REATO DI MALTRATTAMENTI LUOGO DI LAVORO – VIOLENZA PRIVATA
– affinchè possa dirsi integrato il delitto di violenza privata è necessaria la individuazione di una condotta violenta o minacciosa da parte dell’agente, che abbia l’effetto di costringere ingiustamente il soggetto passivo a “fare, tollerare od omettere qualche cosa”. L’azione, la tolleranza o l’omissione, cui sono finalizzate la violenza o la minaccia, deve essere determinata e specifica, giacchè in caso contrario potranno ravvisarsi altri reati (minaccia, molestie, ingiuria…), ma non la violenza privata. In mancanza di tale effetto – nel caso in esame escluso in fatto dal giudice del merito – non è configurabile la fattispecie prevista dall’art. 610 c.p., per mancanza di un elemento costitutivo del delitto.
E’ certamente percorribile, invece, la strada del procedimento civile, costituendo il mobbing titolo per il risarcimento del danno eventualmente patito dal lavoratore in conseguenza di condotte e atteggiamenti persecutori del datore di lavoro o del preposto. La responsabilità datoriale ha natura contrattuale ex art. 41; il legittimo esercizio del potere imprenditoriale, infatti, deve trovare un limite invalicabile nell’inviolabilità di tali diritti e nella imprescindibile esigenza di impedire comunque l’insorgenza o l’aggravamento di situazioni patologiche pregiudizievoli per la salute del lavoratore, assicurando allo stesso serenità e rispetto nella dinamica del rapporto lavorativo, anche di fronte a situazioni che impongano l’eventuale esercizio nei suoi confronti del potere direttivo o addirittura di quello disciplinare.
Il Procuratore generale presso la Corte d’appello di Lecce (sezione distaccata di Taranto) ricorre per cassazione contro la sentenza sopra indicata, con cui il giudice dell’udienza preliminare del locale Tribunale ha dichiarato non luogo a procedere nei confronti degli imputati in epigrafe indicati, in ordine al reato di cui agli artt. 110 e 572 c.p., perchè il fatto non è previsto dalla legge come reato.
2. Agli imputati, tutti dipendenti dell’Ilva di Taranto, operanti con diverse funzioni (capo reparto, capo del personale, responsabile delle manutenzioni meccaniche) all’interno del reparto Man-Laf dello stabilimento siderurgico, era stato contestato di avere maltrattato, con modalità varie, L.M.F., operaio addetto alle pulizie del suddetto reparto, adibendolo a diverse e meno qualificanti mansioni (a seguito di un incidente occorsogli mentre era alla guida di un mezzo meccanico) e determinando ai suoi danni anche ripetuti provvedimenti disciplinari, sino al licenziamento.
Il Tribunale ha escluso la sussistenza del delitto contestato, in adesione alla consolidata giurisprudenza di legittimità che esclude la configurabilità del reato di maltrattamenti (art. 572 c.p.) nei rapporti di lavoro in grandi aziende, potendosi integrare tale fattispecie soltanto se il rapporto tra datore di lavoro (o suoi delegati o rappresentanti) e il dipendente assuma natura parafamiliare in quanto caratterizzato da relazioni intense e abituali, da consuetudine di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia (Cass. Sez. 6^, n. 16094 dell’11.4.2012, 252609; Id. n. 43100 del 20.10.2011, rv. 251368; Id. n. 685 del 22.9.2010, rv. 249186).
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MILO Nicola – Presidente –
Dott. IPPOLITO F. – rel. Consigliere –
Dott. LANZA Luigi – Consigliere –
Dott. PATERNO’ RADDUSA Benedet – Consigliere –
Dott. CAPOZZI Angelo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
Procuratore generale della Repubblica della Corte di appello di Lecce;
nel procedimento penale nei confronti di:
M.C. nato a (Omissis);
C.G. nato a (Omissis);
MI.Ca. nato a (Omissis);
N.L. nato a (Omissis);
C.V. nato a (Omissis);
contro la sentenza del g.u.p. del Tribunale di Taranto, emessa in data 11/04/2012;
– udita la relazione del cons. Dott. IPPOLITO F.;
– udita la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del sostituto procuratore generale Dott. IACOVIELLO F. M., che ha concluso per il rigetto del ricorso;
– udito il difensore degli imputati avv. ALBANESE E., che si è associato alla richiesta del P.C..
