivo con entrambi.

Pertanto, tenuto conto del grado di parentela, dell’età della vittima e del congiunto, della non convivenza dei due e degli ulteriori elementi sopra indicati, sulla base delle tabelle elaborate dal Tribunale di Milano e dal Tribunale di Roma ed attualmente vigenti, si ritiene che il danno da perdita del rapporto parentale subito da Lu.Ma. debba essere quantificato in Euro 73.550,25 in moneta attuale.

 

 

Con atto di citazione ritualmente notificato Se.Si. e Ma.Lu. hanno chiesto il risarcimento dei danni subiti iure proprio in qualità rispettivamente di madre e fratello di Ma.Si. in ordine all’infortunio mortale in cui questi era rimasto coinvolto il 28.1.2003.

In particolare parte attrice ha rappresentato che in tale data un autoarticolato, condotto da tale Al.Br., composto da un trattore e da un semirimorchio-cisterna contenente un carico di gas propano, era uscito di strada ad Arezzo, lungo la Strada Statale n. 73, finendo nove metri al di sotto del livello stradale, sul greto del torrente Ce.. Sul posto era giunta pertanto una squadra di uomini e mezzi dei Vigili del Fuoco del Comando Provinciale di Arezzo, oltre ad un’ambulanza con medico a bordo e una pattuglia dei Carabinieri della Stazione di Palazzo del Pero. Il conducente del TIR, Al.Br., era stato sbalzato dal veicolo ed il medico dell’ambulanza intervenuta, dott. Gi.Sg., aveva diagnosticato un trauma alla colonna vertebrale, per cui aveva consigliato che lo stesso venisse trasportato in modo da rimanere il più possibile in posizione orizzontale. Il caposquadra dei Vigili del Fuoco, Ca.Si., aveva così deciso di calare, con il braccio telescopico dell’autogru giunta sul posto, il vigile Si.Ma., assegnandogli il ruolo di portare con sé una barella di tipo toboga, di imbracare il ferito e proteggerlo nella risalita. Una volta che Si.Ma. era stato calato nel vuoto, tuttavia, il cavo dell’autogru, cui lo stesso era agganciato, si era spezzato ed il bozzello che lo sovrastava lo aveva raggiunto colpendolo violentemente sulla testa e causandone la morte immediata. Gli altri Vigili del Fuoco a quel punto avevano imbracato Si.Ma. nella stessa barella destinata all’autista del TIR e lo avevano trasportato a braccia sulla strada, risalendo a piedi la scarpata. Anche il conducente dell’autoarticolato, infine, era stato portato a braccia dai Vigili del Fuoco seguendo il percorso del fiume, ossia la stradella bianca che si ricongiungeva alla sede stradale.

In diritto parte attrice ha innanzitutto rilevato che al Ministero convenuto deve essere attribuita la responsabilità di quanto accaduto ai sensi dell’art. 2087 c.c. in virtù del quale il datore di lavoro ha l’onere di adottare le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica dei propri dipendenti. In particolare parte attrice ha dedotto che all’epoca dei fatti, in tema di tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori, vigeva il Dlgs n. 626/1994, il cui art. 1 comma 2 prevedeva che, nei riguardi delle forze armate e di polizia, dei servizi di protezione civile, ecc., la disciplina normativa era da applicare tenendo conto delle particolari esigenze connesse al servizio espletato, individuate con decreto del Ministro dell’Interno n. 450 del 14.6.1999.

Alla luce di tale normativa, parte attrice ha individuato un primo profilo di responsabilità nelle condizioni dell’autogru utilizzata per l’intervento.

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Tribunale|Firenze|Sezione 2|Civile|Sentenza|30 luglio 2020| n. 1787

Morte del congiunto – Danno non patrimoniale – Liquidazione – In via equitativa – Sussiste

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO DI FIRENZE

SECONDA SEZIONE CIVILE

Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Maria Novella Legnaioli ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 8299/2017 promossa da:

SE.SI. (C.F. (…)) e MA.LU. (C.F. (…)), con il patrocinio degli avv. SI.DE., RO.DE. e GI.CA., elettivamente domiciliati in VIA (…), FIRENZE presso il difensore avv. GI.CA.

ATTORI

contro

MINISTERO DEGLI INTERNI (C.F. (…)), in persona del Ministro pro tempore, con il patrocinio ex lege dell’Avvocatura Distrettuale dello Stato, legalmente domiciliato in VIA (…), FIRENZE presso l’AVVOCATURA DISTRETTUALE DI FIRENZE

CONVENUTO

CONCISA ESPOSIZIONE DELLE RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE

Con atto di citazione ritualmente notificato Se.Si. e Ma.Lu. hanno chiesto il risarcimento dei danni subiti iure proprio in qualità rispettivamente di madre e fratello di Ma.Si. in ordine all’infortunio mortale in cui questi era rimasto coinvolto il 28.1.2003.

In particolare parte attrice ha rappresentato che in tale data un autoarticolato, condotto da tale Al.Br., composto da un trattore e da un semirimorchio-cisterna contenente un carico di gas propano, era uscito di strada ad Arezzo, lungo la Strada Statale n. 73, finendo nove metri al di sotto del livello stradale, sul greto del torrente Ce.. Sul posto era giunta pertanto una squadra di uomini e mezzi dei Vigili del Fuoco del Comando Provinciale di Arezzo, oltre ad un’ambulanza con medico a bordo e una pattuglia dei Carabinieri della Stazione di Palazzo del Pero. Il conducente del TIR, Al.Br., era stato sbalzato dal veicolo ed il medico dell’ambulanza intervenuta, dott. Gi.Sg., aveva diagnosticato un trauma alla colonna vertebrale, per cui aveva consigliato che lo stesso venisse trasportato in modo da rimanere il più possibile in posizione orizzontale. Il caposquadra dei Vigili del Fuoco, Ca.Si., aveva così deciso di calare, con il braccio telescopico dell’autogru giunta sul posto, il vigile Si.Ma., assegnandogli il ruolo di portare con sé una barella di tipo toboga, di imbracare il ferito e proteggerlo nella risalita. Una volta che Si.Ma. era stato calato nel vuoto, tuttavia, il cavo dell’autogru, cui lo stesso era agganciato, si era spezzato ed il bozzello che lo sovrastava lo aveva raggiunto colpendolo violentemente sulla testa e causandone la morte immediata. Gli altri Vigili del Fuoco a quel punto avevano imbracato Si.Ma. nella stessa barella destinata all’autista del TIR e lo avevano trasportato a braccia sulla strada, risalendo a piedi la scarpata. Anche il conducente dell’autoarticolato, infine, era stato portato a braccia dai Vigili del Fuoco seguendo il percorso del fiume, ossia la stradella bianca che si ricongiungeva alla sede stradale.

