DARK WEB REATI divulgazione di materiale pedopornografico, mai rinvenuto, ma stimato in milioni di files.
1. Vicenda processuale e provvedimento impugnato – Il G.i.p. ha applicato, nei confronti del ricorrente, la misura cautelare degli arresti domiciliari in relazione all’accusa di avere, il C. , costituito un sodalizio criminoso estrinsecatosi in una comunità virtuale in internet composta da un vastissimo numero di affiliati (oltre 6000 di diverse nazionalità) del tutto anonimi ma suddivisi in nodi di specifici sottogruppi (come nel caso di quello italiano denominato Pedo Italia ed amici italiani presenti nel noto pedobook) dediti allo scambio ed alla divulgazione di materiale pedopornografico, mai rinvenuto, ma stimato in milioni di files. In particolare, al C. è stato contestato il ruolo di partecipante nonché la commissione del reato-fine di cui all’art. 600 ter, 3 e 5 comma c.p..
Il Tribunale per il Riesame, nel provvedimento qui impugnato, ha confermato la misura coercitiva detta.
2. Motivi del ricorso – Avverso tale decisione, l’indagato ha proposto ricorso, tramite difensore, deducendo violazione della legge penale e vizio di motivazione da ravvisarsi nel fatto che né il reato di cui all’art. 416 c.p. né quello di cui all’art. 600 ter c.p. sarebbero configurabili.
In primo luogo, secondo il ricorrente, a tutto concedere, si sarebbe al cospetto di una comunità privata interconnessa sì da darsi luogo alla violazione della più mite ipotesi contemplata dall’art. 600 quater c.p.. I partecipanti dovrebbero identificarsi nelle poche ed identificate persone citate dallo stesso Tribunale nel proprio provvedimento a f. 6..
Tale assunto poggia sul rilievo secondo cui il preteso numero indeterminato di soggetti non sussisterebbe perché costoro, nel momento dell’entrata in contatto con il materiale stesso, in adesione al sodalizio, già sarebbero correi in virtù del carattere chiuso della pretesa comunità virtual
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. III PENALE – SENTENZA 15 maggio 2013, n.20921 – Presidente Squassoni – Relatore Mulliri
Ritenuto in fatto
1. Vicenda processuale e provvedimento impugnato – Il G.i.p. ha applicato, nei confronti del ricorrente, la misura cautelare degli arresti domiciliari in relazione all’accusa di avere, il C. , costituito un sodalizio criminoso estrinsecatosi in una comunità virtuale in internet composta da un vastissimo numero di affiliati (oltre 6000 di diverse nazionalità) del tutto anonimi ma suddivisi in nodi di specifici sottogruppi (come nel caso di quello italiano denominato Pedo Italia ed amici italiani presenti nel noto pedobook) dediti allo scambio ed alla divulgazione di materiale pedopornografico, mai rinvenuto, ma stimato in milioni di files. In particolare, al C. è stato contestato il ruolo di partecipante nonché la commissione del reato-fine di cui all’art. 600 ter, 3 e 5 comma c.p..
Il Tribunale per il Riesame, nel provvedimento qui impugnato, ha confermato la misura coercitiva detta.
2. Motivi del ricorso – Avverso tale decisione, l’indagato ha proposto ricorso, tramite difensore, deducendo violazione della legge penale e vizio di motivazione da ravvisarsi nel fatto che né il reato di cui all’art. 416 c.p. né quello di cui all’art. 600 ter c.p. sarebbero configurabili.
In primo luogo, secondo il ricorrente, a tutto concedere, si sarebbe al cospetto di una comunità privata interconnessa sì da darsi luogo alla violazione della più mite ipotesi contemplata dall’art. 600 quater c.p.. I partecipanti dovrebbero identificarsi nelle poche ed identificate persone citate dallo stesso Tribunale nel proprio provvedimento a f. 6..
Tale assunto poggia sul rilievo secondo cui il preteso numero indeterminato di soggetti non sussisterebbe perché costoro, nel momento dell’entrata in contatto con il materiale stesso, in adesione al sodalizio, già sarebbero correi in virtù del carattere chiuso della pretesa comunità virtuale.
Secondo il ricorrente, l’errore del Tribunale è nella lettura delle modalità di avvio dell’indagine promanante dalla inconsapevole denuncia della sig.ra A. che scaricando materiale da siti aperti di internet, si era ritrovata delle immagini vietate. Vi è una evidente diversità nei presupposti di fatto delle due situazioni: quella della signora A. e quella degli indagati. Non è, pertanto, possibile affermare che il gruppo virtuale era chiuso ed, al contempo, ipotizzare la esistenza di un pubblico indifferenziato come nel caso della signora A. .
