DIFFAMAZIONE SU FACEBOOK DANNI RISARCIMENTO TRIB BOLOGNA

 

DIFFAMAZIONE FACEBOOK RISARCIMENTO TRIB BOLOGNA

 

 

 

IMPORTANTE SENTENZA TRIBUNALE DI BOLOGNA DIFFAMAZIONE FACEBOOK

 

 

 

la Cassazione ha espressamente riconosciuto la possibilità che il reato di diffamazione possa essere commesso a mezzo internet, configurando la propagazione tramite Facebook un’ipotesi che integra quale aggravante quella di cui al terzo comma del menzionato articolo.

La diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca Facebook integra l’ipotesi aggravata menzionata trattandosi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di soggetti. Un’aggravante che trova la sua ratio nella idoneità del mezzo utilizzato che determina una rapida pubblicizzazione e diffusione (Cassazione penale, sez. I, 28/04/2015, n. 24431; Cassazione penale, sez. V., 13/07/2015, n. 8328). Questo si traduce, sul piano penale e per espressa previsione del legislatore, in un aumento della pena.

Sul piano civile, ciò andrà verosimilmente a potenziare l’ingiustizia del danno, posto che l’utilizzo del mezzo internet comporta una diffusione della notizia diffamatoria ben più ampia e potenzialmente idonea a raggiungere un numero indeterminato di individui.

Vero è che la tutela della reputazione personale e dell’onore, bene giuridico presidiato dal perseguimento delle condotte diffamatorie, deve molto spesso trovare un adeguato bilanciamento con un altro diritto fondamentale, ossia quello di manifestazione del libero pensiero, in tutte le sue specifiche declinazioni, quali il diritto di critica e il diritto di cronaca, che trovano un preciso addentellato costituzionale nell’art. 21 Cost. L’impossibile coesistenza di entrambe le tutele, in alcune occasioni, impone all’ordinamento, all’esito di un bilanciamento tra i valori in gioco, di decidere quale dei due diritti deve considerarsi prevalente, sacrificando l’altro. Ciò avviene attraverso l’operatività di vere e proprie esimenti che, in una data situazione, elidono l’antigiuridicità di una condotta altrimenti rilevante.

 

 

 

 

 

Al riguardo, preme evidenziare che non possa essere condiviso l’assunto per cui il danno non patrimoniale da lesione dell’immagine e della reputazione sia un danno ” in re ipsa”, ciò contrastando con l’attuale, e ormai consolidatosi (a partire dalle pronunce delle Sezioni Unite del 2008: si vada segnatamente, Cass., Il novembre 2008, n. 26972, sino alla recente Cass., sez. un., 22 luglio 2015, n. 15350), orientamento che esclude, in ogni caso, la sussistenza di un danno non patrimoniale ” in re ipsa”, sia che esso derivi da reato (Cass., 12 aprile 2011, n. 8421), sia che sia contemplato come ristoro tipizzato dal legislatore (in tema di tutela della privacy: Cass., 26 settembre 2013, n. 22100; Cass., 15 luglio 2014, n. 16133; in tema di equa riparazione per durata irragionevole del processo: Cass., 26 maggio 2009, n. 12242), sia, infine, che derivi dalla lesione di diritti costituzionalmente garantiti, e, tra questi, il diritto all’immagine (anche di enti collettivi: Cass., 13 ottobre 2016, n. 20643) e, segnatamente, il diritto all’onore ed alla reputazione della persona fisica (Cass., 18 novembre 2014, n. 24474). Le conclusioni che precedono traggono alimento dal superamento della teorica del c.d. “danno evento”, elaborata compiutamente, come è noto, dalla sentenza n. 184 del 1986 della Corte costituzionale in tema di danno biologico e oggetto di revirement da parte della stessa Corte Costituzionale con la sentenza n. 372 del 1994. Orbene, il danno risarcibile, nella sua attuale ontologia giuridica, segnata dalla norma dell’art. 2043 c.c., cui è da ricondurre la struttura stessa dell’illecito aquiliano, non si identifica con la lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento, ma con le conseguenze di tale lesione (Cass. n. 16133 del 2014). Detta ricostruzione muove anzitutto dal riconoscimento che l’art. 2059 c.c. non disciplina una autonoma fattispecie di illecito, distinta da quella di cui all’art. 2043 c.c., ma si limita a disciplinare i limiti e le condizioni di risarcibilità dei pregiudizi non patrimoniali, sul presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito richiesti dal citato art. 2043, senza differenziazioni in termini di prova (cfr. Cass., sez. un. n. 26972 del 2008, cit.). Ne consegue che la sussistenza del danno non patrimoniale, quale conseguenza pregiudizievole (ossia, una perdita ai sensi dell’art. 1223 cod. civ., quale norma richiamata dall’art. 2056 c.c.) di una lesione suscettibile di essere risarcita, deve essere oggetto di allegazione e di prova, sebbene, a tale ultimo fine, possano ben utilizzarsi anche le presunzioni semplici, là dove, proprio in materia di danno causato da diffamazione, idonei parametri di riferimento possono rinvenirsi, tra gli altri, dalla diffusione dello scritto, dalla rilevanza dell’offesa e dalla posizione sociale della vittima (si veda, in tema di diffamazione a mezzo stampa Cass. n. 13153 del 2017). Ciò posto, dunque, la oggettiva difficoltà di tradurre in termini monetari una entità (ossia il danno non patrimoniale) che non può essere stimata sulla base di criteri economici specifici, consente al giudice di applicare una valutazione necessariamente equitativa e ciò sulla base della espressa previsione codicistica, di cui all’art. 1226 c.c.. Pertanto, alla luce di tutte le circostanze del caso concreto debitamente considerate a tale fine nella specie, quali la diffusione dello scritto attraverso il social network Facebook idoneo a diffondere il messaggio pubblicato, l’intrinseca rilevanza dell’offesa all’immagine dell’azienda e alla reputazione professionale degli attori, il numero di destinatari qualificati raggiunti, la qualità di concorrente sul mercato del soggetto diffamante, si ritiene equo riconoscere la somma complessiva pari a euro 15.000,00 a titolo di risarcimento del danno all’immagine patito da parte attrice (5.000,00 per ciascuno degli attori). Dal momento della sentenza e sino all’effettivo soddisfo dovranno essere corrisposti, sul totale sopra liquidato all’attualità, gli ulteriori interessi al tasso legale.

 

 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE ORDINARIO DI BOLOGNA
TERZA SEZIONE CIVILE

Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Cinzia Gamberini ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 13362/2017 promossa da:

F.T.S.R.L., con il patrocinio dell’avv. P. M., elettivamente domiciliato in XX 4 40123 BOLOGNA presso il difensore avv. P. M.
G. G., con il patrocinio dell’avv. P. M., elettivamente domiciliato in XX 4 40123 BOLOGNA presso il difensore avv. P. M. F. G., con il patrocinio dell’avv. P. M., elettivamente domiciliato in XX 4 40123 BOLOGNA presso il difensore avv. P. M.

ATTORI

Contro

  1. B., con il patrocinio dell’avv. M. S., elettivamente domiciliato in VIA X N. 43 40100 BOLOGNA presso il difensore avv. M. S.

CONVENUTO

CONCLUSIONI

Le parti hanno concluso come segue

Per F. T. S.R.L., per G. G., per F. G.: “Voglia l’Ill. mo Giudice adito, ogni contraria istanza ed eccezione disattesa: – accertare la condotta diffamatoria posta in essere dal sig. M. B. nei confronti degli attori per le ragioni esposte in narrativa e per effetto della pubblicazione su Facebook del post prodotto come doc. 10; – condannare il convenuto a risarcire, a F. T. s.r.l. e ai sig. ri G. e F. G., tutti i danni patiti, patrimoniali e non, nessuno escluso; – per l’effetto, condannare il sig. M. B. a pagare l’importo di 8.000,00 (ottomila) cadauno ai sigg. F. e G. G. ed 10.000,00 (diecimila) a F. T. s.r.l., ovvero la diversa somma che sarà ritenuta dovuta, anche in via equitativa, all’esito del giudizio, oltre rivalutazione monetaria ed interessi ex art. 1284, comma IV, c.c. dalla domanda al saldo; – disporre la pubblicazione dell’emananda sentenza di condanna, anche ex art. 2058 c.c. e 120 c.p.c., a cura degli attori ed a spese del convenuto, per una volta e per estratto di “Il Resto del Carlino”, edizione domenicale di Bologna con caratteri doppi rispetto a quelli normali di stampa; – condannare il sig. M. B. a rifondere, agli attori, le spese del presente giudizio nonché del procedimento di mediazione”.

  1. M. B. “L’Ill. mo Tribunale adito voglia, in via principale, respingere le domande attoree e le richieste per i motivi suesposti in quanto infondate in fatto e/o in diritto e/o non provate e/o sprovviste di nesso di causalità. In ogni caso, con vittoria di spese, diritti, onorari, Iva e CPA come per legge”.

Concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione

Con atto di citazione notificato in data 04.08.2017, la F. T. S.r.l. – già W. s.r.l., società nata nel 2007 all’interno del gruppo T. di Bologna con l’obiettivo di sviluppare il mercato della bicicletta elettrica – ed i signori G. F. e G. G. in proprio, convenivano il signor B. M. innanzi il Tribunale di Bologna per sentir accertare la condotta diffamatoria da questi posta in essere ed ottenere la condanna del convenuto al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, conseguenti alla lesione del loro diritto alla reputazione e all’immagine, quantificati in € 8.000,00 (ciascuno) per i signori F. G. e G. G. e in € 10.000,00 per la F. T. s.r.l., ovvero nella diversa somma ritenuta di giustizia, anche in via equitativa, oltre rivalutazione monetaria ed interessi ex art. 1284 comma IV, c.c. dalla domanda al saldo. Chiedevano, inoltre, disporre la pubblicazione dell’emananda sentenza di condanna, a cura degli attori ed a spese del convenuto, per una volta e per estratto su “Il Resto del Carlino”, edizione domenicale di Bologna, con caratteri doppi rispetto a quelli normali di stampa.

Si costituiva nel presente giudizio il signor M. B. il quale confutava e contestava quanto dedotto e prodotto ed insisteva nella reiezione delle domande avversarie.

Assegnati i termini di cui all’art. 183, comma VI, c.p.c., all’udienza in data 08.05.2018, il Giudice rigettava le istanze istruttorie formulate dalle parti e rinviava all’udienza in data 07.03.2019 ove tratteneva la causa in decisione, assegnando i termini di cui all’art. 190 c.p.c.. *** Le pretese di parte attrice sono fondate e devono essere accolte, seppure solo parzialmente in relazione al quantum di danno lamentato, per le ragioni che seguono.

In genere: cenni sulla disciplina in materia di diffamazione.

Ai fini di un migliore inquadramento della vicenda oggetto di causa, si ritiene utile ripercorrere sinteticamente la regolamentazione delle fattispecie di diffamazione, cui l’ordinamento nel suo complesso attribuisce un evidente disvalore, sia sul piano penale, con la previsione di una specifica ipotesi di reato, ex art. 595 c.p., sia sul piano civile quale condotta evidentemente integrativa di fatto illecito, ai sensi dell’art. 2043. 5 o Comune a entrambi i piani è il significato di condotta diffamatoria, esplicitato invero solo nel codice penale, laddove si punisce la condotta di chi, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione. Se la comunicazione avviene a mezzo stampa o, come nel caso di specie, a mezzo internet, l’offesa si ritiene ancora più pregnante.

Infatti, la Cassazione ha espressamente riconosciuto la possibilità che il reato di diffamazione possa essere commesso a mezzo internet, configurando la propagazione tramite Facebook un’ipotesi che integra quale aggravante quella di cui al terzo comma del menzionato articolo.

La diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca Facebook integra l’ipotesi aggravata menzionata trattandosi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di soggetti. Un’aggravante che trova la sua ratio nella idoneità del mezzo utilizzato che determina una rapida pubblicizzazione e diffusione (Cassazione penale, sez. I, 28/04/2015, n. 24431; Cassazione penale, sez. V., 13/07/2015, n. 8328). Questo si traduce, sul piano penale e per espressa previsione del legislatore, in un aumento della pena.

Sul piano civile, ciò andrà verosimilmente a potenziare l’ingiustizia del danno, posto che l’utilizzo del mezzo internet comporta una diffusione della notizia diffamatoria ben più ampia e potenzialmente idonea a raggiungere un numero indeterminato di individui.

Vero è che la tutela della reputazione personale e dell’onore, bene giuridico presidiato dal perseguimento delle condotte diffamatorie, deve molto spesso trovare un adeguato bilanciamento con un altro diritto fondamentale, ossia quello di manifestazione del libero pensiero, in tutte le sue specifiche declinazioni, quali il diritto di critica e il diritto di cronaca, che trovano un preciso addentellato costituzionale nell’art. 21 Cost. L’impossibile coesistenza di entrambe le tutele, in alcune occasioni, impone all’ordinamento, all’esito di un bilanciamento tra i valori in gioco, di decidere quale dei due diritti deve considerarsi prevalente, sacrificando l’altro. Ciò avviene attraverso l’operatività di vere e proprie esimenti che, in una data situazione, elidono l’antigiuridicità di una condotta altrimenti rilevante.

In questo senso il diritto di critica e di cronaca, se esercitati con le modalità e nei limiti previsti, sono idonei a conferire legittimità a una condotta che, in astratto, potrebbe integrare un illecito, ad esempio perché lesiva della reputazione altrui.

Come accennato, tuttavia, l’operatività di tali esimenti non è illimitata.

Il diritto di critica e di cronaca deve essere esercitato nel rispetto dei principi di verità, di pertinenza e di continenza. Non solo. A questi stessi limiti si assegna una accezione in parte diversa, più o meno restrittiva, a seconda che si parli specificamente di diritto di critica o di diritto di cronaca.

In particolare, nel diritto di critica, il principio di verità assume un rilievo più limitato e affievolito rispetto al diritto di cronaca, in quanto la critica, per sua natura, sottende espressioni meramente soggettive, relative non tanto alla narrazione di un fatto storico quanto piuttosto alle opinioni che l’individuo ha di questo, senza che possa pretendersi una valutazione rigorosamente obiettiva.

  1. diverso è invece il diritto di cronaca, inteso quale diritto a informare e ad essere informati, che trova soprattutto nel “principio di verità”un presupposto ma anche un limite del suo esercizio. Ed infatti la finalità propria della cronaca è quella di riferire non mere opinioni personali ma notizie di accadimenti, che debbono in ogni caso rivestire un pubblico interesse.

Si deve poi rammentare che, qualora si ritenga integrata una condotta diffamatoria, le pretese risarcitorie avanzate dal danneggiato a ristoro del danno all’immagine che si ritiene subito, devono sempre essere sostenute da prove adeguate sulla effettiva verificazione di un apprezzabile pregiudizio.

 Non è pertanto ammissibile una presunzione assoluta iuris et de iure per il solo fatto dell’accertamento di una condotta diffamatoria.

Nondimeno, la prova del danno non patrimoniale all’immagine può essere data anche per presunzioni, sulla base però di una complessiva valutazione di precisi elementi di fatto dedotti in causa (ex plurimis, Cassazione civile, n. 28457/2008), potendosi in questo modo giungere a una valutazione anche in via equitativa dell’ammontare del risarcimento, stante l’obiettiva difficoltà in questi casi di una determinazione specifica.

2.Il caso di specie.

L’an.

Il fatto che ha dato origine alla presente controversia consiste nella pubblicazione, in data 26.09.2015, da parte del signor M. B. sulla pagina Facebook della W. s.r.l. (oggi F. T. s.r.l.) -che, all’epoca, riportava un annuncio promozionale relativo alla bicicletta elettrica modello “Trilogia” rappresentando agli utenti la possibilità di usufruire fino a 300,00 di sconto – di un “post”del seguente contenuto: “Ma perché la W. invece che ostinarsi a chiudere bilanci in passivo da circa 6 anni e offrire incentivi con denaro pubblico non regala qualche bicicletta alla nuova velostazione di Bologna, e da un contributo e un sostegno alla mobilità pubblica invece che succhiare denaro ? …Dai F. meno mi piace …Al buon giatti!” Ad avviso di questo giudicante non può revocarsi in dubbio che il post scritto dal convenuto sulla pagina Facebook della W., – il cui contenuto essenziale si è integralmente riportato – assuma una portata lesiva dell’immagine della W. stessa e della reputazione dei suoi titolari, G. G. e F. G., fornendo al pubblico interessato dall’annuncio promozionale dell’azienda una rappresentazione della W. come una società in perdita da anni, che “succhia” denaro pubblico e che inganna i suoi clienti spacciando incentivi del Comune come propri sconti.

Tali affermazioni risultano denigratorie di per sé stesse e, ancor più, ove non corrispondenti al vero, come nel caso di specie.

Parte attrice ha, infatti, documentato la falsità della circostanza stigmatizzata dal signor M. B. con il “post” di cui si discute, ossi che la W. offrisse gli incentivi riferiti nell’annuncio promozionale commentato da B. utilizzando denaro pubblico, atteso che: “- il Comune di Bologna aveva previsto un contributo a favore degli utilizzatori finali per l’acquisto di qualsiasi bicicletta a pedalata assistita” (Doc. 18); – W. aveva, autonomamente, disposto un proprio distinto sconto ad hoc (Doc. 19), pubblicizzato sulla pagina F., che andava ad aggiungersi e cumularsi al contributo del Comune.

Le azioni attribuite dal signor B. a W. (“offrire incentivi con denaro pubblico” E “succhiare denaro pubblico”) sono quindi non veritiere e lesive dell’immagine dell’azienda.

Inoltre, il post risulta denigratorio anche nella parte in cui il signor B. domanda, in maniera canzonatoria, perché la W. si ostini a chiudere bilanci in passivo da circa 6 anni”. “Per sostenere la veridicità di tale affermazione il convenuto ha riferito in atti che la W. si trovava già da anni in stato di decozione e che, a fine 2015, è stata incorporata per fusione e quindi cancellata.. per effetto della gestione fallimentare (cfr. memoria B. ex art. 183, comma VI, n. 2 c.p.c.). Anche tali affermazioni non appaiono veritiere – alla luce della documentazione e delle considerazioni svolte da parte attrice, che ha spiegato come le perdite di esercizio, per una start-up in un settore altamente innovativo siano del tutto normali nel periodo iniziale, richiedendosi rilevanti investimenti e dovendosi attendere risultati positivi nel medio, lungo periodo -, ed esposte in violazione del limite della continenza.

Peraltro, a smentita della gestione fallimentare riferita dal convenuto, parte attrice ha prodotto il n. del catalogo 2018 W., da cui si evince che la società attrice è in sviluppo e continuità e lanciare nuovi e più evoluti modelli di e-bike (Doc. 25), Quanto immediatamente precede conduce questo giudice a ritenere che il descritto “post” leda l’immagine e la reputazione degli attori, integrando l’elemento materiale della fattispecie diffamatoria.

In relazione, poi, alla sussistenza dell’elemento soggettivo, come noto è necessario e sufficiente che ricorra il dolo generico, anche nelle forme del dolo eventuale, cioè la consapevolezza di offendere l’immagine e la reputazione altrui, la quale, nel caso di specie, si può desumere dalla intrinseca consistenza diffamatoria delle espressioni usate.

In ordine al riconoscimento dell’esimente del diritto di critica, si osserva che il contenuto del commento appare esorbitante rispetto ai limiti di una opinione genuina, continente e costruttiva.

Sul punto si è osservato che “il diritto di critica si concretizza in un giudizio valutativo che postula l’esistenza del fatto assunto ad oggetto o spunto del discorso critico ed una forma espositiva non ingiustificatamente sovrabbondante rispetto al concetto da esprimere, e, conseguentemente, esclude la punibilità di coloriture ed iperboli, toni aspri o polemici, linguaggio figurato o gergale, purché tali modalità espressive siano proporzionate e funzionali all’opinione o alla protesta, in considerazione degli interessi e dei valori che si ritengono compromessi” (Cass., sez. 1, n. 36045 del 13/06/2014 – dep. 20/08/2014, P.M. in proc. Surano, Rv. 261122). Invero, l’ambito di operatività di tale diritto nei delitti contro l’onore è stato oggetto di molteplici statuizioni della giurisprudenza. Si è così stabilito che, pur assumendo il requisito della verità del fatto un rilievo affievolito rispetto alla diversa incidenza che esso svolge sul versante del diritto di cronaca (Sez. 5, n. 4938/11 del 28/10/2010, S., Rv. 249239), è tuttavia indispensabile che sia rispettato un nucleo di veridicità (Sez. 5, n. 43403 del 18/06/2009, R., Rv. 245098), posto che nessuna interpretazione soggettiva, che sia fonte di discredito per la persona che ne è investita, può ritenersi rapportabile al lecito esercizio del diritto di critica quando tragga le sue premesse da una prospettazione dei fatti opposta alla verità (Sez. 5, n. 7419/10 del 03/12/2009, C., Rv. 246096). Tali principi hanno trovato applicazione anche nel caso di specie, tanto è vero che, in data 14.03.2016, il Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale di Bologna ha emesso decreto penale di condanna n. 892/2016 nei confronti del sig. B. per il reato di diffamazione aggravata (Doc. 16 fasc. att.). 3. Il quantum Tanto puntualizzato in ordine all’integrazione degli elementi costitutivi della fattispecie diffamatoria, occorre accertare la consistenza dei pregiudizi patiti dagli attori in conseguenza della pubblicazione lesiva.

Al riguardo, preme evidenziare che non possa essere condiviso l’assunto per cui il danno non patrimoniale da lesione dell’immagine e della reputazione sia un danno ” in re ipsa”, ciò contrastando con l’attuale, e ormai consolidatosi (a partire dalle pronunce delle Sezioni Unite del 2008: si vada segnatamente, Cass., Il novembre 2008, n. 26972, sino alla recente Cass., sez. un., 22 luglio 2015, n. 15350), orientamento che esclude, in ogni caso, la sussistenza di un danno non patrimoniale ” in re ipsa”, sia che esso derivi da reato (Cass., 12 aprile 2011, n. 8421), sia che sia contemplato come ristoro tipizzato dal legislatore (in tema di tutela della privacy: Cass., 26 settembre 2013, n. 22100; Cass., 15 luglio 2014, n. 16133; in tema di equa riparazione per durata irragionevole del processo: Cass., 26 maggio 2009, n. 12242), sia, infine, che derivi dalla lesione di diritti costituzionalmente garantiti, e, tra questi, il diritto all’immagine (anche di enti collettivi: Cass., 13 ottobre 2016, n. 20643) e, segnatamente, il diritto all’onore ed alla reputazione della persona fisica (Cass., 18 novembre 2014, n. 24474). Le conclusioni che precedono traggono alimento dal superamento della teorica del c.d. “danno evento”, elaborata compiutamente, come è noto, dalla sentenza n. 184 del 1986 della Corte costituzionale in tema di danno biologico e oggetto di revirement da parte della stessa Corte Costituzionale con la sentenza n. 372 del 1994. Orbene, il danno risarcibile, nella sua attuale ontologia giuridica, segnata dalla norma dell’art. 2043 c.c., cui è da ricondurre la struttura stessa dell’illecito aquiliano, non si identifica con la lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento, ma con le conseguenze di tale lesione (Cass. n. 16133 del 2014). Detta ricostruzione muove anzitutto dal riconoscimento che l’art. 2059 c.c. non disciplina una autonoma fattispecie di illecito, distinta da quella di cui all’art. 2043 c.c., ma si limita a disciplinare i limiti e le condizioni di risarcibilità dei pregiudizi non patrimoniali, sul presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito richiesti dal citato art. 2043, senza differenziazioni in termini di prova (cfr. Cass., sez. un. n. 26972 del 2008, cit.). Ne consegue che la sussistenza del danno non patrimoniale, quale conseguenza pregiudizievole (ossia, una perdita ai sensi dell’art. 1223 cod. civ., quale norma richiamata dall’art. 2056 c.c.) di una lesione suscettibile di essere risarcita, deve essere oggetto di allegazione e di prova, sebbene, a tale ultimo fine, possano ben utilizzarsi anche le presunzioni semplici, là dove, proprio in materia di danno causato da diffamazione, idonei parametri di riferimento possono rinvenirsi, tra gli altri, dalla diffusione dello scritto, dalla rilevanza dell’offesa e dalla posizione sociale della vittima (si veda, in tema di diffamazione a mezzo stampa Cass. n. 13153 del 2017). Ciò posto, dunque, la oggettiva difficoltà di tradurre in termini monetari una entità (ossia il danno non patrimoniale) che non può essere stimata sulla base di criteri economici specifici, consente al giudice di applicare una valutazione necessariamente equitativa e ciò sulla base della espressa previsione codicistica, di cui all’art. 1226 c.c.. Pertanto, alla luce di tutte le circostanze del caso concreto debitamente considerate a tale fine nella specie, quali la diffusione dello scritto attraverso il social network Facebook idoneo a diffondere il messaggio pubblicato, l’intrinseca rilevanza dell’offesa all’immagine dell’azienda e alla reputazione professionale degli attori, il numero di destinatari qualificati raggiunti, la qualità di concorrente sul mercato del soggetto diffamante, si ritiene equo riconoscere la somma complessiva pari a euro 15.000,00 a titolo di risarcimento del danno all’immagine patito da parte attrice (5.000,00 per ciascuno degli attori). Dal momento della sentenza e sino all’effettivo soddisfo dovranno essere corrisposti, sul totale sopra liquidato all’attualità, gli ulteriori interessi al tasso legale.

A diverse conclusioni si deve giungere con riferimento al danno patrimoniale lamentato e dipendente, in tesi attorea, dalla disincentivazione all’acquisto da parte degli utenti Facebook raggiunti dal “post” pubblicato dal convenuto. Con riferimento a tale danno, nessuna prova concreta è stata offerta dagli attori, neppure in termini di calo di fatturato a seguito della pubblicazione del “post” diffamatorio. Ne consegue il mancato riconoscimento del danno patrimoniale.

Quanto, infine, alla richiesta di pubblicazione della sentenza su quotidiano locale, ritiene il giudicante che della pubblicità, soprattutto in considerazione del tempo trascorso dai fatti di causa, non possa, nel caso di specie, in alcun modo contribuire a riparare il danno subito. La domanda deve, pertanto, essere rigettata.

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e vanno, dunque, poste a carico di parte convenuta, liquidate in 341,77 per spese, 5.255,00 per compensi professionali, oltre rimborso forfetario spese generali ex art. 2 D.MN. 55/2014, I.V.A. e C.P.A. come per legge.

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni diversa istabza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone: 1) Dichiara tenuto e condanna il signor M. B., per i titoli di cui in motivazione, al pagamento in favore di F. T. s.r.l., G. G. e F. G., della somma di euro 15.000,00 (5.000,00 ciascuno), oltre interessi legali dalla data della presente sentenza al saldo definitivo.

2) Rigetta ogni altra domanda.

3 ) Condanna il convenuto al pagamento, in favore degli attori in solido tra loro, delle spese del presente procedimento, liquidate in 341, 77 per spese, 5.255,00 per compenso professionale, oltre rimborso forfetario spese generali ex art. 2 D.M. 55/2014, I.V.A. e C.P.A. come per legge.

Bologna, 05/07/2019

Il Giudice
dott. Cinzia Gamberini

 

 

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Originally posted 2019-12-06 11:22:20.

 

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Proprieta’ avvocato Bologna esperto Limitazioni legali della proprieta’ – Rapporti di vicinato – Distanze legali

Oppure un uso improprio degli spazi comuni per parcheggi di veicoli o spazzatura, piante invadenti su spazi privati, animali domestici che minacciano o disturbano la tua serenità

In tema di distanze legali tra fabbricati, integra la nozione di “volume tecnico”, non computabile nella volumetria della costruzione, solo l’opera edilizia priva di alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinata a contenere impianti serventi – quali quelli connessi alla condotta idrica, termica o all’ascensore – di una costruzione principale per esigenze tecnico funzionali dell’abitazione e che non possono essere ubicati nella stessa. Pertanto, nella nozione di “volumi tecnici” di cui all’art. 10, comma 10, del piano urbanistico del comprensorio della Vallagarina, che stabilisce le distanze dai confini e dalle costruzioni limitatamente ai fabbricati, con riferimento a strutture destinate a funzioni complementari e integrative di tipo tecnico, non rientrano i silos, che costituiscono autonome costruzioni tecnologicamente predisposte alla conservazione e allo stoccaggio di prodotti alimentari o minerali.

Proprieta’ – Limitazioni legali della proprieta’ – Rapporti di vicinato – Immissioni – Azione contro le immissioni illecite – Poteri del giudice – In genere accertamento – Fatti sopravvenuti nelle more del giudizio – Adozione di accorgimenti tecnici – Cessazione parziale dell’attività – Obbligo del giudice di tenerne conto – Conseguenze.

In tema di azione diretta alla cessazione delle immissioni, i fatti sopravvenuti nel corso del processo, incidendo sul livello di tollerabilità delle stesse e quindi su una condizione dell’azione, devono essere presi in considerazione dal giudice al momento della decisione e, qualora la consulenza tecnica di ufficio espletata non ne abbia tenuto conto, il giudice, a fronte di specifiche e circostanziate critiche mosse alla stessa, deve disporre una nuova consulenza, anche al fine di valutare l’idoneità dell’adozione di misure meno afflittive di quelle interdittive già disposte. (Nel caso di specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza della corte d’appello che, pur avendo disposto un supplemento di consulenza tecnica d’ufficio, aveva omesso di prendere in considerazione la cessazione di una parte delle attività produttive generatrici di immissioni rumorose, anche alla luce dei lavori eseguiti per la loro eliminazione o riduzione).

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Il muro divisorio non può dar luogo all’esercizio di una servitù di veduta, sia perché ha solo la funzione di demarcazione del confine e tutela del fondo, sia perché, anche quando consente di “inspicere” e “prospicere” sul fondo altrui, è inidoneo ad assoggettare un fondo all’altro, a causa della reciproca possibilità di affaccio da entrambi i fondi confinanti.

divisione ereditaria

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Proprietà – Limitazioni legali della proprietà – Rapporti di vicinato – Distanze legali – Nelle costruzioni – Criterio della prevenzione (costruzione sul confine o con distacco) – In genere – Costruzione di un edificio con sporgenze e rientranze rispetto al confine – Liceità – Diritti del vicino – Costruzione in aderenza – Ammissibilità – Condizioni.

In tema di distanze legali, gli artt. 873, 875, 877 cod. civ. non vietano di costruire con sporgenze e rientranze rispetto alla linea di confine, potendo, in tal caso, il proprietario del fondo finitimo costruire in aderenza alla fabbrica preesistente sia per la parte posta sul confine, sia per quella corrispondente alle rientranze, pagando in quest’ultimo caso la metà del valore del muro del vicino, che diventa comune, nonché il valore del suolo occupato per effetto dell’avanzamento della costruzione.

 

In tema di violazione delle distanze legali, ove sia disposta la demolizione dell’opera illecita, il risarcimento del danno va computato tenendo conto della temporaneità della lesione del bene protetto dalle norme non rispettate e non del valore di mercato dell’immobile, diminuito per effetto della detta violazione, poiché tale pregiudizio è suscettibile di eliminazione.

Affinché sussista una veduta ex art. 900 c.c., è necessario, oltre al requisito della “inspectio”, anche quello della “prospectio” sul fondo del vicino, dovendo detta apertura consentire non solo di vedere e guardare frontalmente, ma anche di affacciarsi, garantendo una visione frontale, obliqua e laterale, sì da assoggettare il fondo alieno ad una visione mobile e globale, secondo un giudizio di fatto incensurabile in sede di legittimità, se non per vizi di motivazione. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto congruamente motivata la sentenza di merito, che aveva escluso la natura di veduta relativamente ad una finestra posta a mt. 1,56 dal piano di calpestio e munita di sbarre orizzontali infisse in un muro alto mt. 1,80 e spesso cm. 30, non potendo la stessa costituire un comodo affaccio). Il richiamo alla nozione di edifici di nuova costruzione ovvero di fabbricati, in assenza di una puntuale e specifica disciplina dettata per gli edifici aventi carattere cd. accessorio, come riconosciuto da parte degli stessi ricorrenti, non consente di optare per un’interpretazione che ne limiti l’applicazione ai soli edifici aventi carattere principale, posto che anche i manufatti di piu’ contenute dimensioni, quali quelli per i quali si vorrebbe escludere la valutazione ai fini del rispetto delle distanze, appaiono evidentemente riconducibili alla nozione di costruzione di cui all’articolo 873 c.c., trattandosi di manufatti stabilmente infissi al suolo che, per solidita’, struttura e sporgenza dal terreno, possono creare quelle intercapedini dannose che la legge, stabilendo la distanza minima tra le costruzioni, intende evitare, rispondendo alla tradizionale nozione di costruzione quale recepita dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 5753/2014).

D’altronde proprio la carenza di una specifica disciplina, impone di ritenere come gia’ affermato in passato che (cfr. da ultimo Cass. n. 144/2016) la nozione di costruzione, agli effetti dell’articolo 873 c.c., e’ unica e non puo’ subire deroghe da parte delle norme secondarie, sia pure al limitato fine del computo delle distanze legali, in quanto il rinvio ivi contenuto ai regolamenti locali e’ circoscritto alla sola facolta’ di stabilire una “distanza maggiore”.

Ne discende che, una volta ricondotti gli edifici accessori al novero delle costruzioni in senso civilistico e nell’accezione propria della disciplina in materia di distanze, le previsioni regolamentari che prevedono un distacco tra costruzioni risultano evidentemente applicabili anche a tali manufatti, e che, anche laddove lo strumento urbanistico locale avesse dettato una disciplina difforme, tale deroga dovrebbe reputarsi illegittima, non rientrando nel potere degli enti locali quello di dettare deroghe alla disciplina codicistica in materia di distanze, eccezione fatta per la previsione sopra richiamata, di porre delle distanze maggiori rispetto a quelle di legge.

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Originally posted 2019-01-09 17:45:10.

VIOLENZE OFFESE MINACCE ALLA FIDANZATA REATO DI TORTURA APPLICATO AL COMPAGNO

IL GRAVE FATTO

 

Letta la requisitoria del Procuratore Generale/che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso. Svolgimento del processo 1. E’ impugnata la sentenza indicata in epigrafe, con la quale la Corte di appello di Napoli ha confermato quella emessa dal giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere con la quale il ricorrente è stato dichiarato colpevole dei reati a lui ascritti e, unificati gli stessi dal vincolo della continuazione, è stato condannato, con la riduzione per il rito, alla pena di anni sei e mesi otto di reclusione, oltre al risarcimento dei danni ed al pagamento di una provvisionale e spese di giudizio in favore della parte civile, alle pene accessorie e conseguente condanna al pagamento delle spese processuali e di custodia cautelare sofferta. Al ricorrente sono stati contestati: (A) il reato di cui all’art. 572 c.p., perchè maltrattava la fidanzata O.M. con una serie di atti lesivi della sua integrità fisica e morale, sottoponendola ad un regime di vita vessatorio e violento, così da rendere abitualmente dolorosa e mortificante la relazione. In particolare: – nel dicembre 2017, dopo aver scoperto sul cellulare della donna un messaggio ricevuto dal precedente compagno, si impossessava del telefono, rispondendo ai messaggi e, dopo aver saputo i dettagli della relazione, la offendeva dicendole “sei una escort e i tuoi figli devono saperlo perchè mangiano con il tuo lavoro” e la minacciava di inviare i predetti messaggi alla moglie dell’ex compagno e ai figli della vittima, trattenendo il cellulare per una settimana ed usandolo come arma di ricatto, così sottoponendola ad uno stato di stress, di paura e di vergogna; – costantemente la controllava, anche a distanza, mediante l’applicazione whatsapp, chiedendo spiegazioni su tutti e tutto, controllandole il telefonino, il profilo Facebook, così tenendola sempre in uno stato di ansia e di paura; – nel febbraio 2018, in un’occasione, a fronte di un messaggio ricevuto dalla vittima da un numero sconosciuto, le diceva in maniera oppressiva “te lo devi ricordare” e, nonostante la donna lo invitasse a richiamare per eliminare qualunque suo dubbio, si rifiutava e per rabbia con un taglierino si tagliava sul braccio, incidendosi le iniziali della donna e le diceva “per colpa tua vedi”, compiacendosi del gesto compiuto; – nonostante la donna cercasse di tenerlo calmo per prevenire scenate, mandandogli spesso messaggi, facendo tutto quello che lui desiderasse e mettendolo al centro delle sue attenzioni, aveva sempre da ridire, dubitando di qualunque cosa al punto da controllarle continuamente il cellulare, diventando sempre più opprimente e ossessivo; – in più occasioni la offendeva con espressioni del tipo “mò te ne vai a casa, chissà con chi ti incontri, ti vai a preparare e lo sono lo stronzo che sta qua”; – dall’aprile 2018 la costringeva, urlando e dicendole con prepotenza “me li devi prestare perchè mi servono, so che li tieni e me li devi dare”, a farsi consegnare diverse somme di denaro per un totale di 500 Euro; – nel maggio 2018, mentre la donna era alla guida della propria autovettura, la percuoteva colpendola con schiaffi e pugni alla testa e al volto perchè, a suo dire, gli aveva negato di aver guardato un uomo e, quando la vittima fermava l’auto per scendere, glielo impediva, trattenendola per un braccio, mettendosi sopra di lei, facendola sbattere con il viso contro lo sportello che cercava di chiudere, dicendole “sei una puttana di merda ti meriti tutto questo, se ti fa piacere ti porto lo a farla per me sul vialone di Caserta” per poi giungere nella stanza dell'”(OMISSIS)” di Castel Volturno e, nonostante la donna fosse dolorante e scoraggiata al punto da invocare la morte, con violenza la costringeva a compiere gli atti sessuali di cui al capo B), nonostante il suo espresso dissenso; – dopo l’episodio sopra descritto, vedendo le foto ritraenti i lividi sul volto della persona offesa, le diceva “sei molto brava a camuffarti, usa il trucco”, facendosi mandare di continuo foto e messaggi per controllare se la donna fosse in compagnia di qualcuno per poi dirle “stai attenta a quello che dici, non parlare con nessuno male di me, questo è solo l’inizio, vedrai cosa sono capace di fare”; – ripetutamente e per futili motivi la percuoteva colpendola al volto, cagionandole in più occasioni ferite al labbro e l’offendeva con frasi del tipo “sei una puttana di merda, sei una troia, non mi pensi proprio, con chi stai chattando, con chi sei”; – ripetutamente la costringeva a consumare rapporti sessuali a cui la vittima acconsentiva per paura di essere picchiata e per il timore di una sua reazione violenta in caso di rifiuto; – reiteratamente la percuoteva, colpendola con pugni, calci e schiaffi sia a mani libere che utilizzando un cucchiaio, puntandole un coltello alla gola e mettendole le mani alla gola al punto da farla svenire, impedendole di piangere e di chiedere aiuto; – più volte la minacciava di fare del male alla sua famiglia; – in più occasioni la costringeva a fare uso di sostanze stupefacenti; – le impediva di frequentare amici e di tenere contatti con la famiglia di origine; – per farla tacere, la minacciava di divulgare video ritraenti rapporti sessuali, registrati a sua insaputa; – sistematicamente la faceva oggetto di violenze fisiche e psicologiche al punto da farla dimagrire circa 10 Kg; – costantemente la teneva in uno stato di soggezione psicologica a causa dei suoi comportamenti minacciosi e violenti; – sistematicamente la faceva oggetto di atti di umiliazione e disprezzo idonei a cagionare durevoli sofferenze fisiche e morali

 

 

DECIDE LA CORTE

Non coincidenti, da un confronto in astratto, gli elementi strutturali del reato di tortura e di quello di maltrattamenti, diversi essendo anche i beni giuridici tutelati dalle rispettive incriminazioni, va sottolineato come, nel caso di specie, non vi sia neppure piena sovrapponibilità, in fatto, tra le condotte poste a fondamento del delitto di maltrattamenti e quelle integranti il reato di tortura, atteso che la diversa determinazione temporale del periodo consumativo dei rispettivi reati (dal dicembre 2017 a luglio 2018 il reato di maltrattamenti: da luglio a settembre 2018, il reato di tortura), la reiterazione di atti di violenza e minaccia non gravi, le continue e pesanti offese verbali, le imposizioni, le futili pretese, le costanti umiliazioni, le sofferenze e le privazioni inflitte alla donna, estranee al raggio dell’incriminazione del reato di tortura, hanno assunto i connotati tipici del delitto di maltrattamenti, in quanto fonte di uno stato di disagio continuo e incompatibile con le normali condizioni di vita della persona offesa, nei confronti della quale è stata lesa in maniera sistematica l’integrità fisica ed il patrimonio morale mediante il compimento di condotte che hanno posto la vittima in uno stato di incessante disagio e avvilimento, costringendola a sostenere drammatiche condizioni di vita per un rilevante arco temporale (la relazione era stata avviata nel luglio 2017 e le violenze erano iniziate nel dicembre 2017, con il tempo erano andate aumentando sino ai drammatici episodi del luglio – settembre 2018, data di consumazione del reato di tortura).

 

 