In diritto parte attrice ha innanzitutto rilevato che al Ministero convenuto deve essere attribuita la responsabilità di quanto accaduto ai sensi dell’art. 2087 c.c. in virtù del quale il datore di lavoro ha l’onere di adottare le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica dei propri dipendenti. In particolare parte attrice ha dedotto che all’epoca dei fatti, in tema di tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori, vigeva il Dlgs n. 626/1994, il cui art. 1 comma 2 prevedeva che, nei riguardi delle forze armate e di polizia, dei servizi di protezione civile, ecc., la disciplina normativa era da applicare tenendo conto delle particolari esigenze connesse al servizio espletato, individuate con decreto del Ministro dell’Interno n. 450 del 14.6.1999.

Alla luce di tale normativa, parte attrice ha individuato un primo profilo di responsabilità nelle condizioni dell’autogru utilizzata per l’intervento.

Nell’ambito del procedimento penale svoltosi davanti al Tribunale di Arezzo, le relazioni peritali del consulente del gip e del gup, Ing. Fa.Ca., e del consulente nominato in sede dibattimentale, Ing. St.Ce., avrebbero infatti attestato la pericolosità intrinseca del mezzo, in virtù dell’inefficienza del dispositivo di fine corsa di sollevamento del bozzello. Il Ministero degli Interni, pertanto, avrebbe utilizzato un mezzo privo dei requisiti imposti ex lege, in grado di provocare danni a chi lo utilizza. Così facendo sarebbe venuto meno all’obbligo sancito dall’art. 35 Dlgs 626/1994, come modificato dal Dlgs 359/1999 di porre a disposizione dei lavoratori strumenti ed attrezzature idonei ai fini della sicurezza. Secondo le argomentazioni di parte attrice, eventuali concorrenti profili colposi addebitabili al fabbricante o al fornitore dei macchinari messi a disposizione dei lavoratori, non eliderebbero il nesso causale tra la condotta del datore di lavoro e l’evento lesivo in danno del lavoratore. Inoltre non assumerebbe alcun rilievo la circostanza che nel corso del procedimento penale sia stato accertato che né le verifiche interne programmate, né le revisioni periodiche eseguite dalla USL sarebbero comunque state inidonee a rilevare il malfunzionamento che ha causato il sinistro, proprio perché queste non esaurivano le iniziative che il datore di lavoro avrebbe dovuto intraprendere prima di rendere disponibile l’autogrù ai propri dipendenti. A tal riguardo parte attrice ha rappresentato che, nonostante detto mezzo fosse stato in dotazione al Comando Provinciale di Arezzo fin dal 1982, da allora non erano mai state effettuate verifiche complete sullo stesso, volte ad individuare eventuali carenze occulte del mezzo, non rilevabili a vista o nell’uso quotidiano.

Parte attrice ha poi rappresentato che il manuale d’uso della macchina non prevedeva l’utilizzo della stessa per movimentare le persone e, ai sensi dell’art. 184 D.P.R. n. 547/1955, il sollevamento delle persone poteva essere effettuato solo in casi eccezionali e purché fossero prese adeguate misure in materia di sicurezza, con il controllo appropriato dei mezzi impiegati e la registrazione di tale controllo.

Oltre a tali profili di responsabilità secondo la difesa di parte attrice, la colpa del datore di lavoro sarebbe riscontrabile anche nella tipologia di intervento prescelto.

L’ordine impartito a Si.Ma. di calarsi dal braccio dell’autogru per recuperare il ferito avrebbe rappresentato una procedura scellerata, non regolamentata in alcun protocollo, né come tecnica speleo alpino fluviale, né come procedura operativa standard. Inoltre tale scelta, secondo parte attrice, non sarebbe stata legittimata neppure dall’urgenza, in quanto non vi sarebbe stata alcuna fretta di intervenire visto che l’autobotte era stata messa in sicurezza e la persona da soccorrere non era in pericolo di vita. In realtà vi sarebbero stati quantomeno due percorsi alternativi, ossia quello di risalire a piedi la scarpata utilizzando il camminatoio creato dalla fuoriuscita dell’autoarticolato dalla sede stradale, oppure quello di percorrere a piedi la stradella bianca che scendeva lungo l’argine del fiume Ce., poi di fatto utilizzata per trasportare il conducente del TIR. L’ordine impartito dal Caposquadra Ca. sarebbe stato dunque errato e su costui doveva gravare la conseguente responsabilità.

In merito alla tipologia di danni risarcibili, parte attrice ha chiesto innanzitutto la liquidazione del danno da perdita del vincolo parentale subito sia dalla madre, che dal fratello di Si.Ma., rappresentando che la morte del loro congiunto avrebbe determinato un’alterazione anche nelle relazioni tra i superstiti e di questi ultimi nei confronti della comunità. Inoltre esclusivamente in relazione a Se.Si. è stata chiesta la liquidazione anche del danno biologico subito a causa di tale evento traumatico. La donna, infatti, a causa di tale incidente, aveva dovuto porsi in cura presso uno specialista in psichiatria nonché psicoterapeuta e, a seguito di varie visite, le era stato diagnosticato un disturbo post traumatico da stress ad andamento cronico che aveva profondamente invalidato la sua qualità di vita.

Il Ministero dell’Interno si è costituito in giudizio eccependo innanzitutto l’inammissibilità della domanda di parte attrice alla luce dell’art. 652 cpp, rilevando come in merito alla medesima vicenda fosse già intervenuta una sentenza irrevocabile di assoluzione nei confronti del Comandante dei Vigili del Fuoco di Arezzo Fr.Si., dell’autista e manovratore dell’autogru Vi.Le. e del responsabile della manutenzione ordinaria degli automezzi Ma.Co.. Stante la costituzione di parte civile di Se.Si. e Ma.Lu. all’interno di detto processo penale, svoltosi davanti al Tribunale di Arezzo, secondo parte convenuta nel caso di specie opererebbe la preclusione al giudizio civile a favore del datore di lavoro che non ha preso parte al giudizio penale per non essere stato citato o per non essere intervenuto.