Altro argomento difensivo è la insussistenza dell’ipotesi associativa. Al massimo si verserebbe in un caso di concorso di persone perché la contestazione dell’associazione esclude l’offerta pubblica di materiale vietato. Vi sarebbe, in pratica, un vizio logico nel fatto di contestare il reato di cui all’art. 416 c.p. perché quest’ultima ipotesi esclude la configurabilità di una offerta o divulgazione ad un numero indefinito di soggetti. Il ricorrente ricorda che anche questa S.C. ha raccomandato che il giudice, nella ricerca di prova di una ipotesi associativa, non si confonda con la consumazione di più reati in base ad un unico disegno criminoso.
Si sottolinea, comunque, la inutilizzabilità degli atti di indagine perché frutto del lavoro di agenti provocatori per fattispecie delittuose non contemplate dall’art. 14 L. 269/98 che consente quel tipo di investigazione. Ciò si pone in contrasto anche con l’art. 6 CEDU.
Il ricorrente termina ricordando che la eventuale contestazione dell’art. 600 quater precluderebbe la contestazione della cessione e che anche la eventuale aggravante costituita dalla quantità del materiale pedopornografico trattato è frutto di una rivelazione de relato perché riferita alla P.G. ad un utente in una conversazione privata.
Il ricorrente insiste invocando l’annullamento della ordinanza impugnata.
Considerato in diritto
3. Motivi della decisione – il ricorso è infondato e deve essere respinto.
A ben vedere, infatti, le questioni che esso propone a questa S.C. sono già state affrontate e risolte dal Tribunale in modo corretto basandosi sulla lettura integrale degli atti trasmessi a quel collegio nonché sulla validità del titolo cautelare da esso condiviso 3.1. In primo luogo, va sfrondato il campo da dubbi in ordine alla sussistenza dell’ipotesi associativa.
Occorre premettere che, nell’ambito dei fenomeni più risoggettivi penalmente rilevanti, quello associativo si qualifica per essere un accordo di carattere ‘aperto’.
Lo scopo comune, oggetto dell’incontro di volontà, consiste nel programma di commettere – cogliendo le opportunità che, via via, si presentano – una pluralità indefinita di reati, sia pure dello stesso genere di modo che ‘é sufficiente una organizzazione minima perché il reato.
Si perfezioni (ex multis: Sez. VI, 13.12.02, Allegri, Rv. 223417; Sez. VI, 14.2.01, Allegri Rv. 218953).
La esplicita manifestazione di una volontà associativa non è necessaria per la costituzione del sodalizio e la consapevolezza dell’associato non può che essere provata attraverso comportamenti significativi che si concretino in una attiva e stabile partecipazione (Sez. V, 24.9.98, Burglo, Rv. 213978).
Sulla scorta di tali principi, la lettura degli atti da parte dei giudici di merito, nel caso in esame, non presta il fianco a vizi perché valorizza bene il fatto che le indagini abbiano fatto emergere l’esistenza di una comunità virtuale, regolata dalle disposizioni date dai promotori e dai gestori. Il fatto che questi ultimi non siano ancora stati tutti identificati (ma se ne conosca solo uno, nella persona di Ca. , coindagato dell’odierno ricorrente) non rileva assolutamente ai fini della possibilità di affermare l’esistenza del sodalizio.
Esso, infatti, si è palesato in tutta la sua ‘sostanzialità’ attraverso le attività di scambio e divulgazione di foto pedo-pornografiche “di bambini di età persino neonatale” (f. 5) monitorate dagli inquirenti i quali hanno potuto verificare anche la circolazione di “riproduzioni video raffiguranti presunti omicidi di bimbi di tenerissima età”.
Ricordano i giudici che le acquisizioni investigative hanno portato alla emersione di un imponente archivio pedo-pornografico “il più grande mai rinvenuto”, stimato in milioni di files, la cui gestione era curata da un sodalizio costituito da una “comunità virtuale in internet” che si faceva forte dell’”anonimato” nonché della “polverizzazione delle partecipazioni”, di una “rigida gerarchia”, di “ferree regole di partecipazione e di esclusione” oltre che di una vastissima rete di affiliati (oltre 600 di diverse nazionalità) suddivisi in nodi di specifici sottogruppi.