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Sentenza 31 agosto 2021, n. 32380 Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. MARINI Luigi – Presidente – Dott. DI NICOLA Vito – rel. Consigliere – Dott. SOCCI Angelo Matteo – Consigliere – Dott. CERRONI Claudio – Consigliere – Dott. NOVIELLO Giuseppe – Consigliere – ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: R.C.C., nato in (OMISSIS); avverso la sentenza del 04-06-2020 della Corte di appello di Napoli; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso trattato ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8; udita la relazione del Consigliere Di Nicola Vito; Letta la requisitoria del Procuratore Generale/che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso. Svolgimento del processo 1. E’ impugnata la sentenza indicata in epigrafe, con la quale la Corte di appello di Napoli ha confermato quella emessa dal giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere con la quale il ricorrente è stato dichiarato colpevole dei reati a lui ascritti e, unificati gli stessi dal vincolo della continuazione, è stato condannato, con la riduzione per il rito, alla pena di anni sei e mesi otto di reclusione, oltre al risarcimento dei danni ed al pagamento di una provvisionale e spese di giudizio in favore della parte civile, alle pene accessorie e conseguente condanna al pagamento delle spese processuali e di custodia cautelare sofferta. Al ricorrente sono stati contestati: (A) il reato di cui all’art. 572 c.p., perchè maltrattava la fidanzata O.M. con una serie di atti lesivi della sua integrità fisica e morale, sottoponendola ad un regime di vita vessatorio e violento, così da rendere abitualmente dolorosa e mortificante la relazione. In particolare: – nel dicembre 2017, dopo aver scoperto sul cellulare della donna un messaggio ricevuto dal precedente compagno, si impossessava del telefono, rispondendo ai messaggi e, dopo aver saputo i dettagli della relazione, la offendeva dicendole “sei una escort e i tuoi figli devono saperlo perchè mangiano con il tuo lavoro” e la minacciava di inviare i predetti messaggi alla moglie dell’ex compagno e ai figli della vittima, trattenendo il cellulare per una settimana ed usandolo come arma di ricatto, così sottoponendola ad uno stato di stress, di paura e di vergogna; – costantemente la controllava, anche a distanza, mediante l’applicazione whatsapp, chiedendo spiegazioni su tutti e tutto, controllandole il telefonino, il profilo Facebook, così tenendola sempre in uno stato di ansia e di paura; – nel febbraio 2018, in un’occasione, a fronte di un messaggio ricevuto dalla vittima da un numero sconosciuto, le diceva in maniera oppressiva “te lo devi ricordare” e, nonostante la donna lo invitasse a richiamare per eliminare qualunque suo dubbio, si rifiutava e per rabbia con un taglierino si tagliava sul braccio, incidendosi le iniziali della donna e le diceva “per colpa tua vedi”, compiacendosi del gesto compiuto; – nonostante la donna cercasse di tenerlo calmo per prevenire scenate, mandandogli spesso messaggi, facendo tutto quello che lui desiderasse e mettendolo al centro delle sue attenzioni, aveva sempre da ridire, dubitando di qualunque cosa al punto da controllarle continuamente il cellulare, diventando sempre più opprimente e ossessivo; – in più occasioni la offendeva con espressioni del tipo “mò te ne vai a casa, chissà con chi ti incontri, ti vai a preparare e lo sono lo stronzo che sta qua”; – dall’aprile 2018 la costringeva, urlando e dicendole con prepotenza “me li devi prestare perchè mi servono, so che li tieni e me li devi dare”, a farsi consegnare diverse somme di denaro per un totale di 500 Euro; – nel maggio 2018, mentre la donna era alla guida della propria autovettura, la percuoteva colpendola con schiaffi e pugni alla testa e al volto perchè, a suo dire, gli aveva negato di aver guardato un uomo e, quando la vittima fermava l’auto per scendere, glielo impediva, trattenendola per un braccio, mettendosi sopra di lei, facendola sbattere con il viso contro lo sportello che cercava di chiudere, dicendole “sei una puttana di merda ti meriti tutto questo, se ti fa piacere ti porto lo a farla per me sul vialone di Caserta” per poi giungere nella stanza dell'”(OMISSIS)” di Castel Volturno e, nonostante la donna fosse dolorante e scoraggiata al punto da invocare la morte, con violenza la costringeva a compiere gli atti sessuali di cui al capo B), nonostante il suo espresso dissenso; – dopo l’episodio sopra descritto, vedendo le foto ritraenti i lividi sul volto della persona offesa, le diceva “sei molto brava a camuffarti, usa il trucco”, facendosi mandare di continuo foto e messaggi per controllare se la donna fosse in compagnia di qualcuno per poi dirle “stai attenta a quello che dici, non parlare con nessuno male di me, questo è solo l’inizio, vedrai cosa sono capace di fare”; – ripetutamente e per futili motivi la percuoteva colpendola al volto, cagionandole in più occasioni ferite al labbro e l’offendeva con frasi del tipo “sei una puttana di merda, sei una troia, non mi pensi proprio, con chi stai chattando, con chi sei”; – ripetutamente la costringeva a consumare rapporti sessuali a cui la vittima acconsentiva per paura di essere picchiata e per il timore di una sua reazione violenta in caso di rifiuto; – reiteratamente la percuoteva, colpendola con pugni, calci e schiaffi sia a mani libere che utilizzando un cucchiaio, puntandole un coltello alla gola e mettendole le mani alla gola al punto da farla svenire, impedendole di piangere e di chiedere aiuto; – più volte la minacciava di fare del male alla sua famiglia; – in più occasioni la costringeva a fare uso di sostanze stupefacenti; – le impediva di frequentare amici e di tenere contatti con la famiglia di origine; – per farla tacere, la minacciava di divulgare video ritraenti rapporti sessuali, registrati a sua insaputa; – sistematicamente la faceva oggetto di violenze fisiche e psicologiche al punto da farla dimagrire circa 10 Kg; – costantemente la teneva in uno stato di soggezione psicologica a causa dei suoi comportamenti minacciosi e violenti; – sistematicamente la faceva oggetto di atti di umiliazione e disprezzo idonei a cagionare durevoli sofferenze fisiche e morali. Con la circostanza aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 1 per aver agito per motivi futili. Con la circostanza aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 4, per aver agito con crudeltà verso la persona offesa. In (OMISSIS); (B) il reato di cui agli artt. 81 cpv. e 609-bis c.p.p., art. 609-ter c.p.p., n. 5-quater, perchè, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, anche in tempi diversi, con violenza consistita nel colpire la persona offesa con schiaffi e pugni al volto e alla testa, nello sbatterla con la testa contro il muro al punto da provocarle una fuoriuscita di sangue, nello stringerle le mani alla gola, dicendole “sei una puttana di merda ti piace fare questo e adesso lo fai per me, chiamo qualcuno se non ti basto”, la costringeva a compiere atti sessuali, consistiti in un rapporto orale, nonostante il suo espresso dissenso (episodio del maggio 2018) e, in più occasioni, nonostante il dissenso espresso della donna, la costringeva a subire e a compiere atti sessuali a cui la vittima non riusciva ad opporsi a causa delle continue e reiterate violenze fisiche subite, della sua possenza fisica, della paura di essere picchiata, del timore che facesse del male anche ai figli, perchè era ormai sfinita e senza forze ed avendo perso ogni speranza di porre termine alle torture di cui era vittima. Con la circostanza aggravante dell’aver commesso il fatto nei confronti di persona alla quale il colpevole è o è stato legato da relazione affettiva. In (OMISSIS); (C) il reato di cui all’art. 613-bis c.p., commi 1 e 4, perchè, con violenze e minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagionava alla persona offesa, privata della libertà personale, in quanto la chiudeva a chiave in casa, portando con sè le chiavi, acute sofferenze fisiche, un verificabile trauma psichico ed una lesione personale dalla quale derivava una malattia nel corpo (ecchimosi diffuse, arto superiore, fronte, gamba sx; escoriazioni diffuse, ustione di primo grado fianco sx, frattura VII e IX costa di destra, giudicata guaribile in 21 giorni), mediante più condotte di seguito indicate. Ed in particolare: – nel luglio 2018 si recava a casa della donna, la colpiva con schiaffi, pugni e calci in tutte le parti del corpo, la prendeva per i capelli, la sbatteva contro i mobili ed il muro, le stringeva le mani al collo, soffocandola fino allo sfinimento, impedendole di urlare e le diceva “sei una puttana, meriti tutto questo guarda cosa mi hai fatto diventare non ti permettere di urlare che ti ammazzo, questa è la volta buona”, costringendola a non parlare con alcuna persona e minacciandola che diversamente l’avrebbe picchiata; – tra il luglio e l’agosto 2018 la colpiva con schiaffi al volto, spaccandole il labbro e la colpiva con un pugno allo zigomo; le controllava il telefono anche di notte; cancellava i messaggi in cui la minacciava ed in cui la donna cercava di convincerlo a lasciarla, dicendole che l’avrebbe lasciata quando l’avrebbe deciso lui; la costringeva ad avere rapporti sessuali a cui la donna acconsentiva per evitare ulteriori violenze, perchè se provava a negarsi diventava una bestia e per il timore che facesse del male ai suoi figli; aveva sempre il controllo della persona offesa, creandole ansia e paura; la minacciava di fare del male anche ai suoi figli con frasi del tipo “fai venire a S., lo so dove abiti e non ho niente da perdere”; le chiedeva ripetutamente somme di denaro, costringendola a consegnargli la postepay con il pin da cui prelevava la somma di 350 Euro; – la notte tra il (OMISSIS), a fronte del rifiuto opposto dalla donna ad avere un rapporto sessuale, andava in escandescenza, accusandola di tradirlo, frugava nella sua borsa e, dopo aver trovato la somma di 15 Euro ed un pacchetto di sigarette, la picchiava, colpendola con calci, pugni e schiaffi al volto, dicendole “zoccola, puttana, se ti piace fare la puttana adesso la fai per me, ti porto a Caserta sul vialone”, “ti sei venduta per 20 Euro a (OMISSIS)” e, nonostante la vittima gli dicesse di aver ottenuto il denaro dalla sorella, continuava a percuoterla e, tenendola ferma per un braccio, riscaldava sul fornello una forchetta e ferocemente gliela imprimeva sul fianco sinistro, dicendo con aria soddisfatta “ti ho fatto proprio un bel marchio”, così cagionandole un’ustione di primo grado, poi, guardandola con sguardo minaccioso e a denti stretti, le diceva di non urlare, la metteva a corpo nudo per più di un’ora sotto la doccia fredda, impedendole di uscire, la percuoteva con le mani e con un cucchiaio di acciaio, le sferrava calci su tutto il corpo e pugni alla testa; alle quattro di mattina, la costringeva a vestirsi e a prendere l’auto per recarsi a casa della donna e, durante il tragitto, la offriva ad ogni uomo di colore incontrato; giunti a casa, la costringeva a prendere i vestiti più sexy e le scarpe alte per indossarli il giorno dopo sul vialone di Caserta, minacciandola di non tornare a casa prima di una settimana per poi ritornare a casa sua dove la costringeva a subire un altro rapporto sessuale, a cucinare, a pulire casa, impedendole di andare a lavoro ed impedendole di allontanarsi dall’abitazione per tutta la giornata del (OMISSIS), avendo chiuso il cancello a chiave, continuando a costringerla ad avere rapporti sessuali noncurante dei lamenti della donna che, avendo ormai perso ogni speranza di porre termine alle torture di cui era vittima si limitava a dire “fai piano che sento dolore dappertutto” per poi liberarla il (OMISSIS) continuando a telefonarle finchè il figlio non bloccava il contatto. In (OMISSIS). 2. Il ricorrente, tramite il difensore di fiducia, impugna la citata sentenza con tre motivi, di seguito riassunti ai sensi dell’art. 173 disp. att. c.p.p.. 2.1. Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione di legge e difetto di motivazione in relazione all’art. 192 c.p.p. per travisamento del fatto (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e)). Assume che sarebbe difettosa la ricostruzione delle motivazioni contenute nella sentenza impugnata sulla attendibilità-credibilità della persona offesa, essendosi la Corte territoriale limitata, per altro, ad ancorarsi pedissequamente a quanto statuito con la sentenza di primo grado, finendo per determinare la violazione di legge ed il difetto di motivazione denunciato. Il ricorrente osserva che la Corte di appello avrebbe confermato la ricostruzione fornita dalla persona offesa, nonostante non vi fossero altri elementi probatori attestanti la veridicità di tali dichiarazioni, nè effettuando un controllo analitico delle dichiarazioni suindicate. Il ricorrente si mostra consapevole che le regole dettate dall’art. 192 c.p.p., comma 3, non si applicano alle dichiarazioni dell’offeso, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di responsabilità, ma obietta che deve pure esserci una previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto. Ricorda che tale verifica deve essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. Inoltre, qualora la persona offesa si sia costituita parte civile, può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi. Nel caso in esame, risulta, ad avviso del ricorrente, del tutto manchevole una valutazione analitica e rigorosa del narrato della persona offesa, laddove si pensi che la vittima ben avrebbe potuto mentire perchè risentita del rapporto sentimentale non andato a buon fine, tanto da comportare, appunto, la nascita del presente procedimento penale. A riprova di ciò, sottolinea come sia del tutto inverosimile che la persona offesa non si fosse mai recata in caserma per sporgere formale denuncia- querela, laddove si pensi che solo il (OMISSIS), ovvero dopo circa cinque mesi, venne allertato il Commissariato di Polizia dal personale del pronto soccorso. In altri termini, la Corte di appello avrebbe errato laddove in sentenza, e segnatamente a folio 10 delle motivazioni, asserisce che “la circostanza che la vittima abbia continuato ad avere rapporti con l’imputato, mediante l’invio di messaggi telefonici, anche in epoca successiva alla denuncia, è inoltre sintomatica della condizione di totale sottomissione e di paura nella quale ella viveva”, ritenendo ciò senza spendere alcuna motivazione circa l’iter logico-deduttivo posto a fondamento di una tale affermazione. Nulla direbbe la Corte di appello in ordine ai canoni ermeneutici sottesi alla ricostruzione della attendibilità intrinseca della persona offesa. Alcuna parola sarebbe stata spesa sulla verifica degli SMS intercorsi nei giorni successivi alla denuncia che attestavano la prosecuzione della relazione tra l’imputato e la persona offesa. Analogamente, la Corte di appello, allorquando ha analizzato la presenza di conversazioni avvenute tramite whatsapp, avrebbe omesso di verificare che vi erano state conversazioni intercorse tra l’imputato e la persona offesa (sms e messaggi whatsapp), sino al 7 settembre 2018, ovvero fino al momento del fermo del ricorrente. La motivazione della Corte di appello sarebbe poi totalmente assente in relazione alla abitualità della condotta che deve necessariamente integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia. 2.2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta violazione di legge difetto di motivazione in relazione all’art. 613-bisc.p. (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e)). Sostiene che il delitto di cui all’art. 613-bis c.p., presuppone l’esistenza di un rapporto qualificato tra l’autore e la vittima, richiedendo che quest’ultima sia “una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa”. Ne consegue che la Corte partenopea avrebbe errato laddove non ha effettuato alcun accertamento circa la sussistenza di un rapporto caratterizzato da una condizione di affidamento al reo della persona offesa, ovvero di privazione della libertà personale di quest’ultima o di minorata difesa, che deve preesistere alla realizzazione della condotta. Sarebbe pertanto erroneo il principio di diritto affermato dalla Corte d’appello secondo il quale, ai fini della configurabilità del delitto di tortura, non occorre che la condizione di privazione della libertà personale sia preesistente alla commissione della condotta, atteso che la norma non conterrebbe alcun riferimento ad eventuali provvedimenti restrittivi di natura giurisdizionale. Obietta il ricorrente che, tuttavia, nel gravame proposto non vi era alcun cenno circa la presenza di provvedimenti di restrizione di natura giurisdizionale in capo alla vittima, quanto piuttosto era richiesta, per l’integrazione della fattispecie incriminatrice, la presenza di una condizione di privazione della libertà personale o di minorata difesa che doveva preesistere alla condotta incriminata, quale elemento implicito di fattispecie. Tale condizione, quindi, non poteva e non doveva ravvisarsi nell’ambito di una relazione affettiva, in quanto il riferimento a chi è affidato alla custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza di altri postula un rapporto intrinsecamente connotato da più pregnanti obblighi di tutela a carico del reo nei confronti della persona offesa, di natura diversa da quelli di carattere solidale che nascono all’interno di un consorzio familiare o affettivo e la cui violazione sarebbe già sanzionata dalla norma di cui all’art. 572 c.p.. Quanto, perciò, alla privazione della libertà personale e alla minorata difesa deve ritenersi, ad avviso del ricorrente, che le stesse non debbano essere cagionate dal reo in esecuzione della condotta di tortura, ma preesistere quali elementi impliciti della fattispecie: tali conclusioni il ricorrente trae, a suo dire, da un interpretazione letterale della norma in esame, in cui la condotta tipica è data dal cagionare acute sofferenze fisiche ovvero un verificabile trauma psichico, non già dalla privazione della libertà personale o dal porre il soggetto in una condizione di minorata difesa. 2.3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione di legge e difetto di motivazione in relazione agli artt. 62-bis e 133 c.p. (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e)). Sostiene che la Corte partenopea ha confermato la severa pena applicata all’esito del primo giudizio, negando al ricorrente la concessione delle attenuanti generiche, ma senza considerare che la finalità precipua delle invocate attenuanti è quella di permettere un più congruo adeguamento della pena in concreto, considerata la globalità degli elementi soggettivi e oggettivi declinati dall’art. 133 c.p.. Ricorda che la concessione delle attenuanti generiche non implica necessariamente un giudizio di non gravità del fatto reato. Sul punto, la stringata motivazione della Corte di appello sarebbe, allora, del tutto difettosa, in quanto il riconoscimento delle invocate circostanze attenuanti sarebbe stato negato ricorrendo a frasi di stile e senza, quindi, alcuna idonea motivazione in proposito. 3. Il Procuratore generale ha concluso per l’inammissibilità del ricorso. Quanto al primo motivo, ha sottolineato la sua aspecificità, avendo la Corte territoriale sostenuto il giudizio confermativo della colpevolezza del ricorrete non soltanto sulla base delle dichiarazioni della persona offesa ma anche sulla base dei documenti acquisiti al processo (fotografie e referti medici). Quanto al reato di “tortura”, il ricorso appare, ad avviso del Procuratore generale, destituito di fondamento, dolendosi il ricorrente dell’assenza dell’accertamento di uno dei presupposti del reato: condizione di affidamento al reo della persona offesa, privazione della libertà personale di quest’ultima ovvero minorata difesa (seconda pagina del motivo n. 2), senza considerare però che il capo d’imputazione indica con chiarezza che, di questi, il presupposto valorizzato è quello della “privazione della libertà personalè in quanto “la chiudeva a chiave in casa, portando con sè la chiave…”, presupposto del cui accertamento la motivazione dà conto in modo congruo. D’altra parte, il Procuratore generale rileva che dal contesto della motivazione stessa appare evidente la sussistenza anche del presupposto della “minorata difesa” per come pacificamente configurata dalla più recente giurisprudenza della Corte, riportata nelle conclusioni scritte. Motivi della decisione 1. Il ricorso è infondato. 2. Il primo motivo è inammissibile per manifesta infondatezza, avendo la Corte d’appello correttamente applicato i principi di diritto affermati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di valutazione delle dichiarazioni rese dalla persona offesa. Inoltre, la doglianza, così come sollevata, non è consentita perchè – in presenza di un’adeguata motivazione, priva di vizi di manifesta illogicità – i rilievi, in ordine al formulato giudizio di attendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa, si risolvono in censure tipicamente fattuali che, riguardando il merito della regiudicanda, si sottraggono al controllo in sede di giudizio di legittimità. Per dare conto di ciò – anche al fine di delineare con precisione i fatti accertati nel corso del giudizio di merito, risultando la ricostruzione utile per lo scrutinio del secondo motivo di gravame,con il quale il ricorrente contesta la configurabilità del delitto di tortura “comune”, cosiddetta “orizzontale” o tra “privati” – è sufficiente ricordare come i giudici di merito, con doppia e conforme motivazione, abbiano ritenuto pienamente attendibili le dichiarazioni della persona offesa per avere la dichiarante collocato nella giusta dimensione spaziale e temporale gli episodi narrati. 2.1. Nel pervenire a tale conclusione, la Corte d’appello ha chiarito che le propalazioni accusatorie della vittima hanno anche trovato pieno riscontro probatorio sia nel referto medico in atti, attestante la riscontrata presenza di lesioni compatibili con il narrato della donna, sia nelle fotografie versate in atti e relative alle violenze fisiche subite nell’aprile 2018 nonchè in data 2 settembre dello stesso anno e sia nel testo dei messaggi estrapolati dal telefono cellulare della vittima. Con accertamento di fatto, adeguatamente e logicamente motivato, insuscettibile pertanto di sindacato in sede di giudizio di legittimità, la Corte d’appello ha correttamente ritenuto irrilevante, ai fini del giudizio sull’attendibilità della persona offesa, la circostanza secondo la quale la vittima, prima del settembre 2018, non si fosse mai recata in ospedale a seguito delle percosse patite e che non si fosse mai confidata con i familiari per raccontare ciò che le stava accadendo. La Corte di merito, a questo proposito, ha ricordato come la vittima avesse precisato di non avere, prima di allora, mai sporto denuncia nei confronti dell’uomo, e di non essersi confidata con i suoi familiari, poichè temeva le ritorsioni dell’imputato, nei confronti suoi e dei suoi tre figli. La circostanza che la vittima abbia continuato ad avere rapporti con il ricorrente, mediante l’invio di messaggi telefonici, anche in epoca successiva alla denuncia, è stata logicamente ritenuta, sulla base dei reiterati comportamenti violenti dell’uomo, sintomatica della condizione di totale sottomissione e di paura nella quale costei viveva. Quanto alla genuinità del racconto della persona offesa, si evince, dal testo del provvedimento impugnato, come le modalità di emersione dei fatti abbiano consentito di escludere che le accuse potessero essere riconducibili a intenti calunniatori. In particolare, è stato accertato che, in data (OMISSIS), la vittima venne ricoverata presso il Pronto Soccorso dell’Ospedale di Sessa Aurunca, presentando sul corpo ecchimosi diffuse all’arto superiore destro, alla fronte e alla gamba sinistra, escoriazioni diffuse, una ustione di primo grado al fianco sinistro, la frattura di due costole, con prognosi di ventuno giorni. Solo a seguito del ricovero ospedaliero, la vittima sporse denuncia nei confronti dell’imputato, raccontando agli investigatori le continue umiliazioni, le minacce, le violenze fisiche e morali patite nel corso della relazione sentimentale da parte del “compagno”, al quale costei era legata sentimentalmente dal luglio 2017, uomo violento ed aggressivo, geloso in modo ossessivo della donna. L’imputato, secondo il racconto della vittima, aveva colpito la persona offesa con calci, schiaffi e pugni in tutte le parti del corpo, l’aveva afferrata per i capelli, aveva sbattuto la testa della vittima contro il muro, le aveva stretto le mani intorno al collo facendole quasi perdere i sensi, l’aveva pesantemente offesa, chiamandola “puttana”, e aveva minacciato di ucciderla. La donna riferì, in particolare, di specifici episodi di violenza. Nel maggio 2018, mentre erano in macchina, l’imputato l’accusò di avere guardato un altro uomo, iniziando a picchiarla con schiaffi e pugni in testa e al volto, impedendole con la forza di uscire dall’abitacolo dell’auto, chiamandola “puttana” e minacciando di portarla sul vialone di Caserta per farla prostituire. Subito dopo l’imputato e la vittima si recarono presso l’abitazione dell’uomo, il quale, nell’occasione, la costrinse a praticargli un rapporto orale, nonostante lo stato di sofferenza fisica patito dalla donna a causa delle percosse subite, dicendole “sei una puttana di merda, ti piace fare questo e adesso lo fai per me, chiamo qualcuno se lo non ti basto”. Durante l’atto sessuale, l’imputato colpì la donna con schiaffi e pugni al volto e alla testa, sbattendola contro il muro, stringendole le mani intorno al collo, quasi a soffocarla. L’imputato poi la costrinse a pernottare presso la sua abitazione, chiudendo la porta della casa e nascondendo le chiavi. Dopo essersi impossessato anche delle chiavi dell’auto della vittima, durante la notte, costrinse la donna ad avere altri rapporti sessuali, che la vittima subì non avendo la forza di opporsi a cagione delle percosse patite, e temendo di essere nuovamente picchiata dall’uomo. Durante gli amplessi, lei lo pregò di fermarsi ma era terrorizzata per la propria vita, e dunque si sottomise al volere dell’uomo. Nei giorni successivi a tale episodio, l’imputato la minacciò per impedirle di raccontare gli abusi subiti dicendole “stai attenta a quello che dici, non parlare con nessuno male di me, questo è solo l’inizio, vedrai cosa sono capace di fare”. Le violenze e le minacce proseguirono anche nel periodo successivo. Nel mese di luglio 2018, durante una scenata di gelosia, l’imputato picchiò nuovamente la vittima, con schiaffi, pugni e calci in tutte le parti del corpo, afferrandola per i capelli, sbattendola contro il muro ed il mobilio, minacciandola di morte. In quello stesso mese, la vittima si intrattenne, per diverse notti, a dormire nella nuova casa dell’imputato. Quando usciva, il ricorrente chiudeva la vittima in casa, portava con sè le chiavi e le intimava di non parlare con i vicini altrimenti al suo ritorno l’avrebbe picchiata. Durante questo periodo di convivenza – nei mesi di luglio ed agosto – la vittima subì altri rapporti sessuali per timore che il suo rifiuto avrebbe scatenato l’ira violenta dell’imputato, il quale aveva anche iniziato ad avanzare nei suoi confronti continue richieste di denaro, che la donna assecondò per timore di ritorsioni, e temendo anche per l’incolumità dei propri figli nei confronti dei quali il ricorrente aveva iniziato ad avanzare minacce. I segni delle percosse erano così evidenti che spesso la vittima era costretta a restare in casa e solo quando non si notavano eccessivamente poteva mascherarli con il trucco e uscire. L’uomo aveva poi fatto in modo che la vittima rimanesse isolata da tutti i suoi affetti, la controllava in tutti i suoi movimenti, arrivando a leggere i messaggi sul suo cellulare. La situazione peggiorò nel mese di settembre 2018. La sera del primo settembre la vittima si recò a casa e la sorella le prestò dei soldi, perchè l’imputato aveva prelevato tutto il denaro sulla carta prepagata intestata alla vittima. Rientrata a casa dell’imputato, la persona offesa si rifiutò di consumare con l’uomo un rapporto sessuale. Il ricorrente iniziò allora a frugare nella borsa della donna e, avendo rinvenuto il denaro che costei aveva ricevuto poco prima dalla sorella, iniziò a picchiarla con pugni e schiaffi al volto, accusandola di essersi venduta per 20,00 Euro a (OMISSIS). Poi a bloccò con il braccio e, dopo avere riscaldato una forchetta sul fuoco, le impresse l’utensile sul fianco sinistro dicendole “ti ho fatto proprio un bel marchio”; quindi la tenne con la forza sotto la doccia di acqua fredda per circa un’ora, impedendole di allontanarsi e continuando a picchiarla con calci sul corpo e pugni in testa, utilizzando per colpirla sia le mani che un cucchiaio di acciaio. Intorno alle 04.00 del mattino, l’imputato accompagnò la vittima nella sua casa di (OMISSIS) per farle prelevare degli abiti succinti, dicendole che il giorno successivo l’avrebbe accompagnata sul vialone di Caserta per farla prostituire e, durante il tragitto, offrì la donna ai passanti. Il giorno successivo, pretese nuovamente di avere rapporti sessuali con la compagna, nonostante costei fosse dolorante per le percosse subite e la costrinse a pulire l’abitazione e a cucinare per lui. L’imputato aveva inoltre impedito alla donna di allontanarsi da casa per andare al lavoro, nascondendo le chiavi del cancello dell’abitazione. Solo il giorno 3 settembre uscirono da casa e la vittima, dopo avere accompagnato l’imputato al lavoro, si recò presso l’abitazione dei suoi genitori. Il 4 settembre la donna si portò in ospedale accompagnata dai familiari. Alla luce di tali risultanze, correttamente i Giudici di merito hanno concordemente concluso per l’affermazione della responsabilità penale dell’imputato per tutti i reati a lui ascritti. 2.2. Pertanto, la sentenza impugnata ha espresso ragionevoli elementi di giudizio, fornendo una corretta e completa disamina di tutte le risultanze processuali, nel contesto di una valutazione complessiva e critica dei fatti narrati dalla persona offesa, della cui attendibilità, a torto, il ricorrente dubita. A questo proposito, quanto cioè alla valutazione della prova dichiarativa relativa alla narrazione testimoniale della vittima del reato, in ispecie se costituita parte civile, la giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che le regole dettate dall’art. 192 c.p.p., comma 3, non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte, Rv. 253214). E’ pur vero che il Giudice deve valutare l’opportunità di procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi ma la Corte di merito non si è sottratta a tale non necessaria incombenza, posto che i riscontri esterni sono stati enunciati nella sentenza impugnata e le obiezioni difensive tutte dettagliatamente disattese. Sul punto, è il caso di precisare come la Corte di legittimità abbia, in diverse occasioni, sottolineato che i riscontri esterni, i quali non sono predeterminati nella specie e nella qualità, possono essere di qualsiasi tipo e natura e possono essere tratti sia da dati obiettivi, quali fatti e documenti, sia da dichiarazioni di altri soggetti, purchè siano idonei a convalidare “aliunde” l’attendibilità dell’accusa, tenuto anche presente che essi devono essere ricercati e valutati, con specifico riferimento alle dichiarazioni della persona offesa, nella prospettiva della verifica del grado di affidabilità della dichiarazione e non ai fini specifici previsti dall’art. 192 c.p.p., comma 3, disposizione che non si applica alle dichiarazioni della vittima del reato (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte, cit.); con la conseguenza che, per fondare il ragionevole convincimento che il dichiarante non abbia mentito, è sufficiente che i riscontri siano idonei a confermare, anche dal punto di vista logico, la credibilità della dichiarazione nel suo complesso e non rispetto a ciascuno dei particolari riferiti dal dichiarante e che neppure è necessario che i riscontri attengano alla posizione soggettiva della persona attinta dalle dichiarazioni, perchè le narrazioni della persona offesa, anche se costituita parte civile, non possono mai essere equiparate alla chiamata in reità o in correità (Sez. 3, n. 33589 del 24/04/2015, T., non mass.). La sentenza impugnata è perciò immune da vizi logici, essendosi la motivazione sviluppata su una solida base argomentativa poggiante su tutte le risultanze processuali emerse: sulle dichiarazioni della persona offesa nonchè sui riscontri oggettivi che sono stati acquisiti con riferimento al narrato della vittima e costituiti dalle relazioni mediche, dai referti dei sanitari, comprovanti la circostanza decisiva secondo cui le lesioni subite dalla vittima fossero del tutto compatibili con il narrato della donna, dalle fotografie versate in atti, comprovanti le violenze fisiche subite nell’aprile e nel settembre 2018, dal testo dei messaggi estrapolati dal telefono cellulare della persona offesa. Pertanto, in presenza di una ampia e positiva verifica, corredata da adeguata motivazione priva di vizi di manifesta illogicità, in ordine alla credibilità soggettiva della persona offesa e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, anche ampiamente riscontrato su tutti i punti centrali della narrazione, per i quali è stata comunque fornita, nella sentenza impugnata, una congrua giustificazione, la Corte d’appello non è incorsa in alcun vizio nella valutazione della prova, cosicchè, sotto tale specifico aspetto, il motivo di ricorso si connota anche per la sua manifesta infondatezza. Sotto altro e convergente aspetto, occorre precisare che, in sede di giudizio di legittimità, l’attendibilità della persona offesa non può essere seriamente messa in discussione quando non emergono disarmonie e incongruenze considerevoli tra la dichiarazione della vittima e le altre prove. Peraltro, va ricordato che, in tema di reati sessuali, poichè la testimonianza della persona offesa è spesso unica fonte del convincimento del giudice, è essenziale la valutazione circa l’attendibilità del teste; tale giudizio, essendo di tipo fattuale, ossia di merito, può essere effettuato solo attraverso la dialettica dibattimentale, mentre è precluso in sede di legittimità, specialmente quando il giudice del merito abbia fornito, come nella specie, una spiegazione plausibile della sua analisi probatoria (Sez. 3, n. 41282 del 05/10/2006, Agnelli, Rv. 235578 – 01). La valutazione prettamente fattuale, ovvero di merito, del giudizio di attendibilità è, infatti, una diretta conseguenza dei principi di oralità e di immediatezza che governano il processo penale, perchè solo attraverso l’esame delle parti – che ordinariamente trova la propria sede naturale nella dialettica dibattimentale e, dunque, solo dal contatto immediato con la fonte di prova – il giudice può desumere elementi diretti per percepire la veridicità del teste, la spontaneità e genuinità delle sue dichiarazioni oppure le incoerenze del narrato, le anomalie, le stranezze e tutti i segnali che possano contaminare la dichiarazione. Tutto ciò è, all’evidenza, precluso in sede di giudizio /C di legittimità, dove non è consentito, in presenza di una logica e adeguata motivazione, contestare l’attendibilità della persona offesa quando, dal testo del provvedimento impugnato o da altri atti del processo specificamente indicati con il motivo di gravame, non emergono, come nel caso in esame, disarmonie e incongruenze considerevoli tra le dichiarazioni della persona offesa e le altre prove. Il motivo è pertanto inammissibile. 3. Il secondo motivo di gravame è invece infondato. 3.1. Il ricorrente, sotto diversi profili, lamenta l’inconfigurabilità, nel caso di specie, del ritenuto delitto di tortura per la supposta mancanza degli elementi costitutivi necessari per l’integrazione della fattispecie incriminatrice. Per dare conto dell’infondatezza della doglianza, sono necessarie alcune premesse, alle quali debbono seguire brevi cenni sulla struttura del reato di tortura nei limiti indispensabili per fornire adeguata risposta ai rilievi formulati dal ricorrente con il motivo di ricorso. 3.2. Nelle carte internazionali, il divieto di tortura è previsto dall’art. 3 della Convenzione EDU e dall’art. 7 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, patto dal quale è scaturita la Dichiarazione ONU sulla protezione di tutte le persone sottoposte a forme di tortura e altre pene o trattamenti inumani, crudeli o degradanti, adottata dall’Assemblea generale il 9 dicembre 1975. Il 10 dicembre 1984 è stata approvata dall’Assemblea generale dell’ONU la Convenzione contro la tortura, ratificata dall’Italia con la L. 3 novembre 1988, n. 498. Va anche ricordata l’adozione della Convenzione Europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti del 26 novembre 1987, ratificata dall’Italia con la L. 2 gennaio 1989, n. 7 (entrata in vigore in data 1 aprile 1989) e le sue integrazioni. La citata Convenzione ONU del 1984 contro la tortura ed altri trattamenti e pene crudeli, inumane e degradanti (la c.d. CAT), prevede l’obbligo per gli Stati di legiferare affinchè qualsiasi atto di tortura sia espressamente e immediatamente previsto come reato nel diritto penale interno. Vale la pena ricordare, non essendo possibile soffermarsi sul contenuto delle carte internazionali, che la Convenzione del 1984, per quanto qui interessa, ha fissato una soglia minima di punibilità della tortura, privilegiando quelle forme in cui la struttura del reato richiede il dolo specifico (dove cioè l’elemento finalistico è caratterizzato dal fatto che la condotta debba tendere al conseguimento di tre scopi alternativi: ossia 1) ottenere informazioni o confessioni, 2) punire, intimidire o fare pressioni e 3) discriminare) e in cui vi sia il coinvolgimento necessario di funzionari pubblici. La Convenzione, tuttavia, consente agli Stati di prevedere una fattispecie di più ampio raggio e perciò maggiormente comprensiva, purchè nel rispetto della soglia minima fissata dagli standard definitori del trattato. In buona sostanza, il modello legale di reato configurato negli ordinamenti giuridici nazionali non può restringere l’area di punibilità minima fissata dal trattato, con la conseguenza che non può scalfire, limitandone la portata, gli elementi costitutivi della tortura di Stato fissati nella Convenzione. Gli obblighi di incriminazione, che non discendono soltanto dalle richiamate disposizioni di diritto internazionale, sono stati ottemperati dall’Italia con la L. 14 luglio 2017, n. 110 che ha introdotto, per quanto qui interessa, nel codice penale gli artt. 613-bis e 613-ter. In particolare, con l’art. 613-bis c.p., è stato tipizzato il reato di tortura, strutturato come delitto “a geometria variabile”, potendo l’ambito di operatività della norma penale ricomprendere sia la tortura privata (cosiddetta comune o orizzontale o impropria: art. 613-bis, comma 1) e sia la tortura pubblica (cosiddetta di Stato o verticale o propria: art. 613-bis, comma 2). Ne deriva che, con la legge citata, sono stati configurati due autonomi titoli di reato e, quindi, due diverse e autonome fattispecie incriminatrici, a disvalore progressivo, secondo la qualifica del soggetto attivo del reato: la tortura pubblica (reato proprio) se il soggetto attivo sia un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio che commetta il fatto tipico descritto nell’art. 613-bis c.p., comma 1, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio; tortura privata (reato comune) negli altri casi. La norma penale è stata collocata in seno ai delitti contro la persona, tra i delitti contro la libertà individuale e, in particolare, alla fine della sezione relativa ai delitti contro la libertà morale. La collocazione individuata dal legislatore, sebbene criticata, induce a ritenere che l’oggettività giuridica criminosa “generica” debba identificarsi nella tutela della c.d. libertà morale o psichica della persona, intesa come diritto dell’individuo di autodeterminarsi liberamente, in assenza di coercizioni fisiche e psichiche che ne limitino la libertà di movimento (personale), libertà pesantemente pregiudicata da condotte costrittive (violenze o minacce gravi oppure da una condotta commessa con crudeltà) che cagionano acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a persona privata della libertà personale o affidata alla custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza dell’agente oppure che versi in una situazione di assoluta vulnerabilità (minorata difesa), con la conseguenza che la forza di resistenza del soggetto passivo risulta, in quest’ultimo caso, ostacolata da particolari condizioni personali e ambientali che facilitano l’azione criminale del colpevole e che rendono effettiva la signoria o il controllo dell’agente sulla vittima, agevolando il depotenziamento se non l’annullamento delle capacità di reazione di quest’ultima (Sez. 5, n. 50208 del 11/10/2019, S., Rv. 277841 – 04; Sez. 5, n. 47079 del 08/07/2019, R., Rv. 277544 – 03), e tutto ciò quando il fatto di reato sia commesso con più condotte o, in mancanza di condotte plurime, comporti un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona. L’asse della lesività del delitto è, pertanto, calibrato sulla natura della condotta nella tortura privata, dove non rileva affatto la qualifica giuridica soggettiva dell’agente se non limitatamente ad un elemento costitutivo di fattispecie rappresentato dai rapporti di affidamento, affrancati però completamente dalla componente pubblicistica, mentre il fulcro dell’offesa, nel reato di tortura pubblica, è spostato sull’esercizio illegale del potere o del servizio pubblico, cosicchè la medesima condotta acquista un maggiore disvalore, risultando perciò il fatto di reato più gravemente (e autonomamente) punito, in considerazione, come è stato opportunamente osservato, della perversione del potere coercitivo affidato al funzionario pubblico, il quale tradisce il senso e sormonta i limiti per il quale il potere è stato conferito, vulnerando nel suo significato più sostanziale il principio di legalità, perno di qualsiasi Stato di diritto e la cui osservanza è, in primis, imposta gli organi pubblici. Tuttavia, l’oggettività giuridica criminosa “specifica”, ossia il bene giuridico tutelato dall’incriminazione, ha un contenuto più pregnante. Consistendo la tortura nell’inflizione brutale di sofferenze corporali, essa determina un grave e prolungato patimento fisico e morale dell’essere umano che la patisce, cosicchè la sua particolarità risiede nella conclamata e terribile attitudine che la stessa possiede e cioè quella di assoggettare completamente la persona la quale, in balia dell’arbitrio altrui, è trasformata da essere umano in cosa, ossia in una “res” oggetto di accanimento. La sofferenza corporale, fisica e/o psichica, inflitta a una persona umana è tuttavia solo una componente della fattispecie incriminatrice,ma il contenuto preciso dell’offesa penalmente rilevante sta nella lesione della “dignità umana”, che costituisce la cifra comune della lesività specifica, tanto del reato di tortura privata quanto del reato di tortura pubblica, e che si traduce nell’asservimento della persona umana e, di conseguenza, nell’arbitraria negazione dei suoi diritti fondamentali inviolabili. Trattandosi di un concetto relazionale, l’offesa penalmente rilevante può riguardare differenti fenomeni di compressione del bene giuridico (dignità umana o della persona), cosicchè le forme di tutela possono essere diversamente modulate dal legislatore attraverso la previsione di modelli legali di reato calibrati sul tipo di incriminazione (schiavitù, tratta, tortura, ecc.). Nel caso di specie, con la previsione del modello legale descritto nell’art. 613-bis c.p., si è voluto ampliare il raggio dell’incriminazione rispetto alla soglia minima richiesta, come ius cogens, dal diritto internazionale, riconoscendo la configurabilità del reato anche nelle relazioni private, fermo restando che la tortura pubblica non può assumere la forma circostanziale rispetto a quella privata, ma costituisce un reato autonomo sia per la natura del soggetto attivo, sia per l’indipendenza del trattamento sanzionatorio rispetto alla tortura privata e sia per la necessità di un obbligo di incriminazione specifico di quest’ultima fattispecie, non anche dell’altra, obbligo che sarebbe da considerare disatteso, con diretta collisione del diritto interno con quello internazionale, nel caso in cui si considerasse l’art. 613-bis c.p., comma 2, una circostanza di un altro reato, e cioè della tortura privata, il cui obbligo di incriminazione non era vietato ma neppure imposto, diversamente dalla tortura di Stato, dalle carte internazionali. 3.3. Quanto alla struttura dell’incriminazione, il delitto di cui all’art. 613-bis c.p., comma 1, è un reato comune (potendo essere realizzato da chiunque); è reato a forma vincolata (essendo richiesto, come è stato anticipato, un requisito modale della condotta e potendo il reato essere commesso solo mediante violenze o minacce gravi oppure agendo con crudeltà); è un reato di evento (dovendo essere cagionate acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico); è un reato eventualmente abituale improprio (soltanto per talune modalità della condotta – ossia per le violenze o le minacce gravi, che perciò costituiscono di per sè reato e che devono necessariamente estrinsecarsi in condotte plurime – è richiesta la reiterazione della condotta, requisito non previsto per altre modalità di realizzazione della fattispecie incriminatrice ovvero qualora si agisca con crudeltà); è un reato a dolo generico (non avendo il legislatore recepito la tripartizione in tortura giudiziaria, punitiva e discriminatoria fatta propria dall’art. 1 della Convenzione ONU del 1984), che ammette la forma del dolo eventuale (potendo le acute sofferenze fisiche o il verificabile trauma psichico costituire eventi semplicemente accettati e voluti dal soggetto attivo, secondo il modello proprio del dolo eventuale); la limitazione della libertà personale, la relazione di affidamento e la condizione di minorata difesa sono presupposti della condotta (comunque rientrando nel fuoco del dolo); il fatto di reato, infine, deve essere commesso mediante più condotte (nel senso che la reiterazione non deve esaurirsi in un ristretto ambito temporale ma deve essere cronologicamente consistente) oppure, quando è richiesta per l’integrazione della fattispecie la commissione di un’unica condotta, deve conseguire da essa, oltre agli eventi tipici (acute sofferenze fisiche o verificabile trauma psichico), anche un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona. Si tratta di ulteriori elementi costitutivi del reato, e non condizioni obiettive di punibilità, i quali afferiscono, rispettivamente, alla condotta o all’evento. Ai fini che qui interessano, è utile infine ricordare che la fattispecie incriminatrice ex art. 613-bis c.p., non richiede espressamente che la privazione della libertà personale consegua ad un provvedimento giurisdizionale, con la conseguenza che la norma trova applicazione anche nel caso in cui la vittima del reato sia stata illegittimamente privata della libertà personale dall’autore del reato. La privazione della libertà personale non deve consistere necessariamente in una forma di detenzione, potendo, in conformità all’interesse giuridicamente tutelato dall’incriminazione, risolversi in una limitazione della libertà di movimento, in linea con il dettato di cui all’art. 13 Cost., nella parte in cui la disposizione si riferisce, oltre alla detenzione, a qualsiasi altra restrizione della libertà personale, dovendosi invece escludere che ogni forma di limitazione della libertà in senso lato (di fare o di non fare) rientri nell’oggettività giuridica criminosa della fattispecie in esame. Gli eventi tipici del reato, tra di loro alternativi, ossia le “acute sofferenze fisiche” o l’insorgenza di “un verificabile trauma psichico” non debbono necessariamente sfociare in lesioni personali, essendo prevista una specifica aggravante in proposito. Neppure è previsto che il trauma psichico sia durevole, sicchè nella nozione vi rientrano anche quelli a carattere transeunte, ma deve essere “verificabile”, nel senso che deve essere provato nel corso del giudizio e non necessariamente attraverso perizia o altro accertamento tecnico. Allo stesso modo del “grave e perdurante stato di ansia e di paura”, di cui al reato di atti persecutori, l’accertamento può essere ancorato ad elementi sintomatici del turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente ed anche da quest’ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l’evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata (Sez. 5, n. 17795 del 02/03/2017, S., Rv. 269621 – 01). Nel presente procedimento, il reato di tortura è stato contestato e ritenuto in concorso con quelli di violenza sessuale e di maltrattamenti. Va perciò sottolineato come, secondo l’orientamento più volte espresso dalla Corte Europea (Aydin c. Turchia, 25 settembre 1997, ric. n. 23178/94), anche la violenza sessuale può assurgere a tortura, con la conseguenza che essa può integrare, a condizioni esatte, una condotta rilevante ai sensi dell’art. 613-bis c.p.. Più delicati sono i rapporti tra il delitto di tortura e quello di maltrattamenti, rientrando entrambi nello schema dei reati di durata: eventualmente abituale, il reato di tortura; necessariamente abituale quello di maltrattamenti. Avuto riguardo ai principi che regolano il concorso di reati, va ricordato che, ai fini della individuazione della disposizione prevalente, il presupposto della convergenza di norme può ritenersi integrato solo in presenza di un rapporto di continenza tra le norme stesse, alla cui verifica deve procedersi mediante il confronto strutturale tra le fattispecie astratte configurate e la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definirle (Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano, Rv. 248864 – 01), cosicchè il confronto strutturale delle fattispecie depone, nel caso in esame, per la configurabilità del concorso materiale di reati posto che, in linea astratta, per l’integrazione dell’art. 572 c.p. possono assumere rilievo anche fatti non penalmente rilevanti, o comunque non gravi, mentre ai fini della configurabilità dell’art. 613-bis c.p., dovranno invece necessariamente considerarsi solo fatti che costituiscano di per sè reato (a seconda dei casi, minaccia, percosse, lesioni, violenza privata), e che si caratterizzino per la loro gravità e per la loro idoneità a produrre acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico, con la conseguenza che ciascuno dei singoli atti che concorrono ad integrare la fattispecie di tortura deve necessariamente superare una soglia minima di gravità che non è richiesta, invece, per i maltrattamenti. 3.4. Alla stregua delle precedenti considerazioni, deve ritenersi perciò sussistente il reato di tortura privata. Come risulta dal testo della sentenza impugnata, la vittima è stata costretta, in più occasioni, a subire atti sessuali con inaudita violenza e persino subito dopo che era stata sensibilmente debilitata dalle reiterate percosse dell’imputato sfociate in lesioni corporali che avevano provocato nella donna forti dolori, come quando l’imputato, in una delle tante dolorose circostanze, l’aveva costretta a praticargli un rapporto orale, nonostante lo stato di sofferenza fisica della donna per le percosse precedentemente subite, dicendole “sei una puttana di merda, ti piace fare questo e adesso lo fai per me, chiamo qualcuno se lo non ti basto”. Durante l’atto sessuale, l’imputato colpiva la donna con schiaffi e pugni al volto e alla testa, facendole sbattere la testa contro il muro, e le stringeva le mani intorno al collo quasi a soffocarla. In alcune occasioni, inoltre, la vittima aveva subito senza reagire i rapporti sessuali imposti dall’imputato, perchè esausta e senza forze a causa le percosse subite, temendo di essere nuovamente picchiata dal compagno. Pertanto – alla luce della ricostruzione dei fatti operata dalle concordi valutazioni dei Giudici di merito e sulla base delle dettagliate, coerenti e precise dichiarazioni della persona offesa, della documentazione sanitaria e dei riscontri emergenti ex actis (testo dei messaggi pervenuti sul cellulare della vittima, fotografie) – può ritenersi ampiamente provato che l’imputato: ha minacciato ripetutamente la vittima, rivolgendole gravi minacce, anche di morte, spesso indirizzate ai figli della donna; ha usato violenze ripetute nei confronti della persona offesa, cagionandole acute sofferenze fisiche mentre la stessa era privata della sua libertà di movimento dall’imputato; ha costretto la donna contro la sua” volontà a subire rapporti sessuali immediatamente dopo che la vittima era stata violentemente percossa. Tutto ciò è stato compiuto attraverso gravi minacce e altrettanto gravi e inaudite violenze, ponendo la vittima in una condizione di completo assoggettamento e sconforto, realizzando atti tipici di inflizione della sofferenza corporale attraverso una pluralità di condotte reiterate e cronologicamente consistenti in quanto non limitate e non contenute ed esaurite in un unico contesto spazio-temporale, mostrando particolare efferatezza, insensibilità, gratuità e ponendo in essere comportamenti, oltre che di grande sofferenza fisica, anche umilianti: la donna venne marchiata sul fianco con una forchetta rovente e, in altra occasione, venne costretta a rimanere nuda sotto la doccia fredda per circa un’ora mentre l’imputato continuava a percuoterla con calci e corpi contundenti. Tali condotte hanno provocato alla vittima acute sofferenze fisiche (la donna è stata marchiata sul fianco nonchè ripetutamente colpita con pugni, calci, schiaffi, sul corpo, al volto e alla testa, a volte anche con corpi contundenti), riportando lesioni a causa delle percosse subite, come ampiamente dimostrato dalla documentazione sanitaria in atti e dalle fotografie. Le plurime condotte violente e minacciose hanno inoltre cagionato alla vittima un trauma psichico: dalla relazione sanitaria del 17 dicembre 2018 della Psicologa del Pronto Soccorso Rosa del Presidio Ospedaliero San Rocco di Sessa Aurunca emerge che, dai test somministrati alla persona offesa, è stato riscontrato nella vittima un disagio psicologico significativo, che è perdurato dopo il primo mese di post-trauma. E’ stato anche accertato come tale disagio non fosse dovuto agli effetti di una sostanza o di una condizione medica generale, nè ad altro disturbo psicologico, ma fosse l’effetto, fortemente dannoso, della violenza subita, avendo la vittima, nel corso dell’esame psicologico, riferito di rivivere nella memoria continuamente l’evento, pur cercando di evitare il più possibile la rievocazione. E’ stato inoltre accertato che i sintomi della riesperienza, dell’evitamento e dell’aumentata vigilanza sono stati presenti per più di un mese dall’evento violento e che il sonno è stato fortemente turbato, con la presenza di incubi ed interruzioni notturne. Le condotte tipiche sono state commesse e gli eventi del reato si sono verificati quando la vittima versava in uno stato di privazione della libertà personale, posto che alla persona offesa era stato impedito di allontanarsi dall’abitazione dell’imputato e che costui aveva nascosto le chiavi del cancello di ingresso alla casa e le chiavi della macchina per impedire alla donna di muoversi liberamente, restrizioni che la vittima ha ripetutamente subito. Non coincidenti, da un confronto in astratto, gli elementi strutturali del reato di tortura e di quello di maltrattamenti, diversi essendo anche i beni giuridici tutelati dalle rispettive incriminazioni, va sottolineato come, nel caso di specie, non vi sia neppure piena sovrapponibilità, in fatto, tra le condotte poste a fondamento del delitto di maltrattamenti e quelle integranti il reato di tortura, atteso che la diversa determinazione temporale del periodo consumativo dei rispettivi reati (dal dicembre 2017 a luglio 2018 il reato di maltrattamenti: da luglio a settembre 2018, il reato di tortura), la reiterazione di atti di violenza e minaccia non gravi, le continue e pesanti offese verbali, le imposizioni, le futili pretese, le costanti umiliazioni, le sofferenze e le privazioni inflitte alla donna, estranee al raggio dell’incriminazione del reato di tortura, hanno assunto i connotati tipici del delitto di maltrattamenti, in quanto fonte di uno stato di disagio continuo e incompatibile con le normali condizioni di vita della persona offesa, nei confronti della quale è stata lesa in maniera sistematica l’integrità fisica ed il patrimonio morale mediante il compimento di condotte che hanno posto la vittima in uno stato di incessante disagio e avvilimento, costringendola a sostenere drammatiche condizioni di vita per un rilevante arco temporale (la relazione era stata avviata nel luglio 2017 e le violenze erano iniziate nel dicembre 2017, con il tempo erano andate aumentando sino ai drammatici episodi del luglio – settembre 2018, data di consumazione del reato di tortura). Del resto, la giurisprudenza di legittimità è compatta nel ritenere che, in tema di maltrattamenti in famiglia, l’art. 572 c.p., è applicabile non solo ai nuclei familiari fondati sul matrimonio, ma a qualunque relazione sentimentale che, per la consuetudine dei rapporti creati, implichi l’insorgenza di vincoli affettivi e aspettative di assistenza assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale (Sez. 6, n. 31121 del 18/03/2014, C., Rv. 261472 – 01). Nel caso in esame, è risultato che la relazione tra l’imputato e la vittima era iniziata nel luglio 2017, e dal mese di luglio 2018, la vittima aveva iniziato anche a dormire nella abitazione del prevenuto tre notti a settimana. Sulla base delle dichiarazioni lineari, precise e costanti nel tempo rese dalla persona offesa, deve ritenersi provato anche il delitto di violenza sessuale ascritto al ricorrente. 4. Inammissibile è anche il terzo motivo di gravame. Con adeguata e logica motivazione la Corte territoriale ha negato la concessione delle attenuanti generiche ed ha ritenuto congruo il trattamento sanzionatorio. La Corte di merito ha premesso come la pena inflitta sia apparsa perfettamente adeguata ai parametri di cui agli artt. 132 e 133 c.p., e, come tale, non suscettibile di ridimensionamento. A proposito del diniego delle circostanze attenuanti generiche, la Corte distrettuale ha stigmatizzato il comportamento dell’imputato che non ha manifestato alcuna forma di resipiscenza, sottolineando la particolare odiosità della condotta e la reiterazione nel tempo delle violenze consumate ai danni della persona. Nel pervenire a tali conclusioni, la Corte partenopea si è attenuta ai principi di diritto reiteratamente affermati dalla giurisprudenza di legittimità in forza dei quali, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche, non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione (ex multis, Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Lule, Rv. 259899 – 01). L’irrogazione di una pena base in misura superiore alla media edittale, neppure censurata dal ricorrente, è stata poi oggetto di una specifica motivazione in ordine ai criteri soggettivi e oggettivi elencati dall’art. 133 c.p., avendo la Corte distrettuale chiarito che la scelta operata dal primo Giudice di applicare all’imputato una pena superiore al minimo edittale per il reato di tortura è stata giustificata sulla base della gravità dei fatti, desunta dalla particolare efferatezza della condotta e dal grado di pressione psicologica sulla vittima nonchè dalla ripetizione nel tempo delle condotte di minaccia e violenza. Il motivo è pertanto manifestamente infondato. 5. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene che il ricorso debba essere rigettato con conseguente condanna dell’imputato, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese del grado sostenute dalla parte civile ammessa al gratuito patrocinio. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre, l’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte di appello di Napoli con separato decreto di pagamento ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, disponendo il pagamento in favore dello Stato. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge. Così deciso in Roma, il 25 maggio 2021. Depositato in Cancelleria il 31 agosto 202

 

Originally posted 2021-09-13 18:47:04.

AREZZO FIRENZE INCIDENTE MORTALE DANNO PARENTI MINISTERO Morte del congiunto – Danno non patrimoniale – Liquidazione – In via equitativa – Sussiste

Tanto accertato in merito alla sussistenza della responsabilità del Ministero degli Interni, relativamente alla tipologia di danni risarcibili occorre innanzitutto fare riferimento al danno da perdita del rapporto parentale subito sia dalla madre, che dal fratello di Si.Ma..

Il Ministero degli Interni, pertanto, avrebbe utilizzato un mezzo privo dei requisiti imposti ex lege, in grado di provocare danni a chi lo utilizza. Così facendo sarebbe venuto meno all’obbligo sancito dall’art. 35 Dlgs 626/1994, come modificato dal Dlgs 359/1999 di porre a disposizione dei lavoratori strumenti ed attrezzature idonei ai fini della sicurezza. Secondo le argomentazioni di parte attrice, eventuali concorrenti profili colposi addebitabili al fabbricante o al fornitore dei macchinari messi a disposizione dei lavoratori, non eliderebbero il nesso causale tra la condotta del datore di lavoro e l’evento lesivo in danno del lavoratore. Inoltre non assumerebbe alcun rilievo la circostanza che nel corso del procedimento penale sia stato accertato che né le verifiche interne programmate, né le revisioni periodiche eseguite dalla USL sarebbero comunque state inidonee a rilevare il malfunzionamento che ha causato il sinistro, proprio perché queste non esaurivano le iniziative che il datore di lavoro avrebbe dovuto intraprendere prima di rendere disponibile l’autogrù ai propri dipendenti. A tal riguardo parte attrice ha rappresentato che, nonostante detto mezzo fosse stato in dotazione al Comando Provinciale di Arezzo fin dal 1982, da allora non erano mai state effettuate verifiche complete sullo stesso, volte ad individuare eventuali carenze occulte del mezzo, non rilevabili a vista o nell’uso quotidiano

Per tale si intende infatti il danno di natura non patrimoniale che un soggetto subisce per la morte di una persona cara, a cui era legata da un rapporto di natura familiare o affettiva. Anche recentemente la Corte di Cassazione ha affermato che tale danno si concretizza “nel vuoto costituito dal non potere più godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno e perciò nell’irrimediabile distruzione di un sistema di vita basato sull’affettività, sulla condivisione, sulla rassicurante quotidianità dei rapporti tra moglie e marito, tra madre e figlio, tra fratello e fratello, nel non poter più fare ciò che per anni si è fatto, nonché nell’alterazione che una scomparsa del genere inevitabilmente produce anche nelle relazioni tra i superstiti’ (Cass. n. 9196/2018).

La liquidazione di detto danno non può che essere compiuta in via equitativa, tenendo conto di vari fattori quali l’intensità del vincolo familiare, la presenza o meno di una situazione di convivenza e ogni altra circostanza utile quali la consistenza più o meno ampia del nucleo familiare, le abitudini di vita, l’età della vittima e dei superstiti.

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Per quanto riguarda il fratello della vittima, Lu.Ma., questi all’epoca del sinistro aveva 27 anni e pur non convivendo con Si.Ma., all’epoca ventinovenne, è sicuramente presumibile il forte legame che lega due fratelli di età molto ravvicinata. I due inoltre risiedevano comunque all’interno del medesimo Comune e, come emerso dalla consulenza tecnica svolta in corso di causa, frequentemente Si.Ma. si recava nella casa in cui vivevano la madre ed il fratello, avendo uno stabile legame affettivo con entrambi.

Pertanto, tenuto conto del grado di parentela, dell’età della vittima e del congiunto, della non convivenza dei due e degli ulteriori elementi sopra indicati, sulla base delle tabelle elaborate dal Tribunale di Milano e dal Tribunale di Roma ed attualmente vigenti, si ritiene che il danno da perdita del rapporto parentale subito da Lu.Ma. debba essere quantificato in Euro 73.550,25 in moneta attuale.

 

 

Con atto di citazione ritualmente notificato Se.Si. e Ma.Lu. hanno chiesto il risarcimento dei danni subiti iure proprio in qualità rispettivamente di madre e fratello di Ma.Si. in ordine all’infortunio mortale in cui questi era rimasto coinvolto il 28.1.2003.

In particolare parte attrice ha rappresentato che in tale data un autoarticolato, condotto da tale Al.Br., composto da un trattore e da un semirimorchio-cisterna contenente un carico di gas propano, era uscito di strada ad Arezzo, lungo la Strada Statale n. 73, finendo nove metri al di sotto del livello stradale, sul greto del torrente Ce.. Sul posto era giunta pertanto una squadra di uomini e mezzi dei Vigili del Fuoco del Comando Provinciale di Arezzo, oltre ad un’ambulanza con medico a bordo e una pattuglia dei Carabinieri della Stazione di Palazzo del Pero. Il conducente del TIR, Al.Br., era stato sbalzato dal veicolo ed il medico dell’ambulanza intervenuta, dott. Gi.Sg., aveva diagnosticato un trauma alla colonna vertebrale, per cui aveva consigliato che lo stesso venisse trasportato in modo da rimanere il più possibile in posizione orizzontale. Il caposquadra dei Vigili del Fuoco, Ca.Si., aveva così deciso di calare, con il braccio telescopico dell’autogru giunta sul posto, il vigile Si.Ma., assegnandogli il ruolo di portare con sé una barella di tipo toboga, di imbracare il ferito e proteggerlo nella risalita. Una volta che Si.Ma. era stato calato nel vuoto, tuttavia, il cavo dell’autogru, cui lo stesso era agganciato, si era spezzato ed il bozzello che lo sovrastava lo aveva raggiunto colpendolo violentemente sulla testa e causandone la morte immediata. Gli altri Vigili del Fuoco a quel punto avevano imbracato Si.Ma. nella stessa barella destinata all’autista del TIR e lo avevano trasportato a braccia sulla strada, risalendo a piedi la scarpata. Anche il conducente dell’autoarticolato, infine, era stato portato a braccia dai Vigili del Fuoco seguendo il percorso del fiume, ossia la stradella bianca che si ricongiungeva alla sede stradale.

In diritto parte attrice ha innanzitutto rilevato che al Ministero convenuto deve essere attribuita la responsabilità di quanto accaduto ai sensi dell’art. 2087 c.c. in virtù del quale il datore di lavoro ha l’onere di adottare le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica dei propri dipendenti. In particolare parte attrice ha dedotto che all’epoca dei fatti, in tema di tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori, vigeva il Dlgs n. 626/1994, il cui art. 1 comma 2 prevedeva che, nei riguardi delle forze armate e di polizia, dei servizi di protezione civile, ecc., la disciplina normativa era da applicare tenendo conto delle particolari esigenze connesse al servizio espletato, individuate con decreto del Ministro dell’Interno n. 450 del 14.6.1999.

Alla luce di tale normativa, parte attrice ha individuato un primo profilo di responsabilità nelle condizioni dell’autogru utilizzata per l’intervento.

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Tribunale|Firenze|Sezione 2|Civile|Sentenza|30 luglio 2020| n. 1787

Morte del congiunto – Danno non patrimoniale – Liquidazione – In via equitativa – Sussiste

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO DI FIRENZE

SECONDA SEZIONE CIVILE

Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Maria Novella Legnaioli ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 8299/2017 promossa da:

SE.SI. (C.F. (…)) e MA.LU. (C.F. (…)), con il patrocinio degli avv. SI.DE., RO.DE. e GI.CA., elettivamente domiciliati in VIA (…), FIRENZE presso il difensore avv. GI.CA.

ATTORI

contro

MINISTERO DEGLI INTERNI (C.F. (…)), in persona del Ministro pro tempore, con il patrocinio ex lege dell’Avvocatura Distrettuale dello Stato, legalmente domiciliato in VIA (…), FIRENZE presso l’AVVOCATURA DISTRETTUALE DI FIRENZE

CONVENUTO

CONCISA ESPOSIZIONE DELLE RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE

Con atto di citazione ritualmente notificato Se.Si. e Ma.Lu. hanno chiesto il risarcimento dei danni subiti iure proprio in qualità rispettivamente di madre e fratello di Ma.Si. in ordine all’infortunio mortale in cui questi era rimasto coinvolto il 28.1.2003.

In particolare parte attrice ha rappresentato che in tale data un autoarticolato, condotto da tale Al.Br., composto da un trattore e da un semirimorchio-cisterna contenente un carico di gas propano, era uscito di strada ad Arezzo, lungo la Strada Statale n. 73, finendo nove metri al di sotto del livello stradale, sul greto del torrente Ce.. Sul posto era giunta pertanto una squadra di uomini e mezzi dei Vigili del Fuoco del Comando Provinciale di Arezzo, oltre ad un’ambulanza con medico a bordo e una pattuglia dei Carabinieri della Stazione di Palazzo del Pero. Il conducente del TIR, Al.Br., era stato sbalzato dal veicolo ed il medico dell’ambulanza intervenuta, dott. Gi.Sg., aveva diagnosticato un trauma alla colonna vertebrale, per cui aveva consigliato che lo stesso venisse trasportato in modo da rimanere il più possibile in posizione orizzontale. Il caposquadra dei Vigili del Fuoco, Ca.Si., aveva così deciso di calare, con il braccio telescopico dell’autogru giunta sul posto, il vigile Si.Ma., assegnandogli il ruolo di portare con sé una barella di tipo toboga, di imbracare il ferito e proteggerlo nella risalita. Una volta che Si.Ma. era stato calato nel vuoto, tuttavia, il cavo dell’autogru, cui lo stesso era agganciato, si era spezzato ed il bozzello che lo sovrastava lo aveva raggiunto colpendolo violentemente sulla testa e causandone la morte immediata. Gli altri Vigili del Fuoco a quel punto avevano imbracato Si.Ma. nella stessa barella destinata all’autista del TIR e lo avevano trasportato a braccia sulla strada, risalendo a piedi la scarpata. Anche il conducente dell’autoarticolato, infine, era stato portato a braccia dai Vigili del Fuoco seguendo il percorso del fiume, ossia la stradella bianca che si ricongiungeva alla sede stradale.

In diritto parte attrice ha innanzitutto rilevato che al Ministero convenuto deve essere attribuita la responsabilità di quanto accaduto ai sensi dell’art. 2087 c.c. in virtù del quale il datore di lavoro ha l’onere di adottare le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica dei propri dipendenti. In particolare parte attrice ha dedotto che all’epoca dei fatti, in tema di tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori, vigeva il Dlgs n. 626/1994, il cui art. 1 comma 2 prevedeva che, nei riguardi delle forze armate e di polizia, dei servizi di protezione civile, ecc., la disciplina normativa era da applicare tenendo conto delle particolari esigenze connesse al servizio espletato, individuate con decreto del Ministro dell’Interno n. 450 del 14.6.1999.

Alla luce di tale normativa, parte attrice ha individuato un primo profilo di responsabilità nelle condizioni dell’autogru utilizzata per l’intervento.

Nell’ambito del procedimento penale svoltosi davanti al Tribunale di Arezzo, le relazioni peritali del consulente del gip e del gup, Ing. Fa.Ca., e del consulente nominato in sede dibattimentale, Ing. St.Ce., avrebbero infatti attestato la pericolosità intrinseca del mezzo, in virtù dell’inefficienza del dispositivo di fine corsa di sollevamento del bozzello. Il Ministero degli Interni, pertanto, avrebbe utilizzato un mezzo privo dei requisiti imposti ex lege, in grado di provocare danni a chi lo utilizza. Così facendo sarebbe venuto meno all’obbligo sancito dall’art. 35 Dlgs 626/1994, come modificato dal Dlgs 359/1999 di porre a disposizione dei lavoratori strumenti ed attrezzature idonei ai fini della sicurezza. Secondo le argomentazioni di parte attrice, eventuali concorrenti profili colposi addebitabili al fabbricante o al fornitore dei macchinari messi a disposizione dei lavoratori, non eliderebbero il nesso causale tra la condotta del datore di lavoro e l’evento lesivo in danno del lavoratore. Inoltre non assumerebbe alcun rilievo la circostanza che nel corso del procedimento penale sia stato accertato che né le verifiche interne programmate, né le revisioni periodiche eseguite dalla USL sarebbero comunque state inidonee a rilevare il malfunzionamento che ha causato il sinistro, proprio perché queste non esaurivano le iniziative che il datore di lavoro avrebbe dovuto intraprendere prima di rendere disponibile l’autogrù ai propri dipendenti. A tal riguardo parte attrice ha rappresentato che, nonostante detto mezzo fosse stato in dotazione al Comando Provinciale di Arezzo fin dal 1982, da allora non erano mai state effettuate verifiche complete sullo stesso, volte ad individuare eventuali carenze occulte del mezzo, non rilevabili a vista o nell’uso quotidiano.

Parte attrice ha poi rappresentato che il manuale d’uso della macchina non prevedeva l’utilizzo della stessa per movimentare le persone e, ai sensi dell’art. 184 D.P.R. n. 547/1955, il sollevamento delle persone poteva essere effettuato solo in casi eccezionali e purché fossero prese adeguate misure in materia di sicurezza, con il controllo appropriato dei mezzi impiegati e la registrazione di tale controllo.

Oltre a tali profili di responsabilità secondo la difesa di parte attrice, la colpa del datore di lavoro sarebbe riscontrabile anche nella tipologia di intervento prescelto.

L’ordine impartito a Si.Ma. di calarsi dal braccio dell’autogru per recuperare il ferito avrebbe rappresentato una procedura scellerata, non regolamentata in alcun protocollo, né come tecnica speleo alpino fluviale, né come procedura operativa standard. Inoltre tale scelta, secondo parte attrice, non sarebbe stata legittimata neppure dall’urgenza, in quanto non vi sarebbe stata alcuna fretta di intervenire visto che l’autobotte era stata messa in sicurezza e la persona da soccorrere non era in pericolo di vita. In realtà vi sarebbero stati quantomeno due percorsi alternativi, ossia quello di risalire a piedi la scarpata utilizzando il camminatoio creato dalla fuoriuscita dell’autoarticolato dalla sede stradale, oppure quello di percorrere a piedi la stradella bianca che scendeva lungo l’argine del fiume Ce., poi di fatto utilizzata per trasportare il conducente del TIR. L’ordine impartito dal Caposquadra Ca. sarebbe stato dunque errato e su costui doveva gravare la conseguente responsabilità.

In merito alla tipologia di danni risarcibili, parte attrice ha chiesto innanzitutto la liquidazione del danno da perdita del vincolo parentale subito sia dalla madre, che dal fratello di Si.Ma., rappresentando che la morte del loro congiunto avrebbe determinato un’alterazione anche nelle relazioni tra i superstiti e di questi ultimi nei confronti della comunità. Inoltre esclusivamente in relazione a Se.Si. è stata chiesta la liquidazione anche del danno biologico subito a causa di tale evento traumatico. La donna, infatti, a causa di tale incidente, aveva dovuto porsi in cura presso uno specialista in psichiatria nonché psicoterapeuta e, a seguito di varie visite, le era stato diagnosticato un disturbo post traumatico da stress ad andamento cronico che aveva profondamente invalidato la sua qualità di vita.

Il Ministero dell’Interno si è costituito in giudizio eccependo innanzitutto l’inammissibilità della domanda di parte attrice alla luce dell’art. 652 cpp, rilevando come in merito alla medesima vicenda fosse già intervenuta una sentenza irrevocabile di assoluzione nei confronti del Comandante dei Vigili del Fuoco di Arezzo Fr.Si., dell’autista e manovratore dell’autogru Vi.Le. e del responsabile della manutenzione ordinaria degli automezzi Ma.Co.. Stante la costituzione di parte civile di Se.Si. e Ma.Lu. all’interno di detto processo penale, svoltosi davanti al Tribunale di Arezzo, secondo parte convenuta nel caso di specie opererebbe la preclusione al giudizio civile a favore del datore di lavoro che non ha preso parte al giudizio penale per non essere stato citato o per non essere intervenuto.

Nel merito, riguardo alla pericolosità intrinseca del mezzo utilizzato, quale profilo di inadempimento rispetto a quanto previsto dall’art. 2087 cc, parte convenuta ha rilevato che l’obbligo di mantenere in sicurezza i sistemi di funzionamento della autogrù deve essere valutato in concreto ed esiste nel momento in cui il fattore di rischio che caratterizza le attrezzature di lavoro sia riconoscibile e prevenibile con le conoscenze tecniche di cui dispone il datore di lavoro. Nel caso di specie, anche sulla base di quanto accertato nel corso del procedimento penale, invece, il rischio derivante dal malfunzionamento del dispositivo di fine corsa non sarebbe stato prevedibile, in quanto tale dispositivo era protetto da un carter di alloggiamento che non poteva essere rimosso perché la sua rimozione ed il controllo all’interno del dispositivo non erano previsti né dalla legge, né dal manuale tecnico di utilizzo della gru. Anzi tale attività sarebbe stata addirittura non dovuta e vietata per il personale non autorizzato e non dotato della necessaria competenza tecnica.

Su tale punto la sentenza n. 170/2007 del GUP presso il Tribunale di Arezzo di non luogo a procedere nei confronti di Co.Ma., quale addetto alla manutenzione ordinaria del mezzo, avrebbe riconosciuto che egli non doveva occuparsi dei controlli inerenti al dispositivo di bloccaggio.

Relativamente all’altro imputato Si.Fr., nella sentenza n. 367/2009 del Tribunale di Arezzo era stato affermato che le condizioni del meccanismo di fine corsa che aveva mal funzionato non sarebbero state normalmente ispezionabili se non previa rimozione del carterino di protezione ed il perito aveva affermato che non vi sarebbe stato modo per Si.Fr. di avvedersi del malfunzionamento.

A conferma che la pericolosità del mezzo non era conosciuta, parte convenuta ha poi affermato che tale autogru era stata utilizzata fin dal 1982 senza mai far sorgere dubbi sul corretto funzionamento del meccanismo di arresto automatico di salita del bozzello, che nel mese di gennaio del 2003 quel mezzo era già stato utilizzato sette volte, che nell’ultima settimana lo stesso era stato utilizzato per il recupero di un’autovettura e di una trattrice con rimorchio, ossia carichi sicuramente maggiori rispetto al peso di Si.Ma., e che in tali operazioni il dispositivo di sicurezza aveva correttamente funzionato.

Secondo le argomentazione del Ministero dell’Interno, inoltre, il vasto utilizzo su tutto il territorio nazionale di automezzi analoghi a quello in questione testimoniava l’alta fiducia riposta d agli operatori del mestiere sull’efficienza e sulla sicurezza del mezzo. Pertanto il Ministero non sarebbe stato in grado, al momento della scelta del mezzo, né successivamente, di individuare e di risolvere il problema del malfunzionamento del dispositivo di fine corsa, perché caratterizzato da una sostanziale aleatorietà non conosciuta, né conoscibile secondo la comune esperienza nell’ambito di lavoro dei Vigili del Fuoco.

La difesa di parte convenuta ha rappresentato inoltre che, stanti gli accertamenti tecnici svolti in sede penale, la problematica relativa al dispositivo di fine corsa fuoriuscirebbe dalle competenze del Comando dei Vigili del Fuoco e rientrerebbe invece in quelle del fabbricante e che trattandosi di un vizio occulto sarebbe stato impossibile per il datore di lavoro accertarlo.

In merito alla lamentata violazione dell’art. 35, comma 3, lett. c) bis Dlgs 626/1994 introdotta con Dlgs 359/1999 il Ministero ha osservato che tale norma prescrive obblighi in capo al datore di lavoro al momento della scelta delle attrezzature di lavoro e l’autogru utilizzata era stata acquistata prima del 1999 e pertanto nessuna violazione era imputabile al Ministero.

Il Ministero ha poi rilevato che l’uso dell’autogrù per sollevare le persone sarebbe stato consentito ai sensi dell’art. 184 del D.P.R. 547/1995, in quanto detta norma prevede tale possibilità in casi eccezionali, quale era sicuramente quello in cui i Vigili del Fuoco stavano operando e purché venissero prese efficaci misure in materia di sicurezza, obbligo che sarebbe stato rispettato in quanto Ma.Si. era stato dotato di una idonea imbracatura di sicurezza collegata a mezzo di fettuce al gancio sottostante il bozzolo.

Parte convenuta ha inoltre osservato che l’unico obbligo di sicurezza che non e ra stato soddisfatto era quello di revisione periodica dell’autogru, revisione che la USL doveva eseguire annualmente in qualità di unico soggetto a ciò preposto dalla legge e che, invece, era stata effettuata l’ultima volta soltanto nel febbraio 2000, quindi quasi tre anni prima dell’evento. Tuttavia il Ministero ha rilevato che in sede penale anche tale profilo era stato affrontato ed il giudice del dibattimento aveva accertato che l’omissione di tale controllo non aveva avuto alcuna incidenza causale nel la verificazione dell’infortunio mortale. Ciò in quanto in ogni caso si sarebbe trattato soltanto di un controllo esteriore del mezzo, senza procedere allo smontaggio delle sue parti, e pertanto non avrebbe in alcun modo modificato l’esito degli eventi.

Il Ministero ha contestato poi anche l’altro profilo di responsabilità datoriale rappresentato da parte attrice, ossia l’adozione di una procedura di soccorso del tutto errata, richiamando anche in questo caso gli accertamenti compiuti in sede penale. Il medico intervenuto per primo, infatti, aveva sostenuto che, visti i traumi riportati dall’autotrasportatore, la tipologia di soccorso più consona sarebbe stata quella di trasportarlo con l’autogrù, in modo da mantenere il traumatizzato in posizione orizzontale senza sottoporlo ad ulteriori ed eccessivi scossoni nella fase della risalita. Far risalire il traumatizzato a braccio per la scarpata avrebbe aggravato lo stato fisico dell’uomo, mentre l’intervento dell’elicottero sarebbero stato materialmente più difficile da attuare vista l’impervietà dei luoghi.

La difesa di parte convenuta ha poi contestato anche la quantificazione del danno da perdita del rapporto parentale operata da controparte facendo riferimento ai valori massimi stabiliti dalle Tabelle di Milano senza tuttavia argomentare tale esigenza ed ha ritenuto insussistente il danno biologico lamentato da Se.Si..

All’udienza del 18.1.2018 su richiesta di entrambe le parti sono stati concessi i termini di cui all’art. 183 comma 6 c.p.c. e la causa è stata rinviata al 6.12.2018. A scioglimento della riserva assunta in tale udienza, con ordinanza del 10.2.2019, è stata disposta la ctu psichiatrica – psicologica sulla persona di Se.Si. e la causa è stata rinviata al 12.3.2019. In tale sede, con ferito l’incarico al consulente tecnico, il processo è stato rinviato al 17.10.2019. A detta udienza entrambi i difensori hanno chiesto la fissazione dell’udienza di precisazione delle conclusioni. A tal fine è stata dunque fissata l’udienza del 17.2.2020, alla quale le parti hanno precisato le conclusioni e la causa è stata trattenuta in decisione con la concessione dei termini ai sensi dell’art. 190 c.p.c..

La domanda di parte attrice è fondata e deve essere accolta per i seguenti motivi.

Innanzitutto, occorre analizzare l’eccezione di inammissibilità della domanda ai sensi dell’art. 652 cpp sollevata da parte convenuta. Tale norma non sancisce alcun automatismo tra la sentenza penale irrevocabile di assoluzione emessa con le formule “perché il fatto non sussiste” o “per non aver commesso il fatto” e l’esito del giudizio di responsabilità civile. Al contrario il giudicato penale deve essere valutato caso per caso tenendo conto dell’effettivo accertamento contenuto nella sentenza di assoluzione.

Nel caso di specie, mentre il processo penale ha avuto ad oggetto le specifiche condotte tenute rispettivamente dal Comandante dei Vigili del Fuoco di Arezzo Fr.Si., dall’autista e manovratore dell’autogrù Vi.Le. e dal responsabile della manutenzione ordinaria degli automezzi Ma.Co., nel presente giudizio parte attrice ha chiesto in via principale di accertare la responsabilità del Ministero dell’Interno quale datore di lavoro del Vigile del Fuoco Si.Ma., non per fatto dei propri dipendenti, bensì per fatto ad esso stesso addebitabile, ossia per aver messo a disposizione del proprio lavoratore un mezzo difettoso, la cui intrinseca pericolosità risulta essere emersa anche nel corso del procedimento penale.

Sotto tale profilo la domanda risulta dunque pienamente ammissibile e non può trovare applicazione il disposto di cui all’art. 652 cpp.