Nel merito, riguardo alla pericolosità intrinseca del mezzo utilizzato, quale profilo di inadempimento rispetto a quanto previsto dall’art. 2087 cc, parte convenuta ha rilevato che l’obbligo di mantenere in sicurezza i sistemi di funzionamento della autogrù deve essere valutato in concreto ed esiste nel momento in cui il fattore di rischio che caratterizza le attrezzature di lavoro sia riconoscibile e prevenibile con le conoscenze tecniche di cui dispone il datore di lavoro. Nel caso di specie, anche sulla base di quanto accertato nel corso del procedimento penale, invece, il rischio derivante dal malfunzionamento del dispositivo di fine corsa non sarebbe stato prevedibile, in quanto tale dispositivo era protetto da un carter di alloggiamento che non poteva essere rimosso perché la sua rimozione ed il controllo all’interno del dispositivo non erano previsti né dalla legge, né dal manuale tecnico di utilizzo della gru. Anzi tale attività sarebbe stata addirittura non dovuta e vietata per il personale non autorizzato e non dotato della necessaria competenza tecnica.

Su tale punto la sentenza n. 170/2007 del GUP presso il Tribunale di Arezzo di non luogo a procedere nei confronti di Co.Ma., quale addetto alla manutenzione ordinaria del mezzo, avrebbe riconosciuto che egli non doveva occuparsi dei controlli inerenti al dispositivo di bloccaggio.

Relativamente all’altro imputato Si.Fr., nella sentenza n. 367/2009 del Tribunale di Arezzo era stato affermato che le condizioni del meccanismo di fine corsa che aveva mal funzionato non sarebbero state normalmente ispezionabili se non previa rimozione del carterino di protezione ed il perito aveva affermato che non vi sarebbe stato modo per Si.Fr. di avvedersi del malfunzionamento.

A conferma che la pericolosità del mezzo non era conosciuta, parte convenuta ha poi affermato che tale autogru era stata utilizzata fin dal 1982 senza mai far sorgere dubbi sul corretto funzionamento del meccanismo di arresto automatico di salita del bozzello, che nel mese di gennaio del 2003 quel mezzo era già stato utilizzato sette volte, che nell’ultima settimana lo stesso era stato utilizzato per il recupero di un’autovettura e di una trattrice con rimorchio, ossia carichi sicuramente maggiori rispetto al peso di Si.Ma., e che in tali operazioni il dispositivo di sicurezza aveva correttamente funzionato.

Secondo le argomentazione del Ministero dell’Interno, inoltre, il vasto utilizzo su tutto il territorio nazionale di automezzi analoghi a quello in questione testimoniava l’alta fiducia riposta d agli operatori del mestiere sull’efficienza e sulla sicurezza del mezzo. Pertanto il Ministero non sarebbe stato in grado, al momento della scelta del mezzo, né successivamente, di individuare e di risolvere il problema del malfunzionamento del dispositivo di fine corsa, perché caratterizzato da una sostanziale aleatorietà non conosciuta, né conoscibile secondo la comune esperienza nell’ambito di lavoro dei Vigili del Fuoco.

La difesa di parte convenuta ha rappresentato inoltre che, stanti gli accertamenti tecnici svolti in sede penale, la problematica relativa al dispositivo di fine corsa fuoriuscirebbe dalle competenze del Comando dei Vigili del Fuoco e rientrerebbe invece in quelle del fabbricante e che trattandosi di un vizio occulto sarebbe stato impossibile per il datore di lavoro accertarlo.

In merito alla lamentata violazione dell’art. 35, comma 3, lett. c) bis Dlgs 626/1994 introdotta con Dlgs 359/1999 il Ministero ha osservato che tale norma prescrive obblighi in capo al datore di lavoro al momento della scelta delle attrezzature di lavoro e l’autogru utilizzata era stata acquistata prima del 1999 e pertanto nessuna violazione era imputabile al Ministero.

Il Ministero ha poi rilevato che l’uso dell’autogrù per sollevare le persone sarebbe stato consentito ai sensi dell’art. 184 del D.P.R. 547/1995, in quanto detta norma prevede tale possibilità in casi eccezionali, quale era sicuramente quello in cui i Vigili del Fuoco stavano operando e purché venissero prese efficaci misure in materia di sicurezza, obbligo che sarebbe stato rispettato in quanto Ma.Si. era stato dotato di una idonea imbracatura di sicurezza collegata a mezzo di fettuce al gancio sottostante il bozzolo.

Parte convenuta ha inoltre osservato che l’unico obbligo di sicurezza che non e ra stato soddisfatto era quello di revisione periodica dell’autogru, revisione che la USL doveva eseguire annualmente in qualità di unico soggetto a ciò preposto dalla legge e che, invece, era stata effettuata l’ultima volta soltanto nel febbraio 2000, quindi quasi tre anni prima dell’evento. Tuttavia il Ministero ha rilevato che in sede penale anche tale profilo era stato affrontato ed il giudice del dibattimento aveva accertato che l’omissione di tale controllo non aveva avuto alcuna incidenza causale nel la verificazione dell’infortunio mortale. Ciò in quanto in ogni caso si sarebbe trattato soltanto di un controllo esteriore del mezzo, senza procedere allo smontaggio delle sue parti, e pertanto non avrebbe in alcun modo modificato l’esito degli eventi.

Il Ministero ha contestato poi anche l’altro profilo di responsabilità datoriale rappresentato da parte attrice, ossia l’adozione di una procedura di soccorso del tutto errata, richiamando anche in questo caso gli accertamenti compiuti in sede penale. Il medico intervenuto per primo, infatti, aveva sostenuto che, visti i traumi riportati dall’autotrasportatore, la tipologia di soccorso più consona sarebbe stata quella di trasportarlo con l’autogrù, in modo da mantenere il traumatizzato in posizione orizzontale senza sottoporlo ad ulteriori ed eccessivi scossoni nella fase della risalita. Far risalire il traumatizzato a braccio per la scarpata avrebbe aggravato lo stato fisico dell’uomo, mentre l’intervento dell’elicottero sarebbero stato materialmente più difficile da attuare vista l’impervietà dei luoghi.

