ART 600 TER CP –AVVOCATO PENALISTA DIFENDE TRIBUNALE APPELLO CASSAZIONE
ai fini dell’integrazione del reato di produzione di materiale pedopornografico, non sia richiesto l’accertamento del concreto pericolo di diffusione di detto materiale (Sè. U, n. 51815 del 31/05/2018, M., Rv. 274087-01). In tale ultima decisione si è aggiunto che non sussiste l’utilizzazione del minore, costituente il presupposto del reato di cui all’art. 600 ter c.p., comma 1, nel caso di realizzazione di immagini o video aventi per oggetto la vita privata sessuale di chi abbia raggiunto l’età del consenso sessuale, nell’ambito di un rapporto che, valutate le circostanze del caso, non sia caratterizzato da condizionamenti derivanti dalla posizione dell’autore, sicchè la stesse siano frutto di una libera scelta e destinate ad un uso strettamente privato (Sez. U, n. 51815 del 31/05/2018, M., Rv. 274087-02).
dazioni di denaro e regalie fatte dall’imputato alla persona offesa minorenne andassero valutate, piuttosto che come meri atti di liberalità tra persone che avevano una relazione anche sentimentale, come corrispettivo del compimento degli atti sessuali. Dopo aver riprodotto il contenuto della memoria difensiva depositata in occasione della discussione effettuata in primo grado ed il contenuto dell’atto di appello sul punto, il ricorrente lamenta che la sentenza impugnata abbia raggiunto tale conclusione travisando il contenuto dei messaggi sms scambiati tra l’imputato ed il minore e non abbia in particolare considerato quelli indicati nel gravame, dando credito alle dichiarazioni rese dalla persona offesa e sminuendo la menzogna da questa riferita circa l’iniziativa che l’imputato avrebbe preso sul tentativo di consumazione di un rapporto anale, addebito originariamente contestato in imputazione e per cui era sin dal primo grado intervenuta assoluzione. Inoltre, nell’affermare che il minore avesse consentito al compimento degli atti sessuali soltanto perchè allettato dalla prospettiva di ricevere dei regali, la sentenza impugnata si era illogicamente posta nella prospettiva della persona offesa e non, come invece necessario, nella prospettiva dell’imputato.
Va in primo luogo rilevato che – addirittura riproducendo l’integrale contenuto della memoria difensiva prodotta nella discussione del giudizio di primo grado e del (sul punto sostanzialmente identico) motivo di gravame proposto con l’atto di appello – vengono qui riproposte, per la terza volta, le stesse doglianze sul travisamento della prova e sull’inattendibilità della persona offesa disattese, con motivazioni pertinenti e non illogiche, dalle due conformi sentenze di merito, senza che il ricorrente si confronti seriamente con quelle argomentazioni.
In questo quadro, il ricorso è pertanto affetto da genericità, causa di inammissibilità che ricorre non solo quando i motivi risultano intrinsecamente indeterminati, ma altresì quando difettino della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato (Sez. 5, n. 28011 del 15/02/2013, Sammarco, Rv. 255568). In particolare, i motivi del ricorso per cassazione – che non possono risolversi nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello e puntualmente disattesi dalla corte di merito – si devono considerare non specifici, ma soltanto apparenti, quando omettono di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, Arnone e aa., Rv. 243838), sicchè è inammissibile il ricorso per cassazione quando manchi l’indicazione della correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’atto d’impugnazione, atteso che quest’ultimo non può ignorare le affermazioni del provvedimento censurato (Sez. 2, n. 11951 del 29/01/2014, Lavorato, Rv. 259425).