Allo stesso modo risulta ammissibile anche la domanda di parte attrice volta ad ottenere l’accertamento della responsabilità del Ministero degli Interni in virtù della tipologia di intervento prescelto. Sotto tale punto di vista il Ministero degli Interni sarebbe chiamato a rispondere non per fatto proprio, ma dei propri dipendenti e sebbene all’interno del giudizio penale tale profilo di responsabilità sia stato analizzato e il giudice abbia ritenuto impraticabili eventuali altri percorsi, nella sentenza n. 367/2009 del Tribunale di Arezzo, è stato espressamente affermato che eventuali profili di indebito utilizzo dell’autogru potevano essere fatti ricadere esclusivamente sul caposquadra e non sul soggetto al quale erano stati addebitati in imputazione. Per tale motivo, non essendo stata emessa detta sentenza anche nei confronti dell’unico soggetto eventualmente responsabile per la tipologia di intervento prescelto, nessuna efficacia di giudicato può produrre la sentenza di assoluzione sopra richiamata all’interno del presente processo e pertanto l’eccezione di parte convenuta risulta infondata.

Tanto chiarito, occorre analizzare il primo profilo di responsabilità lamentato da parte attrice, ossia la pericolosità intrinseca dell’autogru messa a disposizione dal Ministero degli Interni.

A tal riguardo occorre innanzitutto osservare che entrambe le difese nei propri scritti difensivi hanno richiamato ed utilizzato le risultanze delle due perizie svolte all’interno del processo penale, quella dell’Ing. Fa.Ca. e quella dell’Ing. St.Ce.. Tali elaboratori, le cui conclusioni non sono state contestate né dagli attori, né dal convenuto, potranno dunque essere posti a fondamento della presente decisione.

In particolare, alle pagine 3 e 4 del proprio elaborato l’Ing. Ce. ha chiarito innanzitutto come funzionasse il dispositivo di finecorsa di cui era dotata l’autogrù (…), targata (…) utilizzata nell’intervento del 28.1.2003. Tale dispositivo era costituito da un microinterruttore fissato mediante due viti direttamente sul braccio della gru e doveva essere azionato da un bilanciere che gli veniva spinto contro da due molle a trazione. Nel momento in cui il bilanciere schiacciava il pulsante del microinterruttore veniva inibita la salita del bozzello e lo sfilamento del braccio. Il bilanciere era tenuto lontano dal microinterruttore tramite un contrappeso infilato in una fune di sollevamento e solo quando il bozzello nella sua risalita andava a sollevare il contrappeso, il bilanciere, non più trattenuto, avrebbe dovuto schiacciare il pulsante sotto l’effetto delle due molle.

Ebbene, secondo quanto affermato dal perito con un dispositivo così concepito non si aveva alcuna certezza sul suo funzionamento in quanto un qualunque malfunzionamento del finecorsa, sia meccanico che elettrico, di una qualunque delle varie componenti, avrebbe prodotto l’effetto di non bloccare la salita del bozzello come avvenuto nel caso di specie. L’ing. Ce. ha poi affermato che “all’epoca in cui si sono verificati i fatti un simile dispositivo non poteva essere montato sull’autogrù; ma doveva essere sostituito da un dispositivo che garantisse la sicurezza anche in condizioni di guasto. Il finecorsa avrebbe dovuto funzionare esattamente al contrario di quello installato. Ciò avrebbe dovuto consentire il funzionamento dell’autogrù solamente quando azionato e bloccarla per qualunque malfunzionamento potesse verificarsi”.

Alla luce di tale elaborato emerge dunque come il dispositivo di fine corsa di cui era dotata l’autogrù oggetto di causa fosse intrinsecamente pericoloso e, inoltre, è risultato pacifico che l’incidente fosse stato cagionato proprio dal suo mancato funzionamento.

Ebbene, ai sensi dell’art. 2087 c.c. il datore di lavoro è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. Tale disposizione rappresenta la norma di chiusura del sistema di prevenzione, operante anche in assenza di specifiche regole di esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, al fine di sanzionare l’omessa predisposizione di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di venire a conoscenza e di indagare sull’esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico (cfr. Cass. n. 24742/2018).

Nel caso di specie, oltre a tale disposizione, viene anche in rilievo il disposto dell’art. 35 Dlgs n. 626/1994, così come modificato dal Dlgs n. 359/1999, vigente all’epoca dei fatti. Se è pur vero infatti che il comma 3 lett. c bis), introdotto a seguito di tale modifica legislativa, prescriveva obblighi in capo al datore di lavoro al momento della scelta delle attrezzature di lavoro e l’autogru utilizzata era stata acquistata prima del 1999, è altrettanto vero che il successivo comma 4 della medesima norma stabiliva espressamente che “il datore di lavoro prende le misure necessarie affinché le attrezzature di lavoro siano.. .. oggetto di idonea manutenzione al fine di garantire nel tempo la rispondenza ai requisiti di cui all’art. 36 e siano corredate, ove necessario, da apposite istruzioni d’uso”. Così come il comma 4 quater stabiliva che “il datore di lavoro, sulla base della normativa vigente, provvede affinché le attrezzature di cui all’allegato XIV siano sottoposte a verifiche di prima installazione o di successiva installazione e a verifiche periodiche o eccezionali, di seguito denominate “verifiche”, al fine di assicurarne l’installazione corretta e il buon funzionamento” e tra le attrezzature indicate nell’allegato XIV vi erano anche le gru e gli apparecchi di sollevamento di portata 200 kg.

Ebbene, alla luce di tali disposizioni, occorre innanzitutto osservare che nessun rilievo hanno le argomentazioni utilizzate dalla difesa del convenuto relativamente agli accertamenti contenuti nelle sentenze penali passate in giudicato, al fine di escludere la propria responsabilità.

A tal riguardo, come già chiarito, quanto accertato in sede penale riguarda esclusivamente i profili di responsabilità addebitabili ai soggetti imputati e non ogni altra omissione e conseguente responsabilità gravante sul datore di lavoro che ha messo a disposizione dei propri lavoratori un mezzo intrinsecamente pericoloso.

Non assumono dunque alcun rilievo in questa sede innanzitutto le argomentazioni spese dal GUP presso il Tribunale di Arezzo nella sentenza di assoluzione di Co.Ma.. Il GUP ha infatti accertato soltanto che a tale soggetto erano assegnate le mansioni di seguire il settore dell’officina interna, la manutenzione, gestione e dislocazione degli automezzi; il settore delle verifiche periodiche degli automezzi e dei materiali tecnici; e che non rientrava nelle sue competenze l’occuparsi di quel dispositivo, raffinato e delicato, che proprio per tale motivo era stato protetto da possibili manomissioni ed era dotato di un carterino di protezione. Tuttavia, la circostanza che tra le attività di manutenzione ordinaria esigibili dal Vigile del Fuoco Co.Ma. non rientrasse quella di verificare il corretto funzionamento di tale dispositivo, non esclude che il Ministero degli Interni, nella propria qualità di datore di lavoro, non fosse gravato da tale obbligo in virtù della normativa sopra richiamata.

Analogo ragionamento vale per quanto affermato dal Tribunale di Arezzo nella sentenza n. 367/2009, relativamente all’imputato Si.Fr., in qualità di Comandante dei Vigili del Fuoco di Arezzo. Anche l’accertamento contenuto in tale provvedimento infatti è limitato all’esigibilità di un efficace manutenzione del dispositivo di sicurezza di fine corsa esclusivamente in capo all’imputato. Occorre pertanto affermare ancora una volta che l’accertamento della inesigibilità di tale condotta da parte del Comandante dei Vigili del Fuoco di Arezzo, non esonera il Ministero degli Interni, nella propria veste di datore di lavoro, dall’obbligo di compiere o segnalare la necessità di compiere agli organi a ciò preposti tutti i necessari accertamenti, prima di mettere a disposizione dei propri dipendenti un mezzo.

Entrambi i periti, infatti, si sono limitati ad affermare che il malfunzionamento non poteva essere notato se non togliendo il carter di alloggiamento, ma non che nessuno fosse tenuto ad effettuare tale tipologia di controllo.

Neppure assumono rilievo le argomentazioni per cui la revisione periodica dell’autogrù ad opera della USL, seppur omessa, non avrebbe modificato in alcun modo l’esito degli eventi. In quanto se è pur vero che tale controllo meramente “a vista” non avrebbe permesso di riscontrare la difettosità del dispositivo di fine corsa, protetto da un carter e quindi non visibile sulla base di una semplice ispezione esterna, non è in alcun modo concepibile che un automezzo come quello di cui è causa, in dotazione al Comando dei Vigili del Fuoco dal 1982, non fosse soggetto anche ad altri e più pregnanti obblighi di revisione e manutenzione, che se correttamente eseguiti avrebbero permesso di individuare e correggere l’intrinseca pericolosità del dispositivo.

Analogamente non appare dirimente la circostanza che fino al 28.1.2003 nessuna autogru analoga a quella coinvolta nel sinistro avesse manifestato problemi. Il corretto funzionamento del dispositivo di fine corsa del mezzo non poteva infatti essere rimesso alla aleatorietà, come affermato da parte convenuta, bensì doveva essere oggetto di controlli e manutenzioni, che avrebbero permesso di rilevarne la pericolosità, come accaduto attraverso la perizia eseguita durante il dibattimento nel processo penale.

Oltretutto, la circostanza risultante dalla perizia dell’Ing. Ce. che dopo il sinistro per cui è causa, su di un’autogrù analoga, utilizzata dal Comando dei Vigili del Fuoco di Grosseto, fosse stata apportata una modifica del dispositivo di fine corsa, rappresenta la dimostrazione che l’errato funzionamento di tale dispositivo non solo fosse riscontrabile, ma anche correggibile, al fine di evitare incidenti analoghi a quello accorso a Si.Ma..

In definitiva, nell’ambito del processo penale è emersa, da un lato, l’intrinseca pericolosità del mezzo fornito dal Ministero degli Interni che non offriva le minime garanzie di sicurezza e, dall’altro, che la difettosità del dispositivo di fine corsa fosse sia prevenibile, che evitabile, stanti gli interventi correttivi operati su un’autogrù analoga in seguito al sinistro del 28.1.2003.

A tal riguardo, se è pur vero che in astratto può ritenersi sussistente una responsabilità del fabbricante, il quale avrebbe dovuto fornire un dispositivo di fine corsa che funzionasse al contrario, dall’altro lato, sarebbe stato onere del Ministero degli Interni convenuto ai sensi degli art. 2087 e 1218 c.c. provare di aver correttamente adempiuto all’obbligazione su di lui gravante, non solo richiamando quanto accertato in sede penale, ma dimostrando che ogni attività di controllo e di manutenzione del mezzo, anche di competenza di soggetti diversi rispetto a quelli imputati nel procedimento penale, fosse stato effettuato.

Anche la giurisprudenza di legittimità ha infatti affermato che “in tema di responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c., posto che, ai fini del superamento della presunzione di cui all’art. 1218 c.c., grava sul datore di lavoro l’onere di dimostrare di aver rispettato le norme specificamente stabilite in relazione all’attività svolta, e di aver adottato tutte le misure che, in considerazione della peculiarità dell’attività e tenuto conto dello stato della tecnica, siano necessarie per tutelare l’integrità del lavoratore, vigilando altresì sulla loro osservanza, il vizio strutturale del macchinario, quale fatto liberatorio, non può prescindere dalla prova circostanziata, da parte del datore di lavoro, dell’assolvimento dei suddetti obblighi di protezione specifici” (cfr. Cass. n. 14468/2017).

Nel presente giudizio, infatti, è stato pacificamente accertato, e non contestato da parte convenuta, che il sinistro del 28.1.2003 era stato causato dal mancato funzionamento del dispositivo di fine corsa. Risulta inoltre sussistente il nesso di causalità tra l’omesso controllo del corretto funzionamento di tale dispositivo e la morte di Si.Ma., in quanto se questo fosse stato oggetto di controllo, sarebbe stato immediatamente accertato che un simile dispositivo non poteva essere montato sull’autogrù e sarebbe stata adottata una modifica in modo che il finecorsa funzionasse esattamente al contrario di come invece operava, ossia consentendo il funzionamento dell’autogrù solamente quando azionato. A conferma di ciò occorre osservare, come emerso nella perizia dell’Ing. Ce. e già rilevato, che una tale modifica di fatto era stata effettuata su di un mezzo analogo a quello oggetto di causa proprio in seguito al sinistro.

Al contrario, invece, non è stata fornita alcuna prova da parte del Ministero convenuto circa il corretto collaudo prima e i controlli di conformità poi del dispositivo di fine corsa di cui era dotata l’autogrù in questione, essendosi limitato il Ministero degli Interni a contestare la domanda di part e attrice richiamando le statuizioni del processo penale.

Tuttavia proprio all’interno della sentenza n. 367/2009 del Tribunale di Arezzo è stato accertato che nessuna delle attività previste dalla normativa di riferimento è stata svolta nel termine di legge previsto dalla “direttiva macchine”, con riferimento al dispositivo di fine corsa dell’autogrù costruita nel 1982.

Come infatti evidenziato all’interno della predetta sentenza, per i mezzi già immessi sul mercato muniti della marcatura CE alla data dell’entrata in vigore dell’art. 35, comma 3 let. c-bis) Dlgs 626/1994, in virtù del Dlgs n. 359/1999, l’art. 7 del D.P.R. n. 459/1996 dispone che i controlli della conformità ai requisiti essenziali di sicurezza di cui all’Allegato 1 siano operati dal Ministero dell’Industria, del commercio e dell’artigianato e dal Ministero del lavoro e della previdenza sociale attraverso i propri organi ispettivi in coordinamento permanente tra loro. Al successivo comma 3 della medesima norma è poi previsto che qualora gli organismi di vigilanza competenti per la prevenzione e la sicurezza accertino la non conformità di una macchina o di un componente di sicurezza ai requisiti essenziali di sicurezza di cui all’Allegato 1, ne devono dare immediata comunicazione al Ministero dell’industria, del commercio e dell’artigianato e al Ministero del lavoro e della previdenza sociale. Inoltre il regolamento di attuazione della “direttiva macchine” (“Linee guida e modalità operative per l’applicazione del Dlgs n. 626/1994 in relazione alla emanazione del D.P.R. n. 459/1996) indica le attività da adottare per le ipotesi in cui i servizi delle Aziende USL trovino macchine che presentino situazioni di rischio grave ed immediato, anche con riferimento alle c.d. carenze occulte, indicate a titolo di esempio, come le carenze progettuali non rilevabili da un semplice esame visivo e dall’uso quotidiano della macchina).

Ebbene, il giudice del dibattimento ha avuto modo di accertare come nessuna delle attività previste dalla normativa di riferimento sia stata svolta nel termine di legge.

A quanto emerso in sede penale deve aggiungersi che nel presente giudizio il Ministero degli Interni non ha ad ogni modo fornito la prova non solo di aver compiuto tutti gli accertamenti previsti dalla normativa in vigore, ma neppure di aver provveduto a segnalare la necessità di compiere accertamenti agli organi a ciò preposti. Obbligo che sicuramente gravava sul convenuto tenuto oltretutto conto del fatto che, se è pur vero che ai sensi dell’art. 184 D.P.R. n. 547/1955 il sollevamento di persone in casi eccezionali può essere effettuato anche con attrezzature non previste a tal fine, ciò può avvenire solo laddove siano state prese adeguate misure in materie di sicurezza. Tra tali misure, per espressa previsione normativa, non si fa riferimento all’eventuale utilizzo di imbracature come sostenuto da parte convenute, bensì alla necessità che i mezzi utilizzati, seppur eccezionalmente a tale scopo, conformemente alle disposizioni di buona tecnica, non solo siano sottoposti a controlli appropriati, ma anche che tali controlli siano registrati.

Anche sotto tale punto di vista, il Ministero convenuto non ha fornito alcuna prova.

Pertanto, alla luce di tutti gli elementi sopra richiamati, si ritiene che nel caso di specie sussista la responsabilità del Ministero degli Interni, quale datore di lavoro di Si.Ma., in ordine all’infortunio mortale a lui occorso il 28.1.2003, per avere messo a disposizione del proprio dipendente un mezzo intrinsecamente pericoloso, omettendo di compiere i doverosi e indispensabili controlli sul medesimo, mezzo, oltretutto, potenzialmente destinato, seppure in casi eccezionali, al sollevamento di persone.

Il profilo di responsabilità del Ministero degli Interni sopra analizzato è tale da assorbire anche l’altro invocato da parte attrice e relativo alla tipologia di intervento prescelto. Sulla base di quanto sopra accertato, infatti, l’evento mortale è stato causato dal difetto del dispositivo di fine corsa di cui era dotata l’autogrù in questione. La scelta del caposquadra di utilizzare tale macchinario per calare Si.Ma. assieme alla barella al fine di soccorrere il ferito non era infatti di per sé vietata. Come sopra accennato, l’autogrù poteva in casi eccezionali, quale quello che si era verificato,essereutiliz0ta per la movimentazione di persone, ma solo a seguito degli indispensabili controlli che il Ministero degli Interni avrebbe dovuto eseguire prima di mettere a disposizione dei propri dipendenti tale mezzo.

Tanto accertato in merito alla sussistenza della responsabilità del Ministero degli Interni, relativamente alla tipologia di danni risarcibili occorre innanzitutto fare riferimento al danno da perdita del rapporto parentale subito sia dalla madre, che dal fratello di Si.Ma..

Per tale si intende infatti il danno di natura non patrimoniale che un soggetto subisce per la morte di una persona cara, a cui era legata da un rapporto di natura familiare o affettiva. Anche recentemente la Corte di Cassazione ha affermato che tale danno si concretizza “nel vuoto costituito dal non potere più godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno e perciò nell’irrimediabile distruzione di un sistema di vita basato sull’affettività, sulla condivisione, sulla rassicurante quotidianità dei rapporti tra moglie e marito, tra madre e figlio, tra fratello e fratello, nel non poter più fare ciò che per anni si è fatto, nonché nell’alterazione che una scomparsa del genere inevitabilmente produce anche nelle relazioni tra i superstiti’ (Cass. n. 9196/2018).

La liquidazione di detto danno non può che essere compiuta in via equitativa, tenendo conto di vari fattori quali l’intensità del vincolo familiare, la presenza o meno di una situazione di convivenza e ogni altra circostanza utile quali la consistenza più o meno ampia del nucleo familiare, le abitudini di vita, l’età della vittima e dei superstiti.

Per quanto riguarda il fratello della vittima, Lu.Ma., questi all’epoca del sinistro aveva 27 anni e pur non convivendo con Si.Ma., all’epoca ventinovenne, è sicuramente presumibile il forte legame che lega due fratelli di età molto ravvicinata. I due inoltre risiedevano comunque all’interno del medesimo Comune e, come emerso dalla consulenza tecnica svolta in corso di causa, frequentemente Si.Ma. si recava nella casa in cui vivevano la madre ed il fratello, avendo uno stabile legame affettivo con entrambi.

Pertanto, tenuto conto del grado di parentela, dell’età della vittima e del congiunto, della non convivenza dei due e degli ulteriori elementi sopra indicati, sulla base delle tabelle elaborate dal Tribunale di Milano e dal Tribunale di Roma ed attualmente vigenti, si ritiene che il danno da perdita del rapporto parentale subito da Lu.Ma. debba essere quantificato in Euro 73.550,25 in moneta attuale.

Per quanto riguarda la madre della vittima, Si.Se., la donna all’epoca dei fatti aveva 47 anni. Questa conviveva con l’altro figlio, Lu.Ma. ed analogamente a quest’ultimo aveva un forte legame con Si.Ma. che, nonostante si fosse sposato nel 2000, vista anche la sua giovane età, si presume avesse ancora uno stretto rapporto con la madre, tenuto conto della frequenza con la quale il Vigile del Fuoco si recava a casa della madre e del fratello, anche in compagnia dei propri colleghi. Dalla consulenza tecnica svolta in corso di causa è inoltre emerso che tra i congiunti della donna, oltre all’altro figlio, vi erano la madre e il compagno, in quanto il marito, nonché padre di Luca e Simone era deceduto per un carcinoma nel 1997.

Tenuto conto dunque del grado di parentela, dell’età della vittima e del congiunto, della non convivenza dei due e degli ulteriori elementi sopra indicati, sulla base delle tabelle elaborate dal Tribunale di Milano e dal Tribunale di Roma ed attualmente vigenti, si ritiene che il danno da perdita del rapporto parentale subito da Se.Si. debba essere quantificato in Euro 132.390,45 in moneta attuale.

In merito al risarcimento del danno biologico richiesto dalla madre di Si.Ma., Se.Si., occorre innanzitutto chiarire che la morte di un prossimo congiunto può causare nei familiari superstiti oltre al danno parentale, sopra analizzato, anche un danno biologico vero e proprio, in presenza di una effettiva compromissione dello stato di salute fisica o psichica di chi lo invoca. I due danni, pertanto, devono essere oggetto di separata considerazione e liquidazione trattandosi di diversi elementi del danno non patrimoniale, senza tuttavia giungere ad alcuna duplicazione risarcitoria.

Al fine di valutare la sussistenza del danno biologico suddetto nel corso del presente giudizio, stante la documentazione medica prodotta, è stata svolta CTU medica all’esito della quale il consulente, dott. Pa.Ci., ha diagnosticato a Se.Si. un disturbo da stress post traumatico cronico, diagnosi condivisa anche dai consulenti tecnici di parte.

Per stabilire la gravità di tale patologia, tenuto conto delle osservazioni mosse dal consulente tecnico del Ministero degli Interni, il ctu ha poi analizzato la possibile presenza di fattori concausali. Dall’analisi di Se.Si. è infatti emerso che nel 1997 aveva subito la perdita del marito a causa di un carcinoma e che poco prima dell’incidente mortale in cui era rimasto coinvolto il figlio, nel dicembre del 2002, il padre della donna era morto per suicidio mediante arma da fuoco. L’uomo era stato operato ad una carotide per ostruzione circolatoria nell’ottobre del 2002 e aveva manifestato dei cambiamenti caratteriali post-operatori. Tuttavia, il ctu sulla base degli elementi raccolti ha avuto modo di riscontrare, con argomentazioni che si ritiene di condividere, come entrambi tali eventi fossero stati superati senza l’insorgere di disturbi psicopatologici che alterassero la vita sociale e lavo rativa della donna e senza che si rendesse necessario il ricorso a consulenze specialistiche e a trattamenti psichiatrici. Al contrario, la morte del figlio Simone era stata vissuta in modo diverso rispetto ai precedenti lutti, a causa della modalità traumatiche ed inaspettate con cui la stessa era avvenuta. Tale evento aveva provocato un rifiuto psicologico all’accettazione e aveva comportato l’insorgenza di una sintomatologia riferibile a disturbo da stress post traumatico, per la cui cura la donna era dovuta ricorrere alle terapie psicofarmacologiche di uno psichiatria e di una psicologa psicoterapeuta.

Inoltre, come rilevato dal ctu a seguito dell’analisi della certificazione rilasciata dallo psichiatra e psicoterapeuta dott. Paolo Serra, la morte traumatica del figlio aveva creato nella Sereni uno stato mentale di sconvolgimento completamente nuovo che in un’occasione l’aveva anche portata a recarsi nei luoghi in cui si era verificato il sinistro, aggirandosi nei dintorni fino ad entrare nel fiume, in uno stato di disperazione e di incompleta padronanza dei propri impulsi.

Alla luce di tali elementi si ritiene di condividere le conclusioni a cui è giunto il ctu, in quanto risulta accertato che i disturbi psichici della donna siano sorti a seguito della morte del figlio e non possano trovare concausa nei due precedenti lutti subiti dalla stessa. La perdita di un figlio, in circostanze oltretutto improvvise e traumatiche durante lo svolgimento della propria attività lavorativa, risulta essere infatti la causa esclusiva del disturbo manifestato da Si.Se., come emerso anche nel corso dei colloqui clinici avuti con il ctu. Mentre dopo la morte del marito avvenuta nel 1997 la donna aveva ripreso a lavorare, in seguito alla scomparsa del figlio questa aveva molto rallentato la propria attività nel suo negozio e vi si era recata soltanto sporadicamente per distrarsi, spronata dall’altro figlio. Nel corso di tali colloqui, pur emergendo anche la morte del padre per suicidio, non risulta che tale evento abbia inciso sulla condizione psicologica della Sereni al punto di degenerare in una patologia, in quanto dai racconti dalla stessa effettuati è stata la morte del figlio ad aver rappresentato un evento imprevisto e insuperabile, tanto da decidere di rivolgersi a degli specialisti su consiglio del proprio medico di famiglia.

Si ritiene dunque di condividere la quantificazione del danno biologico effettuata dal ctu e pari al 12%, in quanto la stessa è stata effettuata conformemente a quanto previsto per il disturbo da stress post traumatico in forma lieve al massimo punteggio secondo le linee guida SIMLA per la determinazione del danno biologico derivante dalla morte di un familiare stretto, avente una portata psicologica molto elevata.

Pertanto, nel caso concreto, tenuto conto del tipo di malattia cagionata, dell’età dell’attrice al momento dei fatti (anni 47), dell’entità dei postumi permanenti, si ritiene liquidabile a titolo di invalidità permanente la somma di Euro 28.625,00 in moneta attuale.

In merito alla richiesta di risarcimento dei danni patrimoniali subiti da Si.Se. in virtù delle spese mediche sostenute, si ritiene che risultino pertinenti e congrue le spese documentate, essendo relative a visite specialistiche e sedute psicoterapeutiche effettuate dalla donna in conseguenza del trauma cagionato dal sinistro. Sulla base della documentazione prodotta risulta quindi risarcibile la somma di Euro 4.025.

L’importo complessivamente dovuto a Si.Se. a titolo di risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale patito a seguito del sinistro in cui ha perso la vita il figlio Si.Ma. risulta essere pari ad Euro 165.040 in moneta attuale.

Tale somma, deve poi essere devalutata alla data dell’evento, ovvero al 28 gennaio 2003, risultando pari ad Euro 131.088. Secondo l’insegnamento della sentenza a Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 1712/1995, su questa somma, rivalutata anno per anno, devono poi essere calcolati gli interessi compensativi nella misura legale fino alla data della presente decisione, per un totale complessivo di Euro 208.307.

Dalla data della sentenza sono dovuti gli interessi al tasso legale sul solo importo liquidato, corrispondente al capitale già rivalutato.

Allo stesso modo l’importo dovuto a Lu.Ma. a titolo di risarcimento del danno da perdita del vincolo parentale, pari ad Euro 73.550,25, deve essere devalutato alla data dell’evento, ammontando così ad Euro 58.326,92. Su tale somma, rivalutata anno per anno, devono poi essere calcolati gli interessi compensativi nella misura legale fino alla data della presente decisione, per un totale complessivo di Euro 92.789,69.

Dalla data della sentenza sono dovuti gli interessi al tasso legale sul solo importo liquidato, corrispondente al capitale già rivalutato.

Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo in base al DM 55/2014, tenuto conto del valore della causa ritenuto in sentenza. Allo stesso modo anche le spese di CTU vengono definitivamente poste a carico di parta convenuta. Il Ministero degli Interni dovrà infine rimborsare altresì le spese sostenute per l’attività prestata dal consulente tecnico di parte attrice dott.ssa El.Co., documentate da parte attrice e pari ad Euro 5.000.

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone:

1) accertata la responsabilità del Ministero degli Interni nella determinazione dell’infortunio mortale occorso a Ma.Si. in data 28.1.2003, condanna il Ministero degli Interni, in persona del Ministro pro tempore, a corrispondere:

– a Ma.Lu., a titolo di risarcimento del danno da perdita del vincolo parentale, la somma di Euro 92.789,69, oltre interessi legali dalla data della sentenza al saldo;

– a Se.Si., a titolo di risarcimento del danno da perdita del vincolo parentale, biologico e patrimoniale, la somma di Euro 208.307,00, oltre interessi legali dalla data della sentenza al saldo;

2) pone definitivamente a carico del Ministero degli Interni le spese di CTU medico legale, come già liquidate in corso di causa;

3) condanna il Ministero degli Interni, in persona del Ministro pro tempore, al pagamento delle spese di lite sostenute da Se.Si. e Ma.Si., che si liquidano in Euro 1.253,93 per spese (contributo unificato, marca e spese notifica), Euro 5.000 per spese di ctp ed Euro 21.387,00 per compensi, oltre i.v.a., c.p.a. e 15% per spese generali.

Così deciso in Firenze il 29 luglio 2020.

Depositata in Cancelleria il 30 luglio 2020.

 

Originally posted 2021-09-04 11:10:39.

SAI PERCHE’ PER COMPRARE CASA DEVI DARE UNA CAPARRA?

FAI ATTENZIONE, MOLTA ATTENZIONE

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La massima

1. La caparra confirmatoria costituisce un contratto che si perfeziona con la consegna che una parte fa all’altra di una somma di danaro o di una determinata quantità di cose fungibili per il caso d’inadempimento delle obbligazioni nascenti da un diverso negozio ad essa collegato (c.d. contratto principale).

2. La caparra (sia confirmatoria che penitenziale) è una clausola che ha lo scopo di rafforzare il vincolo contrattuale; il relativo patto contrattuale ha natura reale, e, come tale, è improduttivo di effetti giuridici ove non si perfezioni con la consegna della relativa somma. Ciò tuttavia non esclude che le parti, nell’ambito della loro autonomia negoziale, possano differire la dazione della caparra in tutto o in parte ad un momento successivo alla conclusione del contratto, come previsto dall’art. 1385, primo comma c.c., purché anteriore alla scadenza delle obbligazioni pattuite. Tale possibilità non comporta tuttavia anche quella di escludere la natura reale del contratto e ad attribuire all’obbligazione della sua prestazione gli effetti che l’art. 1385, 2 comma c.c. ricollega alla sua consegna.

ACASA

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE II

SENTENZA 24 aprile 2013, n.10056

Svolgimento del processo

La Berna Tech srl, con atto ritualmente notificato, proponeva opposizione avverso il decreto ingiuntivo n. 1165/2000 con cui il Tribunale di Monza – sez. distaccata di Desio, le aveva ingiunto il pagamento, in favore della ricorrente srl A.B. System, della somma di L. 161.778.725 oltre accessori, a titolo di caparra confirmatoria prevista nel contratto d’appalto stipulato tra le parti, avente ad oggetto la realizzazione e fornitura di facciate continue, serramenti in alluminio e facciate Forster, contratto che era stato risolto proprio per la mancata corresponsione della caparra in questione. Deduceva la società opponente in specie l’inefficacia e/o nullità del patto relativo alla caparra stante il mancato versamento della somma e la natura reale del patto stesso nonché l’intervenuta risoluzione del contratto per muto consenso e non per inadempimento, per cui non sussistevano i presupposti per la risoluzione o il recesso del contratto. Chiedeva quindi la revoca del decreto opposto, previo accertamento dell’inesistenza e/o inefficacia del patto relativo alla caparra confirmatoria e la declaratoria dell’avvenuta risoluzione del contratto per concorde volontà della parti. In riconvenzionale chiedeva la condanna della srl AB System al pagamento della somma di L. 22.620.000 a saldo della fattura n. …. Instaurato il contraddittorio, la società opposta chiedeva il rigetto dell’opposizione, sostenendo che il mancato versamento della caparra aveva legittimato il suo recesso dal contratto in questione. Previa sospensione della provvisoria esecutorietà del provvedimento monitorio opposto, l’adito tribunale, con sentenza n. 39/04 accoglieva l’opposizione, revocava il decreto ingiuntivo e in accoglimento della riconvenzionale condannava la srl AB System al pagamento in favore dell’opponente della somma di Euro 11.682,00, oltre interessi legali. Il primo giudice, qualificato come appalto il contratto concluso tra le parti e rilevata la natura reale del patto di caparra, osservava che l’inadempimento dell’obbligo di versare la caparra non era così grave da giustificare il venir meno dell’interesse al mantenimento del contratto e il rapporto fiduciario con la Berna Tech.
Avverso tale pronunzia proponeva appello la srl AB System che insisteva in specie sull’erronea qualificazione della natura reale della caparra confirmatoria e della mancanza d’inadempimento ai fini del legittimo recesso dell’appellante, lamentando altresì l’omessa pronuncia sulla domanda di risoluzione contrattuale. Resisteva la Berna Tech che proponeva appello incidentale in punto compensazione delle spese processuali; l’adita Corte d’Appello di Milano, con sentenza n. 2961/06 depos. in data 12.12.2006 rigettava sia l’appello principale che quello incidentale, condannando l’AB System al pagamento delle spese del grado. Secondo la corte, non vi era alcun vizio di omesso esame della domanda di risoluzione, in quanto il tribunale si era implicitamente pronunciato sulla stessa respingendola, ritenendo che l’inadempimento della Brna Tch non era ancora definitivo, trattandosi di un mero ritardo nel versamento dell’acconto e del correlato patto accessorio di caparra. Rilevava tra l’atro che, in mancanza di specifici motivi d’appello circa la cause della risoluzione del contrato per inadempimento, si era formato il giudicato su tale specifico punto. Precisava la Corte che “il mancato versamento della caparra non (poteva) configurare inadempimento…., né una legittima causa di recesso del contratto, ma giustificare un’azione obbligatoria per il versamento di tale importo”.
Per la cassazione di tale pronunzia, ricorre AB System sulla base di 4 mezzi; la società intimata non ha svolto difese.

Motivi delle decisione

1 – Con il primo motivo, la società ricorrente eccepisce il vizio di motivazione ‘per non avere la corte d’appello enunciate le ragioni che l’hanno portata a ritenere valide le argomentazioni del giudice di primo grado in ordine alla questione della natura degli effetti della caparra confirmatoria’. Eccepisce altresì la violazione e falsa applicazione degli artt. 1385, 1322 e 1655 c.c.’ nella parte in cui si è ritenuto non applicabile l’istituto della caparra confirmatoria in mancanza della materiale consegna della corrispondente somma di danaro.

Ritiene pertanto l’esponente che l’accordo circa il versamento della caparra ha efficacia vincolante per le parti anche se la relativa somma non sia stata versata al momento della stipula del contratto.

Il mezzo si conclude con i seguenti quesiti di diritto:

a) ‘se contrattualmente pattuito il versamento di una somma a titolo di caparra confirmatoria, si producano gli effetti di cui all’art. 1385 comma 2 c.c. anche in mancanza di materiale versamento della relativa somma’;

b) ‘se in relazione al disposto di cui all’art. 1655 ult comma c.c. e nel rispetto dell’autonomia contrattuale previsto dall’art. 1322 c.c., possa ritenersi valida ed efficace la pattuizione che pone a carico della parte committente l’onere del versamento di una somma di danaro a titolo di caparra confirmatoria, prima della realizzazione dell’opera da parte dell’appaltatore’. La doglianza è infondata.

Occorre premettere che, la caparra confirmatoria, costituisce un contratto che si perfeziona con la consegna che una parte fa all’altra di una somma di danaro o di una determinata quantità di cose fungibili per il caso d’inadempimento delle obbligazioni nascenti da un diverso negozio ad essa collegato (c.d. contratto principale). La caparra (sia confirmatoria che penitenziale) è dunque, come è noto, una clausola che ha lo scopo di rafforzare il vincolo contrattuale; il relativo patto contrattuale ha natura reale, e, come tale, è improduttivo di effetti giuridici ove non si perfezioni con la consegna della relativa somma (Cass. n. 2870 del 07/06/1978). Ciò tuttavia non esclude che le parti, nell’ambito della loro autonomia negoziale, possano differire la dazione della caparra in tutto o in parte ad un momento successivo alla conclusione del contratto, come previsto dall’art. 1385, primo comma c.c., purché anteriore alla scadenza delle obbligazioni pattuite (Cass. n. 5424 del 14.4.2002; Cass. 3071 del 13.02.2006; Cass. n. 17127 del 9.8.2011). Tale possibilità non comporta tuttavia anche quella di escludere la natura reale del contratto e ad attribuire all’obbligazione della sua prestazione gli effetti che l’art. 1385, 2 comma c.c. ricollega alla sua consegna, che nel caso di specie non è avvenuta. Con tale conclusione resta assorbito l’esame delle ulteriori censure contenute nel motivo.

2- Con il 2 motivo la società denuncia la violazione degli artt. 1655, 1453 e 1455 c.c. ‘nella parte in cui la corte ha ritenuto l’insussistenza dell’inadempimento e della sua gravità’. Assume che dagli elementi acquisiti risultava che la Berna Tech non aveva né intenzione e né possibilità di adempiere al contratto di appalto e che erano pretestuosi i motivi da lei addotti per ritardare il pagamento della caparra, la quale peraltro era economicamente rilevante per la ricorrente, che doveva a sua volta, affrontare altri impegni economici con altre aziende per adempiere agli obblighi scaturenti dal contratto d’appalto stipulato con la controparte.

La doglianza non è fondata, non ravvisandosi i denunciati vizi.

Al riguardo la corte distrettuale ha puntualmente osservato che il recesso era stato fondato sul mancato versamento della caparra e non sul mancato pagamento del prezzo; che inoltre si era formato il giudicato sul rigetto implicito della domanda di risoluzione perché ‘era riscontrabile un mero ritardo nell’adempimento dell’obbligo di versamento dell’acconto e del correlato patto accessorio di caparra’ e che ‘siffatto ritardo non era così grave da giustificare il venir meno dell’interesse al mantenimento del contratto’ avente ad oggetto una fornitura d’ingente valore (quasi un miliardo di lire).

3 – Con il 3 motivo si deduce la violazione dell’art. 342 cpc, nonché il vizio di motivazione ‘per non avere la corte specificato le ragioni per cui ha ritenuto l’esame della domanda di risoluzione precluso dalla formazione del giudicato e ciò nonostante detta domanda sia stata espressamente proposta in grado d’appello e siano state enunciate le ragioni poste a suo fondamento e non accolte in primo grado.

La doglianza non ha pregio ed è inammissibile perché non attiene alla ratio decidendi. La sentenza infatti non ha negato la riproposizione della domanda di risoluzione in grado d’appello, ma ha affermato che, essendosi implicitamente pronunciata su di essa il giudice di primo grado, non era sufficiente riproporre la domanda, ma doveva essere impugnato il rigetto della stessa. Il rigetto di tale motivo comporta anche l’assorbimento del 4 motivo (la violazione e falsa applicazione dell’art. 1385 c.c. nella parte in cui si ritenuta non ammissibile la domanda di risoluzione del contratto).

Il ricorso dev’essere dunque rigettato. Nulla per le spese non avendo l’intimata svolto difese.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso.

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Originally posted 2015-02-10 16:36:18.

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Se hai avuto un grave incidente stradale e cerchi avvocato assicurazioni incidente treviso, avvocato assicurazioni incidente vicenza, avvocato assicurazioni incidente Bologna, chiama l’avvocato Sergio Armaroli.

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STUDIO LEGALE DI INFORTUNISTICA STRADALE CON AVVOCATo ESPERTO NEI RISARCIMENTI DEI DANNI INCIDENTI MORTALI E GRAVI LESIONI.

Quando ci troviamo di fronte ad eventi traumatici con esito mortale, ci occuppiamo della tutela dei superstiti e degli eredi che spesso, proprio a causa della perdita subita, non sono in grado di affrontare gli aspetti risarcitori.

Noi abbiamo da tempo capito cosa fa la differenza e al nostro interno abbiamo tutte queste professionalità che ci permettono di essere tempestivi, efficaci e affidabili.

Siti di interesse generale

  • Aci (Automobile Club d’Italia) – Codice della Strada

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Siti di interesse assicurativo

  • ANIA ( Associazione Nazionale Imprese Assicuratrici ) 

  • CID-ANIA ( Convenzione Indennizzo Diretto … della Associazione Nazionale Imprese Assicuratrici ) 

  • ISVAP (IStituto di Vigilanza sulle Assicurazioni Private … informazioni sulle compagnie di assicurazione … )

  • risarcimento lesioni da incidente stradale – come ottenere un giusto indennizzo dall’assicurazione

 

Il mio compito è quello di definire la responsabilità dell’incidente attraverso l’analisi della dinamica e stabilire quale sia il giusto risarcimento per il danno subito, attraverso il confronto con periti, medici e la compagnia assicurativa.
La mia profonda conoscenza in materia di incidenti stradali ed in materia di gestione delle compagnie assicurative, ci permettono di far ottenere un equo risarcimento, nel rispetto delle tempistiche in cui deve essere erogato.

In caso di incidenti stradali gravi che hanno avuto come conseguenza lesioni gravissime o per incidenti stradali mortali, MI AVVALGO della collaborazione di ingegneri esperti per la riproduzione cinematica dell’incidente.

 

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QUALI DANNI POSSONO ESSERE RISARCITI DALLA COMPAGNIA DI ASSICURAZIONE?

Con il sussidio di un legale, a seconda del sinistro verificatosi, la compagnia di Assicurazione può risarcire le seguenti tipologie di danni:

 

b) danni fisici (alle persone, compresi i terzi trasportati).

A loro volta queste due specie di danni si suddividono in altre voci risarcibili:

a) danni morali;

b) danni da mancato guadagno per impossibilità di svolgere l’attività lavorativa;

 

d) il rimborso di tutte le spese derivanti dal sinistro (spese mediche, spese di trasportodel veicolo, nonché le spese legali in ipotesi di chiusura del contenzioso con la Compagnia di Assicurazione, senza ricorrere al Tribunale)

Due casi trattati

 

Nel 2007 mi trovai ad assistere una famiglia che aveva perso il padre in un incidente stradale. Le assicurazioni fanno smepre eccezioni, ovviamente non sono mai favorevoli a un pronto pagamento.

 

Trattandosi di incidente mortale, ho assistiti anche i congiunti nella fase penale quali parti lese  poi quali parti civili.

 

Nel frattempo aprivo la posizione nei confronti dell’assicurazione, per chieder eil risarcimento dei congiunti quale danno morale  e per il rimborso delle spese funerarie.

 

L’assicurazione incominciò a fare una serie di contestazioni infondate, e decisi insieme ai clienti di rivolgermi al tribunale ove l’assicurazione aveva sede, ed era il Tribunale di Milano.

Allora si procedeva con ricorso e chiesi che alla prima udienza fosse liquidata una provvisionale ai sensi art 5 legge 102/2006, e alla prima udienza a favore degli eredi il tribunale liquidò provvisionale di euro quattrocentomila per gli eredi.

 

In pochi giorni l’assicurazione fece una buona offerta per chiuder eil danno complessivo e la posizone fu chiusa con soddisfazione dei clienti.

 

Secondo caso

 

Un giovane era stato investito e aveva riportato lesioni superiori al 50%.

Tentai a lungo una transazione con l’assicurazione fino a che fui costretto a citare l’assicurazione spesso il Tribunale di Trieste che dpo due anni di causa liquidò il danno

 Se hai avuto un grave incidente stradale e cerchi avvocato assicurazioni incidente treviso, avvocato assicurazioni incidente vicenza, avvocato assicurazioni incidente Bologna, chiama l’avvocato Sergio Armaroli.

 

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Originally posted 2015-01-21 10:25:17.

TREVISO STATO EBREZZA CASSAZIONE PRELIEVO SANGUE

 

la  Corte Costituzionale, nella richiamata sentenza, individuato quali sono i “trattamenti sanitari”, c.d. invasivi, consentiti, tra cui il prelievo ematico, le modalità previste dall’art. 186 C.d.S., comma 5, per l’accertamento del tasso alcoolemico trovano il loro fondamento nell’art. 32 della Carta Costituzionale, comma 2.

Ciò che può essere opposto – va ribadito- è il rifiuto al controllo; ma la stessa sanzione penale che accompagna tale condotta, sancendone il disvalore, risulta incompatibile con la pretesa di un esplicito consenso al prelievo dei campioni.

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IL FATTO

 

Il Tribunale Monocratico di Treviso, all’esito di giudizio dibattimentale di opposizione a decreto penale di condanna, dichiarava l’imputato responsabile del reato di guida in stato d’ebbrezza di cui alla lettera C dell’art. 186 C.d.S., (valori alcolemici, accertati mediante analisi dei liquidi biologici, di 2,61 g/l), aggravato dall’avere cagionato un incidente stradale e dall’ora notturna (art. 186 C.d.S., commi 2 bis e 2 sexies), commesso in (OMISSIS).

L’imputato veniva condannato in primo grado alla pena di mesi 8 di arresto ed Euro 2.000,00 di ammenda, con la concessione delle attenuanti generiche e conversione in 248 giorni di lavoro di pubblica utilità.

2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia, D.M.F., deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1:

a. VIOLAZIONE DELL’ART. 186 C.d.S. IN RELAZIONE ALL’ART. 606 C.P.P., LETT. B; CARENZA, CONTRADDITTORITA’ E, COMUNQUE, MANIFESTA ILLOGICITA’ DELLA MOTIVAZIONE (ART. 606 C.P.P., LETT. E).

Il ricorrente deduce che i prelievi ematici venivano effettuati su richiesta della P.G. e non, come affermato in sentenza, a fini terapeutici. Infatti, la P.G. inviava alle ore 2.24 del (OMISSIS), a mezzo fax, al Pronto Soccorso una richiesta di accertamenti urgenti sulla persona ex art. 353 c.p.p., prima che l’imputato vi giungesse alle ore 2,52. Il prelievo non sarebbe avvenuto, pertanto, nell’ambito di un protocollo medico attivato dalla struttura sanitaria, ma al solo scopo di accertare la configurabilità del reato di cui all’art. 186 C.d.S., contrariamente a quanto dichiarato dal teste Z..

La corte di appello – ci si duole- avrebbe valorizzato solo alcuni frammenti della deposizione dello Z., che rendeva una testimonianza sostanzialmente contraddittoria, in quanto lo stesso teste successivamente affermava che l’alcolemia era stata fatta su richiesta della Polizia Stradale.

Inoltre la sentenza impugnata avrebbe omesso di considerare come la richiesta di sottoposizione agli accertamenti era stata indirizzata esclusivamente alla Direzione Sanitaria e non fosse mai pervenuta all’imputato, che non ebbe, perciò, a rilasciare alcun consenso all’effettuazione del prelievo.

Inoltre dalla motivazione della sentenza impugnata non risulterebbe che le forze dell’ordine abbiano mai provveduto ad accertare l’identità di colui che era alla guida dell’autovettura, sulla quale permarrebbe una sostanziale incertezza.

b. VIOLAZIONE DEGLI ARTT. 178, 180, 182, 191, 354 E 356 c.p.p. E ART 114 DISP. ATT. C.P.P. (ART. 606 C.P.P., LETT. C); CARENZA, CONTRADDITTORIETA’ E, COMUNQUE, MANIFESTA ILLOGICITA’ DELLA MOTIVAZIONE (ART. 606 c.p.p., LETT. E).

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LA CASSAZIONE

 

Con riguardo alla ipotizzata violazione da parte della disposizione normativa in esame dei principi costituzionali a tutela della libertà personale del cittadino e del suo diritto di rifiuto a sottoporsi ad accertamenti invasivi anche se per finalità di accertamento di reati, possono essere evocati i principi affermati con la sentenza della Corte Costituzionale 238/1996, la quale ebbe a dichiarare l’illegittimità dell’art. 224 c.p.p., comma 2, nella parte in cui consente che il giudice, nell’ambito delle operazioni peritali, disponga misure che comunque incidano sulla libertà personale dell’indagato o dell’imputato o di terzi, al di fuori di quelle specificamente previste nei “casi” e nei “modi” dalla legge”. Principio a maggior ragione valido anche per gli atti di indagine.

Va osservato che i giudici delle leggi giunsero alla pronuncia di illegittimità per arginare l’utilizzo di provvedimenti coercitivi atipici, astrattamente riconducibili alla nozione di “provvedimenti.. necessari per l’esecuzione delle operazioni peritali”, senza che fosse prevista alcuna distinzione tra quelli incidenti e quelli non incidenti sulla libertà personale, così cumulandoli in una disciplina, connotata da assoluta genericità di formulazione e totale carenza di ogni specificazione dei casi e dei modi in presenza dei quali soltanto poteva ritenersi legittima l’esecuzione coattiva di accertamenti peritali mediante l’adozione, a discrezione del giudice, di misure restrittive della libertà personale. Carenza normativa a cui, peraltro, il legislatore ha posto riparo con l’introduzione dell’art. 224 bis c.p.p..

Invero, la stessa Corte, nella motivazione della sentenza sopra ricordata, nel momento in cui censurava la genericità della disciplina del rito penale, ebbe a segnalare come invece, “…. in un diverso contesto, che è quello del nuovo codice della strada (artt. 186 e 187), il legislatore – operando specificamente il bilanciamento tra l’esigenza probatoria di accertamento del reato e la garanzia costituzionale della libertà personale – abbia dettato una disciplina specifica (e settoriale) dell’accertamento (sulla persona del conducente in apparente stato di ebbrezza alcoolica o di assunzione di sostanze stupefacenti) della concentrazione di alcool nell’aria alveolare espirata e del prelievo di campioni di liquidi biologici, (prevedendo bensì in entrambi i casi la possibilità del rifiuto dell’accertamento, ma con la comminatoria di una sanzione penale per tale indisponibilità dei conducente ad offrirsi e cooperare all’acquisizione probatoria); disciplina – questa la cui illegittimità costituzionale è stata recentemente esclusa da questa Corte (sentenza n. 194 del 1996, citata) proprio denegando, tra l’altro, la denunziata violazione dell’art. 13 Cost., comma 2, atteso che la dettagliata normativa di tale accertamento non consente neppure di ipotizzare la violazione della riserva di legge”.

Ne consegue che la stessa Corte Costituzionale ha riconosciuto, nelle due pronunce sopra riportate, la legittimità della disciplina del codice della strada, anche laddove nell’indicare le modalità degli accertamenti tecnici per rilevare lo stato di ebbrezza, non prevede alcun preventivo consenso dell’interessato al prelievo dei campioni. E, dunque, avendo la stessa Corte Costituzionale, nella richiamata sentenza, individuato quali sono i “trattamenti sanitari”, c.d. invasivi, consentiti, tra cui il prelievo ematico, le modalità previste dall’art. 186 C.d.S., comma 5, per l’accertamento del tasso alcoolemico trovano il loro fondamento nell’art. 32 della Carta Costituzionale, comma 2.

Ciò che può essere opposto – va ribadito- è il rifiuto al controllo; ma la stessa sanzione penale che accompagna tale condotta, sancendone il disvalore, risulta incompatibile con la pretesa di un esplicito consenso al prelievo dei campioni.

Nel caso di specie, detto prelievo è stato effettuato nel rispetto delle norme vigenti all’epoca dei fatti (dopo la riforma introdotta dal D.L. n. 151 del 2003, conv. in L. n. 214 del 2003), ai sensi dell’art. 186 C.d.S., comma 5, legittimamente presso il presidio ospedaliero in cui era stato portato per controlli medici, ferito, il D.M..

Per quanto detto, le censure di inutilizzabilità degli accertamenti ospedalieri in relazione alla positività all’alcool dell’imputato sono manifestamente infondate.

8. In ultimo, va rilevato che non può porsi in questa sede la questione di una declaratoria della prescrizione maturata dopo la sentenza d’appello, in considerazione della manifesta infondatezza del ricorso.


 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

 

SEZIONE QUARTA PENALE

 

Sentenza 1 febbraio 2018, n. 4943

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PICCIALLI Patrizia – Presidente –

Dott. NARDIN Maura – Consigliere –

Dott. PEZZELLA Vincenzo – rel. Consigliere –

Dott. CENCI Daniele – Consigliere –

Dott. PICARDI Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA


sul ricorso proposto da:

D.M.F. nato il (OMISSIS);

avverso la sentenza del 12/12/2016 della CORTE DI APPELLO DI VENEZIA;

Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

Udita la relazione svolta da Consigliere Dott. PEZZELLA VINCENZO;

Udite le conclusioni del PG Dott.ssa MIGNOLO OLGA che ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.

Udito il Difensore avv. ALBERTO FENOS del Foro di Pordenone che ha insistito per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo

  1. La Corte di Appello di Venezia, pronunciando nei confronti dell’odierno ricorrente D.M.F., con sentenza del 12/12/2016, in parziale riforma della sentenza del Tribunale Monocratico di Treviso, emessa in data 17/10/2014, appellata dal P.G. e dall’imputato, rideterminava la pena inflitta in mesi 6 di arresto ed Euro 1.400,00 di ammenda, con revoca della conversione della pena in lavoro di p.u., con pena sospesa e non menzione.


Il Tribunale Monocratico di Treviso, all’esito di giudizio dibattimentale di opposizione a decreto penale di condanna, dichiarava l’imputato responsabile del reato di guida in stato d’ebbrezza di cui alla lettera C dell’art. 186 C.d.S., (valori alcolemici, accertati mediante analisi dei liquidi biologici, di 2,61 g/l), aggravato dall’avere cagionato un incidente stradale e dall’ora notturna (art. 186 C.d.S., commi 2 bis e 2 sexies), commesso in (OMISSIS).

L’imputato veniva condannato in primo grado alla pena di mesi 8 di arresto ed Euro 2.000,00 di ammenda, con la concessione delle attenuanti generiche e conversione in 248 giorni di lavoro di pubblica utilità.

2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia, D.M.F., deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1:

a. VIOLAZIONE DELL’ART. 186 C.d.S. IN RELAZIONE ALL’ART. 606 C.P.P., LETT. B; CARENZA, CONTRADDITTORITA’ E, COMUNQUE, MANIFESTA ILLOGICITA’ DELLA MOTIVAZIONE (ART. 606 C.P.P., LETT. E).

Il ricorrente deduce che i prelievi ematici venivano effettuati su richiesta della P.G. e non, come affermato in sentenza, a fini terapeutici. Infatti, la P.G. inviava alle ore 2.24 del (OMISSIS), a mezzo fax, al Pronto Soccorso una richiesta di accertamenti urgenti sulla persona ex art. 353 c.p.p., prima che l’imputato vi giungesse alle ore 2,52. Il prelievo non sarebbe avvenuto, pertanto, nell’ambito di un protocollo medico attivato dalla struttura sanitaria, ma al solo scopo di accertare la configurabilità del reato di cui all’art. 186 C.d.S., contrariamente a quanto dichiarato dal teste Z..

La corte di appello – ci si duole- avrebbe valorizzato solo alcuni frammenti della deposizione dello Z., che rendeva una testimonianza sostanzialmente contraddittoria, in quanto lo stesso teste successivamente affermava che l’alcolemia era stata fatta su richiesta della Polizia Stradale.

Inoltre la sentenza impugnata avrebbe omesso di considerare come la richiesta di sottoposizione agli accertamenti era stata indirizzata esclusivamente alla Direzione Sanitaria e non fosse mai pervenuta all’imputato, che non ebbe, perciò, a rilasciare alcun consenso all’effettuazione del prelievo.

Inoltre dalla motivazione della sentenza impugnata non risulterebbe che le forze dell’ordine abbiano mai provveduto ad accertare l’identità di colui che era alla guida dell’autovettura, sulla quale permarrebbe una sostanziale incertezza.

b. VIOLAZIONE DEGLI ARTT. 178, 180, 182, 191, 354 E 356 c.p.p. E ART 114 DISP. ATT. C.P.P. (ART. 606 C.P.P., LETT. C); CARENZA, CONTRADDITTORIETA’ E, COMUNQUE, MANIFESTA ILLOGICITA’ DELLA MOTIVAZIONE (ART. 606 c.p.p., LETT. E).

Il ricorrente definisce inammissibile la ricostruzione dei fatti operata dai giudici del merito, in quanto gli stessi non avrebbero reso alcuna motivazione sulle ragioni per cui la richiesta inoltrata dalla P.G. all’ospedale, prima che i sanitari procedessero ai prelievi, non costituisca atto di accertamento irripetibile.

Se la verifica del tasso alcolemico richiesta nei confronti di un soggetto ospedalizzato configura un atto investigativo di P.G. effettuato a fronte di un stato di alterazione o di elementi che lasciano intendere l’avvenuta commissione del reato di guida in stato di ebbrezza, il prelievo ematico fatto ai fini dell’accertamento della responsabilità penale non può essere privato delle ordinarie garanzie previste per tutti gli accertamenti urgenti sulla persona, conclude il ricorrente.

c. VIOLAZIONE DELL’ART. 192 C.P.P., ART. 530 C.P.P., COMMI 1 E 2, ARTT. 533 E 546 C.P.P. (ART. 606 C.P.P., LETT. C); CARENZA, CONTRADDITTORIETA’ E. COMUNQUE, MANIFESTA LOGICITA’ DELLA MOTIVAZIONE (ART. 606 C.P.P., LETT. E).

Con il terzo motivo, il ricorrente chiede di verificare se la ricostruzione dei fatti contenuta in sentenza, basata sulle sole dichiarazioni dei testi, poggi su concreti riscontri processuali o piuttosto sia l’esito di un giudizio affrettato, che conduca ad una conclusione meramente congetturale.

Ritiene il ricorrente che le acquisizioni processuali non consentano di superare il limite del ragionevole dubbio.

Nel caso di specie ci si duole che la Corte territoriale consideri attendibile la ricostruzione eseguita dal primo giudice, fondata sulla deposizione di un teste senza attribuire rilievo alle altre dichiarazioni rese dallo stesso teste nel corso del giudizio. Il Tribunale avrebbe ritenuto che il conducente veniva trasportato in ospedale prima dell’intervento della P.S. e successivamente identificato nell’imputato. Invece la deposizione dell’agente De. chiarisce di non aver avuto alcun contatto con l’imputato, di non averlo visto nell’abitacolo, nè di aver sentito alcuna persona informata sui fatti, sul luogo del sinistro.

Gli agenti avrebbero potuto identificare il conducente solo nel caso si fossero recati in ospedale.

Ma la corte di appello condivide la valutazione del primo giudice ritenendo che dalla circostanza che l’imputato fosse stato condotto presso il Pronto Soccorso e che lo stesso imputato non abbia mai contestato di essere stato alla guida del veicolo, si desumerebbe la sussistenza della penale responsabilità di aver guidato in stato di ebbrezza.

Non si capisce, però, argomenta il D.M., quale sia il fatto certo dal quale desumere l’esistenza del fatto da provare, ossia la condotta di trovarsi alla guida in stato di ebbrezza.

Il conducente non è mai stato visto nell’abitacolo, nè successivamente identificato, precisa il ricorrente. La sentenza impugnata invece di prendere atto dell’incongruenza degli elementi emersi nel giudizio, ne darebbe per scontata la sussistenza e la rilevanza senza valutare approfonditamente le dichiarazioni testimoniali, mentre avrebbe dovuto, preso atto della sussistenza di un ragionevole dubbio pronunciare il proscioglimento dell’imputato.

Chiede, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata con ogni conseguente statuizione di legge.

Motivi della decisione

  1. I motivi sopra illustrati appaiono manifestamente infondati e, pertanto, il proposto ricorso va dichiarato inammissibile.

  2. Il ricorrente, non senza evocare in larga misura censure in fatto non proponibili in questa sede, si è nella sostanza limitato a riprodurre le stesse questioni già devolute in appello e da quei giudici puntualmente esaminate e disattese con motivazione del tutto coerente e adeguata che il ricorrente non ha in alcun modo sottoposto ad autonoma e argomentata confutazione.

    E’ ormai pacifica acquisizione della giurisprudenza di questa Suprema Corte come debba essere ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che riproducono le medesime ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici. La mancanza di specificità del motivo, infatti, va valutata e ritenuta non solo per la sua genericità, intesa come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, dal momento che quest’ultima non può ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità che conduce, a norma dell’art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), alla inammissibilità della impugnazione (in tal senso sez. 2, n. 29108 del 15.7.2011, Cannavacciuolo non mass.; conf. sez. 5, n. 28011 del 15.2.2013, Sammarco, rv. 255568; sez. 4, n. 18826 del 9.2.2012, Pezzo, rv. 253849; sez. 2, n. 19951 del 15.5.2008, Lo Piccolo, rv. 240109; sez. 4, n. 34270 del 3.7.2007, Scicchitano, rv. 236945; sez. 1, n. 39598 del 30.9.2004, Burzotta, rv. 230634; sez. 4, n. 15497 del 22.2.2002, Palma, rv. 221693).

    Ancora di recente, questa Corte di legittimità ha ribadito come sia inammissibile il ricorso per cassazione fondato sugli stessi motivi proposti con l’appello e motivatamente respinti in secondo grado, sia per l’insindacabilità delle valutazioni di merito adeguatamente e logicamente motivate, sia per la genericità delle doglianze che, così prospettate, solo apparentemente denunciano un errore logico o giuridico determinato (sez. 3, n. 44882 del 18.7.2014, Cariolo e altri, rv. 260608).

    3. La Corte veneziana ha ritenuto che la prima sentenza meritasse integrale conferma, confutando le argomentazioni difensive proposte in quella sede con motivazione logica e congrua e pertanto immune dai denunciati vizi di legittimità.