La difesa di parte convenuta ha poi contestato anche la quantificazione del danno da perdita del rapporto parentale operata da controparte facendo riferimento ai valori massimi stabiliti dalle Tabelle di Milano senza tuttavia argomentare tale esigenza ed ha ritenuto insussistente il danno biologico lamentato da Se.Si..

All’udienza del 18.1.2018 su richiesta di entrambe le parti sono stati concessi i termini di cui all’art. 183 comma 6 c.p.c. e la causa è stata rinviata al 6.12.2018. A scioglimento della riserva assunta in tale udienza, con ordinanza del 10.2.2019, è stata disposta la ctu psichiatrica – psicologica sulla persona di Se.Si. e la causa è stata rinviata al 12.3.2019. In tale sede, con ferito l’incarico al consulente tecnico, il processo è stato rinviato al 17.10.2019. A detta udienza entrambi i difensori hanno chiesto la fissazione dell’udienza di precisazione delle conclusioni. A tal fine è stata dunque fissata l’udienza del 17.2.2020, alla quale le parti hanno precisato le conclusioni e la causa è stata trattenuta in decisione con la concessione dei termini ai sensi dell’art. 190 c.p.c..

La domanda di parte attrice è fondata e deve essere accolta per i seguenti motivi.

Innanzitutto, occorre analizzare l’eccezione di inammissibilità della domanda ai sensi dell’art. 652 cpp sollevata da parte convenuta. Tale norma non sancisce alcun automatismo tra la sentenza penale irrevocabile di assoluzione emessa con le formule “perché il fatto non sussiste” o “per non aver commesso il fatto” e l’esito del giudizio di responsabilità civile. Al contrario il giudicato penale deve essere valutato caso per caso tenendo conto dell’effettivo accertamento contenuto nella sentenza di assoluzione.

Nel caso di specie, mentre il processo penale ha avuto ad oggetto le specifiche condotte tenute rispettivamente dal Comandante dei Vigili del Fuoco di Arezzo Fr.Si., dall’autista e manovratore dell’autogrù Vi.Le. e dal responsabile della manutenzione ordinaria degli automezzi Ma.Co., nel presente giudizio parte attrice ha chiesto in via principale di accertare la responsabilità del Ministero dell’Interno quale datore di lavoro del Vigile del Fuoco Si.Ma., non per fatto dei propri dipendenti, bensì per fatto ad esso stesso addebitabile, ossia per aver messo a disposizione del proprio lavoratore un mezzo difettoso, la cui intrinseca pericolosità risulta essere emersa anche nel corso del procedimento penale.

Sotto tale profilo la domanda risulta dunque pienamente ammissibile e non può trovare applicazione il disposto di cui all’art. 652 cpp.

Allo stesso modo risulta ammissibile anche la domanda di parte attrice volta ad ottenere l’accertamento della responsabilità del Ministero degli Interni in virtù della tipologia di intervento prescelto. Sotto tale punto di vista il Ministero degli Interni sarebbe chiamato a rispondere non per fatto proprio, ma dei propri dipendenti e sebbene all’interno del giudizio penale tale profilo di responsabilità sia stato analizzato e il giudice abbia ritenuto impraticabili eventuali altri percorsi, nella sentenza n. 367/2009 del Tribunale di Arezzo, è stato espressamente affermato che eventuali profili di indebito utilizzo dell’autogru potevano essere fatti ricadere esclusivamente sul caposquadra e non sul soggetto al quale erano stati addebitati in imputazione. Per tale motivo, non essendo stata emessa detta sentenza anche nei confronti dell’unico soggetto eventualmente responsabile per la tipologia di intervento prescelto, nessuna efficacia di giudicato può produrre la sentenza di assoluzione sopra richiamata all’interno del presente processo e pertanto l’eccezione di parte convenuta risulta infondata.

Tanto chiarito, occorre analizzare il primo profilo di responsabilità lamentato da parte attrice, ossia la pericolosità intrinseca dell’autogru messa a disposizione dal Ministero degli Interni.

A tal riguardo occorre innanzitutto osservare che entrambe le difese nei propri scritti difensivi hanno richiamato ed utilizzato le risultanze delle due perizie svolte all’interno del processo penale, quella dell’Ing. Fa.Ca. e quella dell’Ing. St.Ce.. Tali elaboratori, le cui conclusioni non sono state contestate né dagli attori, né dal convenuto, potranno dunque essere posti a fondamento della presente decisione.

In particolare, alle pagine 3 e 4 del proprio elaborato l’Ing. Ce. ha chiarito innanzitutto come funzionasse il dispositivo di finecorsa di cui era dotata l’autogrù (…), targata (…) utilizzata nell’intervento del 28.1.2003. Tale dispositivo era costituito da un microinterruttore fissato mediante due viti direttamente sul braccio della gru e doveva essere azionato da un bilanciere che gli veniva spinto contro da due molle a trazione. Nel momento in cui il bilanciere schiacciava il pulsante del microinterruttore veniva inibita la salita del bozzello e lo sfilamento del braccio. Il bilanciere era tenuto lontano dal microinterruttore tramite un contrappeso infilato in una fune di sollevamento e solo quando il bozzello nella sua risalita andava a sollevare il contrappeso, il bilanciere, non più trattenuto, avrebbe dovuto schiacciare il pulsante sotto l’effetto delle due molle.

Ebbene, secondo quanto affermato dal perito con un dispositivo così concepito non si aveva alcuna certezza sul suo funzionamento in quanto un qualunque malfunzionamento del finecorsa, sia meccanico che elettrico, di una qualunque delle varie componenti, avrebbe prodotto l’effetto di non bloccare la salita del bozzello come avvenuto nel caso di specie. L’ing. Ce. ha poi affermato che “all’epoca in cui si sono verificati i fatti un simile dispositivo non poteva essere montato sull’autogrù; ma doveva essere sostituito da un dispositivo che garantisse la sicurezza anche in condizioni di guasto. Il finecorsa avrebbe dovuto funzionare esattamente al contrario di quello installato. Ciò avrebbe dovuto consentire il funzionamento dell’autogrù solamente quando azionato e bloccarla per qualunque malfunzionamento potesse verificarsi”.

Alla luce di tale elaborato emerge dunque come il dispositivo di fine corsa di cui era dotata l’autogrù oggetto di causa fosse intrinsecamente pericoloso e, inoltre, è risultato pacifico che l’incidente fosse stato cagionato proprio dal suo mancato funzionamento.