Le opposte deduzioni qui svolte dal ricorrente, speculando sulle peculiarità di una comunità virtuale, puntano semplicemente ad una banalizzazione di condotte che, come bene descritto nel provvedimento impugnato, sono di allarmante vastità e gravità ed il fatto che esse siano emerse casualmente non rappresenta certo – come paradossalmente si vorrebbe – la prova della sua inesistenza (quasi che il ‘difettoso’ funzionamento di un sistema che aspirava – intuibilmente – ad essere ‘chiuso’ possa essere addotto a riprova della sua inesistenza).
Si tratta, semplicemente, di sofismi attraverso i quali la difesa cerca di indurre questa S.C. a dare una lettura diversa degli indizi ma che è smentita proprio dall’accertamento di quelle condizioni di ammissione al gruppo che erano così precise da deporre di per sé sole per la esistenza ed insidiosità del sodalizio.
A riguardo, i giudici di merito sottolineano che “la partecipazione al gruppo era ammessa solo dopo l’esplicita accettazione di tali scopi e finalità nonché dell’impegno di inviare con una certa frequenza foto pedo-pornografiche”. Anche la permanenza nel gruppo era condizionata “all’invio effettivo di dette foto”.
3.2. Dal momento che tutto ciò non poteva che avvenire con consapevolezza e non in modo casuale, agevoli sono le conseguenze che se ne traggono, sia, sul piano soggettivo che per quel che attiene alla configurabilità del reato fine che é stato giustamente individuato nella violazione dell’art. 600 ter c.p. e non in quella dell’art. 600 quater stesso codice.
Come questa stessa sezione ha avuto già modo di ricordare (sez. III, 2.2.11, l.f., rv. 249656), infatti, la logica della complessiva legge 269/98 (che ha introdotto gli articoli appena menzionati) – essendo quella di garantire una tutela a 360 gradi – “ha previsto un sistema di tutela a cascata in cui la previsione dell’art. 600 quater (quella sanzionata più lievemente) subentra laddove non siano applicabili le altre e più gravi disposizioni”.
Era stato già anticipato dalla nota sentenza a Sezioni Unite (n. 13/00, Bove, rv. 216337) che la fattispecie di cui all’art. 600 ter ricorre quando la condotta incriminata sia posta in essere nell’ambito di una struttura che, pur rudimentale, sia finalizzata ed idonea alla realizzazione ed alla diffusione del ‘prodotto’ su vasta scala.
In altri termini, l’elemento discretivo è costituito dalla ‘diffusività’ del fenomeno (v. anche Rv. 249656 cit.).
Tanto detto, non merita, quindi, critiche né sul piano giuridico né, tanto meno, logico la considerazione del Tribunale secondo cui “l’invio tramite posta elettronica ad un gruppo di discussione o newsgroup o nodi di Tor in deep web di files contenenti immagini pedopornografiche non disponibili ai partecipanti alla discussione” integra gli estremi del delitto ipotizzato e non può essere ‘semplificato’ (come negli auspici dei ricorrente) attraverso la tesi di trovarsi al cospetto di un gruppo ristretto di soggetti (da individuarsi nel soli indagati identificati) dediti ad un discutibile scambio di immagini.
Del resto, pertinente è anche l’ulteriore rilievo del Tribunale che il reato di cui all’art. 600 ter è istantaneo ed è integrata ogni qual volta sia posta in essere la distribuzione, divulgazione, diffusione o pubblicazione di materiale pedo-pornografico, tanto più se ciò avviene, come nel caso in esame, all’interno di una comunità virtuale accessibile da parte di altri, con conseguente potenzialità diffusiva del materiale stesso. È quindi, comunque illusorio, da parte del ricorrente, il tentativo di derubricare il fatto sul rilievo del minor numero di partecipanti al ‘gruppo’.
3.3. Una volta esclusa la possibilità di messa in discussione della sussistenza di gravi indizi del delitto di cui all’art. 600 ter (espressamente previsto dall’art. 141 L. 3.8.98 n. 269), viene meno anche il dubbio circa la legittimità dell’operato della P.G.. In relazione a tale ipotesi, infatti, sussiste la possibilità di utilizzare l’attività di contrasto posta in essere dagli operanti è fuori discussione (residuando, al massimo, in caso di travalicamento dell’azione, solo una responsabilità dell’agente provocatore).
Nel respingere il ricorso, segue, per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Visti gli artt. 615 e ss. c.p.p..
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Comments are closed