    Preliminarmente, ha respinto il primo motivo di doglianza, con il quale si eccepiva la mancata identificazione dell’odierno imputato nel soggetto alla guida del veicolo al momento del sinistro, rilevando che la P.G. intervenuta sul posto accertava che il conducente del veicolo era stato trasportato presso il locale pronto soccorso, ove l’imputato risultava essere stato visitato alle 3,42 per le ferite riportate in un incidente stradale.

    Del resto, come correttamente si rileva nell’impugnata sentenza, la circostanza che il D.M. non abbia mai contestato, nel processo di primo grado, di essere stato alla guida del veicolo, rende del tutto inverosimile che lo stesso possa essere stato coinvolto nell’incidente ad altro titolo.

    La pronuncia impugnata, sul punto, non appare viziata nè sotto il denunciato profilo della violazione di legge e nemmeno sotto quello del vizio motivazionale.

    Quanto a quest’ultimo, va ricordato che il controllo del giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia la oggettiva tenuta sotto il profilo logico argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le varie, cfr. vedasi Sez. 3, n. 12110 del 19/3/2009 n. 12110 e n. 23528 del 6/6/2006). Ancora, la giurisprudenza ha affermato che l’illogicità della motivazione per essere apprezzabile come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purchè siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (sez. 3, n. 35397 del 20.6.2007; Sez. Unite n. 24 del 24.11.1999, Spina, rv. 214794).

    Più di recente è stato ribadito come ai sensi di quanto disposto dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), il controllo di legittimità sulla motivazione non attiene nè alla ricostruzione dei fatti nè all’apprezzamento del giudice di merito, ma è circoscritto alla verifica che il testo dell’atto impugnato risponda a due requisiti che lo rendono insindacabile: a) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; b) l’assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento (Sez. 2, n. 21644 del 13/2/2013, Badagliacca e altri, rv. 255542).

    Il sindacato demandato a questa Corte sulle ragioni giustificative della decisione ha dunque, per esplicita scelta legislativa, un orizzonte circoscritto.

    Non c’è, in altri termini, come richiesto nel presente ricorso, la possibilità di andare a verificare se la motivazione corrisponda alle acquisizioni processuali. E ciò anche alla luce del vigente testo dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), come modificato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46.

    Il giudice di legittimità non può procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti ovvero ad una rivalutazione del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva al giudice del merito.

    Il ricorrente non può, come nel caso che ci occupa limitarsi a fornire una versione alternativa del fatto (altri era alla guida), senza indicare specificamente quale sia il punto della motivazione che appare viziato dalla supposta manifesta illogicità e, in concreto, da cosa tale illogicità vada desunta.

    Com’è stato rilevato nella citata sentenza 21644/13 di questa Corte, la sentenza deve essere logica “rispetto a sè stessa”, cioè rispetto agli atti processuali citati. In tal senso la novellata previsione secondo cui il vizio della motivazione può risultare, oltre che dal testo del provvedimento impugnato, anche da “altri atti del processo”, purchè specificamente indicati nei motivi di gravame, non ha infatti trasformato il ruolo e i compiti di questa Corte, che rimane giudice della motivazione, senza essersi trasformato in un ennesimo giudice del fatto.

    Se questa, dunque, è la prospettiva ermeneutica cui è tenuta questa Suprema Corte, le censure che il ricorrente rivolge al provvedimento impugnato si palesano manifestamente infondate, non apprezzandosi nella motivazione della sentenza della Corte d’Appello di Venezia laddove individua il D.M. come il conducente dell’autoveicolo alcuna illogicità che ne vulneri la tenuta complessiva.

    Rispetto a tale motivata, logica e coerente pronuncia il ricorrente chiede una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l’adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione. Ma per quanto sin qui detto un siffatto modo di procedere è inammissibile perchè trasformerebbe questa Corte di legittimità nell’ennesimo giudice del fatto.

    4. I giudici del gravame del merito confutano, con motivazione logica e aderente ai principi di diritto più volte affermati da questa Corte di legittimità anche la doglianza oggi riproposta in ordine all’avvenuta esecuzione degli accertamenti ematici, senza previo avviso della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia e senza averne richiesto il preventivo consenso. Come si dirà più articolatamente nelle pagine che seguono, l’avviso non occorreva in quanto il prelievo è stato eseguito nell’ambito di un protocollo di cure di pronto soccorso e non occorreva neanche il consenso, potendo rilevare, semmai, un esplicito dissenso che non risulta esserci stato.

    Viene dato atto, in sentenza, che nel secondo grado di giudizio veniva svolta l’attività di rinnovazione dibattimentale volta all’acquisizione della cartella relativa al paziente D.M.F. e all’audizione del teste dottor Z.G.. Ebbene, proprio l’integrazione istruttoria consentiva di fugare ogni dubbio circa il fatto che l’imputato, ferito, ricoverato per ben tre giorni nella struttura ospedaliera e venne sottoposto ai prelievi ematici per ragioni terapeutiche, nell’ambito del protocollo medico di pronto soccorso attivato dalla struttura sanitaria.

    Non assume, perciò, alcun rilievo la circostanza che l’accertamento ematico fosse stato anche immediatamente richiesto ai medici dagli agenti della Polizia Stradale intervenuti a seguito del sinistro, dal momento che tale accertamento si è poi inserito nell’ambito del prelievo eseguito per le cure del caso.

    Diversamente da quanto si sostiene in ricorso non può definirsi contraddittoria la deposizione del teste Z. che, con estrema sincerità, ha confermato non solo l’avvenuta effettuazione del prelievo ematico nell’ambito del protocollo sanitario ma anche che l’accertamento dell’alcolemia era stato anche richiesto della Polizia Stradale. Del resto – va ancora una volta ribadito- è fuori di dubbio e mai contestato che l’imputato ebbe a riportare ferite che, come detto, ne determinarono il ricovero ospedaliero per tre giorni.

    Perciò, è assolutamente corretto il richiamo da parte dei giudicio del gravame del merito al dictum di questa Corte secondo cui per l’accertamento del reato contravvenzionale di guida in stato di ebbrezza, sono utilizzabili i risultati del prelievo ematico che sia stato effettuato, secondo i criteri e gli ordinali protocolli sanitari di pronto soccorso, durante il ricovero presso una struttura ospedaliera pubblica a seguito di incidente stradale, trattandosi, in tal caso, di elementi di prova acquisiti attraverso la documentazione medica, con conseguente irrilevanza, a questi fini, della eventuale mancanza di consenso (Sez. 4, n. 26108 del 16/5/2012, Pesaresi, Rv. 253596; conf. Sez. 4, n. 1827 del 04/11/2009 dep. il 2010, Rv. 245997; Sez. 4, n. 4118 del 9/12/2008 dep. il 2009, Rv. 242834; Sez. 4 n. 22599/2005, che ebbe ad esaminare una fattispecie in cui il tribunale aveva assolto l’imputato ritenendo non utilizzabili i risultati dell’esame ematico che era stato compiuto secondo i normali protocolli di pronto soccorso presso l’ospedale dove il soggetto era stato trasportato per le lesioni riportate dopo un incidente stradale e, in accoglimento del ricorso presentato dal P.M., in applicazione del principio di diritto così affermato, annullò la sentenza di assoluzione, con rinvio al tribunale per nuovo esame della vicenda).

    In proposito, va anche ribadito che è diritto del soggetto opporre il rifiuto al prelievo ematico laddove questo sia finalizzato chiaramente ed unicamente all’accertamento di eventuale presenza di sostanze alcoliche nel sangue, trattandosi di un esame invasivo, con violazione dei diritti della persona: nella concreta fattispecie, come già evidenziato, il prelievo ematico è stato effettuato, invece, presso una struttura ospedaliere nell’ambito del protocollo medico di pronto soccorso a seguito di incidente stradale; nè rileva, con riferimento a prelievo effettuato nell’ambito del protocollo di pronto soccorso a seguito di incidente, che possa esservi stata anche una richiesta della Polizia Giudiziaria (così il condivisibile dictum di Sez. 4, n. 6755 del 6/11/2012 dep. il 2013, Guardabascio, Rv. 254931, che il Collegio ritiene vada ribadito).

    Più nello specifico è stato precisato che i risultati del prelievo ematico effettuato per le terapie di pronto soccorso successive ad incidente stradale e non preordinato a fini di prova della responsabilità penale, sono utilizzabili per l’accertamento del reato di guida in stato di ebbrezza senza che rilevi la ” mancanza di un preventivo consenso” dell’interessato (Sez. F, n. 52877 del 25/8/2016, Ilardi, Rv. 268807 che, in applicazione di tale principio, ha precisato che, per il suo carattere invasivo, il conducente può, invece, opporre un “espresso dissenso” al prelievo ematico richiesto dalla polizia giudiziaria e finalizzato esclusivamente all’accertamento della presenza di alcol nel sangue, in presenza del quale l’eventuale accertamento effettuato dalla P.G. è illegittimo ed i suoi risultati saranno inutilizzabili; conf. Sez. 4, n. 26108 del 16/5/2012, Pesaresi, Rv. 253596).

    5. Questa Corte di legittimità -va ricordato- ha anche chiarito che, in tema di guida in stato di ebbrezza, il prelievo ematico compiuto autonomamente dai sanitari in esecuzione di ordinari protocolli di pronto soccorso, in assenza di indizi di reità a carico di un soggetto coinvolto in un incidente stradale e poi ricoverato, non rientra tra gli atti di polizia giudiziaria urgenti ed indifferibili ex art. 356 c.p.p., di talchè non sussiste alcun obbligo di avviso all’indagato della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia ai sensi dell’art. 114 disp. att. c.p.p. (Sez. 4, n. 38458 del 4/6/2013, Grazioli, Rv. 257573; coni. Sez. 4, n. 34145 del 21/12/2011 dep. il 2012, Invernizzi, Rv. 253746). Tale attività non è finalizzata alla ricerca delle prove dì un reato, ma alla cura della persona e nulla ha a che vedere con l’esercizio del diritto di difesa da parte del soggetto sottoposto a quel trattamento o a quelle cure, cosicchè non sussiste alcun obbligo di avviso all’indagato della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia ai sensi dell’art. 114 disp. att. c.p.p., (cfr. la recentissima Sez. 4 n. 51284 del 10/10/2017, Lirussi, non ancora mass. che richiama Sez. 4 n. 53293 del 27/09/2016; Rv. 268690; Sez. 6 n. 43894 del 13/09/2016, Rv. 268505). La successiva utilizzabilità dell’atto in sede processuale va, infatti, equiparata, come si diceva in precedenza, a quella di un documento e non può considerarsi atto di polizia giudiziaria, anche ove l’acquisizione sia avvenuta ad iniziativa di questa, ma dopo che l’accertamento sanitario fosse già stato avviato, esclusivamente nell’ambito di quel protocollo.

    Ove, invece, l’esecuzione del prelievo da parte di personale medico non avvenga nell’ambito degli ordinari protocolli sanitari, ma sia espressamente richiesta dalla polizia giudiziaria al fine di acquisire la prova del reato nei confronti di soggetto già indiziato, il personale richiesto finisce per agire come vera e propria longa manus della polizia giudiziaria e, anche rispetto a tale accertamento, scatteranno le garanzie difensive sottese all’avviso di cui all’art. 114 disp. att. cod. proc. pen. (così la già ricordata Sez. 4 n. 51284 del 10/10/2017, Lirussi, non ancora mass e, in termini, Sez. 4 n. 3340 del 22/12/2016 dep. il 2017, Tolazzi, Rv. 268885; Sez. 4 n. 53293 del 27/9/2016, Rv. 268690; Sez. F. n. 34886 del 6/8/2015, Rv. 264728).

    In tale ipotesi, cioè, la polizia giudiziaria non farebbe altro che avvalersi di una facoltà espressamente attribuita dalla legge, in quanto l’art. 348 c.p.p., comma 4, prevede, per l’appunto, che “La polizia giudiziaria, quando, di propria iniziativa o a seguito di delega del pubblico ministero, compie atti od operazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, può avvalersi di persone idonee le quali non possono rifiutare la propria opera”, precisandosi che il ricorso alla collaborazione di tali ausiliari non richiede che costoro siano individuati con l’osservanza delle forme e delle modalità previste per la nomina del consulente tecnico del pubblico ministero (cfr. Sez. 3 n. 16683 del 5/03/2009, Rv. 243462; n. 5818 dei 10/11/2015 dep. il 2016, Rv. 266267).

    In altri termini, la polizia giudiziaria, in caso di incidente stradale, allorchè la persona sulla quale si siano già addensati indizi di reità con riferimento alle condotte descritte dall’art. 186 C.d.S., sia trasferita in ospedale, ma non sottoposta ad autonomo intervento di soccorso e cura, può anche decidere, anche solo per ragioni di tipo organizzativo, di non procedere con l’esame spirometrico, ma di delegare l’accertamento del tasso alcolemico al personale sanitario che ha ricevuto il soggetto. L’avviso, obbligatorio in tal caso, potrà essere, dato anche dal personale sanitario richiesto, atteso che esso non necessita di formule sacramentali, ma deve essere idoneo a raggiungere lo scopo, che è quello di avvisare colui che non possiede conoscenze tecnico-processuali, del fatto che, tra i propri diritti, vi è la facoltà di nominare un difensore che lo assista durante l’atto (cfr. Sez. 4 n. 15189 del 18/1/2017, Rv. 269606; sez. 3 n. 23697 del 1/3/2016, Rv. 266825).

    6. Come rileva condivisibilmente la richiamata sentenza 755/2013, non può sostenersi che il difetto di consenso al prelievo del campione costituisca una causa di inutilizzabilità patologica dell’accertamento compiuto, facendo appello a principi di natura costituzionale, posto che la specifica disciplina dettata dall’art. 186 del nuovo codice della strada, nel dare attuazione alla riserva di legge stabilita dall’art. 13 Cost., comma 2, non prevede alcun preventivo consenso dell’interessato al prelievo dei campioni (cfr. Sez. 4 n. 1522 del 10/12/2013 dep. il 2014), Rv. 258490; Sez. 4 n. 10605 del 15/11/2012 dep. il 2013, Rv. 254933 in cui la S.C. ha, tuttavia, chiarito, come si dirà di qui a poco, che il prelievo non sarebbe effettuabile laddove il paziente rifiutasse espressamente di essere sottoposto a qualsiasi trattamento sanitario); Sez. 4 n. 15189 del 18/1/2017, Rv. 269606).

    Innanzitutto, va osservato, come già si ebbe occasione di fare in quella pronuncia, che le situazioni, in relazione all’accertamento del tasso alcoolemico, che in concreto possono prospettarsi, nel momento in cui il conducente, presumibilmente in stato di ebbrezza, abbia provocato un incidente stradale e venga condotto presso una struttura sanitaria, sono diverse, ma, ad ognuna di esse, è possibile dare una regolamentazione ricavabile dalla norma di riferimento, che è l’art. 186 C.d.S., comma 5, nella sua attuale formulazione già in vigore al momento del fatto di cui trattasi.

    La norma prevede che, per i conducenti coinvolti in incidenti stradali e sottoposti alle cure mediche, l’accertamento del tasso alcolemico su richiesta degli organi della Polizia Stradale viene effettuato da parte delle strutture sanitarie, che rilasciano ai predetti organi la relativa certificazione estesa alla prognosi delle lesioni accertate. Il successivo art. 186 C.d.S., comma 6, statuisce che, qualora da tale accertamento risulti un valore corrispondente ad un tasso alcoolemico superiore a 0,5 grammi per litro di sangue, l’interessato è considerato in stato di ebbrezza ai fini delle applicazioni delle sanzioni di cui al comma 2 dello stesso articolo.

    Ne discende che, in presenza dei presupposti di fatto indicati (coinvolgimento del conducente in un incidente stradale, sua sottoposizione a cure mediche da parte della struttura sanitaria) l’accertamento del tasso alcoolemico, richiesto ai sanitari da organi della Polizia Giudiziaria, è utilizzabile ai fini dell’affermazione di responsabilità dell’interessato, indipendentemente dal consenso che costui abbia o meno prestato all’effettuazione dell’accertamento stesso.

    Il primo presupposto di fatto, e cioè il coinvolgimento in un incidente stradale, è un dato oggettivo, non rilevando se esso abbia o meno coinvolto solo il veicolo dell’interessato o anche di altri, quel che importa, infatti, è il pericolo causato alla circolazione stradale; per la sussistenza del secondo presupposto è necessario che il prelievo ematico sia stato eseguito dal personale sanitario della struttura, presso cui è stato condotto l’interessato, nell’ambito di un protocollo medico di pronto soccorso; a tal fine, ovviamente, la valutazione se si debba o meno sottoporre il medesimo a cure mediche e procedere anche al prelievo ematico, onde predisporre adeguate cure farmacologiche, è rimessa agli stessi sanitari.

    Nell’ambito delle cure che vengono in tal modo prestate, con il prelievo ematico, gli organi di P.G. sono legittimati a richiedere l’accertamento del tasso alcoolemico, i cui risultati possono essere utilizzati ai fini penali, indipendentemente dal consenso prestato o meno in tal senso dal conducente.

    In tale caso -che, si ribadisce, è quello di un soggetto che necessita di cure di pronto soccorso nell’ambito delle quali comunque i medici l’avrebbero sottoposto a prelievo ematico- poichè l’acquisizione del risultato dell’accertamento ematico è previsto ex lege, non è affatto necessario, a tutela del diritto di difesa, che l’interessato venga avvertito della facoltà di nomina di un difensore.

    Come condivisibilmente rilevava già la citata sentenza 755/2013, il conducente potrebbe, però, opporsi ad essere sottoposto alle cure mediche e, quindi, al prelievo di sangue e, sostanzialmente all’accertamento del tasso alcoolemi-co, disposti dai sanitari nell’ambito di applicazione del protocollo di pronto soccorso cui si è fatto riferimento, ma, in tal caso, atteso il collegamento tra il settimo ed l’art. 186 C.d.S., comma 5, egli sarebbe punito con le pene previste dal comma 2, lett. c) dello stesso articolo, sempre, però, che fosse stato informato che, nell’ambito delle cure mediche, era stato richiesto da parte della P.G. ai sanitari il prelievo di sangue per l’accertamento del tasso alcoolemico. Diversamente, se i sanitari abbiano ritenuto di non sottoporre il conducente a cure mediche ed a prelievo ematico, la richiesta degli organi di P.G. di effettuare l’analisi del tasso alcoolemico, in presenza di un dissenso espresso dell’interessato, sarebbe illegittima e, quindi, l’eventuale accertamento, comunque effettuato a mezzo del prelievo ematico da parte dei sanitari, sarebbe inutilizzabile ai fini dell’affermazione di responsabilità per una delle ipotesi di reato previste dall’art. 186 C.d.S., comma 2, (cfr. sul punto anche Sez. 4, n. 26108 del 16/05/2012 Rv. 253596 secondo cui ” i risultati del prelievo ematico effettuato per le terapie di pronto soccorso successive ad incidente stradale e non preordinato a fini di prova della responsabilità penale sono utilizzabili per l’accertamento del reato di guida in stato di ebbrezza, senza che rilevi l’assenza di consenso dell’interessato, ove, in applicazione di tale principio, la Corte ha affermato che, per il suo carattere invasivo, il conducente può opporre un rifiuto al prelievo ematico se sia finalizzato esclusivamente all’accertamento della presenza di alcool nel sangue).

    7. Non a caso si è fatto riferimento al “dissenso espresso dell’interessato” e non al suo “mancato consenso”, in quanto l’utilizzazione dell’una o dell’altra locuzione ha risvolti applicativi di non poco conto. Ed, infatti, se basta “il dissenso espresso dell’interessato” gli organi di P.G. possono richiedere ai sanitari l’effettuazione del prelievo ematico e, quindi, dell’accertamento del tasso alcoolemico, ancorchè gli stessi non abbiano ritenuto necessario di sottoporre l’interessato a cure mediche, deducendo il consenso di quest’ultimo, ovviamente previa informazione al medesimo della finalità per cui è effettuato il prelievo ematico (trattasi pur sempre di un consenso informato) anche da un atteggiamento positivo, sebbene verbalmente non espresso; altrimenti, se si richiede “il consenso dell’interessato” è ovvio che esso debba essere espresso, cioè non ricavabile da suoi atteggiamenti.

    La scelta del Collegio di ritenere che, per l’utilizzabilità processuale dell’accertamento del tasso alcoolemico, acquisito con le modalità descritte, non ci debba essere “il dissenso espresso dell’interessato”, deriva dalla lettura del comma 7 dell’art. 186 CDS, laddove il legislatore ha specificamente utilizzato il termine “rifiuto” da parte del conducente, con riferimento all’accertamento del tasso alcoolemico (anche con riguardo al comma 5 dello stesso articolo).

    Il significato lessicale di tale sostantivo, laddove con rifiuto si intende l’opporsi espressamente (con qualsiasi modalità, verbale e non) ad una richiesta di fare o subire un qualche cosa (consenso informato) è incontrovertibile (vedasi infra sent. Corte Cost. 238/1996).

    Si ritiene di convenire con la più volte ricordata sentenza 755/2013 nel senso che è del tutto ovvio, alla luce di un’interpretazione sistematica della norma, che anche in questo caso l’espresso dissenso (rifiuto) del conducente all’effettuazione dell’accertamento alcoolemico, richiesto dagli organi di P.G. ai sanitari, al di fuori dei presupposti illustrati, di cui al comma 5, consenta l’applicazione della disposizione del richiamato comma 7.

    Con riguardo alla ipotizzata violazione da parte della disposizione normativa in esame dei principi costituzionali a tutela della libertà personale del cittadino e del suo diritto di rifiuto a sottoporsi ad accertamenti invasivi anche se per finalità di accertamento di reati, possono essere evocati i principi affermati con la sentenza della Corte Costituzionale 238/1996, la quale ebbe a dichiarare l’illegittimità dell’art. 224 c.p.p., comma 2, nella parte in cui consente che il giudice, nell’ambito delle operazioni peritali, disponga misure che comunque incidano sulla libertà personale dell’indagato o dell’imputato o di terzi, al di fuori di quelle specificamente previste nei “casi” e nei “modi” dalla legge”. Principio a maggior ragione valido anche per gli atti di indagine.

    Va osservato che i giudici delle leggi giunsero alla pronuncia di illegittimità per arginare l’utilizzo di provvedimenti coercitivi atipici, astrattamente riconducibili alla nozione di “provvedimenti.. necessari per l’esecuzione delle operazioni peritali”, senza che fosse prevista alcuna distinzione tra quelli incidenti e quelli non incidenti sulla libertà personale, così cumulandoli in una disciplina, connotata da assoluta genericità di formulazione e totale carenza di ogni specificazione dei casi e dei modi in presenza dei quali soltanto poteva ritenersi legittima l’esecuzione coattiva di accertamenti peritali mediante l’adozione, a discrezione del giudice, di misure restrittive della libertà personale. Carenza normativa a cui, peraltro, il legislatore ha posto riparo con l’introduzione dell’art. 224 bis c.p.p..

    Invero, la stessa Corte, nella motivazione della sentenza sopra ricordata, nel momento in cui censurava la genericità della disciplina del rito penale, ebbe a segnalare come invece, “…. in un diverso contesto, che è quello del nuovo codice della strada (artt. 186 e 187), il legislatore – operando specificamente il bilanciamento tra l’esigenza probatoria di accertamento del reato e la garanzia costituzionale della libertà personale – abbia dettato una disciplina specifica (e settoriale) dell’accertamento (sulla persona del conducente in apparente stato di ebbrezza alcoolica o di assunzione di sostanze stupefacenti) della concentrazione di alcool nell’aria alveolare espirata e del prelievo di campioni di liquidi biologici, (prevedendo bensì in entrambi i casi la possibilità del rifiuto dell’accertamento, ma con la comminatoria di una sanzione penale per tale indisponibilità dei conducente ad offrirsi e cooperare all’acquisizione probatoria); disciplina – questa la cui illegittimità costituzionale è stata recentemente esclusa da questa Corte (sentenza n. 194 del 1996, citata) proprio denegando, tra l’altro, la denunziata violazione dell’art. 13 Cost., comma 2, atteso che la dettagliata normativa di tale accertamento non consente neppure di ipotizzare la violazione della riserva di legge”.

    Ne consegue che la stessa Corte Costituzionale ha riconosciuto, nelle due pronunce sopra riportate, la legittimità della disciplina del codice della strada, anche laddove nell’indicare le modalità degli accertamenti tecnici per rilevare lo stato di ebbrezza, non prevede alcun preventivo consenso dell’interessato al prelievo dei campioni. E, dunque, avendo la stessa Corte Costituzionale, nella richiamata sentenza, individuato quali sono i “trattamenti sanitari”, c.d. invasivi, consentiti, tra cui il prelievo ematico, le modalità previste dall’art. 186 C.d.S., comma 5, per l’accertamento del tasso alcoolemico trovano il loro fondamento nell’art. 32 della Carta Costituzionale, comma 2.

    Ciò che può essere opposto – va ribadito- è il rifiuto al controllo; ma la stessa sanzione penale che accompagna tale condotta, sancendone il disvalore, risulta incompatibile con la pretesa di un esplicito consenso al prelievo dei campioni.

    Nel caso di specie, detto prelievo è stato effettuato nel rispetto delle norme vigenti all’epoca dei fatti (dopo la riforma introdotta dal D.L. n. 151 del 2003, conv. in L. n. 214 del 2003), ai sensi dell’art. 186 C.d.S., comma 5, legittimamente presso il presidio ospedaliero in cui era stato portato per controlli medici, ferito, il D.M..

    Per quanto detto, le censure di inutilizzabilità degli accertamenti ospedalieri in relazione alla positività all’alcool dell’imputato sono manifestamente infondate.

    8. In ultimo, va rilevato che non può porsi in questa sede la questione di una declaratoria della prescrizione maturata dopo la sentenza d’appello, in considerazione della manifesta infondatezza del ricorso.

    La giurisprudenza di questa Corte Suprema ha, infatti, più volte ribadito che l’inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 c.p.p. (così Sez. Un. n. 32 del 22/11/2000, De Luca, Rv. 217266 relativamente ad un caso in cui la prescrizione del reato era maturata successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso; conformi, Sez. Un., n. 23428 del 2/3/2005, Bracale, Rv. 231164, e Sez. Un. n. 19601 del 28/2/2008, Niccoli, Rv. 239400; in ultimo Sez. 2, n. 28848 del 8/5/2013, Ciaffoni, rv. 256463).

    9. Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell’art. 616 c.p.p., non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura indicata in dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2000,00 in favore della cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 10 gennaio 2018.

Depositato in Cancelleria il 1 febbraio 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Originally posted 2021-08-25 17:39:25.

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IL FATTO TIZIO  quale medico anestesista in servizio presso l’ospedale di –

incaricato di  prestare la dovuta assistenza

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adenotonsillectomia sul piccolo C.S. di anni sei,

si era allontanato subito dopo

l’esecuzione dell’intervento chirurgico, senza attendere il regolare risveglio del

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piccolo paziente, senza accertarsi delle sue condizioni, senza lasciar detto dove

andava e dove poteva essere rintracciato, lasciando il bimbo alla sola vigilanza

delle infermiere, nei fatti quindi rifiutando un atto del suo ufficio che doveva

essere compiuto senza ritardo per ragioni di sanità, rendendosi irreperibile ed

irraggiungibile per oltre quaranta minuti, pur nella consapevolezza di avere

lasciato senza la doverosa e cogente assistenza un piccolo paziente appena

operato, oltre quaranta minuti durante i quali -a seguito dell’insorgere di serie

complicanze respiratorie nel  paziente-  era stato insistentemente e

reiteratamente cercato dai medici e dal centralino dell’ospedale.

 

AVVOCATO DANNO DA INSIDIA STRADALE fosse dipeso da un'anomalia della strada o del marciapied

AVVOCATO DANNO DA INSIDIA STRADALE fosse dipeso da un’anomalia della strada o del marciapied

 

 

IL RAGIONAMENTO DELLA CASSAZIONE

La Corte d’Appello ha poi sottolineato che nel caso in esame il piccolo paziente

non era stato trattato con sedativi prima di essere sottoposto all’intervento de

quo, là dove tutta la letteratura internazionale era concorde sulla opportunità

di premedicare in questi casi i bambini proprio per determinare una amnesia su

quanto accaduto in sala operatoria ed evitare stati di agitazione postoperatori

(v. relazione M.). A fronte di ciò, la Corte di merito non ha potuto non rilevare

che l’imputato, dirigente medico della unità operativa anestesia e rianimazione

dell’ospedale di —- che in data —- svolgeva funzioni di anestesia di sala, si

era allontanato dal luogo in cui si trovava il minore C.S. subito dopo

l’esecuzione dell’intervento chirurgico, senza attendere il regolare risveglio del

piccolo paziente, senza accertarsi delle sue condizioni di salute, senza lasciare

recapiti, abbandonando il bambino alla sola vigilanza delle infermiere di sala.

Ne derivava che il F. aveva indebitamente rifiutato atti del suo ufficio,

allontanandosi subito dopo l’intervento chirurgico e omettendo, in violazione

dei suoi obblighi di anestesista, di continuare a monitorare il paziente (tanto

più che si trattava di un bambino che non era stato da lui premeditato) e di

intervenire tempestivamente alla vista dei sintomi di malessere manifestati dal

piccolo S. al risveglio dall’anestesia, somministrando il farmaco giusto che

evitasse di  cagionargli  la crisi  respiratoria verificatasi  a seguito della

somministrazione di midazolam ad opera degli anestesisti sopraggiunti in sua

sostituzione. Si  tratta con tutta evidenza di  argomentazioni  (non solo

pienamente rispondenti alla realtà processuale, ma anche perfettamente

logiche e aderenti alle regole del diritto) che dimostrano la superfluità della

richiesta perizia medica, posto che ai fini della affermazione della penale

responsabilità dell’imputato per il reato a lui ascritto non rileva in alcun modo il

fatto che la somministrazione di benzodiazepine, praticata dagli altri medici per

sedare l’agitazione del paziente dopo il risveglio, sia stata la causa unica della

crisi respiratoria del piccolo C., come ribadito nell’atto di ricorso.

3. Consegue al rigetto del ricorso la condanna del ricorrente al pagamento

delle spese processuali, nonchè alla rifusione delle spese sostenute dalla parte

civile, liquidate come da dispositivo.

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Cassazione Penale – Sentenza n. 38354/14

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Con sentenza in data 9-11-11 il Tribunale di Ascoli Piceno ha condannato

F.G. alla pena (condizionalmente sospesa) di anni uno di reclusione (con

interdizione per la stessa durata dai pubblici servizi e con risarcimento dei

danni in favore della parte civile) per il reato di cui all’art. 328 c.p., a lui

ascritto perchè, quale medico anestesista in servizio presso l’ospedale di ——

incaricato di  prestare la dovuta assistenza all’intervento chirurgico di

adenotonsillectomia sul piccolo C.S. di anni sei, si era allontanato subito dopo

l’esecuzione dell’intervento chirurgico, senza attendere il regolare risveglio del

piccolo paziente, senza accertarsi delle sue condizioni, senza lasciar detto dove

andava e dove poteva essere rintracciato, lasciando il bimbo alla sola vigilanza

delle infermiere, nei fatti quindi rifiutando un atto del suo ufficio che doveva

essere compiuto senza ritardo per ragioni di sanità, rendendosi irreperibile ed

irraggiungibile per oltre quaranta minuti, pur nella consapevolezza di avere

lasciato senza la doverosa e cogente assistenza un piccolo paziente appena

operato, oltre quaranta minuti durante i quali -a seguito dell’insorgere di serie

complicanze respiratorie nel  paziente-  era stato insistentemente e

reiteratamente cercato dai medici e dal centralino dell’ospedale.

Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte d’Appello di Ancona, in data 12-7-

12, ha confermato la sopra menzionata decisione, condannando altresì il F. alla

rifusione delle spese di parte civile, liquidate come da dispositivo.

2. F.G. ha proposto ricorso per cassazione avverso quest’ultima sentenza,

chiedendone l’annullamento.

Con il primo motivo di ricorso denuncia la violazione dell’art. 606 c.p.p., lett.

d), per la mancata assunzione di una prova decisiva perizia medica per

accertare le condizioni del piccolo C. S. al momento in cui esso F. si era

assentato dopo l’intervento chirurgico, in quanto la crisi respiratoria che lo

aveva colpito non sarebbe da imputare ad esso ricorrente ma altro non

sarebbe stata che la reazione avversa ad un farmaco (benzodiazopine)

somministrato dai sanitari sopraggiunti per fronteggiare lo stato di agitazione

del paziente.

Con il secondo motivo di ricorso deduce vizio di motivazione là dove i giudici di

merito non hanno ritenuto necessario l’espletamento della predetta perizia

medica.

In prossimità della odierna pubblica udienza la difesa del F. ha depositato una

memoria illustrativa, con la quale si insiste per l’accoglimento del ricorso. In

particolare, si sostiene:

che il F. si era allontanato dall’anti-sala nella quale si trovava il bambino in un

momento ampiamente successivo a quello in cui il piccolo paziente si era

correttamente risvegliato dalla anestesia, e, dunque, in un momento in cui per

il medesimo F. era terminato il dovere di assistere il bimbo operato;

che l’apnea insorta nel piccolo S. non era stata la conseguenza dell’operazione

chirurgica, ma era stata provocata unicamente dalla errata ed arbitraria

somministrazione al bambino del farmaco Ipnovel ad opera di altri sanitari

intervenuti per l’agitazione del bimbo dopo che esso F. si era allontanato.

3. Il ricorso è infondato.

La Corte di merito ha spiegato che i fatti specificati nel capo di imputazione

dovevano ritenersi accertati in base alla ampia istruttoria dibattimentale svolta

in primo grado.

In particolare, nella sentenza impugnata si è chiarito che, alla luce delle

risultanze dibattimentali,  la richiesta di  perizia medica,  rinnovata

dall’appellante, doveva ritenersi irrilevante ai fini della decisione, che verteva

sulla penale responsabilità del medico anestesista per omissione della doverosa

assistenza del piccolo paziente nella fase successiva all’intervento operatorio

effettuato.

Infatti il teste Fe. (direttore del dipartimento di emergenza e della struttura

complessa di anestesia e rianimazione presso l’ospedale —- aveva sintetizzato

le regole generali alle quali deve attenersi l’anestesista in caso di intervento

chirurgico, durante e dopo l’operazione di un bambino per tonsille ed adenoidi.

Segnatamente il  predetto testimone aveva spiegato che al  termine

dell’intervento l’anestesista deve garantire un buon risveglio, un atterraggio

migliore possibile fino alla completa ripresa di tutte le funzioni depresse

dall’anestesia, che l’obbligo di assistenza dell’anestesista cessa quando c’è un

recupero totale di tutte le funzioni, la coscienza, la mobilità, i riflessi, e che la

cessazione dei doveri dell’anestesista interviene solo dopo che i farmaci

somministrati siano stati eliminati. Il dott. Fe. ha anche specificato che

generalmente era buona norma tenere il bambino nell’antisala operatoria, nella

sala di risveglio, fino a che non si fosse tranquillizzato e non versasse più in

stati di agitazione.

La Corte d’Appello ha poi sottolineato che nel caso in esame il piccolo paziente

non era stato trattato con sedativi prima di essere sottoposto all’intervento de

quo, là dove tutta la letteratura internazionale era concorde sulla opportunità

di premedicare in questi casi i bambini proprio per determinare una amnesia su

quanto accaduto in sala operatoria ed evitare stati di agitazione postoperatori

(v. relazione M.). A fronte di ciò, la Corte di merito non ha potuto non rilevare

che l’imputato, dirigente medico della unità operativa anestesia e rianimazione

dell’ospedale di —- che in data —- svolgeva funzioni di anestesia di sala, si

era allontanato dal luogo in cui si trovava il minore C.S. subito dopo

l’esecuzione dell’intervento chirurgico, senza attendere il regolare risveglio del

piccolo paziente, senza accertarsi delle sue condizioni di salute, senza lasciare

recapiti, abbandonando il bambino alla sola vigilanza delle infermiere di sala.

Ne derivava che il F. aveva indebitamente rifiutato atti del suo ufficio,

allontanandosi subito dopo l’intervento chirurgico e omettendo, in violazione

dei suoi obblighi di anestesista, di continuare a monitorare il paziente (tanto

più che si trattava di un bambino che non era stato da lui premeditato) e di

intervenire tempestivamente alla vista dei sintomi di malessere manifestati dal

piccolo S. al risveglio dall’anestesia, somministrando il farmaco giusto che

evitasse di  cagionargli  la crisi  respiratoria verificatasi  a seguito della

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sostituzione. Si  tratta con tutta evidenza di  argomentazioni  (non solo

pienamente rispondenti alla realtà processuale, ma anche perfettamente

logiche e aderenti alle regole del diritto) che dimostrano la superfluità della

richiesta perizia medica, posto che ai fini della affermazione della penale

responsabilità dell’imputato per il reato a lui ascritto non rileva in alcun modo il

fatto che la somministrazione di benzodiazepine, praticata dagli altri medici per

sedare l’agitazione del paziente dopo il risveglio, sia stata la causa unica della

crisi respiratoria del piccolo C., come ribadito nell’atto di ricorso.

3. Consegue al rigetto del ricorso la condanna del ricorrente al pagamento

delle spese processuali, nonchè alla rifusione delle spese sostenute dalla parte

civile, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali

nonchè a rifondere le spese sostenute dalla parte civile, che liquida in

complessivi euro duemilacinquecento, oltre iva e cpa.

Così deciso in Roma, il 3 giugno 2014.

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1)Primo: rivolgersi ad un avvocato specializzato in responsabilità medica.

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2)Secondo: un avvocato specializzato in malasanità opera una rigorosa disamina del caso, ricevendo in studio direttamente con il medico specialista nella materia d’interesse del cliente, a seconda che si tratti dell’ambito della ginecologiaostetricia, ortopedia, neurochirurgia, oncologia, cardiologia,oculistica  ecc.

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Questo articolo è stato pubblicato in Richiesta danni e taggato come a seconda che si tratti dell’ambito della ginecologiaostetricia, allo stesso tempo, cardiologia, che vengano intentate azioni prive di fondamento o comunque di risibile apprezzamento economico. La responsabilità medica e il danno da malasanità sono cose serie e vanno valutate con approfondimento , COLPA MEDICA, con conseguente nascita indesiderata.
· Perdita del feto per amniocentesi o villocentesi.
· Prescrizione di terapie senza adeguati controlli.
· Ritardo nell’esecuzione di parto cesareo. · Ritardo nell, Danni alla madre durante il parto.
· Diagnosi errate per malattie ginecologiche.
· Distocia della spalla.
· Errate terapie per la cura della infertilità.
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MALASANITA’ RESPONSABILITA’ MEDICA ERRORE DIAGNOSTICO O TERAPEUTICO DANNO PAZIENTE

  1. AFFERMA LA CASSAZIONE
  2. Nella elaborazione dei canoni di redazione del quesito di diritto la giurisprudenza di questa Suprema Corte si è chiaramente orientata a ritenere che ognuno dei quesiti formulati per ciascun motivo di ricorso deve consentire l’individuazione del principio di diritto che è alla base del provvedimento impugnato e, correlativamente, del diverso principio la cui auspicata applicazione ad opera della Corte di Cassazione possa condurre ad una decisione di segno diverso: ove tale articolazione logico – giuridica mancasse, il quesito si risolverebbe in un’ astratta petizione di principio, inidonea sia ad evidenziare il nesso tra la fattispecie ed il principio di diritto che si chiede venga affermato, sia ad agevolare la successiva enunciazione di tale principio ad opera della Corte, in funzione nomofilattica. Il quesito non può pertanto consistere in una mera richiesta di accoglimento del motivo o nell’interpello della Corte in ordine alla fondatezza della censura così come illustrata nello svolgimento dello stesso motivo, ma deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la medesima Corte in condizione di rispondere ad esso con l’enunciazione di una regula iuris che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata. Ciò vale a dire che la Corte di legittimità deve poter comprendere dalla lettura del solo quesito, inteso come sintesi logico giuridica della questione, l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare (Cass. S.U. n. 3519/2008 ). Nella fattispecie con il quesito suddetto il ricorrente si è limitato a richiedere se nella fattispecie la corte di merito avesse applicato il principio di diritto fissato dalle S.U. con sentenza n. 13533/2001.
  3. 2.Quanto alla doglianza relativa al vizio motivazionale, essa è inconferente poiché la sentenza impugnata non pone in dubbio che vi sia stato un errore istopatologico presso l’Istituto X. e, quindi sotto questo profilo non pone in dubbio l’inadempimento lamentato, ma ritiene che sia rimasto accertato che esso non ha prodotto il danno lamentato dagli appellanti. Non vi quindi questione in merito alla prova dell’inadempimento, poiché la domanda non è stata rigettata per l’esatto adempimento l’obbligazione sanitaria dovuta, ma perché, pur essendo essa esistente, essa era eziologicamente “indifferente” in relazione al danno subito.
  4. Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 360 n. 3 c.p.c., inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 40, 41 589 c.p.c., e dell’art. 2236 c.c., nonché ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c., degli artt. 132, 112, 116 c.p.c., nonché ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., il vizio di motivazione relativamente all’esclusione del rapporto causale tra la condotta dell’imputata B. e l’aggravamento della malattia a carico della G.
  5. Segnatamente il ricorrente lamenta che la sentenza impugnata erroneamente ed in contrasto con quanto affermato in sede scientifica ha ritenuto che nella fattispecie non vi fosse nesso causale tra l’errore nella diagnosi istopatologica della B. e l’evento dannoso; che se fosse stata diagnosticata tempestivamente tale patologia neoplastica ed a seguito dell’intervento non si fosse adottata la teoria attendista del follow-up, ma quella chemioterapia, ciò avrebbe comportato, se non un diverso exitus, quanto meno un allungamento della vita della sig.ra G. ed un miglioramento della stessa nella fase terminale; che tutto ciò va valutato alla luce del principio probatorio “del più probabile che non”; che il secondo intervento fu effettuato quando ormai la G. era completamente defedata; che, in presenza di dette cure chemioterapiche, la morte si sarebbe verificata in epoca significativamente posteriore; che l’omessa corretta diagnosi di neoplasia aveva comportato danno della perdita di chance di vivere alcune settimane o alcuni mesi in più rispetto a quelli poi effettivamente vissuti.
  1. Cassazione Civile – (errore o ritardo diagnostico: attenuazione della prova della perdita di chance)

Cassazione Civile – Sez. III – Sent. n. 12961 del 14.06.2011 Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 18 gennaio 2001 la sig.ra G.M. esponeva di essere stata sottoposta in data X., presso l’Istituto Clinico X. , ad un intervento chirurgico di lobectomia sinistra a seguito di alcuni accertamenti da cui era emersa una calcolosi della intraepatica di sinistra; che in data X. , presso la medesima struttura, era stato eseguito un esame istopatologico, il cui referto, a firma del prof. Ro.Ma., non indicava l’eventualità di una patologia tumorale ; che peraltro successivi accertamenti il X. avevano individuato la presenza di metastasi ed avevano portato a riconoscere nei medesimi reperti istologici un cistadenocarcinoma epatico e comunque la presenza di “atipie cellulari suggestive di malignità”. L’attrice lamentava che dal grave errore diagnostico compiuto presso l’Istituto X. era derivata la mancata identificazione della neoplasia e di conseguenza la mancata adozione di provvedimenti specifici terapeutici, con miglioramento della qualità e della durata della vita e rallentamento della malattia. La sig.ra G.M. conveniva in giudizio l’Istituto Clinico X. e il prof. Ma.Ro. per ottenerne la condanna in solido al risarcimento di tutti i danni (patrimoniali, morali e a carattere biologico) subiti in conseguenza, del dedotto errore diagnostico, oltre interessi e rivalutazione monetaria.

I convenuti si costituivano ed il prof. Ro. chiedeva inoltre, e otteneva, di chiamare in giudizio la Dott.ssa B.M.P., sul rilievo che era stata quest’ultima ad eseguire l’esame istologico.
Deceduta l’attrice, intervenivano nel giudizio il marito e i figli, R.G., D. e L., i quali, con memoria ex art 183 c.p.c., estendevano alla terza chiamata Dott.ssa B., che chiedeva anche il rigetto o l’inammissibilità della chiamata. Veniva disposta nel giudizio di appello una nuova c.t.u. collegiale, affidata, a specialisti in medicina legale e in anatomia patologica. Con sentenza del tribunale di Milano del 10.5.2005 il tribunale dichiarava l’estinzione del giudizio tra R.D. e L. , contro i convenuti per l’avvenuto trasferimento dell’azione in sede penale, e nel merito rigettava la domanda nei confronti di G..R. . Questi proponeva appello davanti alla corte territoriale di Milano.

Resisteva la L..B. , che proponeva anche appello incidentale. Con sentenza depositata il 27.11.2008, la corte di appello di Milano, rigettava gli appelli.
Riteneva la corte di merito, quanto all’appello principale, che esse andava rigettato, poiché all’esito della seconda consulenza tecnica collegiale, disposta in appello, ed in conformità della risultanze della prima consulenza e di quella resa in sede penale, era emerso che non sussisteva alcun nesso causale tra l’errore istopatologico effettuato dalla chiamata B. e l’evento dannoso, nel senso che, ove pure fosse stato tempestivamente nel gennaio 1998 effettuata una diagnosi di neoplasia o un sospetto diagnostico in questo senso, l’intervento chirurgico non sarebbe stato diverso (dovendosi sempre procedere. ad una lobectomia epatica sinistra radicale) né avrebbe dovuto avere, una maggiore capacità demolitoria; che allo stesso modo, non ne sarebbe seguita l’indicazione di alcun trattamento radio o chemioterapico, entrambi non indicati nel particolare tipo di neoplasia; che era certo, tuttavia, che la prognosi quoad vitam della paziente non sarebbe significativamente evoluta in melius e ciò a fronte della severità della patologia neoplastica (colangiocarcinoma) e della carenza di opportunità terapeutiche sicuramente efficaci, sia verso la malattia al momento della sua insorgenza (al di là della opzione chirurgica comunque adeguatamente utilizzata) che in caso di comparsa di recidiva metastatica. Ritiene la sentenza di appello, aderendo alle conclusioni della c.t.u., che la condotta dei sanitari, oggetto del presente giudizio, deve “essere ritenuta indifferente sotto il profilo del rapporto di causalità rispetto all’invalidità ed alla successiva morte di M.G.”.

Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione R.G..
Resiste con controricorso la dr.sa P.B., che ha proposto anche ricorso incidentale, al quale ha resistito il ricorrente con controricorso. La B. ed il R.G. hanno presentato memorie.

Motivi della decisione

  1. Con il primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., l’inosservanza e l’erronea applicazione degli artt. 1218, 1321, 1382, 1453, 1460 e 2697 c.c., nonché ai sensi dell’art. 360 n. 5, la mancanza e contraddittorietà di motivazione su punti decisivi della controversia, in ordine alle responsabilità di natura contrattuale dedotte con l’azione svolta attraverso l’allegazione dell’inadempimento ad esse correlate. Tale motivo si conclude con il seguente quesito, a norma dell’art. 366 bis c.p.c.: “dica la corte: se risulti applicato al caso di specie l’insegnamento di codesta S.C. a S.U., del quale alla sentenza n. 13533/2001, in tema di prova dell’inadempimento di una obbligazione, secondo cui il creditore che agisca per il risarcimento del danno deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento, talché il creditore non ha onere di dimostrazione che adempimento non vi sia stato, essendo sufficiente che egli si limiti a tale allegazione, in applicazione del principio della riferibilità o vicinanza della prova, talché essa resti caricata, in capo al soggetto nella cui sfera è prodotto l’inadempimento e che è quindi in possesso degli elementi utili per paralizzare la pretesa del creditore stesso, dimostrando eventualmente l’avvenuto adempimento: tanto anche in quanto dedotto l’inesatto adempimento, sia per mancata osservanza di doveri accessori o dell’obbligo di diligenza”. 2.1.Ritiene questa Corte che il suddetto motivo è inammissibile. Quanto alla censura proposta ex art. 360 n. 3 c.p.c., il motivo non presenta un quesito di diritto adeguato al disposto di cui all’art. 366 bis, applicabile ratione temporis al ricorso in esame.

Nella elaborazione dei canoni di redazione del quesito di diritto la giurisprudenza di questa Suprema Corte si è chiaramente orientata a ritenere che ognuno dei quesiti formulati per ciascun motivo di ricorso deve consentire l’individuazione del principio di diritto che è alla base del provvedimento impugnato e, correlativamente, del diverso principio la cui auspicata applicazione ad opera della Corte di Cassazione possa condurre ad una decisione di segno diverso: ove tale articolazione logico – giuridica mancasse, il quesito si risolverebbe in un’ astratta petizione di principio, inidonea sia ad evidenziare il nesso tra la fattispecie ed il principio di diritto che si chiede venga affermato, sia ad agevolare la successiva enunciazione di tale principio ad opera della Corte, in funzione nomofilattica. Il quesito non può pertanto consistere in una mera richiesta di accoglimento del motivo o nell’interpello della Corte in ordine alla fondatezza della censura così come illustrata nello svolgimento dello stesso motivo, ma deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la medesima Corte in condizione di rispondere ad esso con l’enunciazione di una regula iuris che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata. Ciò vale a dire che la Corte di legittimità deve poter comprendere dalla lettura del solo quesito, inteso come sintesi logico giuridica della questione, l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare (Cass. S.U. n. 3519/2008 ). Nella fattispecie con il quesito suddetto il ricorrente si è limitato a richiedere se nella fattispecie la corte di merito avesse applicato il principio di diritto fissato dalle S.U. con sentenza n. 13533/2001.

2.2.Quanto alla doglianza relativa al vizio motivazionale, essa è inconferente poiché la sentenza impugnata non pone in dubbio che vi sia stato un errore istopatologico presso l’Istituto X. e, quindi sotto questo profilo non pone in dubbio l’inadempimento lamentato, ma ritiene che sia rimasto accertato che esso non ha prodotto il danno lamentato dagli appellanti. Non vi quindi questione in merito alla prova dell’inadempimento, poiché la domanda non è stata rigettata per l’esatto adempimento l’obbligazione sanitaria dovuta, ma perché, pur essendo essa esistente, essa era eziologicamente “indifferente” in relazione al danno subito.

  1. Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 360 n. 3 c.p.c., inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 40, 41 589 c.p.c., e dell’art. 2236 c.c., nonché ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c., degli artt. 132, 112, 116 c.p.c., nonché ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., il vizio di motivazione relativamente all’esclusione del rapporto causale tra la condotta dell’imputata B. e l’aggravamento della malattia a carico della G.

Segnatamente il ricorrente lamenta che la sentenza impugnata erroneamente ed in contrasto con quanto affermato in sede scientifica ha ritenuto che nella fattispecie non vi fosse nesso causale tra l’errore nella diagnosi istopatologica della B. e l’evento dannoso; che se fosse stata diagnosticata tempestivamente tale patologia neoplastica ed a seguito dell’intervento non si fosse adottata la teoria attendista del follow-up, ma quella chemioterapia, ciò avrebbe comportato, se non un diverso exitus, quanto meno un allungamento della vita della sig.ra G. ed un miglioramento della stessa nella fase terminale; che tutto ciò va valutato alla luce del principio probatorio “del più probabile che non”; che il secondo intervento fu effettuato quando ormai la G. era completamente defedata; che, in presenza di dette cure chemioterapiche, la morte si sarebbe verificata in epoca significativamente posteriore; che l’omessa corretta diagnosi di neoplasia aveva comportato danno della perdita di chance di vivere alcune settimane o alcuni mesi in più rispetto a quelli poi effettivamente vissuti.

4.1. Il motivo è infondato.
Non risultano anzitutto violate le norme di diritto, a cui si riporta il ricorrente.
Va poi premesso che, anche in tema di risarcimento del danno patrimoniale da inadempimento, non è l’inadempimento in sé che è oggetto di risarcimento, ma il danno conseguente.
Ciò comporta che deve essere in concreto fornita la dimostrazione dell’esistenza del pregiudizio lamentato e il diretto nesso causale dall’inadempimento (Cass. 20/11/2007, n. 24140 Cass. 15/05/2007, n. 11189; Cass. 10/01/2007, n. 238; Cass. 04/07/2006, n. 15274).
4.2. Mentre sul creditore della prestazione non grava l’onere della prova dell’inadempimento, dovendo il debitore provare – a fronte dell’allegazione di inadempimento del creditore – che egli ha esattamente adempiuto, giusto quanto si ricava dalla struttura dell’art. 1453 c.c. (Cass. S.u. n. 13533/2001), invece la prova del danno lamentato e del nesso causale tra lo stesso e l’inadempimento, così allegato, grava sull’attore secondo i principi generali di cui all’art. 2697 c.c..
4.3. L’inadempimento del professionista (consistente anche nell’errore o omissione di diagnosi) :in relazione alla propria obbligazione, e la conseguente responsabilità dell’ente presso il quale egli presta la propria opera, deve essere valutato alla stregua del dovere di diligenza particolarmente qualificato inerente lo svolgimento della sua attività professionale; sicché è configurabile un nesso causale tra il suo comportamento, anche omissivo, ed il pregiudizio subito da un paziente qualora, attraverso un criterio necessariamente probabilistico, si ritenga che l’opera del professionista, se correttamente e prontamente svolta, avrebbe avuto serie ed apprezzabili possibilità di evitare il danno verificatosi (Cass. 23/09/2004, n. 19133).
Nella fattispecie la sentenza impugnata ha ritenuto che era accertato l’inadempimento dell’Istituto … costituito dall’errore istopatologico, e quindi della mancata diagnosi della neoplasia alle vie biliari, ma ha escluso che questo errore avesse determinato – sia pure in termini probabilistici – un danno alla paziente, nel senso che lo sviluppo neoplastico che ella subì ed il successivo exitus non furono influenzati, neppure nella durata della residua vita o nella qualità degradata della stessa, dalla mancata diagnosi precoce della malattia tumorale.

5.1. Per giungere a questa conclusione la corte di merito ha correttamente applicato i principi in tema di nesso causale da condotta omissiva, fissati da questa Corte.
Infatti l’inadempimento ascritto ai convenuti è di carattere omissivo, in quanto consiste nel non avere fornito alla paziente una diagnosi di neoplasia delle vie biliari (integrante appunto la diagnosi esatta).

Ai fini della causalità materiale la giurisprudenza (Cass. Sez. Unite, 11/01/2008, n. 581, 576 ed altre) e la dottrina prevalenti, in applicazione dei principi penalistici, di cui agli artt. 40 e 41 c.p., ritengono che un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non)., mentre ad un secondo momento va riferita la regola dell’art. 1223 c.c., per il quale il risarcimento deve comprendere le perdite “che siano conseguenza immediata e diretta” del fatto lesivo (c.d. causalità giuridica), per cui esattamente si è dubitato che la norma attenga al nesso causale e non piuttosto alla determinazione del quantum del risarcimento, selezionando le conseguenze dannose risarcibili.

Il rigore del principio dell’equivalenza delle cause, posto dall’art. 41 c.p., in base al quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale, trova il suo temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dall’art. 41 c.p., comma 2, in base al quale l’evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto (Cass. 19.12.2006, n. 27168; Cass. 8.9.2006, n. 19297; Cass. 10.3.2006, n. 5254; Cass. 15.1.1996, n. 268).

Nel contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all’interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l’evento causante non appaiano del tutto inverosimili, ma che si presentino come effetto non del tutto imprevedibile, secondo il principio della c.d. causalità adeguata o quella similare della c.d. regolarità causale (ex multis: Cass. 1.3.2007; n. 4791; Cass. 6.7.2006, n. 15384; Cass. 27.9.2006, n. 21020; Cass. 3.12.2002, n. 17152; Cass. 10.5.2000 n. 5962).

5.2.Nel danno da inadempimento omissivo il giudizio causale assume come termine iniziale la condotta omissiva del comportamento dovuto (Cass. n. 20328 del 2006; Cass. n. 21894 del 2004; Cass. n. 6516 del 2004; Cass. 22/10/2003, n. 15789).
La causalità è tuttavia accertabile attraverso un giudizio ipotetico: l’azione ipotizzata, ma omessa, avrebbe impedito l’evento? In altri termini non può riconoscersi la responsabilità per omissione quando il comportamento omesso, ove anche fosse stato tenuto, non avrebbe comunque impedito l’evento prospettato: la responsabilità non sorge non perché non vi sia stato un comportamento antigiuridico (l’omissione di un comportamento dovuto è di per sé un comportamento antigiuridico e nella responsabilità contrattuale l’inadempimento è comportamento antigiuridico), ma perché quell’omissione non è causa del danno lamentato.
5.3.11 Giudice pertanto è tenuto ad accertare se l’evento sia ricollegabile all’omissione (causalità omissiva) nel senso che esso non si sarebbe verificato se (causalità ipotetica) l’agente avesse posto in essere la condotta doverosa impostagli, con esclusione di fattori alternativi. L’accertamento del rapporto di causalità ipotetica passa attraverso l’enunciato “controfattuale” che pone al posto dell’omissione il comportamento alternativo dovuto, onde verificare se la condotta doverosa avrebbe evitato il danno lamentato dal danneggiato.
5.4.Essendo questi i principi che regolano il procedimento logico – giuridico ai fini della ricostruzione del nesso causale, ciò che muta sostanzialmente tra il processo penale e

quello civile è la regola probatoria, in quanto nel primo vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio” (cfr. Cass. Pen. S.U. 11 settembre 2002, n. 30328, Franzese), mentre nel secondo vige la regola della preponderanza dell’evidenza o “del più probabile che non”, stante la diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa, e l’equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti, come rilevato da attenta dottrina che ha esaminato l’identità di tali standars delle prove in tutti gli ordinamenti occidentali, con la predetta differenza tra processo civile e penale (in questo senso Cass. 16.10.2007, n. 21619; Cass. 18.4.2007, n. 9238; 11/05/2009, n. 10741; Cass. 22837 del 2010; Cass. 16123 del 2010).

Detto standard di “certezza probabilistica” in materia civile non può essere ancorato esclusivamente alla determinazione quantitativa – statistica delle frequenze di classi di eventi (c.d. probabilità quantitativa o pascaliana), che potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto (c.d. probabilità logica o baconiana). Nello schema generale della probabilità come relazione logica va determinata l’attendibilità dell’ipotesi sulla base dei relativi elementi di conferma (c.d. evidence and inference nei sistemi anglosassoni). Nella fattispecie la sentenza impugnata si è conformata a detti principi.

5.5.Sulla base di accertamenti fattuali (sulla correttezza della cui motivazione ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., si vedrà successivamente) ha ritenuto accertato in punto di fatto che l’inadempimento ascritto, (mancata diagnosi istologica di neoplasia, a seguito dell’intervento effettuato di lobectomia sinistra) non avrebbe né evitato l’exitus finale né avrebbe prolungato apprezzabilmente la vita della sig.ra G. né la stessa sarebbe significativamente evoluta in melius. Pertanto, avendo la corte ritenuto che un’eventuale prognosi più precoce non avrebbe favorito un approccio terapeutico più efficace né avrebbe migliorato la qualità e la durata della vita della paziente, con giudizio contro fattuale ha escluso anche in termini di prevalenza di probabilità che i danni lamentati dai ricorrenti fossero conseguenza della mancata tempestiva e corretta diagnosi tumorale da errore istologico e che essi si sarebbero in ogni caso verificati, trovando causa esclusiva nella malattia neoplastica.

6.1.Ciò comporta che vanno rigettate le censure di violazione di legge avanzate dal ricorrente.
Diverso problema è quello relativo all’esattezza, sotto il profilo motivazionale, di tale ricostruzione fattuale. Questo costituisce il nucleo centrale del ricorso del ricorrente principale il quale appunto lamenta che erroneamente i consulenti prima e la corte concludono che una diagnosi precoce della neoplasia, ed eventualmente una terapia chemioterapia, non avrebbe allungato e migliorato la vita della paziente, pur nell’inevitabilità dell’esito infausto.

6.2.Sennonché tanto integra una censura di vizio motivazionale della sentenza impugnata, pur fatta valere con il secondo motivo di ricorso.
Essa, tuttavia, può avere ingresso in questa sede di sindacato di legittimità negli stretti limiti di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c. Sotto questo profilo non vi sono elementi per ritenere che la motivazione della sentenza impugnata sia apparente (o mancante), insufficiente o contraddittoria.