Ebbene, ai sensi dell’art. 2087 c.c. il datore di lavoro è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. Tale disposizione rappresenta la norma di chiusura del sistema di prevenzione, operante anche in assenza di specifiche regole di esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, al fine di sanzionare l’omessa predisposizione di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di venire a conoscenza e di indagare sull’esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico (cfr. Cass. n. 24742/2018).

Nel caso di specie, oltre a tale disposizione, viene anche in rilievo il disposto dell’art. 35 Dlgs n. 626/1994, così come modificato dal Dlgs n. 359/1999, vigente all’epoca dei fatti. Se è pur vero infatti che il comma 3 lett. c bis), introdotto a seguito di tale modifica legislativa, prescriveva obblighi in capo al datore di lavoro al momento della scelta delle attrezzature di lavoro e l’autogru utilizzata era stata acquistata prima del 1999, è altrettanto vero che il successivo comma 4 della medesima norma stabiliva espressamente che “il datore di lavoro prende le misure necessarie affinché le attrezzature di lavoro siano.. .. oggetto di idonea manutenzione al fine di garantire nel tempo la rispondenza ai requisiti di cui all’art. 36 e siano corredate, ove necessario, da apposite istruzioni d’uso”. Così come il comma 4 quater stabiliva che “il datore di lavoro, sulla base della normativa vigente, provvede affinché le attrezzature di cui all’allegato XIV siano sottoposte a verifiche di prima installazione o di successiva installazione e a verifiche periodiche o eccezionali, di seguito denominate “verifiche”, al fine di assicurarne l’installazione corretta e il buon funzionamento” e tra le attrezzature indicate nell’allegato XIV vi erano anche le gru e gli apparecchi di sollevamento di portata 200 kg.

Ebbene, alla luce di tali disposizioni, occorre innanzitutto osservare che nessun rilievo hanno le argomentazioni utilizzate dalla difesa del convenuto relativamente agli accertamenti contenuti nelle sentenze penali passate in giudicato, al fine di escludere la propria responsabilità.

A tal riguardo, come già chiarito, quanto accertato in sede penale riguarda esclusivamente i profili di responsabilità addebitabili ai soggetti imputati e non ogni altra omissione e conseguente responsabilità gravante sul datore di lavoro che ha messo a disposizione dei propri lavoratori un mezzo intrinsecamente pericoloso.

Non assumono dunque alcun rilievo in questa sede innanzitutto le argomentazioni spese dal GUP presso il Tribunale di Arezzo nella sentenza di assoluzione di Co.Ma.. Il GUP ha infatti accertato soltanto che a tale soggetto erano assegnate le mansioni di seguire il settore dell’officina interna, la manutenzione, gestione e dislocazione degli automezzi; il settore delle verifiche periodiche degli automezzi e dei materiali tecnici; e che non rientrava nelle sue competenze l’occuparsi di quel dispositivo, raffinato e delicato, che proprio per tale motivo era stato protetto da possibili manomissioni ed era dotato di un carterino di protezione. Tuttavia, la circostanza che tra le attività di manutenzione ordinaria esigibili dal Vigile del Fuoco Co.Ma. non rientrasse quella di verificare il corretto funzionamento di tale dispositivo, non esclude che il Ministero degli Interni, nella propria qualità di datore di lavoro, non fosse gravato da tale obbligo in virtù della normativa sopra richiamata.

Analogo ragionamento vale per quanto affermato dal Tribunale di Arezzo nella sentenza n. 367/2009, relativamente all’imputato Si.Fr., in qualità di Comandante dei Vigili del Fuoco di Arezzo. Anche l’accertamento contenuto in tale provvedimento infatti è limitato all’esigibilità di un efficace manutenzione del dispositivo di sicurezza di fine corsa esclusivamente in capo all’imputato. Occorre pertanto affermare ancora una volta che l’accertamento della inesigibilità di tale condotta da parte del Comandante dei Vigili del Fuoco di Arezzo, non esonera il Ministero degli Interni, nella propria veste di datore di lavoro, dall’obbligo di compiere o segnalare la necessità di compiere agli organi a ciò preposti tutti i necessari accertamenti, prima di mettere a disposizione dei propri dipendenti un mezzo.

Entrambi i periti, infatti, si sono limitati ad affermare che il malfunzionamento non poteva essere notato se non togliendo il carter di alloggiamento, ma non che nessuno fosse tenuto ad effettuare tale tipologia di controllo.

Neppure assumono rilievo le argomentazioni per cui la revisione periodica dell’autogrù ad opera della USL, seppur omessa, non avrebbe modificato in alcun modo l’esito degli eventi. In quanto se è pur vero che tale controllo meramente “a vista” non avrebbe permesso di riscontrare la difettosità del dispositivo di fine corsa, protetto da un carter e quindi non visibile sulla base di una semplice ispezione esterna, non è in alcun modo concepibile che un automezzo come quello di cui è causa, in dotazione al Comando dei Vigili del Fuoco dal 1982, non fosse soggetto anche ad altri e più pregnanti obblighi di revisione e manutenzione, che se correttamente eseguiti avrebbero permesso di individuare e correggere l’intrinseca pericolosità del dispositivo.

Analogamente non appare dirimente la circostanza che fino al 28.1.2003 nessuna autogru analoga a quella coinvolta nel sinistro avesse manifestato problemi. Il corretto funzionamento del dispositivo di fine corsa del mezzo non poteva infatti essere rimesso alla aleatorietà, come affermato da parte convenuta, bensì doveva essere oggetto di controlli e manutenzioni, che avrebbero permesso di rilevarne la pericolosità, come accaduto attraverso la perizia eseguita durante il dibattimento nel processo penale.

Oltretutto, la circostanza risultante dalla perizia dell’Ing. Ce. che dopo il sinistro per cui è causa, su di un’autogrù analoga, utilizzata dal Comando dei Vigili del Fuoco di Grosseto, fosse stata apportata una modifica del dispositivo di fine corsa, rappresenta la dimostrazione che l’errato funzionamento di tale dispositivo non solo fosse riscontrabile, ma anche correggibile, al fine di evitare incidenti analoghi a quello accorso a Si.Ma..

In definitiva, nell’ambito del processo penale è emersa, da un lato, l’intrinseca pericolosità del mezzo fornito dal Ministero degli Interni che non offriva le minime garanzie di sicurezza e, dall’altro, che la difettosità del dispositivo di fine corsa fosse sia prevenibile, che evitabile, stanti gli interventi correttivi operati su un’autogrù analoga in seguito al sinistro del 28.1.2003.