1.2. In secondo luogo, lungi dal delineare un effettivo vizio di travisamento della prova, il ricorrente si limita a contestare la ricostruzione del fatto non illogicamente operata dalla sentenza impugnata, peraltro in termini identici a quelli effettuati nella sentenza di primo grado, senza considerare che l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo, senza possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali e senza che sia possibile dedurre nel giudizio di legittimità il travisamento del fatto (Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, Minervini, Rv. 253099; Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, Ferri, Rv. 273217). Non sono deducibili, in particolare, censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo, sicchè sono inammissibili tutte le doglianze che “attaccano” la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento (Sez. 2, n. 9106 del 12/02/2021, Caradonna, Rv. 280747). Ed invero, alla Corte di cassazione sono precluse la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482; Sez. 1, n. 42369 del 16/11/2006, De Vita, Rv. 235507), così come non è sindacabile in sede di legittimità, salvo il controllo sulla congruità e logicità della motivazione, la valutazione del giudice di merito, cui spetta il giudizio sulla rilevanza e attendibilità delle fonti di prova, circa contrasti testimoniali o la scelta tra divergenti versioni e interpretazioni dei fatti (Sez. 5, n. 51604 del 19/09/2017, D’Ippedico e a., Rv. 271623; Sez. 2, n. 20806 del 05/05/2011, Tosto, Rv. 250362). Anche la valutazione della credibilità della persona offesa dal reato rappresenta una questione di fatto che, come tale, non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice sia incorso in manifeste contraddizioni (Sez. 2, n. 41505 del 24/09/2013, Terrusa, Rv. 257241; Sez. 3, n. 8382 del 22/01/2008, Finazzo, Rv. 239342), ciò che nella specie non è.
1.3. A quest’ultimo proposito, osserva il Collegio come la sentenza impugnata abbia peraltro esattamente applicato il consolidato principio per cui le regole dettate dall’art. 192 c.p.p., comma 3, non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte e aa., Rv. 253214; Sez. 5, n. 1666 del 08/07/2014, dep. 2015, Pirajo e aa., Rv. 261730; Sez. 2, n. 43278 del 24/09/2015, Manzini, Rv. 265104). Del resto, proprio nell’ambito dell’accertamento di reati sessuali, la deposizione della persona offesa, seppure non equiparabile a quella del testimone estraneo, può essere assunta anche da sola come fonte di prova della colpevolezza, ove venga sottoposta ad un’indagine positiva sulla credibilità soggettiva ed oggettiva di chi l’ha resa, dato che in tale contesto processuale il più delle volte l’accertamento dei fatti dipende necessariamente dalla valutazione del contrasto delle opposte versioni di imputato e parte offesa, soli protagonisti dei fatti, in assenza, non di rado, anche di riscontri oggettivi o di altri elementi atti ad attribuire maggiore credibilità, dall’esterno, all’una o all’altra tesi (Sez. 4, n. 44644 del 18/10/2011, F., Rv. 251661; Sez. 4, n. 30422 del 21/06/2005, Poggi, Rv. 232018).
- Ed invero, la sentenza impugnata (pagg. 5-7) non solo ha correttamente
Cass. pen., Sez. III, Sent., (data ud. 01/10/2021) 19/11/2021, n. 42421
Inizio modulo
Fine modulo
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI NICOLA Vito – Presidente –
Dott. ACETO Aldo – Consigliere –
Dott. DI STASI Antonella – Consigliere –
Dott. REYNAUD Gianni F. – rel. Consigliere –
Dott. MACRI’ Ubalda – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
M.A., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 11/12/2020 della Corte di appello di Bologna;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere REYNAUD Gianni Filippo;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale BALDI Fulvio, che ha concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del ricorso;
udito per il ricorrente l’avv. Liborio Cataliotti, il quale ha concluso chiedendo l’accoglimento delle conclusioni del ricorso.
Svolgimento del processo
- Con sentenza dell’11 dicembre 2020, la Corte d’appello di Bologna ha respinto il gravame proposto dall’imputato, confermando la sentenza con cui il medesimo, all’esito del giudizio abbreviato, era stato condannato alle pene di legge per i reati, riuniti nel vincolo della continuazione, di prostituzione minorile continuata e di produzione e detenzione di materiale pedopornografico.