Va, anzitutto, osservato che la sentenza impugnata è giunta alla conclusione di dover rigettare l’appello (e quindi confermare il rigetto della domanda) per mancanza di nesso causale tra la suddetta condotta omissiva ascrivibile ai convenuti e l’evento, sulla base della consulenza collegiale di secondo grado (uno dei consulenti svolgeva la sua attività presso l’Istituto nazionale dei Tumori di Milano e l’altro presso Istituto di Medicina legale di Milano), conforme sul punto a quella di primo grado ed alle conclusioni cui erano giunti i

consulenti del P.M. in sede penale nel procedimento per omicidio colposo a carico della appellata P..B.
I consulenti in sede civile avevano accertato che, ove pure fosse stata nel gennaio 1998 effettuata una diagnosi di neoplasia o un sospetto diagnostico in questo senso, l’intervento chirurgico non sarebbe stato diverso (dovendosi sempre procedere. ad una lobectomia epatica sinistra radicale) ne avrebbe dovuto avere una maggiore capacità demolitoria; allo stesso modo non ne sarebbe seguita l’indicazione di alcun trattamento radio o chemioterapico, entrambi non indicati nel particolare tipo di neoplasia. E, pur concedendosi dai consulenti che, in ipotesi di diagnosi tempestiva, la paziente sarebbe stata sottoposta ad uno stretto regime di follow-up, onde diagnosticare precocemente eventuali recidive, e pur non potendosi escludere la possibilità che la diagnosi di recidiva neoplastica venisse raggiunta con un certo anticipo (anche se gli stessi consulenti tecnici d’ufficio hanno fatto rilevare, in proposito, come ancora – nell’aprile 2000 – sia i marcatori tumorali che la TAC preoperatoria non fossero ancora affatto suggestivi in tal senso ed una diagnosi certa venisse conseguita solo in sede chirurgica), è certo, tuttavia, che la prognosi quoad vitam della paziente non sarebbe significativamente evoluta in melius e ciò a fronte della severità della patologia neoplastica (colangiocarcinoma) e della carenza di opportunità terapeutiche sicuramente efficaci, sia verso la malattia al momento della sua insorgenza (al di là della opzione chirurgica comunque adeguatamente utilizzata) che in caso di comparsa di recidiva metastatica.

6.3.Lei corte di merito ha condiviso le conclusioni dei c.t.u. in merito all’irrilevanza di eseguire un trattamento chemioterapico post-chirurgico in luogo di quella di follow-up, osservando anche che: a)Presso l’Istituto Nazionale dei Tumori la chemioterapia viene prescritta nei pazienti operati radicalmente “soltanto se essi vengono giudicati ad alto rischio di recidiva, cioè quando presentano fattori prognostici oggettivi, che però, nel caso in discussione, la paziente non possedeva posto che in sede di intervento i linfonodi locoregionali venivano descritti come normali; che in nessuna delle varie revisioni istologiche veniva rilevata invasione vascolare o linfatica; che i marcatori tumorali non presentavano valori elevati.

  1. b) Non può ammettersi che “una eventuale diagnosi più precoce avrebbe favorito un approccio terapeutico più efficace” e, soprattutto, non può ammettersi, che quest’ultimo avrebbe migliorato la qualità e la durata della vita della paziente”. c) La condotta dei sanitari, oggetto del presente giudizio, doveva “essere ritenuta indifferente sotto il profilo del rapporto di causalità rispetto all’invalidità ed alla successiva morte di M..G. “.

Ne consegue che nella fattispecie non presenta i lamentati vizi di motivazione l’impugnata sentenza che ha aderito alle conclusioni dei C.T.U. di secondo grado, che hanno ribadito quanto accertato dai consulenti di primo grado e del p.m. in sede penale. A tal fine, ed in relazione alle critiche riformulate dal ricorrente nel ricorso al percorso argomentativo dei consulenti prima e della sentenza poi, va ribadito il principio secondo cui il giudice del merito, quando aderisce alle conclusioni del consulente tecnico che nella relazione abbia tenuto conto, replicandovi, dei rilievi dei consulenti di parte, esaurisce l’obbligo della motivazione con l’indicazione delle fonti del suo convincimento; non è quindi necessario che egli si soffermi sulle contrarie deduzioni dei consulenti di fiducia che, anche se non espressamente confutate, restano implicitamente disattese perché incompatibili con le argomentazioni accolte. Le critiche di parte, che tendano al riesame degli elementi di giudizio già valutati dal consulente tecnico, si risolvono in tal caso in mere allegazioni difensive, che non possono configurare il vizio di motivazione previsto dall’art. 360 n. 5 c.p.c. (Cass. 03/04/2007, n. 8355). Nella fattispecie la seconda consulenza è stata disposta in sede di appello proprio perché tenesse conto delle varie critiche alla consulenza di primo grado svolte dai c.t. di parte e dallo stesso appellante.

7.1. Infondata è anche la censura con cui il ricorrente lamenta che non sia stata valutato il danno sotto il profilo di perdita di chance, come possibilità che la vita fosse allungata e migliorata in presenza della chemioterapia.
Va condiviso il principio già affermato da questa corte, secondo cui in tema di danno alla persona, conseguente a responsabilità medica, integra l’esistenza di un danno risarcibile alla persona l’omissione della diagnosi di un processo morboso terminale, allorché abbia determinato la tardiva esecuzione di un intervento chirurgico, che normalmente sia da praticare per evitare che l’esito definitivo del processo morboso si verifichi anzitempo, prima del suo normale decorso, e risulti inoltre che, per effetto del ritardo, sia andata perduta dal paziente la “chance” di conservare, durante quel decorso, una migliore qualità della vita nonché la “chance” di vivere alcune settimane od alcuni mesi in più, rispetto a quelli poi effettivamente vissuti (Cass. 18/09/2008, n. 23846).

Ciò comporta che, quando sia stata fornita la dimostrazione, anche in via presuntiva e di calcolo probabilistico, dell’esistenza di una chance di consecuzione di un vantaggio in relazione ad una determinata situazione giuridica, la perdita di tale chance è risarcibile come danno alla situazione giuridica di cui trattasi indipendentemente dalla dimostrazione che la concreta utilizzazione della chance avrebbe presuntivamente o probabilmente determinato la consecuzione del vantaggio, essendo sufficiente anche la sola possibilità di tale consecuzione. La idoneità della chance a determinare presuntivamente o probabilmente ovvero solo possibilmente la detta consecuzione è, viceversa, rilevante, soltanto ai fini della concreta individuazione e quantificazione del danno, da effettuarsi eventualmente in via equitativa, posto che nel primo caso il valore della chance è certamente maggiore che nel secondo e, quindi, lo è il danno per la sua perdita, che, del resto, in presenza di una possibilità potrà anche essere escluso, all’esito di una valutazione in concreto della prossimità della chance rispetto alla consecuzione del risultato e della sua idoneità ad assicurarla.

7.2. Nella fattispecie la questione in termini di perdita di chance, inteso come risultato utile possibile, va ritenuta non affetta da inammissibilità, conseguente alla novità della stessa in questa sede di legittimità.
Infatti può superarsi la tesi secondo cui esito positivo probabile e possibilità di tale esito costituiscano oggetto di pretese risarcitorie diverse ed accedere ad un risultato per cui probabilità di esito favorevole dell’intervento medico e la sua sola possibilità non siano che gradazioni di una stessa affermazione di pregiudizio, risentito a causa dell’omissione colposa del comportamento dovuto.

Ciò comporta optare, nelle situazioni caratterizzate dal più probabile che non, ma anche da una non eliminabile porzione di incertezza, per una applicazione generalizzata degli esiti della tecnica risarcitoria della chance e quindi nel senso di distribuire il peso del danno tra le parti in misura proporzionale all’apporto causale della colpa e dei fattori di rischio presenti nel paziente (cfr. Cass. 16.1.2009, n. 975).

Ritenuta la richiesta del risarcimento del danno da perdita di chance come riduzione dell’originaria domanda di risarcimento dell’intero pregiudizio assunto, da una parte essa non determina una mutatio libelli e dall’altra tale riduzione può essere effettuata direttamente anche dal giudice, pur in difetto di esplicita richiesta della parte in tal senso riduttiva (cfr. Cass. 21/02/2007, n. 4003).

7.2.Sennonché nella fattispecie la corte ha escluso sulla base delle conclusioni dei vari consulenti tecnici, che la tempestiva diagnosi tumorale abbia comportato con l’apprestamento di una terapia diversa da quella del follow-up e segnatamente quella chemioterapica, la possibilità per la sig.ra G. di avere un qualche miglioramento apprezzabile di durata o qualità della vita. Con ciò è esclusa in fatto l’avvenuta perdita di chance.

  1. Con il terzo motivo di ricorso il ricorrente lamenta ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., la violazione degli artt. 112, 113, 115, 116 c.p.c., per omessa motivazione sul punto relativo all’esclusione della colpa nella condotta del medico.
  2. Il motivo è inammissibile.
    Infatti la domanda (e quindi l’appello) è stato rigettato per mancanza di nesso causale tra la condotta omissiva e l’evento e non per difetto dell’elemento psicologico colposo dalla dr. B.P. , nell’esecuzione dell’esame e diagnosi istologica. La consolidata giurisprudenza di questa Corte ha, infatti, statuito che la proposizione, con il ricorso per cassazione, di censure prive di specifiche attinenze al “decisum” della sentenza impugnata è assimilabile alla mancata enunciazione dei motivi richiesti dall’art. 366 c.p.c., n. 4, con conseguente inammissibilità del ricorso, rilevabile anche d’ufficio (ex multis, Cass. 07/11/2005, n. 21490; Cass. 24/02/2004, n. 3612; Cass. 23/05/2001, n. 7C46). L’inconferenza del motivo comporta che l’eventuale accoglimento della censura risulta comunque privo di rilevanza nella fattispecie, in quanto inidoneo a risolvere la questione decisa con la sentenza impugnata (Cass. Sez. Unite, 12/05/2008, n.11650).
    10. Con il ricorso incidentale la ricorrente P..B. lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 116, 106, 167, 269 c.p.c. e la tardività ed inammissibilità dell’estensione del contraddittorio da parte degli eredi dell’attrice nei confronti della chiamata dr. B.
    Secondo la ricorrente incidentale nel caso in cui il convenuto chiami in causa un terzo (come nella fattispecie è avvenuto nei suoi riguardi), senza domandare direttamente la condanna di questi nei confronti dell’attore, tale domanda può essere qualificata di garanzia impropria, per cui l’estensione del contraddittorio che l’attore faccia per provocare la condanna del terzo direttamente nei suoi confronti nella memoria ex art. 183 c.p.c., va considerata tardiva.
  3. Il motivo è infondato.
    Allorquando — come nella specie — il convenuto chiami in causa un terzo, assumendo che questi, e non lui, è il soggetto tenuto a rispondere della pretesa dell’attore, la domanda di quest’ultimo, amene in mancanza di espressa istanza, si intende automaticamente estesa al terzo in quanto si tratta di individuare il vero responsabile, nel quadro di un rapporto oggettivamente unico; con l’effetto del determinarsi di un ampliamento della controversia originaria, sia in senso oggettivo – perché la nuova obbligazione dedotta dal convenuto viene ad inserirsi nel tema della controversia, in via alternativa con quella che l’attore ha assunto a caricò del convenuto — sia in senso soggettivo, perché il terzo chiamato in causa diventa un’altra parte di quella controversia e viene a trovarsi con il convenuto in una situazione tipica di litisconsorzio alternativo (cfr. ex plurimis, Cass. 14.3.2008, n. 6883; 21.3. 2003, n. 4145).
  4. I ricorsi vanno pertanto rigettati. Stante la reciproca soccombenza va disposta la compensazione delle spese processuali di entrambe le difese.
    P .Q.M.
    Riunisce i ricorsi e li rigetta. Compensa le spese del giudizio di cassazione

Per quanto concerne la responsabilità della struttura sanitaria nei confronti del paziente è irrilevante che si tratti di una casa di cura privata o di un ospedale pubblico in quanto sostanzialmente equivalenti sono a livello normativo gli obblighi dei due tipi di strutture verso il fruitore dei servizi, ed anche nella giurisprudenza si riscontra una equiparazione completa della struttura privata a quella pubblica quanto al regime della responsabilità civile anche in considerazione del fatto che si tratta di violazioni che incidono sul bene della salute, tutelato quale diritto fondamentale dalla Costituzione, senza possibilità di limitazioni di responsabilità o differenze risarcitorie a seconda della diversa natura, pubblica o privata, della struttura sanitaria (Cass. 25.2.2005, n. 4058).

Questa Corte ha costantemente inquadrato la responsabilità della struttura sanitaria nella responsabilità contrattuale, sul rilievo che l’accettazione del paziente in ospedale, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto (Cass. n. 1698 del 2006; Cass. n. 9085 del 2006; Cass. 28.5.2004, n. 10297; Cass. 11 marzo 2002, n. 3492; 14 luglio 2003, n. 11001; Cass. 21 luglio 2003, n. 11316).

A sua volta anche l’obbligazione del medico dipendente dalla struttura sanitaria nei confronti del paziente, ancorché non fondata sul contratto, ma sul “contatto sociale”, ha natura contrattuale (Cass. 22 dicembre 1999, n. 589; Cass. 29.9.2004, n. 19564; Cass. 21.6.2004, n. 11488; Cass. n. 9085 del 2006).

 

 

 

  1. In tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell’onere probatorio, l’attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare il contratto (o il contatto sociale) e l’aggravamento della patologia o l’insorgenza di un’affezione ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato.
  1. Competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante.

 

 

 

  1. B) I verbali della Commissione medico-ospedaliera di cui all’art. 4 della L n. 210/1992 fanno prova, ex art. 2700 c.c., dei fatti che la commissione attesta essere avvenuti in sua presenza, o essere stati dalla stessa compiuti, mentre le valutazioni, le diagnosi o comunque le manifestazioni di scienza o di opinione in essi contenute costituiscono materiale indiziario soggetto al libero apprezzamento del giudice, il quale può valutarne l’importanza ai fini della prova, ma non può mai attribuire a loro il valore di vero e proprio accertamento.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Sentenza 11 gennaio 2008, n. 577

(Pres. Carbone – est. Segreto)

Motivi della decisione

  1. La causa è stata rimessa alle Sezioni Unite, presentando questioni di massima di particolare importanza relative: alla responsabilità della struttura sanitaria nei confronti del paziente; alla ripartizione dell’onere probatorio in materia di responsabilità medica.

Con l’unico motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cc., la violazione degli artt. 113 e 115 c.p.c. ed il vizio di motivazione, a norma degli art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.

Assume il ricorrente che erratamente la corte di appello non ha preso in esame la documentazione prodotta in appello e relativa agli accertamenti sanitari effettuati nel maggio N., da cui risultava che non era affetto da epatite.

Lamenta poi il ricorrente che erratamente la sentenza impugnata ha ritenuto che fosse onere di esso attore provare il nesso causale tra emotrasfusione e l’epatite C di cui soffriva, nonché provare che esso attore non fosse già portatore di tale malattia al momento del ricovero. 2.11 motivo va accolto nei termini che seguono.

E’ infondata la censura secondo cui erratamente il giudice di appello non ha tenuto conto della documentazione sanitaria esibita in grado di appello e relativa al suo stato di salute precedentemente al ricovero, trattandosi di prove precostituite.

Come queste S.U. hanno già statuito, nel rito ordinario, con riguardo alla produzione di nuovi documenti in grado di appello, l’art. 345 c.p.c, terzo comma, va interpretato nel senso che esso fissa sul piano generale il principio della inammissibilità di mezzi di prova “nuovi” – la cui ammissione, cioè, non sia stata richiesta in precedenza – e, quindi, anche delle produzioni documentali, indicando nello stesso tempo i limiti di tale regola, con il porre in via alternativa i requisiti che tali documenti, al pari degli altri mezzi di prova, devono presentare per poter trovare ingresso in sede di gravame (sempre che essi siano prodotti, a pena di decadenza, mediante specifica indicazione degli stessi nell’atto introduttivo del giudizio di secondo grado, a meno che la loro formazione non sia successiva e la loro produzione non sia stata resa necessaria in ragione dello sviluppo assunto dal processo): requisiti consistenti nella dimostrazione che le parti non abbiano potuto proporli prima per cause a esse non imputabili, ovvero nel convincimento del giudice della indispensabilità degli stessi per la decisione. Peraltro, nel rito ordinario, risultando il ruolo del giudice nell’impulso del processo meno incisivo che nel rito del lavoro, l’ammissione di nuovi mezzi di prova ritenuti indispensabili non può comunque prescindere dalla richiesta delle parti (Cass. Sez. Unite, 20/04/2005, n. 8203).

3.1. Sono invece fondate le altre censure sollevate nel motivo di ricorso.

Per quanto concerne la responsabilità della struttura sanitaria nei confronti del paziente è irrilevante che si tratti di una casa di cura privata o di un ospedale pubblico in quanto sostanzialmente equivalenti sono a livello normativo gli obblighi dei due tipi di strutture verso il fruitore dei servizi, ed anche nella giurisprudenza si riscontra una equiparazione completa della struttura privata a quella pubblica quanto al regime della responsabilità civile anche in considerazione del fatto che si tratta di violazioni che incidono sul bene della salute, tutelato quale diritto fondamentale dalla Costituzione, senza possibilità di limitazioni di responsabilità o differenze risarcitorie a seconda della diversa natura, pubblica o privata, della struttura sanitaria (Cass. 25.2.2005, n. 4058).

Questa Corte ha costantemente inquadrato la responsabilità della struttura sanitaria nella responsabilità contrattuale, sul rilievo che l’accettazione del paziente in ospedale, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto (Cass. n. 1698 del 2006; Cass. n. 9085 del 2006; Cass. 28.5.2004, n. 10297; Cass. 11 marzo 2002, n. 3492; 14 luglio 2003, n. 11001; Cass. 21 luglio 2003, n. 11316).

A sua volta anche l’obbligazione del medico dipendente dalla struttura sanitaria nei confronti del paziente, ancorché non fondata sul contratto, ma sul “contatto sociale”, ha natura contrattuale (Cass. 22 dicembre 1999, n. 589; Cass. 29.9.2004, n. 19564; Cass. 21.6.2004, n. 11488; Cass. n. 9085 del 2006).

3.2. Per diverso tempo tale legame contrattuale è stato interpretato e disciplinato sulla base dell’applicazione analogica al rapporto paziente-struttura delle norme in materia di contratto di prestazione d’opera intellettuale vigenti nel rapporto medico-paziente, con il conseguente e riduttivo appiattimento della responsabilità della struttura su quella del medico. Da ciò derivava che il presupposto per l’affermazione della responsabilità contrattuale della struttura fosse l’accertamento di un comportamento colposo del medico operante presso la stessa.

Più recentemente, invece, dalla giurisprudenza il suddetto rapporto è stato riconsiderato in termini autonomi dal rapporto paziente-medico, e riqualificato come un autonomo ed atipico contratto a prestazioni corrispettive (da taluni definito contratto di spedalità, da altri contratto di assistenza sanitaria) al quale si applicano le regole ordinarie sull’inadempimento fissate dall’art. 1218 c.c..

Da ciò consegue l’apertura a forme di responsabilità autonome dell’ente, che prescindono dall’accertamento di una condotta negligente dei singoli operatori, e trovano invece la propria fonte nell’inadempimento delle obbligazioni direttamente riferibili all’ente. Questo percorso interpretativo, anticipato dalla giurisprudenza di merito, ha trovato conferma in una sentenza di queste Sezioni Unite (1.7.2002, n. 9556, seguita poi da altre delle sezioni semplici, Cass. n. 571 del 2005; Cass. n. 1698 del 2006) che si è espressa in favore di una lettura del rapporto tra paziente e struttura (anche in quel caso, privata) che valorizzi la complessità e l’atipicità del legame che si instaura, che va ben oltre la fornitura di prestazioni alberghiere, comprendendo anche la messa a disposizione di personale medico ausiliario, paramedico, l’apprestamento di medicinali e di tutte le attrezzature necessarie anche per eventuali complicazioni. In virtù del contratto, la struttura deve quindi fornire al paziente una prestazione assai articolata, definita genericamente di “assistenza sanitaria”, che ingloba al suo interno, oltre alla prestazione principale medica, anche una serie di obblighi cd. di protezione ed accessori.

3.3. Così ricondotta la responsabilità della struttura ad un autonomo contratto (di spedalità), la sua responsabilità per inadempimento si muove sulle linee tracciate dall’art. 1218 c.c., e, per quanto concerne le obbligazioni mediche che essa svolge per il tramite dei medici propri ausiliari, l’individuazione del fondamento di responsabilità dell’ente nell’inadempimento di obblighi propri della struttura consente quindi di abbandonare il richiamo, alquanto artificioso, alla disciplina del contratto d’opera professionale e di fondare semmai la responsabilità dell’ente per fatto del dipendente sulla base dell’art. 1228 c.c..

3.4. Questa ricostruzione del rapporto struttura – paziente va condivisa e confermata.

Ciò comporta che si può avere una responsabilità contrattuale della struttura verso il paziente danneggiato non solo per il fatto del personale medico dipendente, ma anche del personale ausiliario, nonché della struttura stessa (insufficiente o inidonea organizzazione).

Dalla ricostruzione in termini autonomi del rapporto struttura-paziente rispetto al rapporto paziente-medico, discendono importanti conseguenze sul piano della affermazione di responsabilità in primo luogo, ed anche sul piano della ripartizione e del contenuto degli oneri probatori. Infatti, sul piano della responsabilità, ove si ritenga sussistente un contratto di spedalità tra clinica e paziente, la responsabilità della clinica prescinde dalla responsabilità o dall’eventuale mancanza di responsabilità del medico in ordine all’esito infausto di un intervento o al sorgere di un danno che, come nel caso di specie, non ha connessione diretta con l’esito dell’intervento chirurgico.

Non assume, in particolare, più rilevanza, ai fini della individuazione della natura della responsabilità della struttura sanitaria se il paziente si sia rivolto direttamente ad una struttura sanitaria del SSN, o convenzionata, oppure ad una struttura privata o se, invece, si sia rivolto ad un medico di fiducia che ha effettuato l’intervento presso una struttura privata. In tutti i predetti casi è ipotizzabile la responsabilità contrattuale dell’Ente.

4.1. Inquadrata nell’ambito contrattuale la responsabilità della struttura sanitaria e del medico, nel rapporto con il paziente, il problema del riparto dell’onere probatorio deve seguire i criteri fissati in materia contrattuale, alla luce del principio enunciato in termini generali dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza 30 ottobre 2001, n. 13533, in tema di onere della prova dell’inadempimento e dell’inesatto adempimento.

Le Sezioni Unite, nel risolvere un contrasto di giurisprudenza tra le sezioni semplici, hanno enunciato il principio – condiviso da questo Collegio – secondo cui il creditore che agisce per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo, costituito dall’avvenuto adempimento.

Analogo principio è stato enunciato con riguardo all’inesatto adempimento, rilevando che al creditore istante è sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell’obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto, esatto adempimento.

4.2. La giurisprudenza delle sezioni semplici di questa Corte, applicando questo principio all’onere della prova nelle cause di responsabilità professionale del medico ha ritenuto che gravasse sull’attore (paziente danneggiato che agisce in giudizio deducendo l’inesatto adempimento della prestazione sanitaria) oltre alla prova del contratto, anche quella dell’aggravamento della situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie nonché la prova del nesso di causalità tra l’azione o l’omissione del debitore e tale evento dannoso, allegando il solo inadempimento del sanitario. Resta a carico del debitore l’onere di provare l’esatto adempimento, cioè di aver tenuto un comportamento diligente (Cass. n. 12362 del 2006; Cass. 11.11.2005, n. 22894; Cass. 28.5.2004, n. 10297; Cass. 3.8.2004, n. 14812).

4.3. Il punto relativo alla prova del nesso di causalità non può essere condiviso, nei termini in cui è stato enunciato, poiché esso risente implicitamente della distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato, che se può avere una funzione descrittiva, è dogmaticamente superata, quanto meno in tema di riparto dell’onere probatorio dalla predetta sentenza delle S.U. n. 13533/2001 (vedasi anche S.U. 28.7.2005, n. 15781).

5.1. La dottrina ha assunto posizioni critiche sull’utilizzo della distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato, la quale, ancorché operante soltanto all’interno della categoria delle obbligazioni di fare (a differenza che in Francia dove rappresenta una summa divisio valida per tutte le obbligazioni), ha originato contrasti sia in ordine all’oggetto o contenuto dell’obbligazione, sia in relazione all’onere della prova e, quindi, in definitiva, allo stesso fondamento della responsabilità del professionista.

Come insegna la definizione tradizionale, nelle obbligazioni di mezzi la prestazione dovuta prescinde da un particolare esito positivo dell’attività del debitore, che adempie esattamente ove svolga l’attività richiesta nel modo dovuto.

In tali obbligazioni è il comportamento del debitore ad essere in obbligazione, nel senso che la diligenza è tendenzialmente considerata quale criterio determinativo del contenuto del vincolo, con l’ulteriore corollario che il risultato è caratterizzato dall’aleatorietà, perché dipende, oltre che dal comportamento del debitore, da altri fattori esterni oggettivi o soggettivi.

Nelle obbligazioni di risultato, invece, ciò che importa è il conseguimento del risultato stesso, essendo indifferente il mezzo utilizzato per raggiungerlo. La diligenza opera solo come parametro, ovvero come criterio di controllo e valutazione del comportamento del debitore: in altri termini, è il risultato cui mira il creditore, e non il comportamento, ad essere direttamente in obbligazione.

5.2. Tale impostazione non è immune da profili problematici, specialmente se applicata proprio alle ipotesi di prestazione d’opera intellettuale, in considerazione della struttura stessa del rapporto obbligatorio e tenendo conto, altresì, che un risultato è dovuto in tutte le obbligazioni.

In realtà, in ogni obbligazione si richiede la compresenza sia del comportamento del debitore che del risultato, anche se in proporzione variabile, sicché molti Autori criticano la distinzione poiché in ciascuna obbligazione assumono rilievo così il risultato pratico da raggiungere attraverso il vincolo, come l’impegno che il debitore deve porre per ottenerlo.

5.3. Dalla casistica giurisprudenziale emergono spunti interessanti in ordine alla dicotomia tra obbligazione di mezzi e di risultato, spesso utilizzata al fine di risolvere problemi di ordine pratico, quali la distribuzione dell’onere della prova e l’individuazione del contenuto dell’obbligo, ai fini del giudizio di responsabilità, operandosi non di rado, per ampliare la responsabilità contrattuale del professionista, una sorta di metamorfosi dell’obbligazione di mezzi in quella di risultato, attraverso l’individuazione di doveri di informazione e di avviso (cfr. segnatamente, per quanto riguarda la responsabilità professionale del medico: Cass. 19.5.2004, n. 9471), definiti accessori ma integrativi rispetto all’obbligo primario della prestazione, ed ancorati a principi di buona fede, quali obblighi di protezione, indispensabili per il corretto adempimento della prestazione professionale in senso proprio.

5.4. Sotto il profilo dell’onere della prova, la distinzione (talvolta costruita con prevalente attenzione alla responsabilità dei professionisti intellettuali e dei medici in particolare) veniva utilizzata per sostenere che mentre nelle obbligazioni di mezzi, essendo aleatorio il risultato, sul creditore incombesse l’onere della prova che il mancato risultato era dipeso da scarsa diligenza, nelle obbligazioni di risultato, invece, sul debitore incombeva l’onere della prova che il mancato risultato era dipeso da causa a lui non imputabile.

5.5. Ma anche sotto tale profilo la distinzione è stata sottoposta a revisione sia da parte della giurisprudenza che della dottrina.

Infatti, come detto, questa Corte (sent. n. 13533/2001) ha affermato che il meccanismo di ripartizione dell’onere della prova ai sensi dell’art. 2697 c.c. in materia di responsabilità contrattuale (in conformità a criteri di ragionevolezza per identità di situazioni probatorie, di riferibilità in concreto dell’onere probatorio alla sfera di azione dei singoli soggetti e di distinzione strutturale tra responsabilità contrattuale e da fatto illecito) è identico, sia che il creditore agisca per l’adempimento dell’obbligazione, ex art. 1453 cc., sia che domandi il risarcimento per l’inadempimento contrattuale, ex art. 1218 cc., senza richiamarsi in alcun modo alla distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato.

  • 6.1. Prestata piena adesione al principio espresso dalla pronunzia suddetta, ritengono queste S.U. che l’inadempimento rilevante nell’ambito dell’azione di responsabilità per risarcimento del danno nelle obbligazioni così dette di comportamento non è qualunque inadempimento, ma solo quello che costituisce causa (o concausa) efficiente del danno.
  • Ciò comporta che l’allegazione del creditore non può attenere ad un inadempimento, qualunque esso sia, ma ad un inadempimento, per così dire, qualificato, e cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno.
  • Competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è proprio stato ovvero che, pur esistendo, non è stato nella fattispecie causa del danno.
  • 6.2. Nella fattispecie, quindi, avendo l’attore provato il contratto relativo alla prestazione sanitaria (ed il punto non è in contestazione) ed il danno assunto (epatite), allegando che i convenuti erano inadempienti avendolo sottoposto ad emotrasfusione con sangue infetto, competeva ai convenuti fornire la prova che tale inadempimento non vi era stato, poiché non era stata effettuata una trasfusione con sangue infetto, oppure che, pur esistendo l’inadempimento, esso non era eziologicamente rilevante nell’azione risarcitoria proposta, per una qualunque ragione, tra cui quella addotta dell’affezione patologica già in atto al momento del ricovero.
  • 7.1. Per quanto concerne, in particolare, l’ipotesi del contagio da emotrasfusione eseguita all’interno della struttura sanitaria, gli obblighi a carico della struttura ai fini della declaratoria della sua responsabilità, vanno posti in relazione sia agli obblighi normativi esistenti al tempo dell’intervento e relativi alle trasfusioni di sangue, quali quelli relativi alla identificabilità del donatore e del centro trasfusionale di provenienza (cd. tracciabilità del sangue) che agli obblighi più generali di cui all’art. 1176 cc. nell’esecuzione delle prestazioni che il medico o la struttura possono aver violato nella singola fattispecie.
  • 7.2. Ne consegue che la sentenza impugnata, la quale ha posto a carico del paziente (creditore) la prova che al momento del ricovero esso non fosse già affetto da epatite, ha violato i principi in tema di riparto dell’onere probatorio, fissati in tema di azione per il risarcimento del danno da inadempimento contrattuale.
  • 8.1. Tale dato relativo alle patologie in corso, peraltro, doveva già emergere dai dati anamnestici prossimi e dagli accertamenti ematici di laboratorio, cui il paziente doveva essere sottoposto prima dell’intervento chirurgico e della trasfusione; dati che dovevano essere riportati sulla cartella clinica.
  • A tal fine va condiviso l’orientamento giurisprudenziale (Cass. 21.7.2003, n. 11316; Cass. 23.9.2004, n. 19133), secondo cui la difettosa tenuta della cartella clinica naturalmente non vale ad escludere la sussistenza del nesso eziologico tra la colposa condotta dei medici e la patologia accertata, ove risulti provata la idoneità di tale condotta a provocarla, ma consente anzi il ricorso alle presunzioni, come avviene in ogni caso in cui la prova non possa essere data per un comportamento ascrivibile alla stessa parte contro la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato, nel quadro dei principi in ordine alla distribuzione dell’onere della prova ed al rilievo che assume a tal fine la “vicinanza alla prova”, e cioè la effettiva possibilità per l’una o per l’altra parte di offrirla.
  • 8.2. Quanto al valore probatorio del verbale della Commissione medico-ospedaliera di Chieti, va osservato che trattasi della Commissione di cui all’art. 4 della legge n. 210 del 1992, composta da ufficiali medici ed istituita presso ospedali militari, ai fini dell’indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazione di emoderivati.

L’art. 4 statuisce che: “1. Il giudizio sanitario sul nesso causale tra la vaccinazione, la trasfusione, la somministrazione di emoderivati, il contatto con il sangue e derivati in occasione di attività di servizio e la menomazione dell’integrità psico-fisica o la morte è espresso dalla commissione medico-ospedaliera di cui all’art 165 del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092.

  1. La commissione medico-ospedaliera redige un verbale degli accertamenti eseguiti e formula il giudizio diagnostico sulle infermità e sulle lesioni riscontrate.
  2. La commissione medico-ospedaliera esprime il proprio parere sul nesso causale tra le infermità o le lesioni e la vaccinazione, la trasfusione, la somministrazione di emoderivati, il contatto con il sangue e derivati in occasione di attività di servizio”.

8.3. Al di fuori del procedimento amministrativo per la concessione dell’indennizzo di cui alla legge, tali verbali hanno lo stesso valore di qualunque altro verbale redatto da un pubblico ufficiale fuori dal giudizio civile ed in questo prodotto. Pertanto essi fanno prova, ex art. 2700 c.c., dei fatti che la commissione attesta essere avvenuti in sua presenza, o essere stati dalla stessa compiuti, mentre le valutazioni, le diagnosi o comunque le manifestazioni di scienza o di opinione in essi contenute costituiscono materiale indiziario soggetto al libero apprezzamento del giudice, il quale può valutarne l’importanza ai fini della prova, ma non può mai attribuire a loro il valore di vero e proprio accertamento (Cass. 20/07/2004, n. 13449; Cass. 25/06/2003, n. 10128; Cass. 25/06/2003, n. 10128; Cass. 12/05/2003, n. 7201).

9.1. Infondata è l’eccezione di carenza di legittimazione passiva avanzata dai resistenti eredi T., sotto il profilo che il de cuius dr. G.T. non poteva essere tenuto ad un controllo sulla qualità dei campioni di sangue trasfuso.

L’istituto della legittimazione ad agire o a contraddire il giudizio (legittimazione attiva o passiva) si ricollega al principio dettato dall’art. 81 c.p.c., secondo cui nessuno può far valere nel processo un diritto altrui in nome proprio fuori dei casi espressamente previsti dalla legge e comporta – trattandosi di materia attinente al contraddittorio e mirandosi a prevenire una sentenza “inutiliter data” – la verifica, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del processo (salvo che sulla questione sia intervenuto il giudicato interno) e in via preliminare al merito (con eventuale pronuncia di inammissibilità della domanda), circa la coincidenza dell’attore e del convenuto con i soggetti che, secondo la legge che regola il rapporto dedotto in giudizio, sono destinatati degli effetti della pronuncia richiesta. Dalla questione relativa alla legittimazione si distingue quella relativa alla effettiva titolarità del rapporto giuridico dedotto in causa, che non può essere rilevata d’ufficio dal giudice dell’impugnazione in difetto di specifico gravame. (cfr. Cass. 17.7.2002, n. 10388; Cass. 27/10/1995, n. 11190).

Nella fattispecie l’eccezione, così come prospettata, attiene non alla legittimazione passiva ma alla titolarità passiva del rapporto dedotto in giudizio. Ciò comporta che la questione non possa essere rilevata d’ufficio da questo Collegio.

9.2. Ove sul punto si fosse pronunziato il giudice di appello, affermando tale titolarità passiva, pur rigettando poi l’appello per altre ragioni, la questione poteva essere proposta con ricorso incidentale condizionato.

Non essendosi il giudice pronunziato, e quindi non essendoci sul punto una soccombenza per quanto virtuale, la questione non avrebbe potuto essere proposta a questa Corte con impugnazione incidentale, ma l’accoglimento del ricorso principale comporta la possibilità di riesame nel giudizio di rinvio di detta eccezione (Cass. 20/08/2003, n. 12219).

10 In definitiva va accolto il ricorso nei termini suddetti; va cassata,in relazione, l’impugnata sentenza e la causa va rinviata, anche per le spese del giudizio di cassazione, ad altra sezione della corte di appello di Roma, che si uniformerà ai seguenti principi di diritto:

  1. A) In tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell’onere probatorio, l’attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare il contratto (o il contatto sociale) e l’aggravamento della patologia o l’insorgenza di un’affezione ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato.

Competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante.

  1. B) I verbali della Commissione medico-ospedaliera di cui all’art. 4 della L n. 210/1992 fanno prova, ex art. 2700 c.c., dei fatti che la commissione attesta essere avvenuti in sua presenza, o essere stati dalla stessa compiuti, mentre le valutazioni, le diagnosi o comunque le manifestazioni di scienza o di opinione in essi contenute costituiscono materiale indiziario soggetto al libero apprezzamento del giudice, il quale può valutarne l’importanza ai fini della prova, ma non può mai attribuire a loro il valore di vero e proprio accertamento.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione. Cassa l’impugnata sentenza e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di cassazione, ad altra sezione della Corte di appello di Roma.

  • E’ il caso di aggiungere, per puro spirito di completezza, che la giurisprudenza di questa Corte, alla quale il collegio intende dare continuita’, pacificamente ritiene che, in via di principio, pur quando manchi un rapporto di subordinazione o di collaborazione tra clinica e sanitario, sussiste comunque un collegamento tra i due contratti stipulati, l’uno tra il medico ed il paziente, e l’altro, tra il paziente e la Casa di cura, contratti aventi ad oggetto, il primo, prestazioni di natura professionale medica, comportanti l’obbligo di abile e diligente espletamento dell’attivita’ professionale (e, a volte, anche di raggiungimento di un determinato risultato) e, il secondo, prestazione di servizi accessori di natura alberghiera, di natura infermieristica ovvero aventi ad oggetto la concessione in godimento di macchinari sanitari, di attrezzi e di strutture edilizie specificamente destinate allo svolgimento di attivita’ terapeutiche e/o chirurgiche.
  • Trattasi di collegamento, per cosi’ ontologico, che dal piano fattuale assume inevitabilmente rilevanza su quello giuridico, posto che di norma, l’individuazione della Casa di cura dove il medico eseguira’ la prestazione promessa costituisce parte fondamentale del contenuto del contratto stipulato tra il paziente e il professionista, nel senso che ciascun medico opera esclusivamente presso determinate cliniche e che, a sua volta, ciascuna Casa di cura accetta solo i pazienti curati da determinati medici (confr. Cass. civ. 14 giugno 2007, n. 13953).
  • Ne deriva che deve ritenersi consustanziale al dovere di diligente espletamento della prestazione l’obbligo del medico di accertarsi preventivamente che la Casa di cura dove si appresta a operare sia pienamente idonea, sotto ogni profilo, ad offrire tutto cio’ che serve per il sicuro e ottimale espletamento della propria attivita’; cosi’ come, reciprocamente la Casa di cura e’ obbligata a vigilare che chi si avvale della sua organizzazione sia abilitato all’esercizio della professione medica in generale e, in particolare, al compimento della specifica prestazione di volta in volta richiesta nel caso concreto. E tanto in applicazione del principio generale di cui all’articolo 1228 c.c., il quale comporta che il medico, come ogni debitore, e’ responsabile dell’operato dei terzi della cui attivita’ si avvale, cosi’ come la struttura risponde non solo dell’inadempimento delle obbligazioni su di essa tout court incombenti, ma anche dell’inadempimento della prestazione svolta dal sanitario, quale ausiliario necessario dell’organizzazione aziendale (confr. Cass. civ. 26 giugno 2012, n. 10616; Cass. civ. 6 giugno 2014, n. 12833; Cass. civ. 14 giugno 2007, n. 13953).
  • Ne consegue che correttamente il convenuto e’ stato condannato a rifondere tutti i danni subiti dagli attori.

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 13 gennaio 2015, n. 280

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETTI Giovanni B. – Presidente

Dott. AMENDOLA Adelaide – rel. Consigliere

Dott. AMBROSIO Annamaria – Consigliere

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 8955/2013 proposto da:

(OMISSIS) (OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentato e difeso dall’avvocato (OMISSIS) giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

(OMISSIS) e (OMISSIS) in proprio e nella qualita’ di esercenti la potesta’ e tutori del figlio (OMISSIS), elettivamente domiciliati in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentati e difesi dall’avvocato (OMISSIS) giusta procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 232/2012 della CORTE D’APPELLO di SALERNO, depositata il 28/02/2012, R.G.N. 1305/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/10/2014 dal Consigliere Dott. ADELAIDE AMENDOLA;

udito l’Avvocato (OMISSIS);

udito l’Avvocato (OMISSIS) per delega;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. VELARDI Maurizio, che ha concluso per l’inammissibilita’ in subordine per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

In data (OMISSIS), giunta al termine della gravidanza, (OMISSIS) venne ricoverata, su indicazione del Dott. (OMISSIS), che l’aveva seguita durante la gestazione, presso la Casa di Cura (OMISSIS). All’esito del travaglio, risultati vani i numerosi tentativi di espulsione naturale del feto, non essendo piu’ praticabile il taglio cesareo, il ginecologo, alle ore 19.30 del (OMISSIS), provvide a estrarre il bambino facendo uso del forcipe.

Il neonato, manifestando sintomi di sofferenza perinatale, venne trasferito la sera stessa della nascita all’ospedale di (OMISSIS), dove fu formulata diagnosi di emorragia endocranica da parto distocico.

Deducendo che il figlio, a causa dell’imperizia del sanitario, era affetto da tetraparesi spastica, microcefalia e ritardo motorio, (OMISSIS) e (OMISSIS), in proprio e quali esercenti la potesta’ genitoriale sul minore, convennero (OMISSIS) innanzi al Tribunale di Salerno, chiedendo il risarcimento dei danni subiti.

Resistette il convenuto.

Con sentenza del 1 luglio 2005 il giudice adito dichiaro’ il (OMISSIS) responsabile nella misura di un terzo dei pregiudizi lamentati dagli attori, per l’effetto condannandolo al pagamento in loro favore della somma di euro 375.000,00, oltre interessi e spese.

Proposto gravame principale dal (OMISSIS) e incidentale dalla (OMISSIS) e dal (OMISSIS), la Corte d’appello di Salerno, in data 26 febbraio 2012, in riforma della impugnata sentenza, ha condannato (OMISSIS) al pagamento, in favore di (OMISSIS) e di (OMISSIS), nella qualita’ di legali rappresentanti del figlio (OMISSIS), della somma di euro 434.000,00, nonche’ in favore degli stessi in proprio, della somma di euro 83.000,00 ciascuno, oltre accessori.

Per la cassazione di detta decisione ricorre a questa Corte (OMISSIS), formulando due motivi, illustrati anche da memoria.

Resistono con controricorso (OMISSIS) e (OMISSIS).

MOTIVI DELLA DECISIONE

1 Va preliminarmente dichiarata l’inammissibilita’ del controricorso per tardivita’.

E invero, a norma dell’articolo 370 c.p.c., la parte contro la quale il ricorso e’ diretto, se intende contraddire, deve farlo mediante controricorso da notificarsi al ricorrente nel domicilio eletto entro venti giorni dalla scadenza del termine stabilito per il deposito del ricorso. In mancanza di tale notificazione, essa non puo’ presentare memorie, ma soltanto partecipare alla discussione orale.

Orbene, nella fattispecie, a fronte di una notifica del ricorso intervenuta in data 29 marzo 2013, il controricorso e’ stato presentato per la notifica il 19 giugno successivo, ben oltre, dunque, il limite temporale massimo stabilito dalla norma processuale richiamata.

Cio’ nondimeno il difensore ha validamente partecipato alla discussione orale, posto che, in tema di giudizio di legittimita’, la procura speciale conferita dalla parte intimata con un controricorso inammissibile resta valida come atto di costituzione, consentendo al difensore della stessa di partecipare attivamente alla pubblica udienza (confr. Cass. civ. 28 maggio 2013, n. 13183).

2 Con il primo motivo l’impugnante denuncia violazione degli articoli 40 e 41 c.p., articoli 1176, 1218, 1223, 1226 e 1227 c.c., articoli 115 e 116 c.p.c., nonche’ mancanza, insufficienza e contraddittorieta’ della motivazione, ex articolo 360 c.p.c., nn. 3 e 5.

Oggetto delle critiche e’ l’affermazione del giudice di merito secondo cui la valutazione di una situazione di concorso tra cause naturali non imputabili e cause umane imputabili puo’ sfociare, alternativamente, o in un giudizio di responsabilita’ totale per l’autore della causa umana, o in un giudizio di totale assolvimento da ogni responsabilita’, con esclusione, dunque, di ogni possibilita’ di graduare percentualmente la responsabilita’ dell’autore della causa imputabile.

Tali argomentazioni – sostiene l’esponente – farebbero malgoverno della distinzione, ormai assurta a diritto vivente, tra causalita’ materiale e causalita’ giuridica: la prima, regolata dagli articoli 40 e 41 c.p., volta a imputare al responsabile l’evento lesivo; la seconda, regolata dall’articolo 1223 c.c., volta a stabilire l’entita’ delle conseguenze pregiudizievoli del fatto di cui deve rispondere l’autore.

3 Le critiche non hanno pregio.

Nel motivare il suo convincimento la Corte d’appello ha evidenziato come, sulla base degli argomentati rilievi degli ausiliari, l’errato impiego del forcipe dovesse ritenersi fattore causale essenziale nella eziologia della patologie che affliggevano il piccolo (OMISSIS), determinandone l’invalidita’ nella misura del 100%. Del resto – ha aggiunto – una volta allegata la responsabilita’ del ginecologo per il mancato espletamento del parto cesareo, malgrado la manifestatasi sofferenza fetale, sarebbe stato onere del convenuto dimostrare o che nessun rimprovero, di scarsa diligenza o imperizia, poteva essergli mosso, oppure che, pur essendovi stato inesatto adempimento, questo non aveva avuto alcuna incidenza nella produzione del danno, laddove tale prova non era stata fornita dal (OMISSIS). Quanto poi alla dedotta esistenza di un danno cerebrale prenatale, dello stesso, ad avviso della Corte, mancava ogni certezza, tenuto conto che il convenuto aveva fatto riferimento in maniera affatto generica a una non meglio specificata situazione congenita.

In ogni caso – ha concluso il decidente – anche a voler ritenere la sussistenza, nella sequela causale che aveva dato origine alla grave patologia da cui era affetto (OMISSIS), di un fattore prenatale, valeva pur sempre il principio per cui la valutazione del concorso tra cause naturali non imputabili e cause umane imputabili poteva sfociare, alternativamente, o in un giudizio di responsabilita’ totale per l’agente, o in un giudizio di totale assolvimento da ogni responsabilita’, a seconda che il giudice ritenesse o meno, la perdurante operativita’ del nesso di causalita’ tra la predetta causa umana e l’evento, essendo esclusa ogni possibilita’ di graduare percentualmente la responsabilita’ dell’autore del comportamento.

4 A fronte di tale corredo motivazionale, l’adesione del collegio all’affermazione secondo cui, in tema di responsabilita’ civile, qualora la produzione di un evento dannoso, quale una gravissima patologia, possa apparire riconducibile, sotto il profilo eziologico, alla concomitanza della condotta del sanitario e del fattore naturale rappresentato dalla pregressa situazione del danneggiato, il giudice deve accertare, sul piano della causalita’ materiale l’efficienza della condotta rispetto all’evento, in applicazione della regola di cui all’articolo 41 c.p., cosi’ da ascrivere il fatto dannoso interamente all’autore della stessa, per poi procedere, eventualmente anche con criteri equitativi, alla valutazione della diversa incidenza delle varie concause sul piano della causalita’ giuridica (confr. Cass. civ., 21 luglio 2011, n. 15991), non giova all’esponente in quanto, al postutto, il decidente ha escluso l’enucleabilita’ nella fattispecie di un danno cerebrale neonatale, in motivata adesione all’opinione espressa dai nominati esperti, i quali avevano precisato che l’origine delle affezioni di (OMISSIS) era da ascriversi al momento del travaglio.

Cio’ vuoi dire che la mancanza di ogni riferimento, nella sentenza impugnata, alla selezione delle conseguenze dannose ascrivibili al sanitario secondo i criteri della causalita’ giuridica, non concreta ne’ un errar in iudicando ne’ un vizio motivazionale, posto che l’omissione, quand’anche imputabile all’insufficiente approccio del giudice di merito con i principi che governano la materia, non ha influito sulla scelta decisoria adottata, avendo il decidente tout court escluso la sussistenza di un concorso tra fattori naturali e condotta del medico.

Peraltro l’impugnante, lungi dal censurare gli esiti dell’apprezzamento del giudice di merito in punto di riconducibilita’, in via esclusiva, alla condotta del sanitario, delle patologie di cui e’ portatore (OMISSIS), ha articolato le sue doglianze dando per scontato un presupposto che tale non era, e cioe’ l’incidenza di fattori naturali nell’eziologia delle stesse, il che connota le critiche in termini di aspecificita’.

5 Con il secondo mezzo il ricorrente lamenta violazione degli articoli 40 e 41 c.p., articoli 1218, 1223, 1226, 1228, 1292, 1294, 1314 e 1316 c.c., articoli 112, 115 e 116 c.p.c., nonche’ mancanza, insufficienza e contraddittorieta’ della motivazione, ex articolo 360 c.p.c., nn. 3 e 5.

Evidenzia che gli attori non avevano convenuto in giudizio la Casa di cura (OMISSIS), ritenendo il (OMISSIS) unico ed esclusivo responsabile di quanto accaduto. Sennonche’ tutti i periti nominati sia dal Tribunale che dalla Corte d’appello avevano affermato la corresponsabilita’ della Clinica per inadeguatezze strutturali e organizzative, rilevando che le stesse, secondo un giudizio necessariamente probabilistico, potevano avere compromesso, sia nella fase preparatoria del parto che in quella successiva, la salute del neonato. In tale contesto, secondo l’impugnante, erroneamente la Corte d’appello, non potendo pronunciarsi (anche) nei confronti della Casa di cura, in quanto non convenuta, aveva condannato il solo medico al risarcimento integrale dei danni subiti dagli istanti, in nome di un inesistente vincolo di solidarieta’ tra la sua obbligazione e quella della Clinica e in violazione del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

La statuizione ignorerebbe peraltro, sul piano sistematico, che l’articolo 2055 c.c., e’ norma dettata in tema di responsabilita’ extracontrattuale e non si estende a quella contrattuale.

Secondo l’esponente, in definitiva, la parziarieta’ dell’obbligazione risarcitoria incombente sul medico e sulla Clinica in conseguenza dell’inadempimento di due distinti contratti da essi rispettivamente conclusi con la (OMISSIS), doveva imporre che il risarcimento a carico del (OMISSIS) venisse diminuito della percentuale di responsabilita’ addebitabile alla Casa di cura.

6 Anche tali critiche non hanno fondamento.

Nel riformare la sentenza di prime cure che aveva quantificato nella misura di un terzo il livello di contribuzione della condotta del ginecologo nella produzione dell’evento lesivo, la Corte ha escluso che le inadeguatezze strutturali e organizzative del punto nascita potessero legittimare una graduazione di responsabilita’ di (OMISSIS). Ha ricordato in proposito che, per giurisprudenza consolidata, quando un medesimo danno e’ provocato da piu’ soggetti, per inadempimenti di contratti diversi, intercorsi rispettivamente tra ciascuno di essi e il danneggiato, tali soggetti debbono essere considerati corresponsabili in solido, non tanto sulla base dell’estensione alla responsabilita’ contrattuale del disposto dell’articolo 2055 c.c., quanto perche’, sia in tema di responsabilita’ contrattuale che di responsabilita’ extracontrattuale, se un unico evento dannoso e’ imputabile a piu’ persone, al fine di ritenere la responsabilita’ di tutte nell’obbligo risarcitorio, e’ sufficiente, in base ai principi che regolano il nesso di causalita’ e il concorso di piu’ cause nella produzione dell’evento, che le azioni od omissioni di ciascuno abbiano concorso in modo efficiente a produrlo. Conseguentemente – ha concluso – la persona danneggiata in conseguenza di un fatto dannoso imputabile a piu’ persone legate da un vincolo di solidarieta’, puo’ pretendere l’intero da una sola di esse, mentre la diversa gravita’ delle rispettive colpe e l’eventuale, diseguale efficienza causale delle loro condotte poteva avere rilevanza solo ai fini della ripartizione interna dell’obbligazione passiva di risarcimento dei corresponsabili.

Esaminando, nell’ambito di tale ricostruzione dogmatica, l’appello incidentale degli attori nella parte in cui era volto a contestare la graduazione di responsabilita’ del (OMISSIS) nei limiti di un terzo, la Corte lo ha ritenuto meritevole di accoglimento, evidenziando che le valutazioni in ordine alla pretesa inidoneita’ della struttura sanitaria erano state prospettate dagli esperti nominati dal Tribunale in via meramente ipotetica ed erano pertanto prive dei necessari requisiti di specificita’, mentre i consulenti nominati nel giudizio di gravame avevano individuato quali concause della patologia da cui era affetto (OMISSIS) solo l’ipossia e la cattiva utilizzazione del forcipe, escludendo il concorso di cause successive al parto.

7 Cio’ vuoi dire che, ferma l’operativita’ della presente decisione nei confronti delle sole parti in causa, la condanna del convenuto al pagamento dell’intero danno subito dagli attori e’ sorretta da due rationes decidendi, basate, l’una, sul carattere solidale dell’obbligazione risarcitoria in tesi gravante e sul medico e sulla clinica, l’altra sulla insussistenza, in concreto, di profili di responsabilita’ di quest’ultima.

Ora, il ricorrente ha del tutto ignorato i rilievi in ordine alla mancanza di presupposti per ravvisare nella pretesa inidoneita’ della struttura una concausa del danno, concentrandosi esclusivamente sulla natura parziaria della sua obbligazione.

In tale contesto le critiche non sfuggono alla sanzione dell’inammissibilita’, in applicazione del principio per cui, qualora la decisione di merito si fondi su di una pluralita’ di ragioni, tra loro distinte e autonome, singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, la ritenuta infondatezza delle censure mosse ad una di esse rende inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse, le censure relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime non potrebbero comunque condurre, stante l’intervenuta definitivita’ delle altre, alla cassazione della decisione stessa (confr. Cass. civ. sez. un. 29 marzo 2013, n. 7931; Cass. civ. 14 febbraio 2012, n. 2108).

8 E’ il caso di aggiungere, per puro spirito di completezza, che la giurisprudenza di questa Corte, alla quale il collegio intende dare continuita’, pacificamente ritiene che, in via di principio, pur quando manchi un rapporto di subordinazione o di collaborazione tra clinica e sanitario, sussiste comunque un collegamento tra i due contratti stipulati, l’uno tra il medico ed il paziente, e l’altro, tra il paziente e la Casa di cura, contratti aventi ad oggetto, il primo, prestazioni di natura professionale medica, comportanti l’obbligo di abile e diligente espletamento dell’attivita’ professionale (e, a volte, anche di raggiungimento di un determinato risultato) e, il secondo, prestazione di servizi accessori di natura alberghiera, di natura infermieristica ovvero aventi ad oggetto la concessione in godimento di macchinari sanitari, di attrezzi e di strutture edilizie specificamente destinate allo svolgimento di attivita’ terapeutiche e/o chirurgiche.

Trattasi di collegamento, per cosi’ ontologico, che dal piano fattuale assume inevitabilmente rilevanza su quello giuridico, posto che di norma, l’individuazione della Casa di cura dove il medico eseguira’ la prestazione promessa costituisce parte fondamentale del contenuto del contratto stipulato tra il paziente e il professionista, nel senso che ciascun medico opera esclusivamente presso determinate cliniche e che, a sua volta, ciascuna Casa di cura accetta solo i pazienti curati da determinati medici (confr. Cass. civ. 14 giugno 2007, n. 13953). Ne deriva che deve ritenersi consustanziale al dovere di diligente espletamento della prestazione l’obbligo del medico di accertarsi preventivamente che la Casa di cura dove si appresta a operare sia pienamente idonea, sotto ogni profilo, ad offrire tutto cio’ che serve per il sicuro e ottimale espletamento della propria attivita’; cosi’ come, reciprocamente la Casa di cura e’ obbligata a vigilare che chi si avvale della sua organizzazione sia abilitato all’esercizio della professione medica in generale e, in particolare, al compimento della specifica prestazione di volta in volta richiesta nel caso concreto. E tanto in applicazione del principio generale di cui all’articolo 1228 c.c., il quale comporta che il medico, come ogni debitore, e’ responsabile dell’operato dei terzi della cui attivita’ si avvale, cosi’ come la struttura risponde non solo dell’inadempimento delle obbligazioni su di essa tout court incombenti, ma anche dell’inadempimento della prestazione svolta dal sanitario, quale ausiliario necessario dell’organizzazione aziendale (confr. Cass. civ. 26 giugno 2012, n. 10616; Cass. civ. 6 giugno 2014, n. 12833; Cass. civ. 14 giugno 2007, n. 13953).

Ne consegue che correttamente il convenuto e’ stato condannato a rifondere tutti i danni subiti dagli attori.

9 In definitiva il ricorso deve essere integralmente rigettato. Segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.

La circostanza che il ricorso per cassazione e’ stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilita’ del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla Legge 24 dicembre 2012, n. 228, articolo 1, comma 17. Invero, in base al tenore letterale della disposizione, il rilevamento della sussistenza o meno dei presupposti per l’applicazione dell’ulteriore contributo unificato costituisce un atto dovuto, poiche’ l’obbligo di tale pagamento aggiuntivo non e’ collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo – ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione – del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, dell’impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell’ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio, liquidate in complessivi euro 8.000,00 (di cui euro 200,00 per esborsi), oltre accessori e spese generali, come per legge.

Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1-quater, da’ atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis

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ERRATA DIAGNOSI DEL MEEDICO ERRORE

 

 

 

La valutazione della colpa medica deve essere compiuta con speciale cautela nei casi in cui si richiedano interventi particolarmente delicati e complessi e che coinvolgano l’aspetto più squisitamente scientifico dell’arte medica. In particolare, un’attenta e prudente analisi della realtà di ciascun caso può consentire di distinguere i casi nei quali vi è una particolare difficoltà della diagnosi sovente accresciuta dall’urgenza, da quelle situazioni in cui, invece, il medico è malaccorto, non si adopera per fronteggiare adeguatamente l’urgenza o tiene comportamenti semplicemente omissivi, tanto più quando la sua specializzazione gli impone di agire tempestivamente proprio in urgenza”.

Art. 43. Elemento psicologico del reato

Il delitto: è doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione;

è preterintenzionale, o oltre l’intenzione, quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente;

è colposo, o contro l’intenzione quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.

La distinzione tra reato doloso e reato colposo, stabilita da questo articolo per i delitti, si applica altresì alle contravvenzioni, ogni qualvolta per queste la legge penale faccia dipendere da tale distinzione un qualsiasi effetto giuridico”.

Art. 589. Omicidio colposo

Chiunque cagiona per colpa la morte di una persona è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni.

Se il fatto è commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale o di quelle per la prevenzione degli infortuni sul lavoro la pena è della reclusione da due a sette anni.Si applica la pena della reclusione da tre a dieci anni se il fatto è commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale da:

1) soggetto in stato di ebbrezza alcolica ai sensi dell’articolo 186, comma 2, lettera c), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e successive modificazioni;

2) soggetto sotto l’effetto di sostanze stupefacenti o psicotrope.

Nel caso di morte di più persone, ovvero di morte di una o più persone e di lesioni di una o più persone, si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse aumentata fino al triplo, ma la pena non può superare gli anni quindici”.

 

Nel giudizio di liquidazione del danno da perdita della chance verranno ad assumere rilievo sia l’aspetto della prossimità della situazione fattuale al conseguimento del risultato sperato, sia il profilo della maggiore o minore idoneità a garantire questo risultato. Sotto il primo aspetto, il valore della perdita dipenderà dalla sufficienza del comportamento tenuto o mancato, da parte del responsabile, a determinare il risultato sperato (ovvero dalla necessità, al contrario, dell’intervento di ulteriori evenienze, da valutarsi caso per caso quanto alla probabilità o solamente alla possibilità del loro accadimento); sotto il secondo aspetto, rileverà l’idoneità in concreto della situazione a determinare il risultato sperato, cioè la probabilità o la mera possibilità del conseguimento del risultato, anche in termini percentuali.

 

Alla fine dell’anno 2000 la Suprema Corte in due occasioni (Sez. 4, 28 settembre 2000, Musto, e Sez. 4, 29 novembre 2000, Baltrocchi) ha poi sostanzialmente rivisto ex novo la tematica in questione procedendo ad ulteriori puntualizzazioni. In tali occasioni è stato invero rilevato che ‘il problema del significato da attribuire alla espressione “con alto grado di probabilità”….non può essere risolto se non attribuendo all’espressione il valore, il significato, appunto, che le attribuisce la scienza e, prima ancora, la logica cui la scienza si ispira, e che non può non attribuirgli il diritto’; ed è stato quindi affermato che ‘per la scienza’ non v’è alcun dubbio che dire “alto grado di probabilità”, – coltissima percentuale, “numero sufficientemente alto di casi”, voglia dire che, in tanto il giudice può affermare che una azione o omissione sono state causa di un evento, in quanto possa effettuare il giudizio controfattuale avvalendosi di una legge o proposizione scientifica che “enuncia una connessione tra eventi in una percentuale vicina a cento”…., questa in sostanza realizzando quella ‘probabilità vicina alla certezza’. Successivamente (Sez. 4, 23/1/2002, dep. 10/6/2002, Orlando) è stata sottolineata la distinzione tra la probabilità statistica e la probabilità logica, ed è stato evidenziato come una percentuale statistica pur alta possa non avere alcun valore eziologico effettivo quando risulti che, in realtà, un certo evento è stato cagionato da una diversa condizione; e come, al contrario, una percentuale statistica medio-bassa potrebbe invece risultare positivamente suffragata in concreto dalla verifica della insussistenza di altre possibili cause esclusive dell’evento, di cui si sia potuto escludere l’interferenza.