A tal riguardo, se è pur vero che in astratto può ritenersi sussistente una responsabilità del fabbricante, il quale avrebbe dovuto fornire un dispositivo di fine corsa che funzionasse al contrario, dall’altro lato, sarebbe stato onere del Ministero degli Interni convenuto ai sensi degli art. 2087 e 1218 c.c. provare di aver correttamente adempiuto all’obbligazione su di lui gravante, non solo richiamando quanto accertato in sede penale, ma dimostrando che ogni attività di controllo e di manutenzione del mezzo, anche di competenza di soggetti diversi rispetto a quelli imputati nel procedimento penale, fosse stato effettuato.

Anche la giurisprudenza di legittimità ha infatti affermato che “in tema di responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c., posto che, ai fini del superamento della presunzione di cui all’art. 1218 c.c., grava sul datore di lavoro l’onere di dimostrare di aver rispettato le norme specificamente stabilite in relazione all’attività svolta, e di aver adottato tutte le misure che, in considerazione della peculiarità dell’attività e tenuto conto dello stato della tecnica, siano necessarie per tutelare l’integrità del lavoratore, vigilando altresì sulla loro osservanza, il vizio strutturale del macchinario, quale fatto liberatorio, non può prescindere dalla prova circostanziata, da parte del datore di lavoro, dell’assolvimento dei suddetti obblighi di protezione specifici” (cfr. Cass. n. 14468/2017).

Nel presente giudizio, infatti, è stato pacificamente accertato, e non contestato da parte convenuta, che il sinistro del 28.1.2003 era stato causato dal mancato funzionamento del dispositivo di fine corsa. Risulta inoltre sussistente il nesso di causalità tra l’omesso controllo del corretto funzionamento di tale dispositivo e la morte di Si.Ma., in quanto se questo fosse stato oggetto di controllo, sarebbe stato immediatamente accertato che un simile dispositivo non poteva essere montato sull’autogrù e sarebbe stata adottata una modifica in modo che il finecorsa funzionasse esattamente al contrario di come invece operava, ossia consentendo il funzionamento dell’autogrù solamente quando azionato. A conferma di ciò occorre osservare, come emerso nella perizia dell’Ing. Ce. e già rilevato, che una tale modifica di fatto era stata effettuata su di un mezzo analogo a quello oggetto di causa proprio in seguito al sinistro.

Al contrario, invece, non è stata fornita alcuna prova da parte del Ministero convenuto circa il corretto collaudo prima e i controlli di conformità poi del dispositivo di fine corsa di cui era dotata l’autogrù in questione, essendosi limitato il Ministero degli Interni a contestare la domanda di part e attrice richiamando le statuizioni del processo penale.

Tuttavia proprio all’interno della sentenza n. 367/2009 del Tribunale di Arezzo è stato accertato che nessuna delle attività previste dalla normativa di riferimento è stata svolta nel termine di legge previsto dalla “direttiva macchine”, con riferimento al dispositivo di fine corsa dell’autogrù costruita nel 1982.

Come infatti evidenziato all’interno della predetta sentenza, per i mezzi già immessi sul mercato muniti della marcatura CE alla data dell’entrata in vigore dell’art. 35, comma 3 let. c-bis) Dlgs 626/1994, in virtù del Dlgs n. 359/1999, l’art. 7 del D.P.R. n. 459/1996 dispone che i controlli della conformità ai requisiti essenziali di sicurezza di cui all’Allegato 1 siano operati dal Ministero dell’Industria, del commercio e dell’artigianato e dal Ministero del lavoro e della previdenza sociale attraverso i propri organi ispettivi in coordinamento permanente tra loro. Al successivo comma 3 della medesima norma è poi previsto che qualora gli organismi di vigilanza competenti per la prevenzione e la sicurezza accertino la non conformità di una macchina o di un componente di sicurezza ai requisiti essenziali di sicurezza di cui all’Allegato 1, ne devono dare immediata comunicazione al Ministero dell’industria, del commercio e dell’artigianato e al Ministero del lavoro e della previdenza sociale. Inoltre il regolamento di attuazione della “direttiva macchine” (“Linee guida e modalità operative per l’applicazione del Dlgs n. 626/1994 in relazione alla emanazione del D.P.R. n. 459/1996) indica le attività da adottare per le ipotesi in cui i servizi delle Aziende USL trovino macchine che presentino situazioni di rischio grave ed immediato, anche con riferimento alle c.d. carenze occulte, indicate a titolo di esempio, come le carenze progettuali non rilevabili da un semplice esame visivo e dall’uso quotidiano della macchina).

Ebbene, il giudice del dibattimento ha avuto modo di accertare come nessuna delle attività previste dalla normativa di riferimento sia stata svolta nel termine di legge.

A quanto emerso in sede penale deve aggiungersi che nel presente giudizio il Ministero degli Interni non ha ad ogni modo fornito la prova non solo di aver compiuto tutti gli accertamenti previsti dalla normativa in vigore, ma neppure di aver provveduto a segnalare la necessità di compiere accertamenti agli organi a ciò preposti. Obbligo che sicuramente gravava sul convenuto tenuto oltretutto conto del fatto che, se è pur vero che ai sensi dell’art. 184 D.P.R. n. 547/1955 il sollevamento di persone in casi eccezionali può essere effettuato anche con attrezzature non previste a tal fine, ciò può avvenire solo laddove siano state prese adeguate misure in materie di sicurezza. Tra tali misure, per espressa previsione normativa, non si fa riferimento all’eventuale utilizzo di imbracature come sostenuto da parte convenute, bensì alla necessità che i mezzi utilizzati, seppur eccezionalmente a tale scopo, conformemente alle disposizioni di buona tecnica, non solo siano sottoposti a controlli appropriati, ma anche che tali controlli siano registrati.

Anche sotto tale punto di vista, il Ministero convenuto non ha fornito alcuna prova.

Pertanto, alla luce di tutti gli elementi sopra richiamati, si ritiene che nel caso di specie sussista la responsabilità del Ministero degli Interni, quale datore di lavoro di Si.Ma., in ordine all’infortunio mortale a lui occorso il 28.1.2003, per avere messo a disposizione del proprio dipendente un mezzo intrinsecamente pericoloso, omettendo di compiere i doverosi e indispensabili controlli sul medesimo, mezzo, oltretutto, potenzialmente destinato, seppure in casi eccezionali, al sollevamento di persone.