- Avverso la sentenza di appello, a mezzo del difensore fiduciario, l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, deducendo, con i primi due motivi – connessi – il vizio di motivazione, anche per travisamento della prova, e la violazione dell’art. 600 bisc.p., per aver la sentenza impugnata acriticamente recepito le motivazioni di quella di primo grado ed illogicamente ritenuto che le modeste dazioni di denaro e regalie fatte dall’imputato alla persona offesa minorenne andassero valutate, piuttosto che come meri atti di liberalità tra persone che avevano una relazione anche sentimentale, come corrispettivo del compimento degli atti sessuali. Dopo aver riprodotto il contenuto della memoria difensiva depositata in occasione della discussione effettuata in primo grado ed il contenuto dell’atto di appello sul punto, il ricorrente lamenta che la sentenza impugnata abbia raggiunto tale conclusione travisando il contenuto dei messaggi sms scambiati tra l’imputato ed il minore e non abbia in particolare considerato quelli indicati nel gravame, dando credito alle dichiarazioni rese dalla persona offesa e sminuendo la menzogna da questa riferita circa l’iniziativa che l’imputato avrebbe preso sul tentativo di consumazione di un rapporto anale, addebito originariamente contestato in imputazione e per cui era sin dal primo grado intervenuta assoluzione. Inoltre, nell’affermare che il minore avesse consentito al compimento degli atti sessuali soltanto perchè allettato dalla prospettiva di ricevere dei regali, la sentenza impugnata si era illogicamente posta nella prospettiva della persona offesa e non, come invece necessario, nella prospettiva dell’imputato.
- Con il terzo motivo del ricorso si lamenta la violazione dell’art. 600 terc.p., per il mancato accoglimento della doglianza per cui il reato postula che la condotta sia inserita in un contesto di organizzazione e di destinazione, anche solo potenziale, del materiale pedopornografico prodotto alla fruizione di terzi e non ricorre allorquando, come nella specie avvenuto, il minore abbia volontariamente autoprodotto le immagini poi trasmesse all’imputato. Non era stata data risposta al tema giuridico – che in ricorso viene riproposto sull’insussistenza del reato quando l’istigazione provenga dal fruitore del materiale, per unico fine di libido e non di divulgazione, e senza che sia stato estorto il consenso al minore.
Motivi della decisione
- I primi due motivi di ricorso – da esaminarsi congiuntamente, come anche avvenuto nell’atto d’impugnazione – sono inammissibili per genericità, manifesta infondatezza e perchè proposti per ragioni non consentite.
1.1. Va in primo luogo rilevato che – addirittura riproducendo l’integrale contenuto della memoria difensiva prodotta nella discussione del giudizio di primo grado e del (sul punto sostanzialmente identico) motivo di gravame proposto con l’atto di appello – vengono qui riproposte, per la terza volta, le stesse doglianze sul travisamento della prova e sull’inattendibilità della persona offesa disattese, con motivazioni pertinenti e non illogiche, dalle due conformi sentenze di merito, senza che il ricorrente si confronti seriamente con quelle argomentazioni.
In questo quadro, il ricorso è pertanto affetto da genericità, causa di inammissibilità che ricorre non solo quando i motivi risultano intrinsecamente indeterminati, ma altresì quando difettino della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato (Sez. 5, n. 28011 del 15/02/2013, Sammarco, Rv. 255568). In particolare, i motivi del ricorso per cassazione – che non possono risolversi nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello e puntualmente disattesi dalla corte di merito – si devono considerare non specifici, ma soltanto apparenti, quando omettono di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, Arnone e aa., Rv. 243838), sicchè è inammissibile il ricorso per cassazione quando manchi l’indicazione della correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’atto d’impugnazione, atteso che quest’ultimo non può ignorare le affermazioni del provvedimento censurato (Sez. 2, n. 11951 del 29/01/2014, Lavorato, Rv. 259425).
1.2. In secondo luogo, lungi dal delineare un effettivo vizio di travisamento della prova, il ricorrente si limita a contestare la ricostruzione del fatto non illogicamente operata dalla sentenza impugnata, peraltro in termini identici a quelli effettuati nella sentenza di primo grado, senza considerare che l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo, senza possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali e senza che sia possibile dedurre nel giudizio di legittimità il travisamento del fatto (Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, Minervini, Rv. 253099; Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, Ferri, Rv. 273217). Non sono deducibili, in particolare, censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo, sicchè sono inammissibili tutte le doglianze che “attaccano” la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento (Sez. 2, n. 9106 del 12/02/2021, Caradonna, Rv. 280747). Ed invero, alla Corte di cassazione sono precluse la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482; Sez. 1, n. 42369 del 16/11/2006, De Vita, Rv. 235507), così come non è sindacabile in sede di legittimità, salvo il controllo sulla congruità e logicità della motivazione, la valutazione del giudice di merito, cui spetta il giudizio sulla rilevanza e attendibilità delle fonti di prova, circa contrasti testimoniali o la scelta tra divergenti versioni e interpretazioni dei fatti (Sez. 5, n. 51604 del 19/09/2017, D’Ippedico e a., Rv. 271623; Sez. 2, n. 20806 del 05/05/2011, Tosto, Rv. 250362). Anche la valutazione della credibilità della persona offesa dal reato rappresenta una questione di fatto che, come tale, non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice sia incorso in manifeste contraddizioni (Sez. 2, n. 41505 del 24/09/2013, Terrusa, Rv. 257241; Sez. 3, n. 8382 del 22/01/2008, Finazzo, Rv. 239342), ciò che nella specie non è.