È stato dunque richiesto l’intervento delle Sezioni Unite in presenza del radicale contrasto che nel tempo si era determinato all’interno della giurisprudenza di legittimità tra due contrapposti indirizzi interpretativi in ordine alla ricostruzione del nesso causale tra condotta omissiva ed evento, con particolare riguardo alla materia della responsabilità professionale del medico-chirurgo: secondo talune decisioni (che avevano dato vita all’orientamento delineatosi più recentemente) sarebbe necessaria la prova che un diverso comportamento dell’agente avrebbe impedito l’evento con un elevato grado di probabilità ‘prossimo alla certezza’, e cioè in una percentuale di casi ‘quasi prossima a cento’; secondo altre decisioni sarebbero invece sufficienti ‘serie ed apprezzabili probabilità di successo’ per l’impedimento dell’evento.

Le Sezioni Unite si sono quindi pronunciate con la sentenza n. 30328 del 10/07/2002 Ud. (dep. 11/09/2002 – imp. Franzese), con la quale sono stati individuati i criteri da seguire perché possa dirsi sussistente il nesso causale tra la condotta omissiva e l’evento, e sono stati enunciati taluni principi che appare opportuno qui sinteticamente ricordare: 1) il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica – universale o statistica – si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa impeditiva dell’evento ‘hic et nunc’, questo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva; 2) non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, così che, all’esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso l’interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con ‘alto o elevato grado di credibilità razionale’ o ‘probabilità logica’; 3) l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio; 4) alla Corte di Cassazione, quale giudice di legittimità, è assegnato il compito di controllare retrospettivamente la razionalità delle argomentazioni giustificative – la c.d. giustificazione esterna – della decisione, inerenti ai dati empirici assunti dal giudice di merito come elementi di prova, alle inferenze formulate in base ad essi ed ai criteri che sostengono le conclusioni: non la decisione, dunque, bensì il contesto giustificativo di essa, come esplicitato dal giudice di merito nel ragionamento probatorio che fonda il giudizio di conferma dell’ipotesi sullo specifico fatto da provare.

Può dunque affermarsi che le Sezioni Unite hanno ripudiato qualsiasi interpretazione che faccia leva, ai fini della individuazione del nesso causale quale elemento costitutivo del reato, esclusivamente o prevalentemente su dati statistici ovvero su criteri valutativi a struttura probabilistica, in tal modo mostrando di propendere, tra i due contrapposti indirizzi interpretativi sopra ricordati, maggiormente verso quello delineatosi in tempi più recenti. L’articolato percorso motivazionale seguito nella sentenza Franzese, induce a ritenere che le Sezioni Unite, nel sottolineare la necessità dell’individuazione del nesso di causalità (quale ‘condicio sine qua non’ di cui agli artt. 40 e 41 del codice penale) in termini di certezza, abbiano inteso riferirsi non alla certezza oggettiva (storica e scientifica), risultante da elementi probatori di per sé altrettanto inconfutabili sul piano della oggettività, bensì alla ‘certezza processuale’ che, in quanto tale, non può essere individuata se non con l’utilizzo degli strumenti di cui il giudice dispone per le sue valutazioni probatorie: ‘certezza’, che deve essere pertanto raggiunta dal giudice valorizzando tutte le circostanze del caso concreto sottoposto al suo esame, secondo un procedimento logico – praticamente analogo a quello seguito allorquando si tratta di valutare la prova indiziaria, la cui disciplina è dettata dal secondo comma dell’art. 192 del codice di procedura penale – che consenta di poter ricollegare un evento ad una condotta omissiva ‘al di là di ogni ragionevole dubbio’ (vale a dire, con alto o elevato grado di credibilità razionale o probabilità logica). Invero, non pare che possa diversamente intendersi il pensiero che le Sezioni Unite hanno voluto esprimere allorquando hanno testualmente affermato che deve risultare “giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con alto o elevato grado di credibilità ragionale o ‘probabilità logica”.

 

D’altronde, la rilevanza dell’elemento tempo quale componente essenziale del bene della vita, con la conseguente rilevanza di ogni fatto imputabile che ne determini l’anticipata cessazione, è già presente nella giurisprudenza di questa Corte, intervenuta, – oltre che nel caso su ricordato, del tutto affine al presente (Cass. n. 23846/08)-in ipotesi speculari, ma comunque significative (di comportamento commissivo che anticipi un decesso comunque inevitabile, piuttosto che – come nel caso di specie – di omissione di comportamento che ne avrebbe ritardato la sopravvenienza: cfr. Cass. n. 5962/00 e n. 20996/12). Questa stessa giurisprudenza ha pure chiarito che, proprio perché il fatto illecito non è stato causa della morte in sé, ma solo della morte in quella data e non successivamente, il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale in favore degli aventi diritto, non potrà che investire detta anticipazione della morte, ed avere quindi come termine di riferimento il lasso di tempo intercorrente tra la data in cui l’evento si è effettivamente verificato e quello in cui si sarebbe presumibilmente verificato se il fatto illecito acceleratore dei fattori patogenetici preesistenti non vi fosse stato (cfr., in motivazione, Cass. n. 5962/00 cit.).

Il principio va adattato al caso in cui il danno sia consistito in una perdita di chance, dovendosi contemperare con il criterio di quantificazione del risarcimento in ragione della maggiore o minore idoneità, anche percentuale, della chance a produrre il risultato sperato.

In conclusione va affermato che, in tema di responsabilità medica, dà luogo a danno risarcibile l’errata esecuzione di un intervento chirurgico praticabile per rallentare l’esito certamente infausto di una malattia, che abbia comportato la perdita per il paziente della chance di vivere per un periodo di tempo più lungo rispetto a quello poi effettivamente vissuto. In tale eventualità, le possibilità di sopravvivenza, misurate in astratto secondo criteri percentuali, rilevano ai fini della liquidazione equitativa del danno, che dovrà altresì tenere conto dello scarto temporale tra la durata della sopravvivenza effettiva e quella della sopravvivenza possibile in caso di intervento chirurgico corretto.

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D’altronde, la rilevanza dell’elemento tempo quale componente essenziale del bene della vita, con la conseguente rilevanza di ogni fatto imputabile che ne determini l’anticipata cessazione, è già presente nella giurisprudenza di questa Corte, intervenuta, – oltre che nel caso su ricordato, del tutto affine al presente (Cass. n. 23846/08)-in ipotesi speculari, ma comunque significative (di comportamento commissivo che anticipi un decesso comunque inevitabile, piuttosto che – come nel caso di specie – di omissione di comportamento che ne avrebbe ritardato la sopravvenienza: cfr. Cass. n. 5962/00 e n. 20996/12). Questa stessa giurisprudenza ha pure chiarito che, proprio perché il fatto illecito non è stato causa della morte in sé, ma solo della morte in quella data e non successivamente, il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale in favore degli aventi diritto, non potrà che investire detta anticipazione della morte, ed avere quindi come termine di riferimento il lasso di tempo intercorrente tra la data in cui l’evento si è effettivamente verificato e quello in cui si sarebbe presumibilmente verificato se il fatto illecito acceleratore dei fattori patogenetici preesistenti non vi fosse stato (cfr., in motivazione, Cass. n. 5962/00 cit.).

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Originally posted 2021-05-13 17:44:00.

SEPARAZIONE TRADIMENTO 2021 BOLOGNA : WHATSAPP

SE SI VALUTA LA REALTA’  E LA NORMALITA’MOLTI TRADIMENTI SI SCOPRONO E CORRONO IN VIA TELEMATICA

Famiglia – Coniugi – Separazione – Addebito – Messaggi inviati per via telematica 

I messaggi inviati per via telematica all’amante POSSON O4SSERE PROVA SUFFICENTE  PER ADDEBITO SEPARAZIONE?

 

SI costituiscono una prova sufficiente per addebitare la separazione ponendola legittimamente a carico del coniuge che abbia intrattenuto la relazione adulterina comprovata dai predetti messaggi.

 

 Sulla efficacia probatoria delle riproduzioni informatiche rileva che per procedere al disconoscimento e per rendere il disconoscimento idoneo ad escludere la prova, occorre che esso sia chiaro, circostanziato ed esplicito per attestare che la riproduzione informatica non sia congrua alla verità fattuale.

 

In tema di efficacia probatoria delle riproduzioni informatiche di cui all’art. 2712 c.c. il disconoscimento idoneo a farne perdere la qualità di prova, degradandole a presunzioni semplici, deve essere chiaro, circostanziato ed esplicito, dovendosi concretizzare nell’allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta (Cass. 2 settembre 2016, n. 17526; Cass. 17 febbraio 2015, n. 3122). In tal senso, non possono quindi ritenersi espressive del dedotto disconoscimento le deduzioni, richiamate dal ricorrente (pag. 9 del ricorso), secondo cui lo stesso «non aveva mai dato inizio ad alcuna relazione affettiva in costanza di matrimonio» o in cui si è assunto «l’infondatezza delle affermazioni della Mariani circa la supposta esistenza di una relazione extraconiugale del sig. Nativi».

AFFIDO-FIGLI-A-BOLOGNA-NELLA-SEPARAZIONE-AVVOCATO-DIVORZISTA

AFFIDO FIGLI AFFIDO CONDIVISO AVVOCATO DIVORZISTA BOLOGNA

D’altro canto, il rilievo per cui l’odierno istante, a fronte della produzione in giudizio delle evidenze telematiche, avrebbe smentito che quanto rappresentato nella documentazione corrispondesse alla realtà dei fatti in essa descritta (sempre pag. 9 del ricorso) appare del tutto generico e carente di autosufficienza: infatti, sono inammissibili, per violazione dell’art. 366, n. 6, c.p.c., le censure fondate su atti e documenti del giudizio di merito qualora il ricorrente si limiti a richiamare tali atti e documenti, senza riprodurli nel ricorso ovvero, laddove riprodotti, senza fornire puntuali indicazioni necessarie alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame, ovvero ancora senza precisarne la collocazione nel fascicolo di ufficio o in quello di parte e la loro acquisizione o produzione in sede di giudizio di legittimità (Cass. Sez. U. 27 dicembre 2019, n. 34469). Analoghe considerazioni andrebbero svolte con riferimento al richiamo, operato dallo stesso ricorrente, alle deduzioni da lui svolte 4 Corte di Cassazione – copia non ufficiale nella memoria ex art. 190 c.p.c. (ove si sarebbe fatta menzione della possibile artificiosa realizzazione del messaggio: pagg. 9 s. del ricorso): ma sul punto è assorbente l’osservazione per cui il disconoscimento soggiace a precise preclusioni processuali (Cass. 19 gennaio 2018, n. 1250, che menziona, in proposito, quelle desumibili dagli artt. 167 e 183 c.p.c.), onde non può essere certamente svolto con gli scritti conclusionali.

 

 

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D’altro canto, il rilievo per cui l’odierno istante, a fronte della produzione in giudizio delle evidenze telematiche, avrebbe smentito che quanto rappresentato nella documentazione corrispondesse alla realtà dei fatti in essa descritta (sempre pag. 9 del ricorso) appare del tutto generico e carente di autosufficienza: infatti, sono inammissibili, per violazione dell’art. 366, n. 6, c.p.c.,

 

. il disconoscimento idoneo a farne perdere la qualità di prova, degradandole a presunzioni semplici, deve essere chiaro, circostanziato ed esplicito, dovendosi concretizzare nell’allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta (Cass. 2 settembre 2016, n. 17526; Cass. 17 febbraio 2015, n. 3122). In tal senso, non possono quindi ritenersi espressive del dedotto disconoscimento le deduzioni, richiamate dal ricorrente (pag. 9 del ricorso), secondo cui lo stesso «non aveva mai dato inizio ad alcuna relazione affettiva in costanza di matrimonio» o in cui si è assunto «l’infondatezza delle affermazioni della Mariani circa la supposta esistenza di una relazione extraconiugale del sig. Nativi». D’altro canto, il rilievo per cui l’odierno istante, a fronte della produzione in giudizio delle evidenze telematiche, avrebbe smentito che quanto rappresentato nella documentazione corrispondesse alla realtà dei fatti in essa descritta (sempre pag. 9 del ricorso) appare del tutto generico e carente di autosufficienza: infatti, sono inammissibili, per violazione dell’art. 366, n. 6, c.p.c., le censure fondate su atti e documenti del giudizio di merito qualora il ricorrente si limiti a richiamare tali atti e documenti, senza riprodurli nel ricorso ovvero, laddove riprodotti, senza fornire puntuali indicazioni necessarie alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame, ovvero ancora senza precisarne la collocazione nel fascicolo di ufficio o in quello di parte e la loro acquisizione o produzione in sede di giudizio di legittimità (Cass. Sez. U. 27 dicembre 2019, n. 34469). Analoghe considerazioni andrebb

 

 

 

 

 

Da ultimo, la Corte di merito precisava che il prelievo di denaro da parte di Evelyn Mariani e l’abbandono della casa coniugale nel corso dell’anno 2014 non assumevano rilievo, ai fini del giudizio di addebito della separazione «atteso il loro logico collegamento con la condotta fedifraga del marito e il difetto di prova in ordine alla già avvenuta compromissione dell’unità matrimoniale all’epoca del tradimento, che i testi affermano ammesso 2 Corte di Cassazione – copia non ufficiale nel febbraio 2013 per i fatti di fine anno 2012». 2. — Simone Nativi ha impugnato la pronuncia d’appello con un ricorso per cassazione articolato in due motivi. Resiste con controricorso Evelyn Mariani. Il ricorrente ha depositato memoria. 3. — Il Collegio ha autorizzato la redazione della presente ordinanza in forma semplificata. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. — Con il primo motivo il ricorrente oppone la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., in punto di valutazione della prova rappresentata dalla corrispondenza telematica prodotta in giudizio e dalle prove orali dei testi indotti dalla controparte, in combinato disposto con gli artt. 2727 e 2729 c.c., oltre che la violazione dell’art. 2712 c.c.. Viene dedotto che, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice del gravame, il ricorrente aveva in più occasioni smentito di essere l’autore dei messaggi inoltrati per via telematica i quali attesterebbero l’esistenza della relazione extraconiugale. L’istante lamenta, inoltre, che la Corte territoriale, confermando l’operato del giudice di primo grado, abbia ritenuto che dalle comunicazioni telematiche fosse possibile risalire, attraverso un procedimento induttivo al fatto ignoto, costituito dalla relazione extraconiugale. Viene osservato, al riguardo, che l’esame degli indizi emersi nel corso del procedimento non avevano i connotati della gravità della precisione e della concordanza, tenuto conto anche del rapporto di parentela intercorrente tra i testi escussi ed Evelyn Mariani. Il ricorrente contesta, infine, il rilievo che potrebbe assumere, nel quadro dell’indagine circa la prova della detta relazione, il percorso di mediazione coniugale avviato dai coniugi. Il motivo, che prospetta plurime censure, è nel complesso infondato. 3 Corte di Cassazione – copia non ufficiale In tema di efficacia probatoria delle riproduzioni informatiche di cui all’art. 2712 c.c. il disconoscimento idoneo a farne perdere la qualità di prova, degradandole a presunzioni semplici, deve essere chiaro, circostanziato ed esplicito, dovendosi concretizzare nell’allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta (Cass. 2 settembre 2016, n. 17526; Cass. 17 febbraio 2015, n. 3122). In tal senso, non possono quindi ritenersi espressive del dedotto disconoscimento le deduzioni, richiamate dal ricorrente (pag. 9 del ricorso), secondo cui lo stesso «non aveva mai dato inizio ad alcuna relazione affettiva in costanza di matrimonio» o in cui si è assunto «l’infondatezza delle affermazioni della Mariani circa la supposta esistenza di una relazione extraconiugale del sig. Nativi». D’altro canto, il rilievo per cui l’odierno istante, a fronte della produzione in giudizio delle evidenze telematiche, avrebbe smentito che quanto rappresentato nella documentazione corrispondesse alla realtà dei fatti in essa descritta (sempre pag. 9 del ricorso) appare del tutto generico e carente di autosufficienza: infatti, sono inammissibili, per violazione dell’art. 366, n. 6, c.p.c., le censure fondate su atti e documenti del giudizio di merito qualora il ricorrente si limiti a richiamare tali atti e documenti, senza riprodurli nel ricorso ovvero, laddove riprodotti, senza fornire puntuali indicazioni necessarie alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame, ovvero ancora senza precisarne la collocazione nel fascicolo di ufficio o in quello di parte e la loro acquisizione o produzione in sede di giudizio di legittimità (Cass. Sez. U. 27 dicembre 2019, n. 34469). Analoghe considerazioni 

 

 

Originally posted 2021-07-19 19:54:45.

ART 572 TRIBUNALE COLLEGIALE AVVOCATO DIFENDE BOLOGNA

 

 

Cassazione penaleSez. VIsentenza n. 37628 del 11 settembre 2019

E’ configurabile il reato di maltrattamenti in situazione di condivisa genitorialità, anche in assenza di convivenza, a condizione che la filiazione non sia stata un evento meramente occasionale ma si sia quantomeno instaurata una relazione sentimentale, ancorché non più attuale, tale da ingenerare l’aspettativa di un vincolo di solidarietà personale, autonomo rispetto ai doveri connessi alla filiazione.

 

ANCHE NELLA MERA CONVIVENZA SI PUO’ AVERE L REATO DI CUI ALL’ART 572 CP

 

IL FATTO

La Corte di appello di Roma, con sentenza del 19 giugno 2018, ha confermato la condanna di G.D. per i delitti di maltrattamenti e lesioni personali dolose aggravati, commessi in danno di L.V.N., pronunciata dal Tribunale di Roma con sentenza del 10 luglio 2017.

2. Impugna la sentenza d’appello l’imputato, per il tramite del suo difensore, chiedendone l’annullamento, sulla base dei seguenti motivi.

2.1. Difetto di motivazione – ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), – in relazione alla inattendibilità delle dichiarazioni della persona offesa, peraltro non supportate da alcun riscontro.

La Corte di appello, nonostante la specifica deduzione nei motivi di gravame, avrebbe omesso di soffermarsi su aspetti decisivi ai fini della svalutazione di tali dichiarazioni, ovvero: a) sulle affermazioni della zia di costei, M.F., dalle quali emergerebbe che il comportamento della ragazza fosse peggiorato già prima di conoscere l’imputato; b) sulle aggressioni fisiche compiute dalla persona offesa ai danni dell’imputato; c) sul fatto che ella indossasse sempre i medesimi vestiti non per volontà di quest’ultimo, bensì perchè la propria madre le aveva impedito di accedere all’abitazione familiare; d) sul protrarsi della convivenza soprattutto per volontà di lei, avendo G. più volte tentato di allontanarla da casa; e) sulla circostanza per cui, in occasione di una delle aggressioni riferite, ella, anzichè chiamare le forze dell’ordine od i familiari, si sia limitata a postare l’immagine del proprio dito insanguinato su “Facebook”.

AVVOCATO ESPERTO DIVORZI SEPARAZIONI EREDITA' PROCESSI BOLOGNA

AVVOCATO ESPERTO DIVORZI SEPARAZIONI EREDITA’ PROCESSI BOLOGNA


2.2. Erronea applicazione della legge penale e vizio di motivazione – ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), – con riferimento all’art. 572 c.p..

La Corte avrebbe errato, e comunque non ha compiutamente assolto al proprio onere di motivazione, laddove è giunta a ritenere sussistente tale reato, nonostante: a) non vi fosse un rapporto di supremazia dell’imputato sulla querelante e le aggressioni fossero reciproche; b) non vi fosse, tra costoro, un rapporto di tipo familiare, mancando un comune progetto di vita.

3. Nel termine assegnato dall’art. 525 c.p.p., comma 4, ha depistato in cancelleria memoria scritta la difesa della parte civile, rappresentando la completezza e la coerenza logica dell’impugnata sentenza, e perciò chiedendo il rigetto del ricorso

 

 

LA MOTIVAZONE DELLA SUPREMA CORTE

In tema di maltrattamenti in famiglia, l’art. 572 c.p., è applicabile non solo ai nuclei familiari fondati sul matrimonio, ma a qualunque relazione sentimentale che, per la consuetudine dei rapporti creati, implichi l’insorgenza di vincoli affettivi e aspettative di assistenza assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale (Sez. 6, n. 31121 del 18/03/2014, Rv. 261472). Ragione per cui il delitto è configurabile anche quando manchi una stabile convivenza e sussista, con la vittima degli abusi, un rapporto familiare di mero fatto, caratterizzato dalla messa in atto di un progetto di vita basato sulla reciproca solidarietà ed assistenza (Sez. 6, n. 22915 del 07/05/2013, Rv. 255628.).

Con riferimento alla vicenda in esame, è sufficiente allora evidenziare che come emerge pacificamente dall’impugnata sentenza, incontroversa per questa parte – l’imputato e la parte civile, oltre ad avere intrattenuto una relazione sentimentale, hanno convissuto nella stessa abitazione per circa dieci mesi.

3.2. Quanto, poi, al diverso profilo dell’asserita reciprocità delle condotte aggressive, va anzitutto osservato che – stando alla narrativa della sentenza impugnata – esso non risulta essere stato dedotto in appello: sicchè, già solo per questo, il relativo motivo, per questa parte, si esporrebbe a censure di inammissibilità.

In ogni caso, tale doglianza non ha giuridico fondamento, in quanto, in tema di maltrattamenti in famiglia, lo stato di inferiorità psicologica della vittima non deve necessariamente tradursi in una situazione di suo completo abbattimento, potendo consistere anche in un avvilimento generale conseguente alle vessazioni patite, senza che sporadiche reazioni vitali ed aggressive da parte della stessa possano escluderne lo stato di soggezione, a fronte di soprusi abituali (Sez. 3, n. 46043 del 20/03/2018, Rv. 274519).

cropped-AVVOCATO-BOLOGNA-ESPERTO

LA SENTENZA PER ESTESO

Cassazione penaleSez. VIsentenza n. 37628 del 11 settembre 2019

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

 

SEZIONE SESTA PENALE

 

Sentenza 7 febbraio – 9 maggio 2019, n. 19922

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETRUZZELLIS Anna – Presidente –

Dott. CALVANESE Ersilia – Consigliere –

Dott. APRILE Ercole – Consigliere –

Dott. DE AMICIS Gaetano – Consigliere –

Dott. ROSATI Martino – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

 

SENTENZA


sul ricorso proposto da:

G.D., nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza emessa il 19/06/2018 dalla Corte di appello di Roma;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Martino Rosati;

udito il Pubblico Ministero, nella persona del Sostituto Procuratore Generale, Dott. Tampieri Luca, che ha concluso chiedendo di dichiarare inammissibile il ricorso;

udito il difensore della parte civile L.V.N., avv. Antonella Faieta, che ha depositato conclusioni scritte e nota spese, chiedendo di dichiarare inammissibile il ricorso;

udito il difensore dell’imputato, avv. Carla Giordano, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.


Svolgimento del processo


  1. La Corte di appello di Roma, con sentenza del 19 giugno 2018, ha confermato la condanna di G.D. per i delitti di maltrattamenti e lesioni personali dolose aggravati, commessi in danno di L.V.N., pronunciata dal Tribunale di Roma con sentenza del 10 luglio 2017.

    2. Impugna la sentenza d’appello l’imputato, per il tramite del suo difensore, chiedendone l’annullamento, sulla base dei seguenti motivi.

    2.1. Difetto di motivazione – ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), – in relazione alla inattendibilità delle dichiarazioni della persona offesa, peraltro non supportate da alcun riscontro.

    La Corte di appello, nonostante la specifica deduzione nei motivi di gravame, avrebbe omesso di soffermarsi su aspetti decisivi ai fini della svalutazione di tali dichiarazioni, ovvero: a) sulle affermazioni della zia di costei, M.F., dalle quali emergerebbe che il comportamento della ragazza fosse peggiorato già prima di conoscere l’imputato; b) sulle aggressioni fisiche compiute dalla persona offesa ai danni dell’imputato; c) sul fatto che ella indossasse sempre i medesimi vestiti non per volontà di quest’ultimo, bensì perchè la propria madre le aveva impedito di accedere all’abitazione familiare; d) sul protrarsi della convivenza soprattutto per volontà di lei, avendo G. più volte tentato di allontanarla da casa; e) sulla circostanza per cui, in occasione di una delle aggressioni riferite, ella, anzichè chiamare le forze dell’ordine od i familiari, si sia limitata a postare l’immagine del proprio dito insanguinato su “Facebook”.

    2.2. Erronea applicazione della legge penale e vizio di motivazione – ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), – con riferimento all’art. 572 c.p..

    La Corte avrebbe errato, e comunque non ha compiutamente assolto al proprio onere di motivazione, laddove è giunta a ritenere sussistente tale reato, nonostante: a) non vi fosse un rapporto di supremazia dell’imputato sulla querelante e le aggressioni fossero reciproche; b) non vi fosse, tra costoro, un rapporto di tipo familiare, mancando un comune progetto di vita.

    3. Nel termine assegnato dall’art. 525 c.p.p., comma 4, ha depistato in cancelleria memoria scritta la difesa della parte civile, rappresentando la completezza e la coerenza logica dell’impugnata sentenza, e perciò chiedendo il rigetto del ricorso.

Motivi della decisione


  1. Entrambi i motivi di ricorso sono manifestamente destituiti di fondamento.

    2. Con il primo, si chiede alla Corte sostanzialmente una rivalutazione in fatto delle emergenze istruttorie.

    2.1. In tema di sindacato del vizio della motivazione, però, il compito del giudice di legittimità non è quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito in ordine all’affidabilità delle fonti di prova, bensì di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (Sez. U, n. 930 del 13/12/1995, Clarke, Rv. 203428). Ne consegue che non sono sindacabili in sede di legittimità, se non entro gli appena esposti limiti, la valutazione del giudice di merito circa eventuali contrasti testimoniali o la sua scelta tra divergenti versioni e interpretazioni dei fatti (Sez. 5, n. 51604 del 19/09/2017, Rv. 271623).

    Peraltro, l’illogicità della motivazione, censurabile a norma dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), è soltanto quella evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, senza possibilità, per la Corte di cassazione, di verificare la rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali (Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003, Petrella, Rv. 226074).

    Da tanto consegue, in particolare, che minime incongruenze argomentative o l’omessa esposizione di elementi di valutazione, che il ricorrente ritenga tali da determinare una diversa decisione, ma che non siano inequivocabilmente munite di un chiaro carattere di decisività, non possono dar luogo all’annullamento della sentenza, posto che non costituisce vizio della motivazione qualunque omissione valutativa che riguardi singoli dati estrapolati dal contesto (Sez. 2, n. 9242 del 08/02/2013, Rv. 254988). Soltanto l’esame del complesso probatorio, dunque, entro il quale ogni elemento sia contestualizzato, consente di verificare la consistenza e la decisività degli elementi medesimi oppure la loro ininfluenza ai fini della compattezza logica dell’impianto argomentativo della motivazione, sì da poter condurre all’annullamento della sentenza solo quando, per effetto di tale verifica, risulti disarticolato uno degli essenziali nuclei di fatto che sorreggono l’impianto della decisione. (Sez. 1, n. 46566 del 21/02/2017, Rv. 271227).

    2.2. Tanto premesso, non possono residuare dubbi sulla tenuta logica dell’impugnata sentenza.

    Le circostanze evidenziate dalla difesa ricorrente rappresentano mere spigolature, tranquillamente conciliabili con i comportamenti maltrattanti dell’imputato, messi in luce dalle conformi sentenze di condanna, e, perciò, non idonee ad incidere sulla solidità logica dell’impianto motivazionale.

    Il quale – giova ricordarlo – poggia non solamente sulle dichiarazioni della persona offesa, ma anche su quelle di suoi parenti e di terzi estranei al nucleo familiare ( S., G., C.), nonchè su certificati medici, fotografie, messaggi “Facebook” e relazioni di servizio, redatte dagli operatori di polizia in occasione di vari interventi. Ond’è che completamente infondata si rivela la doglianza relativa all’inattendibilità della persona offesa ed alla mancanza di riscontri alle sue accuse.

    3. Anche il secondo motivo, come s’è anticipato, è del tutto infondato.

    3.1. In tema di maltrattamenti in famiglia, l’art. 572 c.p., è applicabile non solo ai nuclei familiari fondati sul matrimonio, ma a qualunque relazione sentimentale che, per la consuetudine dei rapporti creati, implichi l’insorgenza di vincoli affettivi e aspettative di assistenza assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale (Sez. 6, n. 31121 del 18/03/2014, Rv. 261472). Ragione per cui il delitto è configurabile anche quando manchi una stabile convivenza e sussista, con la vittima degli abusi, un rapporto familiare di mero fatto, caratterizzato dalla messa in atto di un progetto di vita basato sulla reciproca solidarietà ed assistenza (Sez. 6, n. 22915 del 07/05/2013, Rv. 255628.).

    Con riferimento alla vicenda in esame, è sufficiente allora evidenziare che come emerge pacificamente dall’impugnata sentenza, incontroversa per questa parte – l’imputato e la parte civile, oltre ad avere intrattenuto una relazione sentimentale, hanno convissuto nella stessa abitazione per circa dieci mesi.

    3.2. Quanto, poi, al diverso profilo dell’asserita reciprocità delle condotte aggressive, va anzitutto osservato che – stando alla narrativa della sentenza impugnata – esso non risulta essere stato dedotto in appello: sicchè, già solo per questo, il relativo motivo, per questa parte, si esporrebbe a censure di inammissibilità.

    In ogni caso, tale doglianza non ha giuridico fondamento, in quanto, in tema di maltrattamenti in famiglia, lo stato di inferiorità psicologica della vittima non deve necessariamente tradursi in una situazione di suo completo abbattimento, potendo consistere anche in un avvilimento generale conseguente alle vessazioni patite, senza che sporadiche reazioni vitali ed aggressive da parte della stessa possano escluderne lo stato di soggezione, a fronte di soprusi abituali (Sez. 3, n. 46043 del 20/03/2018, Rv. 274519).

    4. Sulla scorta di tali considerazioni, il ricorso va dichiarato inammissibile.

    Da tanto consegue – ai sensi dell’art. 616, c.p.p. – la condanna del proponente alle spese del procedimento ed al pagamento di una somma in favore della Cassa delle Ammende, non ravvisandosi una sua assenza di colpa nella determinazione della causa d’inammissibilità (vds. Corte Cost., sent. n. 186 del 13 giugno 2000). Detta somma, considerando la manifesta assenza di pregio degli argomenti addotti, va fissata in duemila Euro.

    5. A norma dell’art. 592 c.p.p., il ricorrente, in quanto integralmente soccombente, va altresì condannato alla rifusione delle spese di giudizio sostenute dalla costituita parte civile, le quali, essendo quest’ultima ammessa al patrocinio per i non abbienti, saranno liquidate dal giudice di merito che ha pronunciato la sentenza (D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 83, comma 2) e debbono essere pagate in favore dello Stato anticipatario (art. 110, comma 3, D.P.R. cit.).

P.Q.M.


Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle ammende.

Condanna, inoltre, l’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà separatamente liquidata dal giudice di merito, disponendo il pagamento di tali spese in favore dello Stato.


Così deciso in Roma, il 7 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 9 maggio 2019.

 

Originally posted 2021-06-23 17:56:20.

Compravendita immobiliare avvocato bolognaappalto ocntratto 1

RESPONSABILITA’ AGENZIA  IMMOBILIARE SE NON COMUNICA  IPOTECA ?

  1. Secondo l’esposizione della XX l’Agenzia ‘Alfa’, violando il dovere impostole dall’art. 1759 c.c., avrebbe omesso in sede di trattative di fornire all’attrice adeguate informazioni circa la situazione debitoria del JJ e circa l’importo necessario per la cancellazione delle ipoteche gravanti sull’immobile promesso in vendita; tale carenza di informazioni avrebbe indotto la XX a confidare erroneamente nella possibilità di acquistare l’immobile de quo libero da gravami ipotecari al prezzo di € 390.000,00, e a corrispondere a tal fine una caparra di € 38.034,60, somma di fatto non recuperabile dalla promissaria acquirente, stante lo stato di insolvenza del promittente venditore tenuto alla restituzione.
  2. È evidente, poi, che non fu l’Agenzia Immobiliare ‘Alfa’ a fornire ai contraenti l’errata indicazione, inserita nel preliminare, dell’ammontare della residua somma necessaria per la liberazione dell’immobile dalle ipoteche legali (€ 62.000,00), somma che venne invece quantificata, come si legge nel ricorso introduttivo (pag. 5), sulla base di quanto riferito telefonicamente dal dott. D. P. al notaio in sede di stipula del preliminare; e non può ravvisarsi alcuna colpa della convenuta nel fatto di non avere informato l’attrice della maggiore entità della somma effettivamente necessaria per estinguere il residuo credito erariale beneficiando della “rottamazione delle cartelle“, poiché tale maggiore importo (€ 107.000,00) fu il risultato — comunicato dal dott. D. P. solo in data 31/08/2017 e non prevedibile dal mediatore — di complessi conteggi effettuati dopo la sottoscrizione del preliminare dall’Agenzia delle Entrate – Riscossione.

    contratti acquisto vendita casa bologna

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Nessun risarcimento è quindi dovuto dalla convenuta all’attrice in relazione all’esborso di € 38.034,60 sostenuto da quest’ultima a titolo di caparra confirmatoria, né dovrà essere restituita la somma di € 4.270,00 legittimamente incassata dall’agenzia immobiliare quale compenso per la mediazione svolta.

Le domande attoree vanno pertanto rigettate.

 

 

 

Preliminare del contratto – Compravendita immobiliare – Ipoteche legali – Caparra confirmatoria – Versamento diretto all’Agenzia delle Entrate – Debiti a base delle garanzie ipotecarie superiori al prezzo di vendita pattuito per l’immobile – Maggior entità della somma a fini di estinzione del credito erariale – 

 

Mediazione – Responsabilità del mediatore – Perdita della caparra confirmatoria e mancata conclusione del contratto definitivo – Azione del promissario acquirente nei confronti del mediatore –

Infondatezza – Debenza delle provvigioni – Rif. Leg. artt.1350, 1351, 1385, 1754, 1755, 1759, 2817, 2882, 2287, 2888 cc; art.77 DPR 602/1973;

 

SENTENZA PRIMO GRADO

  1. R.G. 699/2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE DI RAVENNA

in composizione monocratica, nella persona del Giudice dott. Massimo Vicini, ha pronunciato la seguente

SENTENZAappalto ocntratto

nella causa civile di I Grado iscritta al n. R.G. 699/2020 promossa da:

XX (c.f. omissis), con il patrocinio dell’avv. Antonio Luciani, elettivamente domiciliata in piazza John Fitzgerald Kennedy, 22 Ravenna presso il difensore avv. Antonio Luciani

ATTRICE

contro

ALFA di YY & C. SNCora ‘BETA SRL (c.f. omissis), con il patrocinio dell’avv. Monica Morelli e dell’avv. Marco Sparapane, elettivamente domiciliata in via Zotti, 15 Ravenna (Studio avv. Cristina Baldi) presso il difensore avv. Monica Morelli

CONVENUTA

con la chiamata in causa di

ALLIANZ SPA (c.f. omissis), con il patrocinio dell’avv. Antonio Colella, elettivamente domiciliata in via Flaminia, 163/e Rimini, presso il difensore avv. Antonio Colella

TERZA CHIAMATA

CONCLUSIONI

Le parti hanno concluso come da fogli allegati al verbale d’udienza di precisazione delle conclusioni.

MOTIVI DELLA DECISIONE

XX ha promosso il presente giudizio nei confronti della Agenzia Immobiliare ‘Alfa’ di YY & C. s.n.c., ora ‘Beta’ s.r.l., per sentirla dichiarare inadempiente ex artt. 1754 e 1759 c.c. in relazione ad un contratto preliminare di compravendita immobiliare sottoscritto in data 02/08/2017 dalla XX, quale promissaria acquirente, tramite l’agenzia convenuta, e per ottenere conseguentemente la condanna di quest’ultima al pagamento della somma di € 38.034,60 a titolo di risarcimento del danno costituito dalla perdita di una caparra, e dell’ulteriore somma di € 4.270,00 a titolo di restituzione di quanto corrisposto al mediatore a titolo di acconto su provvigioni.

L’Agenzia Immobiliare ‘Alfa’ si è costituita in giudizio, contestando ogni responsabilità attribuitale e chiedendo pertanto il rigetto delle domande attoree; ha inoltre provveduto alla chiamata in causa della Compagnia Assicuratrice Allianz s.p.a. per essere tenuta indenne dalle conseguenze di un eventuale accoglimento, totale o parziale, delle domande proposte dalla XX.

Esaminati gli atti e i documenti prodotti, il Tribunale osserva quanto segue.

Come risulta dalla documentazione prodotta, XX sottoscrisse in data 31/07/2017, tramite l’Agenzia Immobiliare ‘Alfa’ di YY & C. s.n.c., una proposta di acquisto immobiliare rivolta a JJ, alla quale fece seguito un contratto preliminare sottoscritto in data 02/08/2017, con il quale il JJ prometteva di vendere all’odierna attrice l’immobile sito in Ravenna, Via (omissis) n. (omissis), al prezzo di € 390.000,00.

Nel suddetto contratto preliminare si dava atto dell’esistenza di alcune ipoteche gravanti sull’immobile promesso in vendita, e precisamente di un’ipoteca volontaria iscritta a favore di Cassa di Risparmio di Ravenna s.p.a e di tre ipoteche legali iscritte ai sensi dell’art. 77 del D.P.R. n. 602/1973, da cancellarsi a cura e spese del promittente venditore entro la data prevista per il rogito definitivo; si dava inoltre atto dell’avvenuto versamento da parte della promissaria acquirente, a titolo di caparra confirmatoria, della somma di € 38.034,60 direttamente a favore di Equitalia Servizio Riscossioni, al fine di estinguere parte del debito del promittente venditore verso la stessa Equitalia; si conveniva altresì che, sempre a titolo di caparra confirmatoria, venisse versata dalla promissaria acquirente l’ulteriore somma di € 62.000,00 “a mezzo di pagamenti da effettuarsi secondo i modi e i tempi che saranno definiti dalla rateizzazione in corso di preparazione da parte dell’Agenzia delle Entrate – Riscossione (già Equitalia Servizio Riscossioni), al fine di poter prestare il consenso alla cancellazione di tutte le ipoteche iscritte a favore dell’istituto della riscossione sull’immobile in oggetto e di cui in prosieguo.”.

Con e-mail del 31/08/2017 l’Agenzia delle Entrate – Riscossione, nella persona del dott. D. P., comunicò che l’importo residuo da versare ai fini della cancellazione delle suddette ipoteche legali, tenuto conto dell’istanza di adesione alla c.d. “rottamazione delle cartelle” presentata dal JJ, ammontava ad € 107.000,00, e che almeno l’importo di € 36.449,79 (seconda rata) avrebbe dovuto essere versato entro il 30/09/2017 per continuare ad usufruire dei benefici della “rottamazione“.

Con scrittura privata del 26/09/2017 (doc. 8 allegato al ricorso introduttivo) il JJ e la XX diedero atto dell’erroneità di quanto dichiarato nel contratto preliminare circa l’importo da versare ai fini della cancellazione delle ipoteche legali, precisando che “..il preliminare è stato stipulato sulla base delle dichiarazioni del sig. JJ secondo le quali le 3 ipoteche di Equitalia si sarebbero cancellate con il pagamento di circa euro 90.000,00 complessivi, per quanto riferito da Equitalia stessa..”, e che “..Equitalia Agenzia Riscossione, successivamente al contratto preliminare e al pagamento della prima rata della rottamazione, ha comunicato che il pagamento necessario al fine di cancellare le tre ipoteche è di euro 145.000,00 e non più di soli euro 90.000,00 come inizialmente riferito..”, con la conseguenza che “..i debiti posti a base delle garanzie ipotecarie non possono essere estinti mediante il pagamento del prezzo di vendita, essendo gli stessi superiori a detto prezzo.”; con la medesima scrittura la XX si impegnò a non chiedere la risoluzione del preliminare per inadempimento del promittente venditore fino al 20/10/2017, in modo da consentire al JJ di tentare di trovare un accordo con i propri creditori al fine di riuscire a liberare l’immobile dalle ipoteche con il ricavato dalla vendita promessa alla stessa XX.

Con raccomandata a.r. del 21/08/2018, inviata al JJ e all’Agenzia Immobiliare ‘Alfa’, la XX comunicò la risoluzione del contratto preliminare del 02/08/2017 “per esclusiva colpa e negligenza del sig. JJ“, non presentatosi all’appuntamento fissato per la stipula del contratto definitivo davanti al notaio incaricato, con contestuale richiesta di integrale risarcimento del danno subito pari al doppio della caparra versata, oltre a interessi.

Secondo l’esposizione della XX l’Agenzia ‘Alfa’, violando il dovere impostole dall’art. 1759 c.c., avrebbe omesso in sede di trattative di fornire all’attrice adeguate informazioni circa la situazione debitoria del JJ e circa l’importo necessario per la cancellazione delle ipoteche gravanti sull’immobile promesso in vendita; tale carenza di informazioni avrebbe indotto la XX a confidare erroneamente nella possibilità di acquistare l’immobile de quo libero da gravami ipotecari al prezzo di € 390.000,00, e a corrispondere a tal fine una caparra di € 38.034,60, somma di fatto non recuperabile dalla promissaria acquirente, stante lo stato di insolvenza del promittente venditore tenuto alla restituzione.

Tale assunto appare palesemente infondato.

La XX, al tempo, dell’assunzione dell’impegno ad acquistare il summenzionato immobile di proprietà del JJ al prezzo di € 390.000,00, era certamente a conoscenza delle ipoteche iscritte su detto immobile a favore di Cassa di Risparmio di Ravenna s.p.a. e di Equitalia: dette ipoteche vengono infatti menzionate sia nella proposta di acquisto immobiliare datata 31/07/2017, sia, più dettagliatamente, nel contratto preliminare del 02/08/2017 (docc. 1 e 2 allegati al ricorso introduttivo); e in entrambe le scritture è espressamente previsto che la parte promittente venditrice dovrà provvedere alla cancellazione di tali formalità pregiudizievoli prima del rogito definitivo.

L’esistenza delle suddette ipoteche (e soprattutto di quelle iscritte a norma dell’art. 77 del D.P.R. n. 602/1973, assimilabili ad ipoteche giudiziali) costituisce un chiaro sintomo della situazione di insolvibilità in cui versava il JJ, situazione di cui l’odierna attrice era quindi consapevole già al tempo della sottoscrizione della proposta di acquisto immobiliare del 31/07/2017.

È evidente, poi, che non fu l’Agenzia Immobiliare ‘Alfa’ a fornire ai contraenti l’errata indicazione, inserita nel preliminare, dell’ammontare della residua somma necessaria per la liberazione dell’immobile dalle ipoteche legali (€ 62.000,00), somma che venne invece quantificata, come si legge nel ricorso introduttivo (pag. 5), sulla base di quanto riferito telefonicamente dal dott. D. P. al notaio in sede di stipula del preliminare; e non può ravvisarsi alcuna colpa della convenuta nel fatto di non avere informato l’attrice della maggiore entità della somma effettivamente necessaria per estinguere il residuo credito erariale beneficiando della “rottamazione delle cartelle“, poiché tale maggiore importo (€ 107.000,00) fu il risultato — comunicato dal dott. D. P. solo in data 31/08/2017 e non prevedibile dal mediatore — di complessi conteggi effettuati dopo la sottoscrizione del preliminare dall’Agenzia delle Entrate – Riscossione.

Nessun risarcimento è quindi dovuto dalla convenuta all’attrice in relazione all’esborso di € 38.034,60 sostenuto da quest’ultima a titolo di caparra confirmatoria, né dovrà essere restituita la somma di € 4.270,00 legittimamente incassata dall’agenzia immobiliare quale compenso per la mediazione svolta.

Le domande attoree vanno pertanto rigettate.

La XX, quale parte soccombente, dovrà rifondere le spese di lite non solo a ‘Beta’ s.r.l., ma anche ad Allianz s.p.a., dovendo ritenersi la chiamata in causa di quest’ultima non palesemente arbitraria [1].

P.Q.M.

il Tribunale, definitivamente pronunciando sulle domande proposte con l’atto introduttivo del presente giudizio, così provvede:

1) respinge le domande attoree;

2) condanna XX a rifondere a ‘Beta’ s.r.l. (già ‘Alfa’ di YY & C. s.n.c.) e ad Allianz s.p.a. le spese del presente giudizio, che liquida a favore di ciascuna in € 6.500,00 per compenso professionale, oltre a rimborso forf. spese generali nella misura del 15%, I.V.A. e C.P.A.

Così deciso in Ravenna, il giorno 12/08/2023.

  1. R.G. 1586/2023

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

CORTE DI APPELLO DI BOLOGNA

Terza Sezione Civile

La Corte di Appello nelle persone dei seguenti magistrati:

dott. Anna De Cristofaro – Presidente

dott. Manuela Velotti – Consigliere

dott. Andrea Lama – Consigliere Relatore

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile in grado di appello iscritta al n. r.g. 1586/2023 promossa da:

XX (c.f. omissis), con il patrocinio dell’avv. Antonio Luciani, elettivamente domiciliato in piazza John Fitzgerald Kennedy, 22 Ravenna, presso il difensore avv. Antonio Luciani

APPELLANTE

contro

‘BETA’ SRL (c.f. omissis),

COMPAGNIA DI ASSICURAZIONE ALLIANZ SPA (c.f. omissis),

APPELLATI

In punto a

“appello avverso la sentenza n. 561/2023 del Tribunale di Ravenna

pubblicata il 17/08/2023″

Svolgimento del processo

  1. XX conveniva in giudizio l’Agenzia Immobiliare ‘Alfa’ di YY & C. S.n.c., ora ‘Beta’ S.r.l., per sentirla dichiarare inadempiente ex artt. 1754 e 1759 c.c. in relazione ad un contratto preliminare di compravendita immobiliare sottoscritto in data 02/08/2017 dalla XX, quale promissaria acquirente, tramite l’agenzia convenuta, e per ottenere conseguentemente la condanna di quest’ultima al pagamento della somma di € 38.034,60 a titolo di risarcimento del danno costituito dalla perdita di una caparra, e dell’ulteriore somma di € 4.270,00 a titolo di restituzione di quanto corrisposto al mediatore a titolo di acconto su provvigioni.
  2. L’agenzia immobiliare ‘Alfa’ di YY & C. S.n.c. si costituiva in giudizio, contestando ogni responsabilità attribuitale e chiedendo pertanto il rigetto delle domande attoree; inoltre provvedeva alla chiamata in causa della Compagnia Assicuratrice Allianz s.p.a. per essere tenuta indenne dalle conseguenze di un eventuale accoglimento, totale o parziale, delle domande proposte dalla XX.
  3. Il Tribunale, definitivamente pronunciando sulle domande proposte con l’atto introduttivo del presente giudizio, così provvedeva:

«1) respinge le domande attoree;

2) condanna XX a rifondere a ‘Beta’ S.r.l. (già ‘Alfa’ di YY & C. S.n.c.) e ad Allianz s.p.a. le spese del presente giudizio, che liquida a favore di ciascuna in € 6.500,00 per compenso professionale, oltre a rimborso forf. spese generali nella misura del 15%, I.V.A. e C.P.A.».

  1. Proponeva appello XX, rassegnando le seguenti conclusioni:

“Dichiarare ‘Alfa’ di YY & C. S.n.c. in persona del legale rappresentante pro tempore con sede a Ravenna in via (omissis) n. (omissis) (P.IVA e C.F. (omissis)) responsabile di inadempimento ex art.1754 e 1759 cc nell’esecuzione della proposta di acquisto immobiliare del 31.7.2017 e successivo preliminare di compravendita del 2.8.2017 intervenuti fra JJ (parte promissaria venditrice) e XX (parte promissaria acquirente) per tutti i motivi specificati nel presente atto;

Dichiarare quindi tenuta ‘Alfa’ di YY & C. S.n.c. in persona del legale rappresentante pro tempore con sede a Ravenna in via (omissis) n. (omissis) (P.IVA e C.F. (omissis)) a pagare a titolo di risarcimento del danno a favore della ricorrente XX la somma di Euro 38.034,60 versata dalla sig.ra XX al promittente venditore, oltre ad Euro 4.270,00 quale risarcimento del danno e/o restituzione di quanto versato a titolo di acconto su provvigioni alla odierna resistente, o quella somma maggior o minore ritenuta di giustizia;

In via subordinata

riformare la sentenza di Primo Grado nella parte della condanna al pagamento delle spese legali di Primo Grado della terza chiamata e dichiarare sul punto nulla dovuto da parte dell’appellante per le motivazioni sopra espresse;

Con vittoria di spese, competenze ed onorari.”.

  1. Successivamente in data 22.12.2023 parte appellante depositava atto di rinuncia agli atti, sottoscritto dal difensore munito di procura speciale.
  2. Deve pronunciarsi l’estinzione del processo.
  3. Non si provvede sulle spese, non essendo ancora costituite le parti appellate.

In tal senso si veda Sez. 1^, Sentenza n. 5756 del 10/03/2011, secondo cui «Il provvedimento che dichiari l’estinzione del giudizio, a seguito di atto di rinuncia effettuato prima della costituzione della controparte, non deve contenere alcuna statuizione in ordine alle spese processuali, le quali vanno poste a carico del rinunciante soltanto nel caso in cui la controparte, già costituita, abbia accettato la rinuncia, ai sensi dell’art. 306, quarto comma, cod. proc. civ.».

Nello stesso senso anche la più recente Sez. 6^ – 2, Ordinanza n. 23620 del 09/10/2017.

  1. La declaratoria di estinzione del giudizio esclude l’applicabilità dell’art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. n. 115 del 2002.

In tal senso si veda Sez. 5^ -, Ordinanza n. 25485 del 12/10/2018: «In materia di impugnazioni, la declaratoria di estinzione del giudizio esclude l’applicabilità dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, relativo all’obbligo della parte impugnante non vittoriosa di versare una somma pari al contributo unificato già versato all’atto della proposizione dell’impugnazione.».

P.Q.M.

La Corte, definitivamente pronunciando, ogni contraria e diversa istanza disattesa,

– dichiara l’estinzione del giudizio;

– nulla sulle spese.

Così deciso in Bologna, nella camera di consiglio della Terza Sezione Civile, il 22.12.2023.

Il Presidente

dott. Anna De Cristofaro

Il Consigliere estensore

dott. Andrea Lama

CONSOBCONSULENTI FINANZIARI –QUESTIONI COSTITUZIONALITA TAR LAZIO

AVVOCATO CONSULENTI FINANZIARI

AVVOCATO CONSULENTI FINANZIARI

 

CONSOB-CONSULENTI FINANZIARI –QUESTIONI COSTITUZIONALITA’ Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda Quater), letti gli artt. 134 Cost. e 23 della legge 11 marzo 1953, nr. 87, dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 55, comma 2, del D. Lgs. n. 58/1998, in relazione agli artt. 3 e 117, comma 1, della Costituzione.CONSOB-CONSULENTI FINANZIARI –QUESTIONI COSTITUZIONALITA’ 

  Dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale e sospende il giudizio.
Dispone altresì che la presente ordinanza sia notificata, a cura della Segreteria, al Presidente del Consiglio dei Ministri ed alle parti del giudizio ed inoltre comunicata al Presidente della Camera dei Deputati, nonché al Presidente del Senato della Repubblica.

Riserva al definitivo ogni statuizione in rito, nel merito e sulle spese.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’art. 52, comma 1 D. Lgs. 30 giugno 2003 n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare la parte ricorrente e gli altri soggetti coinvolti nella vicenda. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 7 luglio 2017 con l’intervento dei magistrati:

 

 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA- CONSOB-CONSULENTI FINANZIARI –QUESTIONI COSTITUZIONALITA’ 

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda Quater)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 3800 del 2017, proposto da:

-OMISSIS-, rappresentata e difesa dagli avvocati Andrea Sticchi Damiani, Francesco Saverio Marini, Ulisse Corea, con domicilio eletto presso lo studio Andrea Sticchi Damiani in Roma, p.zza San Lorenzo in Lucina, 26;

contro

Commissione Nazionale per le Società e la Borsa, in persona del legale rappresentante p.t., costituitasi in giudizio, rappresentata e difesa dagli avvocati Salvatore Providenti, Paolo Palmisano, Michela Dini, con domicilio eletto in Roma, via G.B. Martini, 3;

per l’annullamento

– della delibera n. 19947 del 12.4.2017, notificata in data 14.4.2017, con cui la Consob ha disposto, nei confronti della -OMISSIS- -OMISSIS-, la sospensione dall’esercizio dell’attività di consulente finanziario per un periodo di un anno;
– di ogni altro atto presupposto, connesso e consequenziale a quello gravato, ivi compresa, ove occorrer possa, la comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7, l. n. 241 del 1990.

Visti il ricorso e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Visto l’atto di costituzione in giudizio della Commissione Nazionale per le Società e la Borsa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 7 luglio 2017 il dott. Francesco Arzillo e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

CONSIDERATO IN FATTO E IN DIRITTO:
1. La ricorrente -OMISSIS- -OMISSIS- impugna la delibera n. 19947 del 12.4.2017, con cui la CONSOB ha disposto nei suoi confronti la sospensione dall’esercizio dell’attività di consulente finanziario abilitato all’offerta fuori sede (ex “promotore finanziario”) per un periodo di un anno, ai sensi dell’art. 55, comma 2, del D. Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo Unico della Finanza – TUF).
Essa propone quattro motivi di ricorso, con i quali prospetta diversi profili di violazione di legge ed eccesso di potere, sollevando anche alcune eccezioni di incostituzionalità.
2. Si è costituita in giudizio la Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (CONSOB), resistendo al ricorso.
3. Con ordinanza n. 2422 del 18 maggio 2017, il Tribunale ha sospeso in via cautelare l’efficacia del provvedimento impugnato, rinviando per la trattazione del merito della causa all’udienza pubblica del 7 luglio 2017.
In tale data la causa è stata chiamata per la discussione e quindi trattenuta in decisione.
4. La vicenda nel cui ambito si colloca il provvedimento impugnato può essere riassunta nei termini che seguono.
5. Con ordinanza cautelare in data 27 marzo 2013, il GIP del Tribunale di Firenze disponeva nei confronti della -OMISSIS- -OMISSIS- l’interdizione, per la durata di un mese, dall’esercizio dell’attività di promotore finanziario; detta misura è stata interamente eseguita. Il provvedimento era stato adottato nell’ambito del procedimento penale n. 2965/2013, nel quale la -OMISSIS- -OMISSIS- ed altri

risultavano indagati per il delitto di cui all’art. 166, comma 1, del d. lgs. n. 58 del 1998, per avere gli stessi, “quali promotori finanziari iscritti presso l’apposito Albo Unico, abilitati ad operare solo per i soggetti finanziari presso cui erano inquadrati”, esercitato “attività di promozione o collocamento di strumenti finanziari o servizi o attività di investimento” abusivamente, per conto e nell’interesse di un gruppo criminale.

5.1. Facendo rinvio al contenuto di tale ordinanza, la CONSOB ha quindi contestato alla -OMISSIS- -OMISSIS- la violazione delle seguenti disposizioni:
a) art. 31, comma 2, del TUF, per avere la medesima svolto attività di promozione finanziaria in violazione del dovere di esclusiva in favore dell’allora istituto di appartenenza, ossia -OMISSIS-

  1. b) art. 107, comma 1, del Regolamento sanzionatorio Consob adottato con delibera n. 16190 del 2007, per avere essa svolto attività di offerta fuori sede, promozione o collocamento per conto di soggetti non abilitati a operare nel territorio italiano.
    In esito al relativo procedimento e alla valutazione delle controdeduzioni dell’interessata, la Consob, con delibera n. 19545 del 9.3.2016, adottava il provvedimento di sospensione della promotrice, per un periodo di quattro mesi, dall’Albo Unico dei consulenti finanziari, ai sensi dell’art. 196 del TUF. Anche questa misura veniva interamente eseguita.

5.2. Nel frattempo, la -OMISSIS- -OMISSIS- subiva dapprima la sospensione e quindi il recesso della Banca mandante dal contratto di lavoro con la conseguente perdita del relativo mandato.
5.3. Infine, a seguito della richiesta di rinvio a giudizio formulata dal GIP di Firenze nei confronti della -OMISSIS- -OMISSIS- in relazione al reato di cui all’art. 166, comma 1, del TUF (ossia l’offerta fuori sede abusiva), la Consob, con nota prot. 0069764 del 27 luglio 2016, comunicava, ai sensi dell’art. 7 della l. n. 241 del 1990, l’avvio del procedimento di sospensione cautelare della medesima -OMISSIS- – OMISSIS- dall’esercizio dell’attività di consulente finanziario per il periodo di un anno ai sensi dell’art. 55, comma 2, TUF (norma che attribuisce alla Consob la facoltà di sospensione cautelare del promotore che abbia assunto la qualifica di imputato con riferimento ai reati previsti dal d. lgs. n. 58 del 1998).

durata media dei processi penali in Italia) e appare piuttosto configurarsi come una sorta di massimo “sanzionatorio” (ancorchè latamente inteso). Sussiste anche la “materia penale”, intesa nel senso della giurisprudenza della Corte EDU, trattandosi di un provvedimento che, come correttamente rileva la parte ricorrente: i) ha natura pubblicistica; ii) è volto al perseguimento di finalità di carattere generale, legate all’esigenza di evitare il rischio che lo strepitus fori derivante dal coinvolgimento del promotore in gravi vicende penali possa compromettere la fiducia del pubblico degli investitori nella correttezza degli operatori di quel mercato; iii) si contraddistingue per la gravità e afflittività degli effetti potendo precludere definitivamente al promotore finanziario la possibilità di continuare a svolgere la propria professione, essendo impossibile che la stessa possa essere riavviata dopo un così lungo periodo e per l'intrinseca gravità della sanzione, tale da escludere la ricostituzione di un rapporto di fiducia con la clientela. Le suesposte considerazioni impongono quindi di sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 55, comma 2, del D. Lgs. n. 58/1998, in relazione agli artt. 3 e 117, comma 1, della Costituzione, per tramite della norma interposta costituita dall’art. 4 del Protocollo 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La questione viene sollevata in vista della possibile declaratoria dell’incostituzionalità integrale della disposizione in questione, alla stregua delle considerazioni esposte in precedenza; ovvero, in subordine, della declaratoria di incostituzionalità della stessa nella parte in cui non impone alla CONSOB di tenere conto dell’eventuale pregressa irrogazione di provvedimenti sanzionatori a carico dell’interessato. 14. Il presente giudizio va pertanto sospeso in attesa della decisione della Corte costituzionale. Ogni ulteriore statuizione in rito, nel merito e in ordine alle spese del giudizio viene riservata alla decisione definitiva.

durata media dei processi penali in Italia) e appare piuttosto configurarsi come una sorta di massimo “sanzionatorio” (ancorchè latamente inteso). Sussiste anche la “materia penale”, intesa nel senso della giurisprudenza della Corte EDU, trattandosi di un provvedimento che, come correttamente rileva la parte ricorrente: i) ha natura pubblicistica; ii) è volto al perseguimento di finalità di carattere generale, legate all’esigenza di evitare il rischio che lo strepitus fori derivante dal coinvolgimento del promotore in gravi vicende penali possa compromettere la fiducia del pubblico degli investitori nella correttezza degli operatori di quel mercato; iii) si contraddistingue per la gravità e afflittività degli effetti potendo precludere definitivamente al promotore finanziario la possibilità di continuare a svolgere la propria professione, essendo impossibile che la stessa possa essere riavviata dopo un così lungo periodo e per l’intrinseca gravità della sanzione, tale da escludere la ricostituzione di un rapporto di fiducia con la clientela. Le suesposte considerazioni impongono quindi di sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 55, comma 2, del D. Lgs. n. 58/1998, in relazione agli artt. 3 e 117, comma 1, della Costituzione, per tramite della norma interposta costituita dall’art. 4 del Protocollo 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La questione viene sollevata in vista della possibile declaratoria dell’incostituzionalità integrale della disposizione in questione, alla stregua delle considerazioni esposte in precedenza; ovvero, in subordine, della declaratoria di incostituzionalità della stessa nella parte in cui non impone alla CONSOB di tenere conto dell’eventuale pregressa irrogazione di provvedimenti sanzionatori a carico dell’interessato. 14. Il presente giudizio va pertanto sospeso in attesa della decisione della Corte costituzionale. Ogni ulteriore statuizione in rito, nel merito e in ordine alle spese del giudizio viene riservata alla decisione definitiva.