Il profilo di responsabilità del Ministero degli Interni sopra analizzato è tale da assorbire anche l’altro invocato da parte attrice e relativo alla tipologia di intervento prescelto. Sulla base di quanto sopra accertato, infatti, l’evento mortale è stato causato dal difetto del dispositivo di fine corsa di cui era dotata l’autogrù in questione. La scelta del caposquadra di utilizzare tale macchinario per calare Si.Ma. assieme alla barella al fine di soccorrere il ferito non era infatti di per sé vietata. Come sopra accennato, l’autogrù poteva in casi eccezionali, quale quello che si era verificato,essereutiliz0ta per la movimentazione di persone, ma solo a seguito degli indispensabili controlli che il Ministero degli Interni avrebbe dovuto eseguire prima di mettere a disposizione dei propri dipendenti tale mezzo.

Tanto accertato in merito alla sussistenza della responsabilità del Ministero degli Interni, relativamente alla tipologia di danni risarcibili occorre innanzitutto fare riferimento al danno da perdita del rapporto parentale subito sia dalla madre, che dal fratello di Si.Ma..

Per tale si intende infatti il danno di natura non patrimoniale che un soggetto subisce per la morte di una persona cara, a cui era legata da un rapporto di natura familiare o affettiva. Anche recentemente la Corte di Cassazione ha affermato che tale danno si concretizza “nel vuoto costituito dal non potere più godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno e perciò nell’irrimediabile distruzione di un sistema di vita basato sull’affettività, sulla condivisione, sulla rassicurante quotidianità dei rapporti tra moglie e marito, tra madre e figlio, tra fratello e fratello, nel non poter più fare ciò che per anni si è fatto, nonché nell’alterazione che una scomparsa del genere inevitabilmente produce anche nelle relazioni tra i superstiti’ (Cass. n. 9196/2018).

La liquidazione di detto danno non può che essere compiuta in via equitativa, tenendo conto di vari fattori quali l’intensità del vincolo familiare, la presenza o meno di una situazione di convivenza e ogni altra circostanza utile quali la consistenza più o meno ampia del nucleo familiare, le abitudini di vita, l’età della vittima e dei superstiti.

Per quanto riguarda il fratello della vittima, Lu.Ma., questi all’epoca del sinistro aveva 27 anni e pur non convivendo con Si.Ma., all’epoca ventinovenne, è sicuramente presumibile il forte legame che lega due fratelli di età molto ravvicinata. I due inoltre risiedevano comunque all’interno del medesimo Comune e, come emerso dalla consulenza tecnica svolta in corso di causa, frequentemente Si.Ma. si recava nella casa in cui vivevano la madre ed il fratello, avendo uno stabile legame affettivo con entrambi.

Pertanto, tenuto conto del grado di parentela, dell’età della vittima e del congiunto, della non convivenza dei due e degli ulteriori elementi sopra indicati, sulla base delle tabelle elaborate dal Tribunale di Milano e dal Tribunale di Roma ed attualmente vigenti, si ritiene che il danno da perdita del rapporto parentale subito da Lu.Ma. debba essere quantificato in Euro 73.550,25 in moneta attuale.

Per quanto riguarda la madre della vittima, Si.Se., la donna all’epoca dei fatti aveva 47 anni. Questa conviveva con l’altro figlio, Lu.Ma. ed analogamente a quest’ultimo aveva un forte legame con Si.Ma. che, nonostante si fosse sposato nel 2000, vista anche la sua giovane età, si presume avesse ancora uno stretto rapporto con la madre, tenuto conto della frequenza con la quale il Vigile del Fuoco si recava a casa della madre e del fratello, anche in compagnia dei propri colleghi. Dalla consulenza tecnica svolta in corso di causa è inoltre emerso che tra i congiunti della donna, oltre all’altro figlio, vi erano la madre e il compagno, in quanto il marito, nonché padre di Luca e Simone era deceduto per un carcinoma nel 1997.

Tenuto conto dunque del grado di parentela, dell’età della vittima e del congiunto, della non convivenza dei due e degli ulteriori elementi sopra indicati, sulla base delle tabelle elaborate dal Tribunale di Milano e dal Tribunale di Roma ed attualmente vigenti, si ritiene che il danno da perdita del rapporto parentale subito da Se.Si. debba essere quantificato in Euro 132.390,45 in moneta attuale.

In merito al risarcimento del danno biologico richiesto dalla madre di Si.Ma., Se.Si., occorre innanzitutto chiarire che la morte di un prossimo congiunto può causare nei familiari superstiti oltre al danno parentale, sopra analizzato, anche un danno biologico vero e proprio, in presenza di una effettiva compromissione dello stato di salute fisica o psichica di chi lo invoca. I due danni, pertanto, devono essere oggetto di separata considerazione e liquidazione trattandosi di diversi elementi del danno non patrimoniale, senza tuttavia giungere ad alcuna duplicazione risarcitoria.

Al fine di valutare la sussistenza del danno biologico suddetto nel corso del presente giudizio, stante la documentazione medica prodotta, è stata svolta CTU medica all’esito della quale il consulente, dott. Pa.Ci., ha diagnosticato a Se.Si. un disturbo da stress post traumatico cronico, diagnosi condivisa anche dai consulenti tecnici di parte.

Per stabilire la gravità di tale patologia, tenuto conto delle osservazioni mosse dal consulente tecnico del Ministero degli Interni, il ctu ha poi analizzato la possibile presenza di fattori concausali. Dall’analisi di Se.Si. è infatti emerso che nel 1997 aveva subito la perdita del marito a causa di un carcinoma e che poco prima dell’incidente mortale in cui era rimasto coinvolto il figlio, nel dicembre del 2002, il padre della donna era morto per suicidio mediante arma da fuoco. L’uomo era stato operato ad una carotide per ostruzione circolatoria nell’ottobre del 2002 e aveva manifestato dei cambiamenti caratteriali post-operatori. Tuttavia, il ctu sulla base degli elementi raccolti ha avuto modo di riscontrare, con argomentazioni che si ritiene di condividere, come entrambi tali eventi fossero stati superati senza l’insorgere di disturbi psicopatologici che alterassero la vita sociale e lavo rativa della donna e senza che si rendesse necessario il ricorso a consulenze specialistiche e a trattamenti psichiatrici. Al contrario, la morte del figlio Simone era stata vissuta in modo diverso rispetto ai precedenti lutti, a causa della modalità traumatiche ed inaspettate con cui la stessa era avvenuta. Tale evento aveva provocato un rifiuto psicologico all’accettazione e aveva comportato l’insorgenza di una sintomatologia riferibile a disturbo da stress post traumatico, per la cui cura la donna era dovuta ricorrere alle terapie psicofarmacologiche di uno psichiatria e di una psicologa psicoterapeuta.