1.3. A quest’ultimo proposito, osserva il Collegio come la sentenza impugnata abbia peraltro esattamente applicato il consolidato principio per cui le regole dettate dall’art. 192 c.p.p., comma 3, non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte e aa., Rv. 253214; Sez. 5, n. 1666 del 08/07/2014, dep. 2015, Pirajo e aa., Rv. 261730; Sez. 2, n. 43278 del 24/09/2015, Manzini, Rv. 265104). Del resto, proprio nell’ambito dell’accertamento di reati sessuali, la deposizione della persona offesa, seppure non equiparabile a quella del testimone estraneo, può essere assunta anche da sola come fonte di prova della colpevolezza, ove venga sottoposta ad un’indagine positiva sulla credibilità soggettiva ed oggettiva di chi l’ha resa, dato che in tale contesto processuale il più delle volte l’accertamento dei fatti dipende necessariamente dalla valutazione del contrasto delle opposte versioni di imputato e parte offesa, soli protagonisti dei fatti, in assenza, non di rado, anche di riscontri oggettivi o di altri elementi atti ad attribuire maggiore credibilità, dall’esterno, all’una o all’altra tesi (Sez. 4, n. 44644 del 18/10/2011, F., Rv. 251661; Sez. 4, n. 30422 del 21/06/2005, Poggi, Rv. 232018).
- Ed invero, la sentenza impugnata (pagg. 5-7) non solo ha correttamente operato il vaglio sulla credibilità della persona offesa, neppure costituitasi parte civile – spiegando perchè la stessa non era inficiata dall’unica contraddizione rilevata nel suo racconto, che atteneva esclusivamente all’indicazione di chi, tra i due, aveva preso l’iniziativa di richiedere l’acquisito di profilattici – ma ha dato conto degli oggettivi, plurimi, elementi di riscontro alle sue affermazioni, tratti da inequivocabili dialoghi intercettati e messaggi sms (rispetto ai quali i pochissimi trascritti in ricorso non inficiano la correttezza della conclusione raggiunta), dalle dichiarazioni rese dalla madre del minore e dalle dichiarazioni ampiamente confessorie rese dallo stesso ricorrente in sede di spontanee dichiarazioni, utilizzabili nel rito prescelto benchè il medesimo si fosse successivamente avvalso della facoltà di non rispondere nell’interrogatorio (il ricorrente non si confronta con tali dichiarazioni, riportate a pag. 6 della sentenza di primo grado, in cui tra l’altro si legge: “per le prestazioni dovevo pagare, qualche volta gli davo 50,00 Euro talvolta Euro 100,00 e tutti i giorni gli dovevo comprare le sigarette o dargli Euro 10,00”). Il compendio degli elementi probatori, ha non illogicamente argomentato la sentenza impugnata, porta dunque univocamente a concludere che l’imputato, dopo aver sfruttato la propria condizione economica per acquistare confidenza con il minore, lo abbia ripetutamente e consapevolmente remunerato per prestazioni sessuali che, altrimenti, quello non avrebbe compiuto, promettendo lui stesso di concedersi sessualmente in cambio di denaro, come di fatto poi avvenuto. Diversamente da quanto opinato dal ricorrente, la sentenza ha escluso che dai dialoghi acquisiti al processo risultino i tratti caratterizzanti una relazione sentimentale ovvero l’assenza di dolo in capo all’imputato, puntualizzando che, da parte del ragazzo, c’era l’affannosa ricerca di denaro per la vendita del proprio corpo e, da parte dell’imputato, il conseguente approfittamento per scopi sessuali della condizione di debolezza psicologica ed economica del ragazzino, senza alcun coinvolgimento emotivo (tanto da aver addirittura rivolto le sue morbose attenzioni anche al fratellino della persona offesa tentando di procacciarsi tramite quest’ultima fotografie che lo riproducessero nudo).