In esito al relativo procedimento e all’esame delle controdeduzioni dell’interessata, con provvedimento n. 19947 del 12.4.2017, la Consob ha infine disposto nei confronti della -OMISSIS- -OMISSIS- la sospensione dall’esercizio dell’attività di consulente finanziario per un periodo di un anno.

In esecuzione di tale provvedimento la-OMISSIS-con cui nel frattempo la – OMISSIS- -OMISSIS- aveva instaurato un rapporto di agenzia, sospendeva il contratto in essere con effetti dal 14 aprile 2017.
6. In sintesi, l’odierna ricorrente è quindi risultata destinataria delle seguenti misure: 1) ordinanza cautelare del G.I.P. del Tribunale di Firenze del 27.3.2015 di interdizione dall’esercizio dell’attività di promotore finanziario per la durata di un mese (misura già interamente eseguita);

2) provvedimento della Consob n. 19537/2016, che ha disposto la sospensione della ricorrente dall’Albo Unico dei consulenti finanziari per un periodo di quattro mesi ai sensi dell’art. 196 TUF (misura già interamente eseguita);
3) provvedimento della Consob n. 19947/2017, che ha disposto la sospensione della medesima dall’esercizio dell’attività di consulente finanziario per un periodo di un anno, ai sensi dell’art. 55, comma 2, d.lgs. n. 58/1998, e che costituisce l’oggetto del ricorso in esame.

  1. Con il primo motivo, che riveste carattere assorbente e pregiudiziale sotto il profilo logico, la ricorrente lamenta anzitutto la violazione del combinato disposto degli artt. 55 e 195 ss. del TUF, nonché del principio del ne bis in idem processuale.
    Ella premette di aver già subito a titolo sanzionatorio l’irrogazione, da parte della Consob, della sanzione amministrativa, avente carattere definitivo, pari a quattro mesi di sospensione di cui all’art. 196 del TUF, per gli stessi e identici fatti oggetto del procedimento penale (in relazione alla pendenza del quale detto provvedimento è adottabile per espressa previsione di legge).

Conseguentemente, ella afferma che l’art. 55, comma 2, del TUF non può in alcun modo venire in rilievo, considerato il fatto che l’esercizio del potere sanzionatorio da parte dell’Autorità si è ormai interamente esaurito, determinando il conseguente venir meno dei presupposti per ogni intervento di tipo cautelare laddove, come nella specie,

si sia concluso un procedimento disciplinare con l’irrogazione di una sanzione definitiva per gli stessi fatti.
In particolare, se è vero che le finalità di cui all’art. 55 del TUF attengono a un potere generale di tipo cautelare attribuito alla Consob, è anche vero che laddove la stessa Autorità sia già stata in grado di intervenire e reprimere la condotta (in ipotesi) illegittima del promotore finanziario, detto potere cautelare non può essere esercitato non avendo più alcuna ragion d’essere allorché una sanzione amministrativa per gli stessi identici fatti sia già stata comminata.

7.1 In subordine, ove non si ritenga praticabile questa interpretazione, siffatta misura non potrebbe che essere considerata del tutto illogica e sproporzionata, con conseguente lesione dei principi fondamentali in materia, oltreché delle garanzie costituzionali, convenzionali ed eurounitarie, nonché dei sottesi principi di ragionevolezza e proporzionalità, dovendosi quindi prospettare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 55, comma 2, del TUF, letto congiuntamente all’art. 196 del TUF, in riferimento ai parametri di cui agli artt. 3, 111 e 117 Cost..

In particolare, secondo la ricorrente, la circostanza per cui i fatti ai quali si riferisce il presente avvio procedimentale sono esattamente i medesimi ad essa già contestati sia in sede penale sia in sede amministrativa e posti a fondamento dei pregressi rispettivi provvedimenti, rileverebbe anche sotto l’aspetto della violazione:

– dei principi in materia di ne bis in idem affermati dalla CEDU e dalla Corte di Strasburgo e, nello specifico, dall’art. 4 del Protocollo 7, che vieta agli Stati membri di perseguire o condannare due volte la stessa persona per lo stesso fatto;
– dell’identico principio affermato dall’art. 50 della Carta Europea dei Diritti dell’Uomo.

La sospensione di un anno irrogata con il provvedimento impugnato in questa sede concreterebbe una nuova e ulteriore sanzione afflittiva e quindi “punitiva”, a prescindere dalla sua qualificazione formale.
Essa infatti:

  1. i) ha natura pubblicistica;
    ii) è tesa al perseguimento di finalità di carattere generale, legate all’esigenza di evitare il rischio che lo strepitus fori derivante dal coinvolgimento del promotore in

gravi vicende penali possa compromettere la fiducia del pubblico degli investitori nella correttezza degli operatori di quel mercato;
iii) si contraddistingue per la gravità e l’afflittività degli effetti sanzionatori, potendo precludere definitivamente al promotore finanziario la possibilità di continuare a svolgere la propria professione, essendo impossibile che la stessa possa essere riavviata dopo un così lungo periodo, anche perché l’intrinseca gravità della sanzione appare tale da escludere la ricostituzione di un rapporto di fiducia con la clientela.

  1. Secondo la difesa della Consob, il provvedimento di sospensione dall’attività di consulente finanziario previsto dall’art. 55, comma 2, del TUF non avrebbe invece natura sanzionatoria, essendo espressione del generale potere di vigilanza sul mercato finanziario, alla stregua della ricostruzione ricavabile dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite della Cassazione nell’ordinanza del 12 febbraio 2014, n. 3202 e del Consiglio di Stato nella sentenza n. 4226 del 10 settembre 2015.

In particolare, non si tratterebbe – secondo questa ricostruzione – di una misura prodromica rispetto all’avvio di un procedimento sanzionatorio amministrativo (come invece la sospensione cautelare prevista dal primo comma dell’art. 55 del TUF); difatti, la sua adozione è prevista anche in presenza di reati o misure penali che non riguardano la specifica attività di consulente finanziario e che, dunque, non sono neppure astrattamente idonee a determinare l’avvio di un procedimento amministrativo che possa sfociare nell’irrogazione di sanzioni da parte della Consob. Si tratterebbe, in altri termini, di una misura di amministrazione attiva a contenuto “cautelativo”, del tutto priva di carattere sanzionatorio in sé e di qualsivoglia collegamento con eventuali procedimenti sanzionatori a carico del consulente finanziario nei cui confronti viene adottata.

Il provvedimento in questione, in altri termini, è posto a tutela dell’ordinato svolgimento delle negoziazioni e dell’integrità del mercato, allo scopo di evitare la compromissione della fiducia del pubblico dei risparmiatori nella correttezza degli operatori del mercato finanziario in presenza di fattispecie di reato connotate da “allarme sociale”, in quanto idonee a denotare un’attitudine (se non addirittura una propensione) del promotore all’inosservanza delle regole di condotta nei confronti della propria clientela.

Nella specie, la condotta per la quale l’interessata risulta sottoposta a procedimento penale (e da ultimo rinviata a giudizio) riguarda proprio la violazione di norme poste a tutela del mercato finanziario (reato di abusivismo finanziario coinvolgente un gruppo criminale organizzato transnazionale).

  1. Il Collegio ritiene che le peculiarità della vicenda sub judice inducano a ritenere rilevanti e non manifestamente infondati i profili di incostituzionalità eccepiti dalla ricorrente.
    10. In proposito va premesso che non è possibile accogliere i menzionati profili di censura sulla base di un’interpretazione (conforme alla Costituzione e al diritto eurounitario), la quale si discosti dalla lettera della disposizione e dalla relativa ratio come ricostruita dalla giurisprudenza.

E’ opportuno muovere dal testo dell’art. 55 e dell’art. 196 del TUF:
A) Art. 55 (Provvedimenti cautelari applicabili ai consulenti finanziari abilitati all’offerta fuori sede)
1. La Consob, in caso di necessità e urgenza, può disporre in via cautelare la sospensione del consulente finanziario abilitato all’offerta fuori sede dall’esercizio dell’attività per un periodo massimo di sessanta giorni, qualora sussistano elementi che facciano presumere l’esistenza di gravi violazioni di legge ovvero di disposizioni generali o particolari impartite dalla Consob.
2. La Consob può disporre in via cautelare, per un periodo massimo di un anno, la sospensione dall’esercizio dell’attività qualora il consulente finanziario abilitato all’offerta fuori sede sia sottoposto a una delle misure cautelari personali del libro IV, titolo I, capo II, del codice di procedura penale o assuma la qualità di imputato ai sensi dell’articolo 60 dello stesso codice in relazione ai seguenti reati: a) delitti previsti nel titolo XI del libro V del codice civile e nella legge fallimentare; b) delitti contro la pubblica amministrazione, contro la fede pubblica, contro il patrimonio, contro l’ordine pubblico, contro l’economia pubblica, ovvero delitti in materia tributaria; c) reati previsti dal titolo VIII del T.U. bancario; d) reati previsti dal presente decreto
.
B) Art. 196 (Sanzioni applicabili ai consulenti finanziari abilitati all’offerta fuori sede)

1. I consulenti finanziari abilitati all’offerta fuori sede che violano le norme del presente decreto o le disposizioni generali o particolari emanate dalla Consob in forza di esso, sono puniti, in base alla gravità della violazione e tenuto conto dell’eventuale recidiva, con una delle seguenti sanzioni: a) richiamo scritto; b) sanzione amministrativa pecuniaria da lire un milione a lire cinquanta milioni c) sospensione da uno a quattro mesi dall’albo; d) radiazione dall’albo.

  1. Le sanzioni sono applicate dalla Consob con provvedimento motivato, previa contestazione degli addebiti agli interessati, da effettuarsi entro centottanta giorni dall’accertamento ovvero entro trecentossessanta giorni se l’interessato risiede o ha la sede all’estero, e valutate le deduzioni da essi presentate nei successivi trenta giorni. Nello stesso termine gli interessati possono altresì chiedere di essere sentiti personalmente.
  2. Alle sanzioni previste dal presente articolo si applicano le disposizioni contenute nella legge 24 novembre 1981, n. 689, ad eccezione dell’articolo 16.
    4. Le società che si avvalgano dei responsabili delle violazioni rispondono, in solido con essi, del pagamento delle sanzioni pecuniarie e sono tenute ad esercitare il regresso verso i responsabili
    ”.

Dalla lettura congiunta delle due disposizioni emerge pianamente la non assimilabilità del potere cautelare previsto dall’art. 55 (e come tale qualificato sia nel titolo sia nel testo dei due commi) a quello prettamente sanzionatorio di cui all’art. 196 del TUF.

Mentre quest’ultimo è disciplinato con chiaro riferimento alla disciplina generale delle sanzioni amministrative e ha per oggetto violazioni accertate e considerate nella loro obiettiva gravità con la connessa graduazione della sanzione, la prima disposizione prevede in capo alla Consob:

– al primo comma, il potere di adottare un provvedimento cautelare in presenza di presunte violazioni di legge o disposizioni di settore, in caso di necessità e urgenza;
– al secondo comma, il potere di sospendere per un anno massimo il consulente finanziario sottoposto a misura cautelare penale di carattere personale, ovvero – come nel caso che ci riguarda – assuma la qualità di imputato in relazione a una serie di reati (tra i quali quelli previsti dal medesimo TUF).

La disposizione di cui all’art. 55, comma 2, del TUF è stata poi interpretata e attuata dall’art. 111 del regolamento Consob, adottato con la delibera n. 16190 del 29 ottobre 2007, nel senso che essa “valuta, nei limiti dei poteri alla stessa attribuiti dalla legge, le circostanze per le quali il promotore è stato sottoposto alle misure cautelari personali del libro IV, titolo I, capo II, del codice di procedura penale o in base alle quali ha assunto la qualità d’imputato per uno dei delitti indicati nella norma citata ed, in particolare, tiene conto del titolo di reato e dell’idoneità delle suddette circostanze a pregiudicare gli specifici interessi coinvolti nello svolgimento dell’attività di promotore finanziario”.

Secondo la Cassazione, la giustificazione della norma “ovviamente risiede non in uno scopo strumentale o anticipatorio rispetto al possibile esito di detto procedimento penale (scopo il cui perseguimento esulerebbe evidentemente dai compiti della Consob), bensì unicamente nell’opportunità di evitare il rischio che lo strepitus fori derivante dal coinvolgimento del promotore in gravi vicende penali possa compromettere in via generale la fiducia del pubblico degli investitori nella correttezza degli operatori del mercato finanziario” (ord. 3202/2014).

Il Consiglio di Stato, richiamandosi alla pronuncia della Cassazione, ha precisato che “appartiene alla Consob l’apprezzamento discrezionale circa l’idoneità delle circostanze che hanno dato luogo alla vicenda penale a pregiudicare gli specifici interessi coinvolti nello svolgimento dell’attività di promotore finanziario” e che “la cautela tesa ad evitare che il coinvolgimento del promotore in gravi vicende penali possa compromettere in via generale la fiducia del pubblico degli investitori nella correttezza degli operatori del mercato finanziario, evidenziata dalla Corte di Cassazione nell’ordinanza citata, non soffre limitazioni a causa del passare del tempo, essendo anzi evidente che l’esigenza stessa di manifestare una reazione da parte dell’organo di vigilanza è tanto maggiore quanto più si è accresciuta la risonanza delle vicende penali, anche presumibilmente a causa del trascorrere del tempo” (sent. n. 4226/2015).

Questa ricostruzione è pienamente conforme alla ratio e alla lettera della disposizione in questione, la quale non richiede che si tenga conto delle eventuali sanzioni amministrative precedentemente adottate, ma solo dell’avvenuta irrogazione di

misure cautelari personali o della (in genere sopravvenuta) assunzione della qualità di imputato a seguito del rinvio a giudizio.
In quest’ottica, il profilo del ne bis in idem – in quanto rivolto al passato – appare del tutto recessivo, in quanto le circostanze di fatto, valutate nel loro senso più ampio in relazione allo svolgimento del procedimento penale (ma non necessariamente attinenti a violazioni passibili di sanzione amministrativa nell’ordinamento di settore), sono oggetto di una diversa valutazione ai fini cautelari, la quale non è vincolata, per sua stessa natura, alla considerazione della pregressa irrogazione di sanzioni amministrative o di altre misure cautelari, ma solamente alla prognosi che dalla considerazione dei fatti è possibile evincere in ordine alla lesione dell’interesse al regolare andamento del mercato nel futuro.

Per questo occorre prendere in esame la questione di costituzionalità prospettata in subordine dalla ricorrente.
11. In primo luogo, è evidente che la questione è rilevante, in quanto l’accoglimento della stessa influirebbe sull’esito del presente giudizio – nel quale viene in rilievo l’applicazione dell’art. 55, comma 2, del TUF del quale si denuncia l’incostituzionalità – determinando l’annullamento della misura inflitta alla ricorrente. 12. Circa la non manifesta infondatezza, il Collegio osserva quanto segue.

Anzitutto viene in rilievo un profilo di irragionevole disparità di trattamento, di per sé rilevante ai sensi dell’art. 3 della Costituzione.
Il caso in esame mostra con evidenza questi profili: a una misura sospensiva endoprocessuale penale ha dapprima fatto seguito una sospensione di quattro mesi a carattere pacificamente sanzionatorio e quindi la sospensione annuale di cui si controverte in questa sede.

Il fatto che l’art. 55, comma 2, del TUF non contenga una clausola che imponga espressamente di considerare (quantomeno) la circostanza dell’avvenuta irrogazione della sospensione ai sensi dell’art. 196 comporta l’irragionevole parificazione di due situazioni radicalmente diverse: quella in cui questa sospensione (o analoga misura) è intervenuta in precedenza e quella in cui essa non è intervenuta.

Attesa la notoria immediata influenza di questo tipo di provvedimenti sulla posizione del consulente in relazione ai rapporti con il mandante e con la clientela, è indubbio

che l’esigenza di tutela generale del mercato si realizza in questo caso a totale discapito della garanzia della posizione del singolo, che viene lesa come nel provvedimento sanzionatorio strettamente inteso (il che non avviene, sia detto per inciso, nei casi di sospensione dal servizio nell’impiego pubblico, che sono strutturalmente diversi anche sotto il profilo delle garanzie economiche e di restitutio in integrum, a tacer d’altro).

Anzi, a ben vedere, il provvedimento cautelare può avere un contenuto addirittura più incidente sulla posizione del consulente rispetto a quello del provvedimento sanzionatorio in sé considerato.
In secondo luogo, viene in rilievo il profilo del ne bis in idem, soprattutto in relazione ai principi affermati dalla Corte di Strasburgo con riguardo all’art. 4 del Protocollo 7 della CEDU: “Nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura penale di tale Stato” (cfr. anche l’analogo principio affermato dall’art. 50 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea).

La sospensione di un anno, irrogata con il provvedimento impugnato in questa sede, concreta in ultima analisi una nuova e ulteriore sanzione afflittiva e quindi “punitiva”, a prescindere dalla relativa qualificazione formale.
Ciò in applicazione dei criteri stabiliti dalla sentenza della Corte EDU, Grande Camera, 8 giugno 1976, Engel e altri c. Paesi Bassi e costantemente richiamati dalla giurisprudenza successiva (tra cui Corte EDU, 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia).

In primo luogo sussiste l’idem factum, da considerarsi con riferimento alla vicenda dalla quale hanno preso origine i due procedimenti amministrativi che hanno avuto luogo nel caso di specie (peraltro a partire dalla medesima base storica costituita da un procedimento penale ancora non concluso): vicenda attinente a specifici comportamenti posti in essere nella gestione dell’attività consulenziale.

Al riguardo occorre inoltre farsi carico delle precisazioni introdotte da Corte EDU, Grande Camera, 15 novembre 2016, A e B c. Norvegia, secondo cui ai fini dell’applicabilità del ne bis in idem deve mancare una “connessione sostanziale e

temporale sufficientemente stretta”, che consentirebbe ai due procedimenti di essere considerati “parti di un’unica reazione sanzionatoria apprestata dall’ordinamento contro l’illecito rappresentato” e che può essere desunta dai seguenti elementi:
(i) che i procedimenti abbiano a oggetto scopi differenti e profili diversi della medesima condotta:

(ii) che la duplicità dei procedimenti sia una conseguenza prevedibile della condotta; (iii) che la sanzione imposta nel procedimento che si concluda per primo sia tenuta in considerazione nell’altro procedimento, in modo che venga in ogni caso rispettata l’esigenza di una proporzionalità complessiva della pena.

Correttamente la parte ricorrente evidenzia al riguardo che:
(i) entrambi i procedimenti, quello sanzionatorio e quello “cautelare”, hanno la medesima finalità di “interrompere” l’attività svolta dal promotore finanziario e ineriscono ai medesimi profili di condotta oggetto di accertamento in sede penale, oltre a tutelare il medesimo bene giuridico: l’integrità del mercato finanziario;
(ii) era “prevedibile” che la Consob, con l’irrogazione, ex art. 196 TUF, del primo provvedimento di sospensione della ricorrente, avesse evidentemente esaurito il proprio potere sanzionatorio che per sua natura comprende, in quanto misura definitiva, quello cautelativo; e non che lo riesercitasse pochi mesi più tardi;
(iii) il periodo di sospensione applicato corrisponde all’entità massima della misura prevista dal dettato normativo, senza alcuna considerazione della precedente sanzione.
In proposito il Collegio rileva, in particolare:
– che quanto al punto i), riveste carattere decisivo la considerazione dei medesimi fatti e di una finalità di generale tutela del mercato, sia pure con proiezioni temporali parzialmente diverse;
– che il punto ii) è particolarmente significativo sotto il profilo della certezza del diritto, in funzione della tutela della posizione degli amministrati;
– che il punto iii) va integrato con la considerazione del fatto che la misura massima della sospensione prevista dalla disposizione in questione è sganciata dalla durata dello stato presupposto (che potrebbe perdurare, e anzi normalmente perdura attesa la

durata media dei processi penali in Italia) e appare piuttosto configurarsi come una sorta di massimo “sanzionatorio” (ancorchè latamente inteso).
Sussiste anche la “materia penale”, intesa nel senso della giurisprudenza della Corte EDU, trattandosi di un provvedimento che, come correttamente rileva la parte ricorrente:

  1. i) ha natura pubblicistica;
    ii) è volto al perseguimento di finalità di carattere generale, legate all’esigenza di evitare il rischio che lo strepitus fori derivante dal coinvolgimento del promotore in gravi vicende penali possa compromettere la fiducia del pubblico degli investitori nella correttezza degli operatori di quel mercato;
    iii) si contraddistingue per la gravità e afflittività degli effetti potendo precludere definitivamente al promotore finanziario la possibilità di continuare a svolgere la propria professione, essendo impossibile che la stessa possa essere riavviata dopo un così lungo periodo e per l’intrinseca gravità della sanzione, tale da escludere la ricostituzione di un rapporto di fiducia con la clientela.
    Le suesposte considerazioni impongono quindi di sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 55, comma 2, del D. Lgs. n. 58/1998, in relazione agli artt. 3 e 117, comma 1, della Costituzione, per tramite della norma interposta costituita dall’art. 4 del Protocollo 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La questione viene sollevata in vista della possibile declaratoria dell’incostituzionalità integrale della disposizione in questione, alla stregua delle considerazioni esposte in precedenza; ovvero, in subordine, della declaratoria di incostituzionalità della stessa nella parte in cui non impone alla CONSOB di tenere conto dell’eventuale pregressa irrogazione di provvedimenti sanzionatori a carico dell’interessato.
    14. Il presente giudizio va pertanto sospeso in attesa della decisione della Corte costituzionale.
    Ogni ulteriore statuizione in rito, nel merito e in ordine alle spese del giudizio viene riservata alla decisione definitiva.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda Quater), letti gli artt. 134 Cost. e 23 della legge 11 marzo 1953, nr. 87, dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 55, comma 2, del D. Lgs. n. 58/1998, in relazione agli artt. 3 e 117, comma 1, della Costituzione.

Dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale e sospende il giudizio.
Dispone altresì che la presente ordinanza sia notificata, a cura della Segreteria, al Presidente del Consiglio dei Ministri ed alle parti del giudizio ed inoltre comunicata al Presidente della Camera dei Deputati, nonché al Presidente del Senato della Repubblica.

Riserva al definitivo ogni statuizione in rito, nel merito e sulle spese.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’art. 52, comma 1 D. Lgs. 30 giugno 2003 n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare la parte ricorrente e gli altri soggetti coinvolti nella vicenda. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 7 luglio 2017 con l’intervento dei magistrati:

Leonardo Pasanisi, Presidente
Francesco Arzillo, Consigliere, Estensore Stefano Toschei, Consigliere

L’ESTENSORE Francesco Arzillo

IL SEGRETARIO

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

IL PRESIDENTE Leonardo Pasanisi

Originally posted 2020-01-15 09:36:19.

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Vigila per prevenire e, ove occorra, sanzionare eventuali comportamenti scorretti; esercita i poteri attribuiti dalla legge affinchè siano messe a disposizione dei risparmiatori le informazioni necessarie per poter effettuare scelte di investimento consapevoli.

Opera per garantire la massima efficienza delle contrattazioni, assicurando la qualità dei prezzi nonché l’efficienza e la certezza delle modalità di esecuzione dei contratti conclusi sui mercati regolamentati.

 

 

IN PARTICOLARE QUESTE LE PRINCIPALI SANZIONI :

 

richiamo scritto: nei casi di trasgressioni che non costituiscono grave violazione;

sanzione amministrativa pecuniaria da 2.580 euro a 129.511 euro: nei casi di inosservanza degli obblighi delle comunicazioni previste all’Organismo;

sospensione da 1 a 4 mesi dall’Albo

Art. 180.

 

                             (Sanzioni)

 

  1. Le sanzioni di cui agli articoli 196, comma 1, lettere a),  b),

  2. c) e d), del Testo Unico sono irrogate dall’Organismo, in base alla

gravita’ della violazione e tenuto conto  della  eventuale  recidiva,

per qualsiasi violazione di  norme  del  Testo  Unico,  del  presente

regolamento e di altre disposizioni generali o particolari emanate in

base alle stesse.

 

  1. Fermo  restando  quanto  stabilito  dal  comma  1,  l’Organismo

delibera nei confronti del consulente finanziario  autonomo  o  della

societa’ di consulenza finanziaria:

 

  1. a) la radiazione dall’albo in caso di:

 

  1) contraffazione della firma  dei  clienti  o  potenziali  clienti

sull’eventuale  modulistica  contrattuale  o   altra   documentazione

relativa allo svolgimento dell’attivita’ di consulenza in materia  di

investimenti;

 

  2)  violazione  delle  disposizioni  relative   ai   requisiti   di

indipendenza dei  consulenti  finanziari  stabiliti  dal  regolamento

ministeriale  di  cui   all’articolo   18-bis   e   dal   regolamento

ministeriale di cui all’articolo 18-ter del Testo Unico;

  3)  acquisizione  della  disponibilita’  ovvero  detenzione,  anche

temporanee, di somme di denaro o strumenti finanziari  di  pertinenza

dei clienti  o  potenziali  clienti,  in  violazione  degli  articoli

18-bis, comma 1, e 18-ter, comma 1, del Testo Unico;

 

  4) inosservanza del divieto di cui all’articolo 162, comma 3;

 

  5) comunicazione o trasmissione ai clienti  o  potenziali  clienti,

all’Organismo  o  alla  Consob  di  informazioni  o   documenti   non

rispondenti al vero, salvo quanto previsto dall’articolo  152,  comma

1, lettera b);

 

  6) inosservanza dell’obbligo di cui all’articolo 153, comma 4;

 

  7) inosservanza dei provvedimenti di sospensione adottati dall’OCF;

 

  8)  impiego  nello  svolgimento  dell’attivita’  di  consulenza  in

materia di investimenti di soggetti non  iscritti  alla  sezione  dei

consulenti finanziari autonomi;

 

  1. b) la sospensione dall’albo da uno a quattro mesi in caso di:

 

  1) esercizio di attivita’ o assunzione di  incarichi  incompatibili

ai sensi dell’articolo 163;

 

  2)  violazione  delle  disposizioni   di   cui   all’articolo   164

concernenti l’aggiornamento professionale;

 

  3)  violazione  delle  disposizioni   di   cui   all’articolo   165

concernenti  le  regole  di  presentazione  e  le  informazioni   sul

consulente e i suoi servizi;

 

  4)  violazione  delle  disposizioni   di   cui   all’articolo   166

concernenti il contratto di consulenza in materia di investimenti;

 

  5)  violazione  delle  disposizioni   di   cui   all’articolo   167

concernenti l’acquisizione delle informazioni dai clienti e  la  loro

classificazione;

 

  6)  violazione  delle  disposizioni   di   cui   all’articolo   169

concernenti le informazioni sugli strumenti finanziari;

 

  7)  violazione  delle  disposizioni   di   cui   all’articolo   171

concernenti la valutazione dell’adeguatezza;

 

  8)  violazione  delle  disposizioni   di   cui   all’articolo   172

concernenti l’obbligo di rendiconto;

 

  9)  violazione  delle  disposizioni   di   cui   all’articolo   173

concernenti i requisiti generali delle informazioni e  le  condizioni

per la prestazione di informazioni corrette, chiare e non fuorvianti;

 

  10)  violazione  delle  disposizioni  di   cui   all’articolo   174

concernenti  le  modalita’   di   adempimento   degli   obblighi   di

informazione;

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  11)  violazione  delle  disposizioni  di   cui   all’articolo   175

concernenti le informazioni su  supporto  durevole  e  mediante  sito

internet;

 

  12)  violazione  delle  disposizioni  di   cui   all’articolo   176

concernenti le procedure interne;

 

  13)  violazione  delle  disposizioni  di   cui   all’articolo   177

concernenti i conflitti di interesse;

 

  14)  violazione  delle  disposizioni  di   cui   all’articolo   178

concernenti le registrazioni;

 

  1. c) il pagamento di un importo da  euro  cinquecentosedici  a  euro

venticinquemilaottocentoventitre  in   caso   di   violazione   delle

disposizioni di cui all’articolo 153, ad eccezione dei commi  1  e  4

del medesimo articolo.

 

  1. Fermo quanto stabilito al comma 1, l’Organismo:

 

  1. a) dispone la  radiazione  del  consulente  finanziario  abilitato

all’offerta fuori sede in caso di:

 

  1) violazione della disposizione di cui all’articolo 31,  comma  2,

secondo periodo, del Testo Unico;

 

  2) offerta fuori sede o promozione e collocamento  a  distanza  per

conto di soggetti non abilitati;

 

  3) contraffazione della firma del cliente o del potenziale  cliente

su  modulistica  contrattuale  o  altra  documentazione  relativa   a

operazioni dal medesimo poste in essere;

 

  4) acquisizione, anche temporanea, della disponibilita’ di somme  o

di valori di pertinenza del cliente o del potenziale cliente;

 

  5) comunicazione o trasmissione al cliente o al potenziale cliente,

all’intermediario, all’Organismo o  alla  Consob  di  informazioni  o

documenti non rispondenti al vero;

 

  6) sollecitazione all’investimento effettuata in  violazione  delle

disposizioni di cui alla Parte IV, Titolo II, Capo I, del Testo Unico

e delle relative disposizioni di attuazione;

 

  7) perfezionamento di operazioni non autorizzate dal cliente o  dal

potenziale  cliente,  a  valere  sui  rapporti   di   pertinenza   di

quest’ultimo, o comunque al medesimo collegati;

 

  8) violazione delle disposizioni di cui all’articolo 153, comma 4;

 

  9) inosservanza dei provvedimenti di sospensione adottati dall’OCF;

 

  1. b) dispone la sospensione  del  consulente  finanziario  abilitato

all’offerta fuori sede dall’albo di cui all’articolo  196,  comma  1,

lettera c), del Testo Unico da uno a quattro mesi, in caso di:

 

  1)  inadempimento  degli  obblighi  previsti   dalle   disposizioni

richiamate all’articolo 155;

 

  2) violazione delle disposizioni di cui all’articolo 156;

 

  3) esercizio di attivita’ o assunzione di qualita’ incompatibili ai

sensi dell’articolo 157;

 

  4) violazione delle disposizioni di cui all’articolo 158, comma 2;

 

  5) violazione delle disposizioni di cui all’articolo 159, comma 3;

 

  6) violazione della disposizione di cui all’articolo 159, comma 4;

 

  7) accettazione dal cliente o dal potenziale cliente  di  mezzi  di

pagamento, strumenti finanziari e valori con caratteristiche difformi

da quelle prescritte dall’articolo 159, comma 5;

 

  8)  percezione  di   compensi   o   finanziamenti   in   violazione

dell’articolo 159, comma 6;

 

  9) inadempimento degli obblighi di tenuta della  documentazione  di

cui all’articolo 160;

 

  1. c) irroga  nei  confronti  del  consulente  finanziario  abilitato

all’offerta fuori sede la sanzione  pecuniaria  di  cui  all’articolo

196, comma 1, lettera b), del Testo Unico, in caso di:

 

  1)  inosservanza  degli  obblighi  di  cui  all’articolo  153,   ad

eccezione dei commi 1 e 4 del medesimo articolo;

 

  2) violazione delle disposizioni di cui all’articolo 159, commi 1 e

 

  1. Per ciascuna delle violazioni individuate  nei  commi  2  e  3,

l’Organismo, tenuto  conto  delle  circostanze  e  di  ogni  elemento

disponibile, puo’ disporre, in  luogo  della  sanzione  prevista,  la

tipologia di sanzione immediatamente inferiore o superiore.

TUF 16.3.2018

TITOLO II SANZIONI AMMINISTRATIVE

 

 

Art. 187-quinquiesdecies

Tutela dell’attivita’ di vigilanza della Banca d’Italia e della Consob

Art. 188

Abuso di denominazione.

Art. 189

Partecipazioni al capitale.

Art. 190

Sanzioni amministrative pecuniarie in tema di disciplina degli intermediari 73

Art. 190.1

Sanzioni amministrative pecuniarie in tema di disciplina della gestione accentrata di strumenti finanziari.

Art. 190.2

Sanzioni amministrative pecuniarie relative alla violazione delle disposizioni previste dal regolamento UE n. 909/2014.

Art. 190.3

Sanzioni amministrative in tema di disciplina dei mercati e dei servizi di comunicazione dati.

Art. 190.4

Sanzioni amministrative pecuniarie relative alle violazioni delle disposizioni previste dal regolamento UE n. 600/2014, dagli atti delegati e dalle norme tecniche di regolamentazione e di attuazione della direttiva 2014/65/UE e del regolamento

Art. 190.5

Sanzioni amministrative pecuniarie in tema di agenzie di rating del credito relative alle violazioni delle disposizioni previste dal regolamento CE n. 1060/2009.

Art. 190-bis

Responsabilita’ degli esponenti aziendali e del personale per le violazioni in tema di disciplina degli intermediari, dei mercati, dei depositari centrali e della gestione accentrata di strumenti finanziari e dei servizi di comunicazione dati

Art. 190-ter

ARTICOLO ABROGATO DAL D.LGS. 3 AGOSTO 2017, N. 129

Art. 190-quater

Sanzioni amministrative in tema di gestione di portali.

Art. 191

Offerta al pubblico di sottoscrizione e di vendita.

Art. 192

Offerte pubbliche di acquisto o di scambio

Art. 192-bis

Informazioni sul governo societario

Art. 192-ter

Ammissione alle negoziazioni

Art. 192-quater

Obbligo di astensione.

Art. 193.

Informazione societaria e doveri dei sindaci, dei revisori legali e delle societa’ di revisione legale

Art. 193-bis

Rapporti con societa’ estere aventi sede legale in Stati che non garantiscono la trasparenza societaria.

Art. 193-ter

Sanzioni amministrative pecuniarie relative alle violazioni delle prescrizioni di cui al regolamento UE n. 236/2012.

Art. 193-quater

Sanzioni amministrative pecuniarie relative alla violazione delle disposizioni previste dal regolamento UE n. 648/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 luglio 2012.

Art. 193-quinquies

Sanzioni amministrative pecuniarie relative alle violazioni delle disposizioni previste dal regolamento UE n. 1286/2014.

Art. 193-sexies

Sistemi interni di segnalazione.

Art. 194

Deleghe di voto

Art. 194-bis

Criteri per la determinazione delle sanzioni.

Art. 194-ter

Sanzioni amministrative pecuniarie relative alle violazioni delle disposizioni previste dal regolamento UE n. 575/2013 e delle relative norme tecniche di regolamentazione e di attuazione 73

Art. 194-quater

Ordine di porre termine alle violazioni.

Art. 194-quinquies

Pagamento in misura ridotta.

Art. 194-sexies

Condotte inoffensive.

Art. 194-septies

Dichiarazione pubblica.

Art. 195

Procedura sanzionatoria.

Art. 195-bis

Pubblicazione delle sanzioni.

Art. 195-ter

Comunicazione all’ABE e all’AESFEM sulle sanzioni applicate

Art. 195-quater

Sanzioni in caso di risoluzione.

Art. 195-quinquies

Inapplicabilita’ di specifiche disposizioni della legge 24 novembre 1981, n. 689.

Art. 196

Sanzioni applicabili ai consulenti finanziari 73

Art. 196-bis

Disposizioni di attuazione.

Art. 197

Personale della CONSOB

Art. 198

Girata di titoli azionari

Art. 199.

Societa’ fiduciarie.

Art. 200

Intermediari gia’ autorizzati

Art. 201

Agenti di cambio

Art. 202

ARTICOLO ABROGATO DAL D.LGS. 24 MARZO 2011, N. 48

Art. 203

Contratti a termine

Art. 204

Gestione accentrata

Art. 205

Quotazioni di prezzi

Art. 206

Disposizioni applicabili alle societa’ alle societa’ quotate in mercati diversi dalla borsa

Art. 207

Patti parasociali

Art. 208

Deleghe di voto, azioni di risparmio, collegio sindacale e revisione contabile

Art. 209

Societa’ di revisione

Art. 210

Modifiche al codice civile

Art. 211

Modifiche al T.U. bancario

Art. 212

Disposizioni in materia di privatizzazioni

Art. 213

Conversione del fallimento in liquidazione coatta amministrativa

Art. 214

Abrogazioni

Art. 215

Disposizioni di attuazione

Art. 216

Entrata in vigore

Leggi le fonti citate:

 

Legge 28 dicembre 2015, n. 208

D.LGS. 24 febbraio 1998, n. 58

D.LGS. 7 settembre 2005, n. 209

D.LGS. 8 ottobre 2007, n. 179

D.LGS. 30 giugno 2003, n. 196

Legge 24 novembre 1981, n. 689

Legge 29 marzo 1942, n. 239

Legge 23 novembre 1939, n. 1966

D.LGS. 23 luglio 1996, n. 415

D.LGS. 21 novembre 2007, n. 231

D.LGS. 13 agosto 2010, n. 141

Legge 23 marzo 1983, n. 77

Legge 14 agosto 1993, n. 344

D.LGS. 25 gennaio 1992, n. 84

Legge 29 maggio 1967, n. 402

Legge 23 maggio 1956, n. 515

Legge 6 febbraio 1996, n. 52

Legge 20 marzo 1913, n. 272

Legge 21 marzo 1926, n. 597

D.L. 9 aprile 1925, n. 375

Legge 18 marzo 1926, n. 562

D.L. 26 giugno 1925, n. 1047

D.L. 29 luglio 1925, n. 1261

D.L. 11 ottobre 1925, n. 1748

D.L. 19 febbraio 1931, n. 950

Legge 31 dicembre 1931, n. 1657

Legge 5 gennaio 1933, n. 118

D.L. 20 dicembre 1932, n. 1607

Legge 20 aprile 1932, n. 291

Legge 4 dicembre 1939, n. 1913

le 19 aprile 1946, n. 321

Legge 31 dicembre 1962, n. 1778

Legge 8 aprile 1974, n. 95

Legge 7 giugno 1974, n. 216

Legge 23 febbraio 1977, n. 49

Legge 19 giugno 1986, n. 289

Legge 2 gennaio 1991, n. 1

Legge 17 maggio 1991, n. 157

D.LGS. 27 gennaio 1992, n. 86

Legge 18 febbraio 1992, n. 149

Legge 28 dicembre 1993, n. 561

Legge 25 gennaio 1994, n. 86

D.L. 31 maggio 1994, n. 332

Legge 30 luglio 1994, n. 474

D.L. 8 aprile 1974, n. 95

 

 

 

 ^   Art. 187-quinquiesdecies Tutela dell’attivita’ di vigilanza della Banca d’Italia e della Consob

AVVOCATO CONSULENTI FINANZIARI

AVVOCATO CONSULENTI FINANZIARI

Art. 187-quinquiesdecies

(Tutela dell’attivita’ di vigilanza della Banca d’Italia e della Consob)

((1. Fuori dai casi previsti dall’articolo 2638 del codice civile, e’ punito ai sensi del presente articolo chiunque non ottempera nei termini alle richieste della Banca d’Italia e della Consob, ovvero non coopera con le medesime autorita’ al fine dell’espletamento delle relative funzioni di vigilanza, ovvero ritarda l’esercizio delle stesse.)) ((73))

((1-bis. Se la violazione e’ commessa da una persona fisica, si applica nei confronti di quest’ultima la sanzione amministrativa pecuniaria da euro diecimila fino a euro cinque milioni.)) ((73))

((1-ter. Se la violazione e’ commessa da una societa’ o un ente, si applica nei confronti di questi ultimi la sanzione amministrativa pecuniaria da euro diecimila fino a euro cinque milioni, ovvero fino al dieci per cento del fatturato, quando tale importo e’ superiore a euro cinque milioni e il fatturato e’ determinabile ai sensi dell’articolo 195, comma 1-bis. Fermo restando quanto previsto per le societa’ e gli enti nei confronti dei quali sono accertate le violazioni, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria prevista dal comma 1-bis nei confronti degli esponenti aziendali e del personale della societa’ o dell’ente nei casi previsti dall’articolo 190-bis, comma 1, lettera a).)) ((73))

((1-quater. Se il vantaggio ottenuto dall’autore della violazione come conseguenza della violazione stessa e’ superiore ai limiti massimi indicati nel presente articolo, la sanzione amministrativa pecuniaria e’ elevata fino al doppio dell’ammontare del vantaggio ottenuto, purche’ tale ammontare sia determinabile.)) ((73))

 

 

 

 ^   Art. 188 Abuso di denominazione.

 

  1. L’uso, nella denominazione o in qualsivoglia segno distintivo o comunicazione rivolta al pubblico, delle parole: “Sim” o “societa’ di intermediazione mobiliare” o “impresa di investimento”; “Sgr” o “societa’ di gestione del risparmio”; “Sicav” o “societa’ di investimento a capitale variabile”; “Sicaf” o “societa’ di investimento a capitale fisso”; “EuVECA” o “fondo europeo per il venture capital”; “EuSEF” o “fondo europeo per l’imprenditoria sociale”; ((“ELTIF” o “fondo di investimento europeo a lungo termine”;)) “APA” o “dispositivo di pubblicazione autorizzato”; “CTP” o “fornitore di un sistema consolidato di pubblicazione”; “ARM” o “meccanismo di segnalazione autorizzato”; “mercato regolamentato”; “mercato di crescita per le PMI”; ovvero di altre parole o locuzioni, anche in lingua straniera, idonee a trarre in inganno sulla legittimazione allo svolgimento dei servizi o delle attivita’ di investimento o del servizio di gestione collettiva del risparmio o dei servizi di comunicazione dati o dell’attivita’ di gestione di mercati regolamentati e’ vietato a soggetti diversi, rispettivamente, dalle imprese di investimento, dalle societa’ di gestione del risparmio, dalle Sicav, dalle Sicaf, dai soggetti abilitati a tenore dei regolamenti (UE) n. 345/2013, relativo ai fondi europei per il venture capital (EuVECA), ((n. 346/2013, relativo ai fondi europei per l’imprenditoria sociale (EuSEF) e n. 2015/760, relativo ai fondi di investimento europei a lungo termine.)), dai fornitori autorizzati allo svolgimento dei servizi di comunicazione dati, dai mercati regolamentati e dai sistemi registrati come un mercato di crescita per le PMI, ai sensi del presente decreto. Chiunque contravviene al divieto previsto dal presente articolo e’ punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro cinquemila fino a euro cinque milioni. Se la violazione e’ commessa da una societa’ o un ente, e’ applicata la sanzione amministrativa pecuniaria da euro trentamila fino a euro cinque milioni, ovvero fino al dieci per cento del fatturato, quando tale importo e’ superiore a euro cinque milioni e il fatturato e’ determinabile ai sensi dell’articolo 195, comma 1-bis.

  2. Si applica l’articolo 187-quinquiesdecies, comma 1-quater.

 

 

 

 

 

 ^   Art. 189 Partecipazioni al capitale.

 

Art. 189

(( (Partecipazioni al capitale). ))

((1. La violazione degli obblighi di comunicazione previsti dagli articoli 15, commi 1 e 3, 64-bis, comma 2, e delle relative disposizioni attuative, e di quelli richiesti ai sensi dell’articolo 17, nonche’ di quelli previsti dall’articolo 31, paragrafo 2, del regolamento (UE) n. 648/2012 e dall’articolo 27, paragrafo 7, secondo periodo, del regolamento (UE) n. 909/2014, e’ punita con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro cinquemila fino a euro cinque milioni. Se la violazione e’ commessa da una societa’ o un ente, e’ applicata la sanzione amministrativa pecuniaria da euro trentamila fino a euro cinque milioni, ovvero fino al dieci per cento del fatturato, quando tale importo e’ superiore a euro cinque milioni e il fatturato e’ determinabile ai sensi dell’articolo 195, comma 1-bis.

  1. La stessa sanzione si applica in caso di violazione dei divieti di esercizio dei diritti e in caso di inadempimento degli obblighi di alienazione previsti dagli articoli 14, commi 4 e 7; 16, commi 1, 2 e 4; 64-bis, comma 5; 79-sexies, comma 9; e 79-noviesdecies, comma 1.

  2. Si applica l’articolo 187-quinquiesdecies, comma 1-quater.))

 

 

 

 ^   Art. 190 Sanzioni amministrative pecuniarie in tema di disciplina degli intermediari 73

 

  1. Salvo che il fatto costituisca reato ai sensi dell’articolo 166, nei confronti dei soggetti abilitati, dei depositari e dei soggetti ai quali sono state esternalizzate funzioni operative essenziali o importanti si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da euro trentamila fino a euro cinque milioni, ovvero fino al dieci per cento del fatturato, quando tale importo e’ superiore a euro cinque milioni e il fatturato e’ determinabile ai sensi dell’articolo 195, comma 1-bis, per la mancata osservanza degli articoli 6; 6-bis; 6-ter; 7, commi 2, 2-bis, 2-ter, 3 e 3-bis; 7-bis, comma 5; 7-ter; 9; 12; 13, comma 3; 21; 22; 23, commi 1 e 4-bis; 24, commi 1 e 1-bis; 24-bis; 25; 25-bis; 25-ter, commi 1 e 2; 26, commi 1, 3 e 4; 27, commi 1 e 3; 28, comma 4; 29; 29-bis, comma 1; 29-ter, comma 4; 30, comma 5; 31, commi 1, 2, 2-bis, 3-bis, 5, 6 e 7; 32, comma 2; 33, comma 4; 35-bis, comma 6; 35-novies; 35-decies; 36, commi 2, 3 e 4; 37, commi 1, 2 e 3; 39; 40, commi 2, 4 e 5; 40-bis, comma 4; 40-ter, comma 4; 41, commi 2, 3 e 4; 41-bis; 41-ter; 41-quater; 42, commi 1, 3 e 4; 43, commi 2, 3, 4, 7, 8 e 9; 44, commi 1, 2, 3 e 5; 45; 46, commi 1, 3 e 4; 47; 48; 49, commi 3 e 4; 55-ter; 55-quater; 55-quinquies; ovvero delle disposizioni generali o particolari emanate in base ai medesimi articoli. (73)

1-bis.1 Chiunque eserciti l’attivita’ di gestore di portale in assenza dell’iscrizione nel registro previsto dall’articolo 50-quinquies e’ punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro cinquemila fino a euro cinque milioni. Se la violazione e’ commessa da una societa’ o un ente, si applica nei confronti di questi ultimi la sanzione amministrativa pecuniaria da euro trentamila fino a euro cinque milioni, ovvero fino al dieci per cento del fatturato, quando tale importo e’ superiore a euro cinque milioni e il fatturato e’ determinabile ai sensi dell’articolo 195, comma 1-bis. (73)

  1. La stessa sanzione prevista dal comma 1 si applica:

  2. a) alle banche non autorizzate alla prestazione di servizi o di attivita’ di investimento, nel caso in cui non osservino le disposizioni dell’articolo 25-bis e di quelle emanate in base ad esse;

  3. b) alle imprese di assicurazione, nel caso in cui non osservino le disposizioni previste dall’articolo 25-ter, commi 1 e 2, e quelle emanate in base ad esse;

  4. c) ai depositari centrali che prestano servizi o attivita’ di investimento per la violazione delle disposizioni del presente decreto richiamate dall’articolo 79-noviesdecies.1. (73)

2-bis. La medesima sanzione prevista dal comma 1 si applica a) ai gestori dei fondi europei per il venture capital (EuVECA), in caso di violazione delle disposizioni previste dagli articoli 2, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12 e 13 del regolamento (UE) n. 345/2013 e delle relative disposizioni attuative;

  1. b) ai gestori dei fondi europei per l’imprenditoria sociale (EuSEF), in caso di violazione delle disposizioni previste dagli articoli 2, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14 del regolamento (UE) n. 346/2013 e delle relative disposizioni attuative;

b-bis) ai gestori e ai depositari di FIA, in caso di violazione delle disposizioni del regolamento delegato (UE) n. 231/2013 della Commissione ((, del regolamento (UE) n. 2015/760,)) e delle relative disposizioni attuative;

b-ter) ai gestori e ai depositari di OICVM, in caso di violazione delle disposizioni del regolamento delegato (UE) n. 438/2016 della Commissione e delle relative disposizioni attuative.

((2-bis.1. La medesima sanzione prevista dal comma 1 si applica anche in caso di inosservanza delle norme tecniche di regolamentazione e di attuazione relative ai regolamenti di cui al comma 2-bis, lettere a), b), b-bis) e b-ter), emanate dalla Commissione europea ai sensi degli articoli 10 e 15 del regolamento (CE) n. 1095/2010.))

2-ter. COMMA ABROGATO DAL D.LGS. 3 AGOSTO 2017, N. 129. (73)

  1. Si applica l’articolo 187-quinquiesdecies, comma 1-quater. (73)

3-bis. I soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, direzione o controllo nei soggetti abilitati, i quali non osservano le disposizioni previste dall’articolo 6, comma 2-bis, ovvero le disposizioni generali o particolari emanate in base al medesimo comma dalla Banca d’Italia, sono puniti con la sanzione amministrativa pecuniaria da cinquantamila euro a cinquecentomila euro.

  1. COMMA ABROGATO DAL D.LGS. 3 AGOSTO 2017, N. 129. (73)

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 ^   Art. 190.1 Sanzioni amministrative pecuniarie in tema di disciplina della gestione accentrata di strumenti finanziari.

 

  1. Nei confronti dei depositari centrali di titoli, nel caso di inosservanza delle disposizioni previste dal Capo IV del titolo II-bis della parte III e di quelle emanate dalla Consob, d’intesa o sentita la Banca d’Italia, ai sensi dell’articolo 82, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da euro trentamila fino a euro cinque milioni, ovvero fino al dieci per cento del fatturato, quando tale importo e’ superiore a euro cinque milioni e il fatturato e’ ((determinabile ai sensi dell’articolo 195, comma 1-bis)). ((73))

  2. La stessa sanzione prevista dal comma 1 si applica:

  3. a) agli intermediari indicati nell’articolo 79-decies, comma 1, lettera b), per inosservanza delle disposizioni di cui all’articolo 83-novies, comma 1, lettere c), d), e) ed f), 83-duodecies, e di quelle emanate in base ad esse;

  4. b) agli emittenti azioni in caso di inosservanza di quanto previsto dall’articolo 83-undecies, comma 1.

  5. Si applica l’articolo ((187-quinquiesdecies, comma 1-quater.)) ((73))

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 ^   Art. 190.2 Sanzioni amministrative pecuniarie relative alla violazione delle disposizioni previste dal regolamento UE n. 909/2014.

 

  1. Nei confronti dei depositari centrali e delle banche designate ai sensi dell’articolo 54 del regolamento (UE) n. 909/2014, in caso di inosservanza delle disposizioni richiamate dall’articolo 63, paragrafo 1, del medesimo regolamento si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da euro trentamila fino a euro venti milioni, ovvero fino al dieci per cento del fatturato, quando tale importo e’ superiore a euro venti milioni e il fatturato e’ determinabile ai sensi dell’articolo 195, comma 1-bis. La medesima sanzione si applica altresi’ in caso di inosservanza delle norme tecniche di regolamentazione e di attuazione emanate dalla Commissione europea ai sensi del predetto regolamento. (73)

  2. Chiunque presti i servizi elencati nell’Allegato al regolamento (UE) n. 909/2014 e quelli consentiti, ma non esplicitamente elencati dal medesimo Allegato, in violazione degli articoli 16, 25 e 54 del predetto regolamento, e’ punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro cinquemila fino a euro cinque milioni. Se la violazione e’ commessa da una societa’ o un ente, e’ applicata la sanzione amministrativa pecuniaria da euro trentamila fino a euro venti milioni, ovvero fino al dieci per cento del fatturato, quando tale importo e’ superiore a euro venti milioni e il fatturato e’ determinabile ai sensi dell’articolo 195, comma 1-bis. (73)

  3. Si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da euro duemilacinquecento fino a euro centocinquantamila:

  4. a) ai gestori delle sedi di negoziazione, in caso di inosservanza delle disposizioni previste dall’articolo 3, paragrafo 2, comma 1, del regolamento di cui al comma 1;

  5. b) alle controparti di un contratto di garanzia finanziaria, in caso di violazione delle disposizioni previste dall’articolo 3, paragrafo 2, comma 2, del regolamento di cui al comma 1;

  6. c) alle imprese di investimento, in caso di inosservanza delle disposizioni previste dall’articolo 6, paragrafo 2, del regolamento di cui al comma 1 e delle relative disposizioni attuative;

  7. d) ai depositari centrali, in caso di inosservanza delle disposizioni previste dall’articolo 6, paragrafi 3 e 4, e dall’articolo 7, paragrafi 1 e 2, del regolamento di cui al comma 1, e delle relative disposizioni attuative;

  8. e) ai depositari centrali, alle controparti centrali e alle sedi di negoziazione, in caso di inosservanza delle disposizioni previste dall’articolo 7, paragrafi 9 e 10, del regolamento di cui al comma 1, e delle relative disposizioni attuative;

  9. f) ai partecipanti, in caso di inosservanza delle disposizioni previste dall’articolo 38, paragrafi 5 e 6, del regolamento di cui al comma 1;

  10. g) a chiunque non osservi le disposizioni previste dall’articolo 7, paragrafi 3, 6, 7 e 8, e dall’articolo 9, paragrafo 1, del regolamento di cui al comma 1 e dalle relative disposizioni attuative.

  11. Alle fattispecie disciplinate dai commi 1 e 2 si applica l’articolo 187-quinquiesdecies, comma 1-quater. (73)

  12. ((COMMA ABROGATO DAL D.LGS. 3 AGOSTO 2017, N. 129)). ((73))

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 ^   Art. 190.3 Sanzioni amministrative in tema di disciplina dei mercati e dei servizi di comunicazione dati.

 

Art. 190.3

(( (Sanzioni amministrative in tema di disciplina dei mercati e dei servizi di comunicazione dati). ))

((1. Salvo che il fatto costituisca reato ai sensi dell’articolo 166, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da euro trentamila fino a euro cinque milioni ovvero fino al dieci per cento del fatturato, quando tale importo e’ superiore a euro cinque milioni e il fatturato e’ determinabile ai sensi dell’articolo 195, comma 1-bis:

  1. a) ai gestori delle sedi negoziazione, nel caso di inosservanza delle disposizioni previste dal capo II del titolo I-bis della parte III e di quelle emanate in base ad esse;

  2. b) agli internalizzatori sistematici, nel caso di inosservanza delle disposizioni previste dal capo III del titolo I-bis della parte III e di quelle emanate in base ad esse;

  3. c) agli organizzatori e agli operatori dei sistemi multilaterali di depositi in euro, nel caso di inosservanza delle disposizioni previste dall’articolo 62-septies e di quelle emanate in base ad esse;

  4. d) ai membri e ai partecipanti ammessi ai mercati regolamentati e ai sistemi multilaterali di negoziazione nonche’ ai clienti di sistemi organizzati di negoziazione, nel caso di inosservanza delle disposizioni previste dal capo II del titolo I-bis della parte III e di quelle emanate in base ad esse;

  5. e) ai soggetti indicati nell’articolo 187-novies, nel caso di inosservanza delle disposizioni previste dal medesimo articolo e di quelle emanate in base ad esse;

  6. f) ai fornitori di servizi di comunicazione dati, nel caso di inosservanza delle disposizioni previste dagli articoli 79-bis, 79-ter e 79-ter.1 e di quelle emanate in base ad esse.

  7. Chiunque viola le disposizioni previste dall’articolo 68, comma 1, e dalle relative norme attuative, ovvero viola le misure adottate in base alle medesime disposizioni e’ punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro cinquemila fino a euro cinque milioni. Se la violazione e’ commessa da una societa’ o un ente, si applica nei confronti di questi ultimi la sanzione amministrativa pecuniaria da euro trentamila fino a euro cinque milioni, ovvero fino al dieci per cento del fatturato, quando tale importo e’ superiore a euro cinque milioni e il fatturato e’ determinabile ai sensi dell’articolo 195, comma 1-bis.

  8. Per la violazione delle disposizioni previste dagli articoli 67-ter, 68, comma 1, e 68-quater, commi 2 e 3, in ragione della gravita’ della violazione accertata e tenuto conto dei criteri stabiliti dall’articolo 194-bis, puo’ essere applicata anche la sanzione amministrativa accessoria dell’interdizione temporanea, per un periodo non inferiore a sei mesi e non superiore a tre anni, a essere membro o partecipante di un mercato regolamentato, di un sistema multilaterale di negoziazione o a essere cliente di un sistema organizzato di negoziazione.

  9. Si applica l’articolo 187-quinquiesdecies, comma 1-quater.))

((73))

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 ^   Art. 190.4 Sanzioni amministrative pecuniarie relative alle violazioni delle disposizioni previste dal regolamento UE n. 600/2014, dagli atti delegati e dalle norme tecniche di regolamentazione e di attuazione della direttiva 2014/65/UE e del regolamento

 

Art. 190.4

(( (Sanzioni amministrative pecuniarie relative alle violazioni delle disposizioni previste dal regolamento (UE) n. 600/2014, dagli atti delegati e dalle norme tecniche di regolamentazione e di attuazione della direttiva 2014/65/UE e del regolamento (UE) n. 600/2014). ))

((1. La violazione delle norme del regolamento (UE) n. 600/2014 richiamate dall’articolo 70, paragrafi 3, lettera b), e 4, lettera b), della direttiva 2014/65/UE e dell’articolo 22, paragrafo 1, del medesimo regolamento, nonche’ delle relative disposizioni attuative, ovvero la mancata osservanza delle misure adottate ai sensi dell’articolo 42 del regolamento (UE) n. 600/2014, e’ punita con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro cinquemila fino a euro cinque milioni. Se la violazione e’ commessa da una societa’ o un ente, e’ applicata la sanzione amministrativa pecuniaria da euro trentamila fino a euro cinque milioni, ovvero fino al dieci per cento del fatturato, quando tale importo e’ superiore a euro cinque milioni e il fatturato e’ determinabile ai sensi dell’articolo 195, comma 1-bis.

  1. La stessa sanzione prevista dal comma 1 si applica anche in caso di violazione delle disposizioni contenute negli atti delegati e nelle norme tecniche di regolamentazione e di attuazione della direttiva 2014/65/UE e del regolamento (UE) n. 600/2014, nelle materie a cui si riferiscono le disposizioni richiamate al comma 1 e agli articoli 190 e 190.3.

  2. Si applica l’articolo 187-quinquiesdecies, comma 1-quater.))

((73))

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 ^   Art. 190.5 Sanzioni amministrative pecuniarie in tema di agenzie di rating del credito relative alle violazioni delle disposizioni previste dal regolamento CE n. 1060/2009.

 

Art. 190.5

(( (Sanzioni amministrative pecuniarie in tema di agenzie di rating del credito relative alle violazioni delle disposizioni previste dal regolamento (CE) n. 1060/2009). ))

((1. Si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da euro duemilacinquecento a euro centocinquantamila:

  1. a) nei confronti di Sim, imprese di investimento UE con succursale in Italia, imprese di paesi terzi autorizzate in Italia, intermediari finanziari iscritti nell’albo previsto dall’articolo 106 del T.U. bancario, banche italiane e banche UE con succursale in Italia autorizzate alla prestazione di servizi e attivita’ di investimento, nonche’ nei confronti dei soggetti che svolgono funzioni di amministrazione o di direzione delle controparti centrali, in caso di violazione delle disposizioni previste dagli articoli 4, paragrafo 1, comma 1, e 5-bis del regolamento (CE) n. 1060/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 settembre 2009, relativo alle agenzie di rating del credito, e delle relative disposizioni attuative;

  2. b) nei confronti dei gestori, in caso di violazione dell’articolo 35-duodecies del presente decreto e dell’articolo 4, paragrafo 1, comma 1, del regolamento di cui alla lettera a), e delle relative disposizioni attuative;

  3. c) nei confronti degli emittenti, degli offerenti o delle persone che chiedono l’ammissione alla negoziazione sui mercati regolamentati italiani, in caso di violazione dell’articolo 4, paragrafo 1, comma 2, del regolamento di cui alla lettera a);

  4. d) nei confronti degli emittenti, cedenti o promotori di strumenti di finanza strutturata, in caso di violazione dell’articolo 8-ter del regolamento di cui alla lettera a);

  5. e) nei confronti degli emittenti o terzi collegati come definiti dall’articolo 3, paragrafo 1, lettera i), del regolamento di cui alla lettera a), in caso di violazione degli articoli 8-quater e 8-quinquies del predetto regolamento.