Fatto
Il Procuratore generale presso la Corte d’appello di Lecce (sezione distaccata di Taranto) ricorre per cassazione contro la sentenza sopra indicata, con cui il giudice dell’udienza preliminare del locale Tribunale ha dichiarato non luogo a procedere nei confronti degli imputati in epigrafe indicati, in ordine al reato di cui agli artt. 110 e 572 c.p., perchè il fatto non è previsto dalla legge come reato.
2. Agli imputati, tutti dipendenti dell’Ilva di Taranto, operanti con diverse funzioni (capo reparto, capo del personale, responsabile delle manutenzioni meccaniche) all’interno del reparto Man-Laf dello stabilimento siderurgico, era stato contestato di avere maltrattato, con modalità varie, L.M.F., operaio addetto alle pulizie del suddetto reparto, adibendolo a diverse e meno qualificanti mansioni (a seguito di un incidente occorsogli mentre era alla guida di un mezzo meccanico) e determinando ai suoi danni anche ripetuti provvedimenti disciplinari, sino al licenziamento.
Il Tribunale ha escluso la sussistenza del delitto contestato, in adesione alla consolidata giurisprudenza di legittimità che esclude la configurabilità del reato di maltrattamenti (art. 572 c.p.) nei rapporti di lavoro in grandi aziende, potendosi integrare tale fattispecie soltanto se il rapporto tra datore di lavoro (o suoi delegati o rappresentanti) e il dipendente assuma natura parafamiliare in quanto caratterizzato da relazioni intense e abituali, da consuetudine di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia (Cass. Sez. 6^, n. 16094 dell’11.4.2012, 252609; Id. n. 43100 del 20.10.2011, rv. 251368; Id. n. 685 del 22.9.2010, rv. 249186).
3. Il ricorrente, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), deduce erronea applicazione della legge penale per avere il Tribunale escluso anche la configurabilità nei fatti del delitto di violenza privata (art. 610 c.p.), nonchè vizio di motivazione con riferimento alla insussistenza di una condotta di coartazione o di minaccia.
Diritto
- In accoglimento della richiesta formulata dal Procuratore generale d’udienza, il ricorso va rigettato per infondatezza.
2. Indipendentemente dalla astratta configurabilità del c.d. “mobbing” nel reato di violenza privata, il giudice del merito ha escluso che nella concreta condotta realizzata dagli imputati (avere adibito il L. a diverse e meno qualificanti mansioni, a seguito di un incidente occorso mentre il predetto era alla guida di un mezzo meccanico; avere precostituito, a carico del L., plurime relazioni interne – sfociate in altrettanti procedimenti disciplinari, e infine nel licenziamento – su episodi di asserita inoperosità, irriverenza e mancato rispetto verso i superiori) possa ravvisarsi il reato di violenza privata.
E ciò in quanto nella prima di tali condotte non è state rilevato alcun connotato di violenza o minaccia, essendo essa consistita in un atto di organizzazione interna del lavoro; nelle altre difetta l’elemento della costrizione a “tollerare qualche cosa” (secondo la lettera dell’art. 610 c.p.), avendo il L., tramite il suo avvocato, contestato e reagito ai vari provvedimenti disciplinari.
3. Osserva il Collegio che – come ha correttamente rilevato il giudice del merito – affinchè possa dirsi integrato il delitto di violenza privata è necessaria la individuazione di una condotta violenta o minacciosa da parte dell’agente, che abbia l’effetto di costringere ingiustamente il soggetto passivo a “fare, tollerare od omettere qualche cosa”. L’azione, la tolleranza o l’omissione, cui sono finalizzate la violenza o la minaccia, deve essere determinata e specifica, giacchè in caso contrario potranno ravvisarsi altri reati (minaccia, molestie, ingiuria…), ma non la violenza privata. In mancanza di tale effetto – nel caso in esame escluso in fatto dal giudice del merito – non è configurabile la fattispecie prevista dall’art. 610 c.p., per mancanza di un elemento costitutivo del delitto.
Nella specie il giudice dell’udienza preliminare, ha ritenuto, con motivazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, il 28 maggio 2013.
Depositato in Cancelleria il 23 settembre 2013
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SERPICO Francesco – Presidente
Dott. MILO Nicola – rel. Consigliere
Dott. LANZA Luigi – Consigliere
Dott. MATERA Lina – Consigliere
Dott. FIDELBO Giorgio – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
M.C. N. IL ***, persona offesa costituita parte civile;
nel procedimento a carico di:
C.G. N. IL ***;
avverso la sentenza n. 6637/2008 GIP TRIBUNALE di TORINO, del 01/10/2009;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. NICOLA MILO;
sentite le conclusioni del PG Dott. Iacoviello F.M., che ha chiesto il rigetto del ricorso;
non è comparso l’avv. Locci S. per la parte civile ricorrente;
udito il dif. avv. De Carolis O., in sost. dell’avv. Anfora G., (per l’imputato) che ha concluso per il rigetto del ricorso.