Inoltre, come rilevato dal ctu a seguito dell’analisi della certificazione rilasciata dallo psichiatra e psicoterapeuta dott. Paolo Serra, la morte traumatica del figlio aveva creato nella Sereni uno stato mentale di sconvolgimento completamente nuovo che in un’occasione l’aveva anche portata a recarsi nei luoghi in cui si era verificato il sinistro, aggirandosi nei dintorni fino ad entrare nel fiume, in uno stato di disperazione e di incompleta padronanza dei propri impulsi.

Alla luce di tali elementi si ritiene di condividere le conclusioni a cui è giunto il ctu, in quanto risulta accertato che i disturbi psichici della donna siano sorti a seguito della morte del figlio e non possano trovare concausa nei due precedenti lutti subiti dalla stessa. La perdita di un figlio, in circostanze oltretutto improvvise e traumatiche durante lo svolgimento della propria attività lavorativa, risulta essere infatti la causa esclusiva del disturbo manifestato da Si.Se., come emerso anche nel corso dei colloqui clinici avuti con il ctu. Mentre dopo la morte del marito avvenuta nel 1997 la donna aveva ripreso a lavorare, in seguito alla scomparsa del figlio questa aveva molto rallentato la propria attività nel suo negozio e vi si era recata soltanto sporadicamente per distrarsi, spronata dall’altro figlio. Nel corso di tali colloqui, pur emergendo anche la morte del padre per suicidio, non risulta che tale evento abbia inciso sulla condizione psicologica della Sereni al punto di degenerare in una patologia, in quanto dai racconti dalla stessa effettuati è stata la morte del figlio ad aver rappresentato un evento imprevisto e insuperabile, tanto da decidere di rivolgersi a degli specialisti su consiglio del proprio medico di famiglia.

Si ritiene dunque di condividere la quantificazione del danno biologico effettuata dal ctu e pari al 12%, in quanto la stessa è stata effettuata conformemente a quanto previsto per il disturbo da stress post traumatico in forma lieve al massimo punteggio secondo le linee guida SIMLA per la determinazione del danno biologico derivante dalla morte di un familiare stretto, avente una portata psicologica molto elevata.

Pertanto, nel caso concreto, tenuto conto del tipo di malattia cagionata, dell’età dell’attrice al momento dei fatti (anni 47), dell’entità dei postumi permanenti, si ritiene liquidabile a titolo di invalidità permanente la somma di Euro 28.625,00 in moneta attuale.

In merito alla richiesta di risarcimento dei danni patrimoniali subiti da Si.Se. in virtù delle spese mediche sostenute, si ritiene che risultino pertinenti e congrue le spese documentate, essendo relative a visite specialistiche e sedute psicoterapeutiche effettuate dalla donna in conseguenza del trauma cagionato dal sinistro. Sulla base della documentazione prodotta risulta quindi risarcibile la somma di Euro 4.025.

L’importo complessivamente dovuto a Si.Se. a titolo di risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale patito a seguito del sinistro in cui ha perso la vita il figlio Si.Ma. risulta essere pari ad Euro 165.040 in moneta attuale.

Tale somma, deve poi essere devalutata alla data dell’evento, ovvero al 28 gennaio 2003, risultando pari ad Euro 131.088. Secondo l’insegnamento della sentenza a Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 1712/1995, su questa somma, rivalutata anno per anno, devono poi essere calcolati gli interessi compensativi nella misura legale fino alla data della presente decisione, per un totale complessivo di Euro 208.307.

Dalla data della sentenza sono dovuti gli interessi al tasso legale sul solo importo liquidato, corrispondente al capitale già rivalutato.

Allo stesso modo l’importo dovuto a Lu.Ma. a titolo di risarcimento del danno da perdita del vincolo parentale, pari ad Euro 73.550,25, deve essere devalutato alla data dell’evento, ammontando così ad Euro 58.326,92. Su tale somma, rivalutata anno per anno, devono poi essere calcolati gli interessi compensativi nella misura legale fino alla data della presente decisione, per un totale complessivo di Euro 92.789,69.

Dalla data della sentenza sono dovuti gli interessi al tasso legale sul solo importo liquidato, corrispondente al capitale già rivalutato.

Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo in base al DM 55/2014, tenuto conto del valore della causa ritenuto in sentenza. Allo stesso modo anche le spese di CTU vengono definitivamente poste a carico di parta convenuta. Il Ministero degli Interni dovrà infine rimborsare altresì le spese sostenute per l’attività prestata dal consulente tecnico di parte attrice dott.ssa El.Co., documentate da parte attrice e pari ad Euro 5.000.

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone:

1) accertata la responsabilità del Ministero degli Interni nella determinazione dell’infortunio mortale occorso a Ma.Si. in data 28.1.2003, condanna il Ministero degli Interni, in persona del Ministro pro tempore, a corrispondere:

– a Ma.Lu., a titolo di risarcimento del danno da perdita del vincolo parentale, la somma di Euro 92.789,69, oltre interessi legali dalla data della sentenza al saldo;

– a Se.Si., a titolo di risarcimento del danno da perdita del vincolo parentale, biologico e patrimoniale, la somma di Euro 208.307,00, oltre interessi legali dalla data della sentenza al saldo;

2) pone definitivamente a carico del Ministero degli Interni le spese di CTU medico legale, come già liquidate in corso di causa;

3) condanna il Ministero degli Interni, in persona del Ministro pro tempore, al pagamento delle spese di lite sostenute da Se.Si. e Ma.Si., che si liquidano in Euro 1.253,93 per spese (contributo unificato, marca e spese notifica), Euro 5.000 per spese di ctp ed Euro 21.387,00 per compensi, oltre i.v.a., c.p.a. e 15% per spese generali.

Così deciso in Firenze il 29 luglio 2020.

Depositata in Cancelleria il 30 luglio 2020.

 

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