- Il terzo motivo è inammissibile per manifesta infondatezza e per genericità.
A sostegno dell’interpretazione data all’art. 600 ter c.p. – che il Collegio non condivide – il ricorrente si limita a citare datata giurisprudenza di merito senza tenere conto che, successivamente, questa Corte, nella sua più autorevole composizione, ha affermato come, ai fini dell’integrazione del reato di produzione di materiale pedopornografico, non sia richiesto l’accertamento del concreto pericolo di diffusione di detto materiale (Sè. U, n. 51815 del 31/05/2018, M., Rv. 274087-01). In tale ultima decisione si è aggiunto che non sussiste l’utilizzazione del minore, costituente il presupposto del reato di cui all’art. 600 ter c.p., comma 1, nel caso di realizzazione di immagini o video aventi per oggetto la vita privata sessuale di chi abbia raggiunto l’età del consenso sessuale, nell’ambito di un rapporto che, valutate le circostanze del caso, non sia caratterizzato da condizionamenti derivanti dalla posizione dell’autore, sicchè la stesse siano frutto di una libera scelta e destinate ad un uso strettamente privato (Sez. U, n. 51815 del 31/05/2018, M., Rv. 274087-02).
Nel fare corretta applicazione di tali principi, la sentenza impugnata, per un verso, ha peraltro non illogicamente ritenuto estremamente probabile la divulgazione a terzi, da parte dell’imputato, delle fotografie pornografiche ricevute dalla persona offesa (tenendo conto che analoga condotta di diffusione egli già aveva tenuto con riguardo a materiale dello stesso tipo) e, per altro verso, ha comunque escluso che nel caso di specie potesse invocarsi il concetto di “produzione domestica”, richiamando sul punto le puntuali considerazioni rese dal primo giudice (pag. 8 sentenza g.u.p.), con il quale il generico ricorso in alcun modo si confronta. Per quanto ricostruito dai giudici di merito, difatti, è evidente che ci si trova davanti – per muoversi nell’ambito del paradigma interpretativo della citata decisione delle Sezioni unite – ad un caso caratterizzato da condizionamenti derivanti dalla posizione dell’autore (l’imputato, che pagava il minore non solo per avere rapporti sessuali, ma anche perchè lui si scattasse fotografie pornografiche e gliele inviasse), sicchè, in un simile contesto illecito, si è qui certamente fuori da quei presupposti applicativi.
Per contro, proprio perchè il rifiuto in prima battuta opposto dal minore alla richiesta dell’imputato di mandargli fotografie di quel tipo fu superato con la dazione da parte di quest’ultimo della somma di 100 Euro (cfr. la ricostruzione dei fatti operata in primo grado e richiamata a pag. 3 della sentenza impugnata), ben si attaglia al caso in esame il principio – esattamente richiamato dal primo giudice – giusta il quale risponde del delitto di pornografia minorile, punito art. 600-ter c.p., comma 1, n. 1, anche colui che, pur non realizzando materialmente la produzione di materiale pedopornografico, abbia istigato o indotto il minore a farlo, facendo sorgere in questi il relativo proposito, prima assente, ovvero rafforzandone l’intenzione già esistente, ma non ancora consolidata (Sez. 3, n. 2252 del 22/10/2020, dep. 2021, C., Rv. 280825-02; Sez. 3, n. 26862 del 18/04/2019, P., Rv. 276231).
- Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso, tenuto conto della sentenza Corte Cost. 13 giugno 2000, n. 186e rilevato che nella presente fattispecie non sussistono elementi per ritenere che la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, consegue, a norma dell’art. 616c.p.p., oltre all’onere del pagamento delle spese del procedimento anche quello del versamento in favore della Cassa delle Ammende della somma equitativamente fissata in Euro 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.
Dispone, a norma del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52, che – a tutela dei diritti o della dignità degli interessati – sia apposta a cura della cancelleria, sull’originale della sentenza, un’annotazione volta a precludere, in caso di riproduzione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi degli interessati riportati sulla sentenza.
Conclusione
Così deciso in Roma, il 1 ottobre 2021.
Depositato in Cancelleria il 19 novembre 2021
Comments are closed