FattoDiritto
1 – Il Gup del Tribunale di Torino, con sentenza 1/10/2009, dichiarava non luogo a procedere nei confronti di (…), in ordine al reato di cui all’art.
572 c.p., perché il fatto non sussiste.
L’accusa specifica mossa all’Imputato, nella qualità di caposquadra del settore UTE 23 dello stabilimento “M.” della “F. spa”, è di avere sottoposto, tra l’estate 2005 e il giugno 2007, l’operaia (…), che – per ragioni di salute – era esonerata dallo svolgere determinate mansioni, a trattamenti umilianti, degradanti e vessatori, imponendole ritmi di lavoro non sostenibili, rivolgendole frasi offensive e minacciando di trasferirla in altro stabilimento, ove non avesse eseguito i suoi ordini.
Il Gup riteneva che la versione dei fatti fornita dalla persona offesa, affetta da disturbo psicotico di tipo schizofrenico, che la portava inevitabilmente ad alterare la realtà, elaborandola soggettivamente in senso persecutorio, non era attendibile e non trovava riscontro nelle testimonianze rese da altri lavoratori in servizio presso lo stesso reparto: in particolare, (…) aveva riferito che la (…) era stata sempre addetta a mansioni compatibili con le sue condizioni di salute, non si era mai lamentata del comportamento del caposquadra (…) e che egli stesso non aveva mai sentito quest’ultimo pronunciare frasi offensive all’indirizzo della prima, né aveva mai assistito a diverbi tra i medesimi; (…), (…) e (…) non avevano avallato il racconto della persona offesa e, pur evidenziando il carattere “rigido”, “autoritario” e “non simpatico” del (…), avevano escluso di avere mal percepito atteggiamenti vessatori di costui in danno della (…); soltanto l’operaio (…) aveva in parte confermato i contenuti della denunzia sporta dalla (…), ma tale testimonianza era scarsamente attendibile, provenendo da soggetto che nutriva, per una pregressa conflittualità mal superata, sentimenti di astio verso il (…).
Sottolineava, inoltre, il Gup che, pur a volere allegare attendibilità alla denunzia della persona offesa e alla testimonianza del (…), la condotta ascritta all’imputato non risultava essere stata connotata da abitualità, requisito tipico del reato di maltrattamenti, e, in ogni caso, appariva essere stata ispirata dalla sola finalità di esigere dagli operai, ivi compresa la (…), il massimo impegno e la massima precisione sul lavoro.
2 – Ha proposto ricorso per cassazione, tramite il proprio difensore munito di procura speciale, la persona offesa costituita parte civile e ha lamentato la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione della sentenza sotto più profili: a) il Gup non si era limitato ad esprimere, in linea con la funzione propria dell’udienza preliminare, una valutazione prognostica negativa sulla potenzialità espansiva, nel futuro dibattimento, del quadro probatorio, ma si era avventurato in una valutazione di merito delle acquisizioni investigative, sconfinando dai suoi poteri, per accreditare, in modo contraddittorio e parziale, un giudizio di innocenza dell’imputato; b) s’imponeva il rinvio a giudizio dell’imputato per le stesse ragioni poste a base dell’ordinanza con la quale il Gip, ex art. 572 c.p.; c) era stata omessa qualunque doverosa valutazione in ordine ai possibili sviluppi dibattimentali della prova, con riferimento anche alle testimonianze di altre persone puntualmente indicate e mai ascoltate; d) la ritenuta inattendibilità delle dichiarazioni accusatorie da lei rese non era sorretta da argomenti validi ed era prevalentemente basata su una erronea lettura delle relazioni medico-legali circa il suo stato psichico; e) si era omesso qualunque vaglio critico delle testimonianze prese in considerazione, e ritenute favorevoli all’imputato; f) si era assertivamente tacciato di inattendibilità il teste (…), il quale aveva riferito circa le aggressioni verbali subite dalla ricorrente ad opera del (…).
3 – Il ricorso non è fondato e deve, essere rigettato.
Rileva la Corte che la valutazione operata dal Gup con la sentenza di non luogo a procedere è sostanzialmente incentrata sulla constatazione del difetto delle condizioni su cui fondare un giudizio prognostico di evoluzione, in senso favorevole all’accusa, del materiale probatorio raccolto. La ritenuta inidoneità degli elementi acquisiti a sostenere l’accusa in giudizio è la risultante di una argomentata e logica valutazione in fatto di tali elementi, che non si prestano a soluzioni alternative o, per così dire, “aperte”, suscettibili di essere meglio chiarite e definite nel contraddittorio dibattimentale.
La sentenza in verifica, sulla base dello standard probatorio richiesto per filtrare, al fini del sollecitato rinvio a giudizio, l’ipotesi d’accusa formulata a carico dell’imputato, perviene alla conclusione della insussistenza dei presupposti per farsi luogo all’esperimento dibattimentale, che si rivelerebbe del tutto superfluo, non sussistendo la ragionevole previsione che la denunciata situazione fattuale, già chiaramente delineata, possa essere ulteriormente integrata da altri elementi idonei a legittimare una diversa soluzione.
Il principio costituzionale della ragionevole durata del processo impone – peraltro – anche al Giudice dell’udienza preliminare di evitare, per cosi dire, “comode scorciatoie” burocratiche, devolvendo superficialmente alla cognizione del Giudice dibattimentale la valutazione di una determinata posizione processuale, che può invece essere definita alla luce degli elementi già a disposizione del Gup.
Ed invero, prescindendo dalle riserve avanzate in ordine all’attendibilità della persona offesa e del teste (…), la sentenza impugnata sottolinea, in particolare, che la denunciata conflittualità tra il (…) e la (…), pur determinata – secondo la versione fornita da quest’ultima – da atteggiamenti sconvenienti del primo, che non di rado si sarebbe rapportato alla seconda in modo offensivo e mortificante, sarebbe stata espressione di una caratteriale rigidità ed arroganza del (…) nell’interpretare il proprio ruolo di caposquadra e non già di una deliberata volontà di imporre all’operaia sottoposta al suo controllo e alla sua autorità un regime di vita vessatorio ed intollerabile.
Non va sottaciuto, inoltre, che le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (c.d. mobbing) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente nel caso in cui il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente o, per rimanere aderenti alla fattispecie in esame, tra il preposto e il lavoratore soggetto all’autorità del primo assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense e abituali, da consuetudini di vita tra i detti soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia (cfr. Cass. Sez. VI 6/2/2009 n. 26594, che fa esemplificativamente riferimento al rapporto che lega il collaboratore domestico alle persone della famiglia presso cui svolge la propria opera o al rapporto che può intercorrere tra il maestro d’arte e l’apprendista).
Nulla di ciò è dato riscontrare nella condotta contestata all’imputato, la quale, per come descritta dalla stessa denunciante, è – in astratto – riconducibile nel c.d mobbing, la cui nozione evoca appunto una condotta che si protrae nel tempo con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all’emarginazione del lavoratore.
Nel nostro codice penale, però, nonostante una delibera del Consiglio d’Europa del 2000, che vincolava tutti gli Stati membri a dotarsi di una normativa corrispondente, non v’è traccia di una specifica figura incriminatrice per contrastare tale pratica persecutoria definita mobbing.
Sulla base del diritto positivo e dei dati fattuali acquisiti, pertanto, la via penale non appare praticabile.
E’ certamente percorribile, invece, la strada del procedimento civile, costituendo il mobbing titolo per il risarcimento del danno eventualmente patito dal lavoratore in conseguenza di condotte e atteggiamenti persecutori del datore di lavoro o del preposto. La responsabilità datoriale ha natura contrattuale ex art. 41; il legittimo esercizio del potere imprenditoriale, infatti, deve trovare un limite invalicabile nell’inviolabilità di tali diritti e nella imprescindibile esigenza di impedire comunque l’insorgenza o l’aggravamento di situazioni patologiche pregiudizievoli per la salute del lavoratore, assicurando allo stesso serenità e rispetto nella dinamica del rapporto lavorativo, anche di fronte a situazioni che impongano l’eventuale esercizio nei suoi confronti del potere direttivo o addirittura di quello disciplinare.
Il mobbing è solo vagamente assimilabile alla previsione di cui all’art. 572 c.p., ma di questa non condivide tout court, quasi per automatismo, tutti gli elementi tipici.
4 – Al rigetto del ricorso consegue, di diritto, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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