  6. Si applica l’articolo 187-quinquiesdecies, comma 1-quater.))

((73))

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 ^   Art. 190-bis Responsabilita’ degli esponenti aziendali e del personale per le violazioni in tema di disciplina degli intermediari, dei mercati, dei depositari centrali e della gestione accentrata di strumenti finanziari e dei servizi di comunicazione dati

 

  1. Fermo restando quanto previsto per le societa’ e gli enti nei confronti dei quali sono accertate le violazioni, per l’inosservanza delle disposizioni richiamate dagli articoli 188, 189, 190, 190.1 ((, 190.2, commi 1 e 2, 190.3, 190.4, e 190.5)), si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da euro cinquemila fino a ((euro cinque milioni)) nei confronti dei soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, di direzione o di controllo, nonche’ nei confronti del personale, quando l’inosservanza e’ conseguenza della violazione di doveri propri o dell’organo di appartenenza e ricorrono una o piu’ delle seguenti condizioni: ((73))

  2. a) la condotta ha inciso in modo rilevante sulla complessiva organizzazione o sui profili di rischio aziendali, ovvero ha provocato un grave pregiudizio per la tutela degli investitori ((o per la trasparenza, l’integrita’ e)) il corretto funzionamento del mercato; ((73))

  3. b) la condotta ha contribuito a determinare la mancata ottemperanza della societa’ o dell’ente a provvedimenti specifici adottati ai sensi degli articoli 7, comma 2, e 12, comma 5-bis;

  4. c) le violazioni riguardano obblighi imposti ai sensi dell’articolo 6, commi, 2-septies, 2-octies, 2-novies, o dell’articolo 13, ovvero obblighi in materia di remunerazione e incentivazione, quando l’esponente o il personale e’ la parte interessata.

  5. Nei confronti dei soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, di direzione o di controllo, nonche’ del personale, nei casi in cui la loro condotta abbia contribuito a determinare l’inosservanza dell’ordine di cui all’articolo 194-quater da parte della societa’ o dell’ente, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da euro cinquemila fino a ((euro cinque milioni)). ((73))

  6. Con il provvedimento di applicazione della sanzione, in ragione della gravita’ della violazione accertata e tenuto conto dei criteri stabiliti dall’articolo 194-bis, la Banca d’Italia o la Consob possono applicare la sanzione amministrativa accessoria dell’interdizione, per un periodo non inferiore a sei mesi e non superiore a tre anni, dallo svolgimento di funzioni di amministrazione, direzione e controllo presso ((soggetti)) autorizzati ai sensi del presente decreto legislativo, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, del D.LGS. 7 settembre 2005, n. 209, o presso fondi pensione. ((73))

3-bis. La Banca d’Italia o la Consob, in ragione della gravita’ della violazione accertata e tenuto conto dei criteri stabiliti dall’articolo 194-bis, ((possono applicare)) la sanzione amministrativa accessoria dell’interdizione permanente dallo svolgimento delle funzioni richiamate al comma 3, nel caso in cui al medesimo soggetto sia stata gia’ applicata, due o piu’ volte negli ultimi dieci anni, ((sempre per le violazioni commesse con dolo o colpa grave,)) l’interdizione di cui al comma 3, per un periodo complessivo non inferiore a cinque anni. ((73))

  1. Si applica l’articolo ((187-quinquiesdecies, comma 1-quater.)). ((73))

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 ^   Art. 190-ter ARTICOLO ABROGATO DAL D.LGS. 3 AGOSTO 2017, N. 129

 

Art. 190-ter

((ARTICOLO ABROGATO DAL D.LGS. 3 AGOSTO 2017, N. 129))

((73))

 

 

 

 

 ^   Art. 190-quater Sanzioni amministrative in tema di gestione di portali.

 

Art. 190-quater

(( (Sanzioni amministrative in tema di gestione di portali). ))

((1. I gestori di portali per la raccolta di capitali per le piccole e medie imprese che violano le norme degli articoli 50-quinquies e 100-ter o le relative disposizioni attuative sono puniti con una sanzione amministrativa pecuniaria da euro cinquecento a euro venticinquemila. Per i soggetti iscritti nel registro di cui al comma 2 dell’articolo 50-quinquies, puo’ altresi’ essere disposta la sospensione da uno a quattro mesi o la radiazione dal registro.))

((73))

 

 

 

 ^   Art. 191 Offerta al pubblico di sottoscrizione e di vendita.

 

  1. Chiunque effettua un’offerta al pubblico in violazione dell’articolo 94, comma 1, e’ punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro venticinquemila fino a euro cinque milioni. (73)

  2. Chiunque viola gli articoli 94, commi 2, 3, 5, 6 e 7, 96, 97 e 101, salvo il caso specifico di cui al comma 4, ovvero le relative disposizioni generali o particolari emanate dalla Consob ai sensi degli articoli 95, commi 1, 2 e 4, 97, comma 2, 99, comma 1, lettere a), b), c) e d), e’ punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro cinquemila fino a euro settecentocinquantamila. (73)

  3. Chiunque effettua un’offerta al pubblico in violazione dell’articolo 98-ter, comma 1, e’ punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro venticinquemila fino a euro cinque milioni. Se la violazione e’ commessa da una societa’ o un ente, e’ applicata la sanzione amministrativa pecuniaria da euro venticinquemila fino a euro cinque milioni, ovvero fino al dieci per cento del fatturato, quando tale importo e’ superiore a euro cinque milioni e il fatturato e’ determinabile ai sensi dell’articolo 195, comma 1-bis. (73)

  4. Chiunque viola l’articolo 98-ter, commi 2 e 3, ovvero le relative disposizioni generali o particolari emanate dalla Consob ai sensi dell’articolo 98-quater, e’ punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro cinquemila fino a cinque milioni di euro. Se la violazione e’ commessa da una societa’ o un ente, e’ applicata la sanzione amministrativa pecuniaria da euro cinquemila fino a cinque milioni di euro, ovvero fino al dieci per cento del fatturato, quando tale importo e’ superiore a euro cinque milioni e il fatturato e’ determinabile ai sensi dell’articolo 195, comma 1-bis. Le medesime sanzioni si applicano alla violazione dell’articolo 101 commessa nell’ambito di un’offerta di OICVM. (73)

  5. Fermo restando quanto previsto dai commi 3 e 4, se all’osservanza delle disposizioni previste dai commi 1, 2, 3 e 4 e’ tenuta una societa’ o un ente, le sanzioni ivi previste si applicano nei confronti di questi ultimi; la stessa sanzione si applica nei confronti degli esponenti aziendali e del personale della societa’ o dell’ente nei casi previsti dall’articolo 190-bis, comma 1, lettera a). Se all’osservanza delle medesime disposizioni e’ tenuta una persona fisica, in caso di violazione, la sanzione si applica nei confronti di quest’ultima.

  6. Alle violazioni previste dai commi 3 e 4 si applicano gli articoli 187-quinquiesdecies, comma 1-quater, e 190-bis, commi 2, 3 e 3-bis. (73)

  7. Fermo restando quanto previsto dal comma 6, l’applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie previste dai commi 1 e 3, importa la perdita temporanea dei requisiti di idoneita’ previsti dal presente decreto per gli esponenti aziendali dei soggetti abilitati e dei requisiti previsti per i consulenti finanziari abilitati all’offerta fuori sede, per i consulenti finanziari autonomi e per gli esponenti aziendali delle societa’ di consulenza finanziaria nonche’ l’incapacita’ temporanea ad assumere incarichi di amministrazione, direzione e controllo nell’ambito di societa’ aventi titoli quotati nei mercati regolamentati o diffusi tra il pubblico in maniera rilevante e di societa’ appartenenti al medesimo gruppo. La sanzione amministrativa accessoria ha durata non inferiore a due mesi e non superiore a tre anni. (73)

  8. ((COMMA ABROGATO DAL D.LGS. 3 AGOSTO 2017, N. 129)). ((73))

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 ^   Art. 192 Offerte pubbliche di acquisto o di scambio

 

  1. Chiunque viola l’obbligo di promuovere un’offerta pubblica di acquisto o di scambio ovvero effettua un’offerta pubblica di acquisto o di scambio in violazione delle disposizioni dell’articolo 102, commi 1, 3 e 6 , e’ punito con la sanzione amministrativa pecuniaria di importo non inferiore ad euro venticinquemila e non superiore al corrispettivo complessivamente dovuto dall’offerente ovvero che sarebbe stato complessivamente dovuto dall’offerente se l’offerta fosse stata promossa. .

  2. La sanzione indicata nel comma 1 si applica a chi:

  3. a) non rispetta le indicazioni fornite dalla CONSOB ai sensi dell’articolo 102, comma 4 , ovvero viola le disposizioni dei regolamenti emanati a norma dell’articolo 102, comma 1 e dell’articolo 103, comma 4 ;

a-bis) viola le disposizioni di cui all’articolo 103, commi 3 e 3-bis;

a-ter) viola le disposizioni relative all’obbligo di acquisto di cui all’articolo 108, commi 1 e 2 e le disposizioni del regolamento emanato a norma dell’articolo 108, comma 7;

  1. b) esercita il diritto di voto in violazione delle disposizioni dell’articolo 110.

b-bis) viola l’obbligo di cui all’articolo 110, comma 1-bis.

2-bis. Se all’osservanza delle disposizioni previste dai commi 1 e 2 e’ tenuta una societa’ o un ente, le sanzioni ivi previste si applicano nei confronti di questi ultimi; la stessa sanzione si applica nei confronti degli esponenti aziendali e del personale della societa’ o dell’ente nei casi previsti dall’art. 190-bis, comma 1, lettera a). Se all’osservanza delle medesime disposizioni e’ tenuta una persona fisica, in caso di violazione, la sanzione si applica nei confronti di quest’ultima. La sanzione massima applicabile ad una persona fisica per le violazioni previste ai commi 1 e 2 non puo’ essere superiore a ((euro cinque milioni)). ((73))

2-ter Si applica l’articolo ((187-quinquiesdecies, comma 1-quater)). ((73))

  1. COMMA ABROGATO DAL D.LGS. 25 SETTEMBRE 2009, N. 146.

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AGGIORNAMENTO (73)

Il D.Lgs. 3 agosto 2017, n. 129 ha disposto (con l’art. 10, comma 2) che “Le disposizioni del D.LGS. 24 febbraio 1998, n. 58, modificate dal presente decreto, si applicano dal 3 gennaio 2018, fatto salvo quanto diversamente previsto dall’articolo 93 della direttiva 2014/65/UE, con riferimento dell’articolo 65, paragrafo 2, della direttiva medesima, le cui disposizioni attuative si applicano dal 3 settembre 2019, e dall’articolo 55 del regolamento (UE) n. 600/2014, e successive modificazioni, nonche’ dal comma 3. […] Fermo restando quanto previsto dalle disposizioni dell’Unione europea direttamente applicabili, le disposizioni emanate dalla Banca d’Italia e dalla Consob, anche congiuntamente, ai sensi di disposizioni del D.LGS. 24 febbraio 1998, n. 58, abrogate o modificate dal presente decreto, continuano a essere applicate fino alla data di entrata in vigore dei provvedimenti emanati dalla Banca d’Italia o dalla Consob nelle corrispondenti materie”.

Ha inoltre disposto (con l’art. 10, comma 13) che le presenti modifiche si applicano alle violazioni commesse a partire dal 3 gennaio 2018.

 

 

 

 ^   Art. 192-bis Informazioni sul governo societario

 

  1. Salvo che il fatto costituisca reato, nei confronti delle societa’ quotate nei mercati regolamentati che omettono le comunicazioni prescritte dall’articolo 123-bis, comma 2, lettera a), ((si applica una delle seguenti sanzioni amministrative)):((73))

  2. a) una dichiarazione pubblica indicante la persona giuridica responsabile della violazione e la natura della stessa ((, quando questa sia connotata da scarsa offensivita’ o pericolosita’ e l’infrazione contestata sia cessata;));((73))

  3. b) un ordine di eliminare le infrazioni contestate, con eventuale indicazione delle misure da adottare e del termine per l’adempimento, e di astenersi dal ripeterle, quando le infrazioni stesse siano connotate da scarsa offensivita’ o pericolosita’;

  4. c) una sanzione amministrativa pecuniaria da euro diecimila a euro dieci milioni, ovvero, ((fino al cinque per cento del fatturato quando tale importo e’ superiore a euro dieci milioni e il fatturato e’ determinabile ai sensi dell’articolo 195, comma 1-bis.))((73))

1-bis. Per l’omissione delle comunicazioni indicate al comma 1, nei casi previsti dall’articolo 190-bis, comma 1, lettera a), salvo che il fatto costituisca reato, nei confronti dei soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, di direzione o di controllo, nonche’ del personale, qualora la loro condotta abbia contribuito a determinare l’omissione delle comunicazioni da parte della societa’ o dell’ente, ((si applica una delle seguenti sanzioni amministrative)):((73))

  1. a) una dichiarazione pubblica indicante la persona responsabile della violazione e la natura della stessa ((, quando questa sia connotata da scarsa offensivita’ o pericolosita’ e l’infrazione contestata sia cessata;));((73))

  2. b) un ordine di eliminare le infrazioni contestate, con eventuale indicazione delle misure da adottare e del termine per l’adempimento, e di astenersi dal ripeterle, quando le infrazioni stesse siano connotate da scarsa offensivita’ o pericolosita’;

  3. c) una sanzione amministrativa pecuniaria da euro diecimila a euro due milioni.

1-ter. Si applica l’articolo ((187-quinquiesdecies, comma 1-quater)).((73))

1-quater. Nei casi di inosservanza dell’ordine di eliminare le infrazioni contestate e di astenersi dal ripeterle, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria prevista per la violazione originariamente contestata aumentata fino ad un terzo. Fermo restando quanto previsto per le persone giuridiche nei confronti delle quali e’ accertata l’inosservanza dell’ordine, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da euro diecimila a euro due milioni nei confronti dei soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, di direzione o di controllo, nonche’ del personale, qualora la loro condotta abbia contribuito a determinare l’inosservanza dell’ordine da parte della persona giuridica.

 

mma 13) che le presenti modifiche si applicano alle violazioni commesse a partire dal 3 gennaio 2018.

 

 

 

 ^   Art. 192-ter Ammissione alle negoziazioni

 

  1. Nei confronti dell’emittente o della persona che chiede l’ammissione alle negoziazioni che viola le disposizioni contenute negli articoli 113, commi 2, 3, lettere a), d) f), e 4, e 113-bis, commi 1, 2, lettere a) e b), e 4, ovvero le disposizioni generali o particolari emanate dalla Consob in base ai medesimi articoli, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da euro cinquemila a euro settecentocinquantamila.

  2. COMMA ABROGATO DAL D.LGS. 12 MAGGIO 2015, N. 72.

2-bis. La sanzione prevista al comma 1 si applica ((…)) nei confronti degli esponenti aziendali e del personale della societa’ o dell’ente nei casi previsti dall’articolo 190-bis, comma 1, lettera a).((73))

  1. COMMA ABROGATO DAL D.LGS. 12 MAGGIO 2015, N. 72.

3-bis. Si applica l’articolo ((187-quinquiesdecies, comma 1-quater)).((73))

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 ^   Art. 192-quater Obbligo di astensione.

 

Art. 192-quater

(( (Obbligo di astensione).))

((1. I soci e gli amministratori che violano l’obbligo di astensione di cui all’articolo 6, comma 2-novies, sono puniti con una sanzione amministrativa pecuniaria da euro cinquantamila a euro centocinquantamila.))

 

 

 

 ^   Art. 193. Informazione societaria e doveri dei sindaci, dei revisori legali e delle societa’ di revisione legale

 

  1. Salvo che il fatto costituisca reato, nei confronti di societa’, enti o associazioni tenuti a effettuare le comunicazioni previste dagli articoli 114, 114-bis, 115, 154-bis, 154-ter e 154-quater, o soggetti agli obblighi di cui all’articolo 115-bis per l’inosservanza delle disposizioni degli articoli medesimi o delle relative disposizioni attuative, si applica una delle seguenti sanzioni amministrative:(73)

  2. a) una dichiarazione pubblica indicante la persona giuridica responsabile della violazione e la natura della stessa, quando questa sia connotata da scarsa offensivita’ o pericolosita’ e l’infrazione contestata sia cessata;(73)

  3. b) un ordine di eliminare le infrazioni contestate, con eventuale indicazione delle misure da adottare e del termine per l’adempimento, e di astenersi dal ripeterle, quando le infrazioni stesse siano connotate da scarsa offensivita’ o pericolosita’;

  4. c) una sanzione amministrativa pecuniaria da euro cinquemila a euro dieci milioni, ovvero fino al cinque per cento del fatturato quando tale importo e’ superiore a euro dieci milioni e il fatturato e’ determinabile ai sensi dell’articolo 195, comma 1-bis. (73)

1.1. Se le comunicazioni indicate nel comma 1 sono dovute da una persona fisica, salvo che il fatto costituisca reato, in caso di violazione si applicano nei confronti di quest’ultima, salvo che ricorra la causa di esenzione prevista dall’articolo 114, comma 10, una delle seguenti sanzioni amministrative:(73)

  1. a) una dichiarazione pubblica indicante la persona responsabile della violazione e la natura della stessa, quando questa sia connotata da scarsa offensivita’ o pericolosita’ e l’infrazione contestata sia cessata;(73)

  2. b) un ordine di eliminare le infrazioni contestate, con eventuale indicazione delle misure da adottare e del termine per l’adempimento, e di astenersi dal ripeterle, quando le infrazioni stesse siano connotate da scarsa offensivita’ o pericolosita’;

  3. c) una sanzione amministrativa pecuniaria da euro cinquemila a euro due milioni.

1.2. Per le violazioni indicate nel comma 1, nei confronti dei soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, di direzione o di controllo, nonche’ del personale, qualora la loro condotta abbia contribuito a determinare dette violazioni da parte della persona giuridica si applicano, nei casi previsti dall’articolo 190-bis, comma 1, lettera a), le sanzioni amministrative previste dal comma 1.1.

1-bis. COMMA ABROGATO DAL D.LGS. 12 MAGGIO 2015, N. 72.

1-ter. COMMA ABROGATO DAL D.LGS. 12 MAGGIO 2015, N. 72.

1-quater. Le stesse sanzioni indicate ai commi 1, 1.1 e 1.2 si applicano, in caso di inosservanza delle disposizioni di attuazione emanate dalla Consob ai sensi dell’articolo 113-ter, comma 5, lettere b) e c), nei confronti dei soggetti autorizzati dalla Consob all’esercizio del servizio di diffusione e di stoccaggio delle informazioni regolamentate.

1-quinquies. ((COMMA ABROGATO DAL D.LGS. 3 AGOSTO 2017, N. 129)). ((73))

  1. Salvo che il fatto costituisca reato, nei casi di omissione delle comunicazioni delle partecipazioni rilevanti e dei patti parasociali previste, rispettivamente dagli articoli 120, commi 2, 2-bis, 4 e 4-bis, e 122, commi 1, 2 e 5, nonche’ di violazione dei divieti previsti dagli articoli 120, comma 5, 121, commi 1 e 3, e 122, comma 4, nei confronti di societa’, enti o associazioni, si applica una delle seguenti sanzioni amministrative:(73)

  2. a) una dichiarazione pubblica indicante il soggetto responsabile della violazione e la natura della stessa, quando questa sia connotata da scarsa offensivita’ o pericolosita’ e l’infrazione contestata sia cessata;(73)

  3. b) un ordine di eliminare le infrazioni contestate, con eventuale indicazione delle misure da adottare e del termine per l’adempimento, e di astenersi dal ripeterle, quando le infrazioni stesse siano connotate da scarsa offensivita’ o pericolosita’;

  4. c) una sanzione amministrativa pecuniaria da euro diecimila a euro dieci milioni, ovvero fino al cinque per cento del fatturato quando tale importo e’ superiore a euro dieci milioni e il fatturato e’ determinabile ai sensi dell’articolo 195, comma 1-bis.(73)

2.1. Salvo che il fatto costituisca reato, ove le comunicazioni indicate nel comma 2 sono dovute da una persona fisica, in caso di violazione si applica una delle seguenti sanzioni amministrative:(73)

  1. a) una dichiarazione pubblica indicante la persona responsabile della violazione e la natura della stessa, quando questa sia connotata da scarsa offensivita’ o pericolosita’ e l’infrazione contestata sia cessata;(73)

  2. b) un ordine di eliminare le infrazioni contestate, con eventuale indicazione delle misure da adottare e del termine per l’adempimento, e di astenersi dal ripeterle, quando le infrazioni stesse siano connotate da scarsa offensivita’ o pericolosita’;

  3. c) una sanzione amministrativa pecuniaria da euro diecimila a euro due milioni.

2.2. Per le violazioni indicate nel comma 2, nei confronti dei soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, di direzione o di controllo, nonche’ del personale, qualora la loro condotta abbia contribuito a determinare dette violazioni da parte della persona giuridica si applicano, nei casi previsti dall’articolo 190-bis, comma 1, lettera a), le sanzioni amministrative previste dal comma 2.1.

2.3. Nei casi di ritardo delle comunicazioni previste dall’articolo 120, commi 2, 2-bis e 4, non superiore a due mesi, l’importo minimo edittale delle sanzioni amministrative pecuniarie indicate nei commi 2 e 2.1 e’ pari a euro cinquemila.

2.4. Se il vantaggio ottenuto dall’autore della violazione come conseguenza della violazione stessa e’ superiore ai limiti massimi edittali indicati nei commi 1, 1.1, 2 e 2.1, del presente articolo, la sanzione amministrativa pecuniaria e’ elevata fino al doppio dell’ammontare del vantaggio ottenuto, purche’ tale ammontare sia determinabile.

2-bis. COMMA SOPPRESSO DAL D.LGS. 15 FEBBRAIO 2016, N. 25.

  1. Si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da euro diecimila a euro un milione e cinquecentomila applica:

  2. a) ai componenti del collegio sindacale, del consiglio di sorveglianza e del comitato per il controllo sulla gestione che commettono irregolarita’ nell’adempimento dei doveri previsti dall’articolo 149, commi 1, 4-bis, primo periodo, e 4-ter, ovvero omettono le comunicazioni previste dall’articolo 149, comma 3;

  3. b) LETTERA ABROGATA DAL D.LGS. 27 GENNAIO 2010, N. 39.

3-bis. Salvo che il fatto costituisca reato, i componenti degli organi di controllo, i quali omettano di eseguire nei termini prescritti le comunicazioni di cui all’articolo 148-bis, comma 2, sono puniti con la sanzione amministrativa in misura pari al doppio della retribuzione annuale prevista per l’incarico relativamente al quale e’ stata omessa la comunicazione. Con il provvedimento sanzionatorio e’ dichiarata altresi’ la decadenza dall’incarico.

3-ter. ((COMMA ABROGATO DAL D.LGS. 3 AGOSTO 2017, N. 129)). ((73))

3-quater. Nel caso di violazione degli ordini previsti dal presente articolo si applica l’articolo 192-bis, comma 1-quater.

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AGGIORNAMENTO (73)

Il D.Lgs. 3 agosto 2017, n. 129 ha disposto (con l’art. 10, comma 2) che “Le disposizioni del D.LGS. 24 febbraio 1998, n. 58, modificate dal presente decreto, si applicano dal 3 gennaio 2018, fatto salvo quanto diversamente previsto dall’articolo 93 della direttiva 2014/65/UE, con riferimento dell’articolo 65, paragrafo 2, della direttiva medesima, le cui disposizioni attuative si applicano dal 3 settembre 2019, e dall’articolo 55 del regolamento (UE) n. 600/2014, e successive modificazioni, nonche’ dal comma 3. […] Fermo restando quanto previsto dalle disposizioni dell’Unione europea direttamente applicabili, le disposizioni emanate dalla Banca d’Italia e dalla Consob, anche congiuntamente, ai sensi di disposizioni del D.LGS. 24 febbraio 1998, n. 58, abrogate o modificate dal presente decreto, continuano a essere applicate fino alla data di entrata in vigore dei provvedimenti emanati dalla Banca d’Italia o dalla Consob nelle corrispondenti materie”.

Ha inoltre disposto (con l’art. 10, comma 13) che “Le modifiche apportate dal presente decreto alla parte V del D.LGS. 24 febbraio 1998, n. 58, si applicano alle violazioni commesse a partire dal 3 gennaio 2018”.

 

 

 

 ^   Art. 193-bis Rapporti con societa’ estere aventi sede legale in Stati che non garantiscono la trasparenza societaria.

 

Art. 193-bis consulenti finanziari sanzioni consob

(( (Rapporti con societa’ estere aventi sede legale in Stati che non garantiscono la trasparenza societaria). ))

((1. Coloro che sottoscrivono il bilancio della societa’ estera di cui all’articolo 165-quater, comma 2, le relazioni e i pareri di cui agli articoli 165-quater, commi 2 e 3, 165-quinquies, comma 1, e 165-sexies, comma 1, e coloro che esercitano la revisione ai sensi dell’articolo 165-quater, comma 4, sono soggetti a responsabilita’ civile, penale e amministrativa secondo quanto previsto in relazione al bilancio delle societa’ italiane.

  1. Salvo che il fatto costituisca reato, la violazione degli obblighi derivanti dall’esercizio dei poteri attribuiti alla CONSOB dall’articolo 165-septies, comma 1, e’ punita con la sanzione amministrativa pecuniaria prevista dall’articolo 193, comma 1)).

 

 

 

 ^   Art. 193-ter Sanzioni amministrative pecuniarie relative alle violazioni delle prescrizioni di cui al regolamento UE n. 236/2012.

 

  1. Chiunque non osservi le disposizioni previste dagli articoli 5, 6, 7, 8, 9, 15, 17, 18 e 19 del regolamento (UE) n. 236/2012 e relative disposizioni attuative, e’ soggetto alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro venticinquemila a euro duemilionicinquecentomila.

  2. La stessa sanzione del comma 1 e’ applicabile a chi:

  3. a) violi le disposizioni di cui agli articoli 12, 13 e 14 del regolamento indicato al comma 1 e relative disposizioni attuative; (73)

  4. b) violi le misure adottate dall’autorita’ competente di cui all’articolo 4-ter ai sensi degli articoli 20, 21 e 23 del medesimo regolamento.

  5. Le sanzioni amministrative pecuniarie previste al comma 2, lettere a) e b), sono aumentate fino al triplo o fino al maggiore importo di dieci volte il prodotto o il profitto conseguito dall’illecito quando, per le qualita’ personali del colpevole, per l’entita’ del prodotto o del profitto conseguito dall’illecito ovvero per gli effetti prodotti sul mercato, esse appaiono inadeguate anche se applicate nel massimo.

  6. L’applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie previste dal presente articolo comporta sempre la confisca del prodotto o del profitto dell’illecito. Qualora non sia possibile eseguire la confisca, la stessa puo’ avere ad oggetto somme di denaro, beni o altre utilita’ di valore equivalente.

  7. ((COMMA ABROGATO DAL D.LGS. 3 AGOSTO 2017, N. 129)).((73))

 

 

 

 

 ^   Art. 193-quater Sanzioni amministrative pecuniarie relative alla violazione delle disposizioni previste dal regolamento UE n. 648/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 luglio 2012.

 

  1. Le controparti centrali, i gestori delle sedi di negoziazione, le controparti finanziarie e le controparti non finanziarie, come definite dall’articolo 2, punti 1), 4), 8) e 9), del regolamento (UE) n. 648/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 luglio 2012, i soggetti che agiscono in qualita’ di partecipanti alle controparti centrali o in qualita’ di clienti di questi ultimi, come definiti dall’articolo 2, punto 15), del citato regolamento, i quali non osservano le disposizioni previste dai titoli II, III, IV e V del medesimo regolamento e le relative disposizioni attuative, ((sono puniti)) con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro cinquemila fino a euro cinque milioni, se sono persone fisiche. Se la violazione e’ commessa da una societa’ o da un ente, si applica nei confronti di questi ultimi la sanzione amministrativa pecuniaria da euro trentamila fino a euro cinque milioni, ((ovvero fino al dieci per cento del fatturato, quando tale importo e’ superiore a euro cinque milioni e il fatturato e’ determinabile ai sensi dell’articolo 195, comma 1-bis.)) ((73))

  2. COMMA ABROGATO DAL D.LGS. 12 MAGGIO 2015, N. 72. consulenti finanziari sanzioni consob

  3. Le sanzioni amministrative previste dal comma 1 sono applicate dalla Banca d’Italia, dalla Consob, dall’IVASS e dalla COVIP, secondo le rispettive attribuzioni di vigilanza.

  4. Si applica l’articolo ((187-quinquiesdecies, comma 1-quater)).((73))

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AGGIORNAMENTO (73)

Il D.Lgs. 3 agosto 2017, n. 129 ha disposto (con l’art. 10, comma 2) che “Le disposizioni del D.LGS. 24 febbraio 1998, n. 58, modificate dal presente decreto, si applicano dal 3 gennaio 2018, fatto salvo quanto diversamente previsto dall’articolo 93 della direttiva 2014/65/UE, con riferimento dell’articolo 65, paragrafo 2, della direttiva medesima, le cui disposizioni attuative si applicano dal 3 settembre 2019, e dall’articolo 55 del regolamento (UE) n. 600/2014, e successive modificazioni, nonche’ dal comma 3. […] Fermo restando quanto previsto dalle disposizioni dell’Unione europea direttamente applicabili, le disposizioni emanate dalla Banca d’Italia e dalla Consob, anche congiuntamente, ai sensi di disposizioni del D.LGS. 24 febbraio 1998, n. 58, abrogate o modificate dal presente decreto, continuano a essere applicate fino alla data di entrata in vigore dei provvedimenti emanati dalla Banca d’Italia o dalla Consob nelle corrispondenti materie”.

Ha inoltre disposto (con l’art. 10, comma 13) che le presenti modifiche si applicano alle violazioni commesse a partire dal 3 gennaio 2018.

 

 

 

 ^ Art. 193-quinquies Sanzioni amministrative pecuniarie relative alle violazioni delle disposizioni previste dal regolamento UE n. 1286/2014.

 

  1. La violazione delle disposizioni richiamate dall’articolo 24, paragrafo 1, del regolamento (UE) n. 1286/2014, ovvero la mancata osservanza delle misure adottate ai sensi dell’articolo 4-septies, comma 1, e’ punita con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro cinquemila fino a euro settecentomila con provvedimento adottato dalla Consob o dall’IVASS secondo le rispettive competenze definite ai sensi dell’articolo 4-sexies. Se la violazione e’ commessa da una societa’ o un ente, e’ applicata la sanzione amministrativa pecuniaria da euro trentamila fino a euro cinque milioni, ovvero fino al tre per cento del relativo fatturato ((…)) quando tale importo e’ superiore a euro cinque milioni ((e il fatturato e’ determinabile ai sensi dell’articolo 195, comma 1-bis.)).((73))

  2. La violazione degli obblighi di notifica di cui all’articolo 4-decies e delle relative disposizioni attuative e’ punita con le sanzioni previste dal comma 1.

  3. Le sanzioni previste ai commi 1 e 2 per le persone fisiche si applicano nei confronti degli esponenti aziendali e del personale della societa’ o dell’ente nei casi previsti dall’articolo 190-bis, comma 1, lettera a).

  4. Se il profitto ottenuto dall’autore della violazione come conseguenza della violazione stessa o la perdita evitata grazie alla violazione sono superiori ai limiti massimi indicati nel comma 1, la sanzione amministrativa pecuniaria e’ elevata fino al doppio dell’ammontare dei profitti ottenuti o delle perdite evitate, purche’ tale ammontare sia determinabile.

  5. La Consob e l’IVASS possono imporre, secondo le rispettive competenze definite ai sensi dell’articolo 4-sexies, agli ideatori di PRIIP o ai soggetti che forniscono consulenza sui PRIIP o vendono tali prodotti, di trasmettere una comunicazione diretta all’investitore al dettaglio in PRIIP interessato, fornendogli informazioni circa le sanzioni adottate e comunicando le modalita’ per la presentazione di eventuali reclami o domande di risarcimento anche mediante il ricorso ai meccanismi di risoluzione stragiudiziale delle controversie previsti dal D.LGS. 8 ottobre 2007, n. 179.

(69)

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AGGIORNAMENTO (69)

Il D.Lgs. 14 novembre 2016, n. 224 ha disposto (con l’art. 3, comma 1) che la presente modifica si applica a decorrere dalla data di applicazione del regolamento (UE) n. 1286/2014.

 

 

 

 Art. 193-sexies Sistemi interni di segnalazione.

 

Art. 193-sexies consulenti finanziari sanzioni consob

(( (Sistemi interni di segnalazione).))

((1. In caso di inosservanza delle disposizioni previste dall’articolo 4-undecies e dalle relative disposizioni attuative, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da euro trentamila fino a euro cinque milioni, ovvero fino al dieci per cento del fatturato, quando tale importo e’ superiore a euro cinque milioni e il fatturato e’ determinabile ai sensi dell’articolo 195, comma 1-bis. In tal caso, fermo restando quanto previsto per le societa’ e gli enti nei confronti dei quali sono accertate le violazioni, si applica anche la sanzione amministrativa pecuniaria da euro cinquemila fino a euro cinque milioni nei confronti degli esponenti aziendali e del personale della societa’ o dell’ente nei casi previsti dall’articolo 190-bis, comma 1, lettera a).)) ((73))

 

 

 

Art. 194 Deleghe di voto consulenti finanziari sanzioni consob

 

  1. COMMA ABROGATO DAL D.LGS. 27 GENNAIO 2010, N.27.

  2. Il soggetto che promuove una sollecitazione di deleghe di voto che viola le norme degli articoli 138, 142, commi 1 e 2, 144, comma 4, e del regolamento emanato a norma dell’articolo 144, comma 1, e’ punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro cinquemila a euro settecentocinquantamila.

2-bis. La sanzione prevista al comma 2 si applica al rappresentante designato dalla societa’ con azioni quotate che viola l’articolo 135-undecies, comma 4.

2-ter. Se all’osservanza delle disposizioni previste dal comma 2 e’ tenuta una societa’ o un ente le sanzioni ivi previste si applicano nei confronti di questi; la stessa sanzione si applica nei confronti degli esponenti aziendali e del personale della societa’ o dell’ente nei casi previsti dall’articolo 190-bis, comma 1, lettera a). Se all’osservanza delle medesime disposizioni e’ tenuta una persona fisica, in caso di violazione, la sanzione si applica nei confronti di quest’ultima.

2-quater. ((COMMA ABROGATO DAL D.LGS. 3 AGOSTO 2017, N. 129)). ((73))

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Le Sezioni Unite si pronunciano sulle c.d. ‘nullità selettive’: nullità di protezione ed eccezione di buona fede

Intermediazione finanziaria – Nullità di protezione – Nullità selettive – Eccezione di buona fede

La nullità per difetto di forma scritta, contenuta nell’art. 23, comma 3, del d.lgs n. 58 del 1998, può essere fatta valere esclusivamente dall’investitore con la conseguenza che gli effetti processuali e sostanziali dell’accertamento operano soltanto a suo vantaggio. L’intermediario, tuttavia, ove la domanda sia diretta a colpire soltanto alcuni ordini di acquisto, può opporre l’eccezione di buona fede, se la selezione della nullità determini un ingiustificato sacrificio economico a suo danno, alla luce della complessiva esecuzione degli ordini, conseguiti alla conclusione del contratto quadro.  Cassazione Sez. Un. Civili, 04 novembre 2019, n.28314. Il difetto di sottoscrizione del contratto quadro da parte della banca porta a ritenere accertato che la stessa fosse a conoscenza dell’invalidità dello stesso e degli ordini relativi ai titoli argentini con la conseguenza dell’indebito originario in relazione ai pagamenti per i loro acquisti. L’obbligo di forma è posto ad esclusiva tutela del cliente e costituisce il primo livello di tutela dell’asimmetria informativa. Ne consegue la presunzione di consapevolezza della banca che a colmare tale squilibrio è tenuta.

 

 

REPUBBLICA ITALIANA consulenti finanziari sanzioni consob
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Oggetto

Contratti d’investimento – Nullità di protezione

Ud. 09/04/2019 – PU

GIOVANNI MAMMONE

AURELIO CAPPABIANCA

ROBERTA VIVALDI

LUCIA TRIA
ANDREA SCALDAFERRI FRANCO DE STEFANO MARIA ACIERNO ALBERTO GIUSTI
ALDO CARRATO

ha pronunciato la seguente

– Primo Presidente –

– Presidente Sezione –

– Presidente Sezione –

– Consigliere –
– Consigliere –
– Consigliere –
– Rel. Consigliere – – Consigliere –

– Consigliere –

SENTENZA

sul ricorso 3225-2014 proposto da:
FRANCO, elettivamente domiciliato in R

;

contro

BANCA ANTONIANA VENETA S.P.A. (ora BANCA MONTE DEI PASCHI DI SIENA S.P.A.);

– ricorrente –

– intimata –

avverso la sentenza n. 1290/2013 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 21/11/2013.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 09/04/2019 dal Consigliere MARIA ACIERNO;

udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale LUIGI SALVATO, che ha concluso per il rigetto del secondo motivo del ricorso, rimessione alla prima sezione civile per la decisione dei restanti motivi;

udito l’Avvocato er delega orale.

FATTI DI CAUSA

1.11 Tribunale di Mantova ha accolto la domanda proposta da Franco volta a far dichiarare la nullità di due contratti

d’investimento in obbligazioni argentine stipulati il 4 maggio 1999 e il 26 agosto 1999 con condanna della intermediaria Banca Antoniana Popolare Veneta alle restituzioni dovute in relazione a tali investimenti. La nullità degli ordini di acquisto era derivata dal difetto di forma scritta del contratto quadro stipulato tra le parti del giudizio. Il Tribunale, peraltro, ha accolto anche la domanda riconvenzionale proposta dalla banca convenuta, avente ad oggetto la restituzione di

cedole riscosse in forza di operazioni in esecuzione del contratto quadro ritenuto affetto da radicale nullità. All’esito dell’operata compensazione l’investitore è stato condannato al pagamento della differenza residua a debito.

2.La Corte d’Appello, investita dell’impugnazione dal in parziale riforma della pronuncia di primo grado, ha affermato, in primo luogo che sussiste il difetto di legittimazione dell’appellante

in relazione all’ordine del 4/5/99 relativo a 35000

obbligazioni Argentina-08 Tr°/0 DEM del controvalore di 35.840.668, formulato dalla madre dell’appellante dal momento che la stessa ha agito in nome proprio e non in rappresentanza del figlio. Al riguardo è stata esclusa la prova della “contemplatio domini” con la conseguenza che unica obbligata verso l’intermediaria deve ritenersi la mandataria senza rappresentanza. Il mandante non ha il potere in questa ipotesi di esercitare azioni contrattuali quali quella di risoluzione del contratto che rimangono in capo al mandatario.

Deve escludersi anche che vi sia stata una ratifica valida desumibile dallo “attestato di eseguito” proveniente dalla banca che trova giustificazione per l’esclusiva titolarità del c/c in capo all’appellante.

2.1. Nel merito, è vero che la nullità ex art. 23, c.3, d.lgs n. 58 del 1998 può essere fatta valere soltanto dal cliente, ma una volta dichiarata, si ripercuote su tutte le operazioni eseguite in attuazione dell’atto negoziale viziato. La nullità di protezione non determina

anche il potere dell’investitore di limitazione degli effetti della nullità soltanto ad alcuni degli ordini secondo la sua scelta. L’invalidità si espande sull’intero rapporto ed investe tutti gli ordini di acquisto. Pertanto, in forza, della normativa in materia d’indebito, il cliente è tenuto a restituire alla banca i titoli acquistati, le cedole riscosse ed ogni altra utilità, così come la intermediaria è tenuta a restituire alla banca l’importo erogato per l’acquisto dei titoli. Tuttavia, nella specie la Corte ha escluso che fosse stata proposta una domanda riconvenzionale di restituzione, ritenendo validamente introdotta in giudizio esclusivamente un’eccezione di compensazione, idonea, di conseguenza, esclusivamente a paralizzare la domanda restitutoria

dell’attore.
2.2 E’ stato inoltre precisato che alla soluzione adottata non è di ostacolo il fatto che la banca abbia acquistato titoli da un collocatore terzo. Il venire meno del mandato ha mantenuto in capo all’intermediario la proprietà dei titoli acquistati sul mercato dal

momento che la nullità del contratto di negoziazione non incide sull’acquisto tra la banca ed il terzo ma solo sull’effetto di cui all’art. 1706 cod. civ. del ritrasferimento automatico al mandante. Le cedole, sebbene erogate da un soggetto terzo, (nella specie lo Stato emittente) in virtù della nullità del contratto quadro originario, rimangono di proprietà della banca, non essendosi perfezionato l’acquisto dei titoli nella sfera giuridica del cliente.

2.3 E’ stata dichiarata inammissibile perché proposta per la prima volta in appello la domanda del volta ad ottenere il danno da mancata rendita riguardante sia gli utili e i dividendi sulle cedole la cui restituzione era stata disposta dal Tribunale, sia quelli maturandi nel periodo successivo all’incasso dell’ultima cedola.

2.4 E’ stata confermata la statuizione del Tribunale riguardante la decorrenza degli interessi dovuti all’investitore con decorrenza dalla domanda, non essendovi prova della malafede della intermediaria. L’indebito sorge dalla mancata sottoscrizione del contratto quadro da parte della banca, nella copia dimessa in causa (non oggetto d’impugnazione) e tale mancanza non può che ritenersi frutto di mero errore.

  1. Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione Franco affidato a sei motivi. Non ha svolto difese la parte intimata.

La parte ricorrente ha depositato memoria.
4. La prima sezione civile ha rimesso alle S.U. di questa Corte la questione sollevata nel secondo motivo di ricorso relativa all’esatta determinazione degli effetti e delle conseguenze giuridiche dell’azione di nullità proposta dal cliente in relazione a specifici ordini di acquisto di titoli che derivi, tuttavia, dall’accertamento del difetto di forma del contratto quadro. Il punto controverso riguarda l’estensione degli effetti della dichiarazione di nullità anche alle operazioni che non hanno formato oggetto della domanda proposta dal cliente ed, eventualmente, i limiti di tale estensione.

Ric. 2014 n. 03225 sez.

RAGIONI DELLA DECISIONE

  1. Nel primo motivo di ricorso viene dedotta la violazione degli artt. 1292, 1388, 1704, 1705 cod. civ. e 61 reg. Consob n. 11522 del 1998 in relazione alla ritenuta carenza di legittimazione attiva del ricorrente in relazione all’operazione del 4/5/99. Afferma il ricorrente

che il contratto d’intermediazione e quello di conto corrente erano cointestati a lui ed a sua madre. Ciascuno di essi, secondo quanto stabilito nel contratto poteva impartire ordini di acquisto titoli. Da ciò conseguiva che essi, anche singolarmente, agivano anche in rappresentanza dell’altro cointestatario ed avevano entrambi legittimazione ad agire in giudizio a tutela dei propri investimenti. Inoltre l’attestato di eseguito recava l’espressa dizione “Vi informiamo di avere eseguito (…) la seguente operazione da voi disposta”. Secondo quanto stabilito nell’art. 61 Reg. Consob tale informazione viene fornita all’investitore e non ad altri. Doveva pertanto trovare applicazione l’art. 1704 cod. civ. in relazione alla ratifica e non l’art. 1705 cod. civ. oltre che l’art. 1399 cod. civ. Infine, anche applicando l’art. 1705 cod. civ. il credito derivante dall’azione di nullità poteva essere esercitato dal mandante.

  1. Nel secondo motivo viene dedotta la violazione dell’art. 23 T.U.F. in relazione all’accoglimento dell’eccezione riconvenzionale di compensazione formulata dalla intermediaria. In primo luogo il ricorrente rileva che l’accertamento della nullità dell’intero contratto quadro è stata richiesta in via meramente incidentale e strumentale alla declaratoria di nullità dei due ordini sopra identificati. Tale limitazione risulta legittima in quanto gli ordini hanno una propria autonoma valenza negoziale che postula la formazione di un consenso ad hoc per la loro esecuzione mediante la prestazione dell’intermediario. Al riguardo non può pretendersi, in violazione patente dell’art. 100 cod. proc. civ., che l’investitore debba

denunziare la nullità di operazioni, eseguite in perfetta buona fede e che hanno comportato un utile, con ciò aggravando il danno già subito. Ove l’investitore dovesse scegliere tra il far valere la nullità dell’intero rapporto o subire, per evitare un maggior danno, la violazione dell’intermediario, ciò farebbe venire meno il carattere protettivo della nullità ed anche la funzione di tutelare l’integrità e la correttezza del mercato.

  1. Nel terzo motivo viene dedotto il vizio di ultrapetizione della sentenza impugnata, per essere stata accertata con valore di giudicato la nullità del contratto quadro laddove ne era stato chiesto l’accertamento soltanto incidenter tantum.

dotta la violazione dell’art. 10, comma 2 bis del d.lgs n. 5 del 2003, per l’erronea affermazione contenuta nella sentenza impugnata riguardante la asserita non contestazione dell’entità delle cedole incassate dalla intermediaria in relazione agli ordini di acquisti scaturenti dal contratto quadro nullo. I documenti da cui si desume il fatto non contestato sono gli estratti conto prodotti dalla banca che riportano genericamente accrediti ed addebiti senza alcuna distinzione tra le operazioni disposte dai singoli cointestatari o cedole o dividendi provenienti da operazioni diverse. Il ricorrente, peraltro, riportando ampi stralci del quarto motivo d’appello, precisa di aver contestato anche in relazione alla legittimazione attiva della banca la riconduzione dell’importo complessivo a titolo di cedole nel rapporto giustificato dal contratto quadro. L’effetto probante della non contestazione non può prodursi se è necessario che i fatti accertati siano integrati da ulteriori prove e se abbia ad oggetto solo fatti secondari. L’applicazione illegittima del principio di non contestazione

ha determinato nella specie l’alterazione della regola di giudizio fissata nell’art. 2697 cod. civ.
9. Nel quinto motivo viene dedotta la violazione degli artt. 820, 1148, 2033 cod. civ. in relazione al dedotto obbligo dell’investitore di

restituire le cedole riscosse in buona fede nel corso del rapporto. Il ricorrente aveva già prospettato il rilievo in questione precisando che le cedole nella specie erano state pagate dagli emittenti dei titoli e non dalla banca con la conseguenza che la stessa difettava di legittimazione. L’affermazione, secondo la quale, con la declaratoria di nullità i titoli restavano di proprietà della banca non faceva venire meno la conseguenza che il pagamento delle cedole era stato effettuato in buona fede al soggetto che in virtù del possesso del

titolo figurava esserne il proprietario. Le norme sopra indicate stabiliscono il principio secondo il quale il possesso di buona fede fa si che i frutti riscossi siano dovuti solo dal giorno della domanda e non dal momento della loro materializzazione. Il giudice d’appello ha errato nel dare rilievo invece che al possesso di buona fede alla titolarità delle obbligazioni. Essendo stata esclusa la malafede della banca doveva a maggior ragione essere esclusa la malafede del cliente. La corte d’Appello ha erroneamente ritenuto la banca legittimata alla ripetizione di indebito oggettivo.

  1. Nel sesto motivo viene dedotta la violazione degli artt. 1147, 1338 e 2033 cod. civ. nonché dell’art. 23 d.lgs n. 59 del 1998 in relazione al rigetto della domanda attorea di pagamento degli interessi sulla somma investita dalla data degli investimenti anziché

dalla domanda. Il difetto di sottoscrizione del contratto quadro da parte della banca porta a ritenere accertato che la stessa fosse a conoscenza dell’invalidità dello stesso e degli ordini relativi ai titoli argentini con la conseguenza dell’indebito originario in relazione ai pagamenti per i loro acquisti. L’obbligo di forma è posto ad esclusiva tutela del cliente e costituisce il primo livello di tutela dell’asimmetria informativa. Ne consegue la presunzione di consapevolezza della banca che a colmare tale squilibrio è tenuta.

  1. La questione di cui sono state investite le Sezioni Unite è affrontata nel secondo motivo di ricorso. Il contrasto che si è

determinato all’interno della prima sezione riguarda, come già rilevato, la legittimità della limitazione degli effetti derivanti dall’accertamento della nullità del contratto quadro ai soli ordini oggetto della domanda proposta dall’investitore, contrapponendosi a tale impostazione, quella, ad essa alternativa, che si fonda sull’estensione degli effetti di tale dichiarazione di nullità anche alle operazioni di acquisto che non hanno formato oggetto della domanda proposta dal cliente, con le conseguenze compensative e restitutorie che ne possono derivare ove trovino ingresso nel processo come eccezioni o domande riconvenzionali.

  1. Prima di esaminare il secondo motivo di ricorso è necessario affrontare il terzo motivo relativo al vizio di ultrapetizione, nel quale sarebbe incorsa la sentenza impugnata per aver ritenuto che l’accertamento della nullità del contratto quadro avesse valore di giudicato. Al riguardo deve osservarsi che la parte ricorrente ha affermato che l’accertamento della nullità del contratto quadro era stata richiesta soltanto “incidenter tantum”, ed esclusivamente al fine di far valere l’invalidità degli ordini di acquisto indicati nella domanda. Secondo questa prospettazione, l’eccezione di compensazione, accolta dalla Corte d’Appello, è viziata da extrapetizione perché fondata sull’accertamento con valore di giudicato, della nullità del contratto

quadro, e sulla conseguente invalidità di tutti gli ordini di acquisto con efficacia ex tunc.

  1. La censura non è fondata. In primo luogo deve rilevarsi che l’accertamento “incidenter tantum” può riguardare soltanto un rapporto diverso da quello dedotto in giudizio che si ponga come mero antecedente logico della decisione da adottare. La giurisprudenza di legittimità ha individuato le caratteristiche distintive di tale accertamento, ad efficacia esclusivamente endoprocessuale, rispetto a quello con valore di giudicato, attraverso gli orientamenti relativi al regolamento di competenza sui provvedimenti di

sospensione del processo, la cui legittimità è stata limitata agli accertamenti giurisdizionali che si pongano in relazione di pregiudizialità tecnica o giuridica con quello o quelli inerenti il processo sospeso. Alla luce dei principi indicati, l’accertamento ha valore di giudicato quando riguarda un presupposto giuridico eziologicamente collegato con la domanda tanto da costituirne premessa ineludibile. Ulteriore caratteristica distintiva è l’attitudine ad avere rilievo autonomo ed efficacia che può propagarsi oltre il perimetro endoprocessuale. (Cass.14578 del 2005, nella quale è stato escluso che l’accertamento della proprietà di un muro in una causa di risarcimento dei danni dovuta al suo crollo potesse essere idonea alla

formazione giudicato, trattandosi di rapporto diverso da quello dedotto in giudizio e 16995 del 2007).
Nella fattispecie dedotta nel presente giudizio l’accertamento della nullità del contratto quadro costituisce il presupposto non solo logico ma tecnico-giuridico della domanda oltre ad essere stato posto a base da parte dell’intermediario, dell’eccezione riconvenzionale di compensazione.

13.1 L’attitudine al giudicato dell’accertamento relativo alla nullità del contratto quadro e la conseguente infondatezza della censura prospettata nel terzo motivo, non esclude, tuttavia, la necessità di affrontare la correlata questione, relativa alla legittimazione ad agire dell’intermediario, in via di azione o di eccezione, al fine di far valere gli effetti della nullità del contratto quadro anche in relazione ad ordini di acquisto diversi di quelli indicati nella domanda. Tale profilo costituisce parte integrante della censura formulata nel secondo motivo e della questione sottoposto all’esame delle Sezioni Unite,

dovendo essere affrontata alla luce del peculiare regime delle nullità di protezione, all’interno delle quali si colloca, incontestatamente, la nullità per difetto di forma del contratto quadro, stabilita nell’art. 23 del t.u. n.58 del 1998.

Ric. 2014 n. 03225 sez. SU – ud. 09-04-2019

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  1. L’esame del secondo motivo richiede una precisazione preliminare. Nel giudizio di merito si è formato il giudicato sulla nullità del contratto quadro per difetto di forma, nonostante emerga dal ricorso (pag.8), e dalla sentenza impugnata (pag. 7 in fine) che il predetto contratto (quello del 25/8/98) sia stato sottoscritto dagli investitori (il ricorrente e sua madre). L’esistenza di un testo completo e sottoscritto da uno dei contraenti, ancorché costituisca circostanza irrilevante, in relazione all’accertamento della nullità, perché coperta da giudicato, non può essere del tutto ignorata, in relazione alla valutazione della legittimità delle diverse forme di tutela

dell’intermediario determinate dall’uso selettivo delle nullità di protezione.
14.1 in particolare, deve escludersi l’applicabilità, nel caso di specie, dei principi contenuti nell’ordinanza della prima sezione civile, n. 10116 del 2018, secondo i quali l’intermediario non può legittimamente opporsi ad un’azione fondata sull’uso selettivo della nullità ex art. 23 T.U.F. quando un contratto quadro manchi del tutto, né attraverso l’exceptio doli (di cui si tratterà nei par. 18,19,20) né, in ragione della protrazione nel tempo del rapporto, per effetto della

sopravvenuta sanatoria del negozio nullo per rinuncia a valersi della nullità o per convalida di esso, l’una e l’altra essendo prospettabili solo in relazione ad un contratto quadro formalmente esistente.
15. Si ritiene necessaria, in primo luogo, la ricognizione del quadro legislativo delle nullità di protezione non limitando l’esame soltanto alle norme del T.U.F ratione temporis applicabili, ma estendendo l’indagine ad aree contigue, in modo da avere un prospetto

comparativo della peculiarità del regime giuridico di tale tipologia di nullità.
15.1 Al rapporto dedotto in giudizio si applica l’art. 23 del d.lgs n. 58 del 1998 nella sua formulazione originaria. Il testo normativo è, infatti, entrato in vigore il 1/7/1998 ed il contratto quadro è stato

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stipulato nell’agosto del 1998. Gli ordini di cui si chiede la dichiarazione di nullità sono stati emessi nel 1999.
Il testo normativo ratione temporis applicabile è il seguente:
1. I contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento e accessori sono redatti per iscritto e un esemplare e’ consegnato ai clienti. La CONSOB, sentita la Banca d’Italia, puo’ prevedere con regolamento che, per motivate ragioni tecniche o in relazione alla natura professionale dei contraenti, particolari tipi di contratto

possano o debbano essere stipulati in altra forma. Nei casi di inosservanza della

nulla ogni pattuizione di rinvio agli usi per la determinazione del corrispettivo dovuto dal cliente e di ogni altro onere a suo carico. In tal casi nulla e’ dovuto.
3. Nei casi previsti dai commi 1 e 2 la nullita’ puo’ essere fatta valere solo dal cliente.

Il comma 3 non è mutato nella versione della norma attualmente vigente.
Analogo sistema di tutela del cliente si rinviene nel d.lgs n. 385 del 1993 (d’ora in avanti denominato T.U. bancario), sia in relazione alla previsione della nullità del contratto per difetto di forma (art. 117, commi 1 e 3, rimasti immutati)„ sia in relazione all’applicazione delle nullità di protezione disciplinate nell’art. 127, così formulato:

“1. Le disposizioni del presente titolo sono derogabili solo in senso piu’ favorevole al cliente.

  1. Le nullita’ previste dal presente titolo possono essere fatte valere solo dal cliente.”.
    Con la modifica introdotta dall’art. 4, c.3. d.lgs n. 141 del 2010, l’attuale formulazione dell’art. 127, c.4, si è conformata al regime giuridico del Codice del Consumo (D.Igs n.206 del 2005) ed è la

seguente: “Le nullita’ previste dal presente titolo operano soltanto a vantaggio del cliente e possono essere rilevate d’ufficio dal giudice”. Deve, infatti rilevarsi, che le nullità di protezione sono state introdotte nel codice civile in relazione all’inefficacia delle clausole vessatorie nei contratti conclusi con i consumatori. Al riguardo nell’art. 1469 quinquies, cod. civ., ratione temporis applicabile, è stato previsto che

“l’inefficacia opera soltanto a vantaggio del consumatore e può essere rilevata d’ufficio dal giudice”. Con l’introduzione del Codice del Consumo (d.lgs n. 206 del 2005), e l’abrogazione delle norme codicistiche in tema di clausole vessatorie, l’art. 36,c.3. ha esteso ji’ la tutela prevista per le clausole vessatorie alla nullità, stabilendo che: “La nullita’ opera soltanto a vantaggio del consumatore e puo’ essere rilevata d’ufficio dal giudice”.

15.2 D confronto tra le norme sopra illustrate pone in luce come, pur in presenza di differenze testuali non prive di rilievo, il tratto unificante del regime giuridico delle nullità di protezione sia la legittimazione esclusiva del cliente ad agire in giudizio. Le conseguenze sostanziali di questo regime peculiare di legittimazione sono espresse nella regola normativa: La nullita’ opera soltanto a vantaggio del consumatore e puo’ essere rilevata d’ufficio dal

giudice”, che, tuttavia, non è testualmente riprodotta nell’art. 23 T.U.F. Al riguardo deve osservarsi che il rilievo officioso delle nullità di protezione deve ritenersi generalmente applicabile a tutte le tipologie di contratti nei quali è previsto in favore del cliente tale regime di protezione in considerazione dei principi stabiliti nella sentenza delle S.U. n. 26642 del 2014 così massimati: “La rilevabilità officiosa delle nullità negoziali deve estendersi anche a quelle cosiddette di protezione, da configurarsi, alla stregua delle indicazioni provenienti dalla Corte di giustizia, come una “species” del più ampio “genus” rappresentato dalle prime, tutelando le stesse interessi e valori fondamentali – quali il corretto funzionamento del mercato (art. 41

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Cost) e l’uguaglianza almeno formale tra contraenti forti e deboli (art. 3 Cost) – che trascendono quelli del singolo”,(cfr. anche la più recente Cass. 26614 del 2018, nella quale si precisa che il rilievo d’ufficio è, tuttavia, subordinato ad una manifestazione d’interesse del legittimato). Il testo, immutato, dell’art. 23, c.3, deve, pertanto, essere interpretato in modo costituzionalmente orientato e coerentemente con i principi del diritto eurounitario, così da non escluderne né il rilievo d’ufficio né l’operatività a vantaggio esclusivo del cliente.

Deve, tuttavia, rilevarsi che la configurazione normativa e l’elaborazione giurisprudenziale relativa alle nullità di protezione ne evidenziano la vocazione funzionale, ancorché non esclusiva, alla correzione parziale del contratto, limitatamente alle parti che pregiudicano la parte contraente che in via esclusiva può farle valere. Tale carattere è stato largamente sottolineato dalla dottrina che più autorevolmente si è occupata della loro collocazione nel sistema dei rimedi e delle disfunzioni del contratto. L’originaria destinazione all’eliminazione delle clausole inefficaci ne sottolinea tale profilo ed evidenzia le difficoltà di adattamento dello strumento in relazione alla produzione dell’effetto dell’invalidità dell’intero contratto. Questo

ampliamento dell’ambito di applicazione delle nullità di protezione costituisce il nucleo problematico della questione sottoposta all’esame delle S.U. Può, infatti, rilevarsi che l’incidenza diretta sui requisiti di forma ad substantiam è prevista in particolare per i contratti bancari e per i contratti d’investimento. Per questi ultimi si pone in concreto l’interrogativo della legittimità e liceità dello strumento delle nullità cd. selettive. E’ la conformazione bifasica dell’impegno negoziale assunto dalle parti a determinare l’insorgenza delle criticità applicative del regime delle nullità di protezione. Il contratto quadro ha una funzione conformativa e normativa. Deve a pena d’invalidità, essere redatto per iscritto, contenendo la definizione specifica della

tipologia d’investimenti da eseguire, il range di rischio coerente con il profilo del cliente e la determinazione degli obblighi che l’intermediario è tenuto ad adempiere (Cass.12937 del 2017). Il suo perfezionamento, tuttavia, costituisce la condizione necessaria ma non sufficiente perché si realizzino tutti gli effetti scaturenti dal vincolo negoziale assunto dalle parti. Ad esso deve seguire l’effettuazione degli investimenti finanziari, attraverso l’esecuzione degli ordini di acquisto da parte dell’intermediario. Nonostante l’impegno economico per il cliente si determini con la trasmissione degli ordini, la forma scritta, in linea generale, è imposta soltanto per il contratto quadro, salvo diversa disposizione contrattuale voluta dalle parti, perché in questo testo negoziale si cristallizzano gli obblighi dell’intermediario che il legislatore ha inteso rendere trasparenti, in primo luogo, con la predisposizione di un regolamento scritto. Tale obbligo, come specificato nella recente sentenza delle S.U. n. 898 del 2018 ha natura e contenuto funzionali e costituisce il primo, (ma non l’unico) ineliminabile strumento di superamento dello

squilibrio contrattuale e dell’asimmetria informativa delle parti. L’obbligo della forma scritta, nell’impostazione funzionale prescelta dalle S.U., deve ritenersi assolto anche se il contratto quadro è sottoscritto soltanto dall’investitore, essendo destinato alla protezione effettiva del cliente senza tuttavia legittimare l’esercizio dell’azione di nullità in forma abusiva, in modo da trarne ingiusti

vantaggi.
Deve, pertanto, rilevarsi, come già nella sentenza delle S.U. n. 898 del 2018, siano state adombrate le criticità applicative che possono derivare dall’adozione del regime giuridico delle nullità di protezione per forme d’invalidità che colpiscano l’intero testo contrattuale. L’opzione, fortemente funzionalistica, adottata dalle S.U. nella

conformazione dell’obbligo della forma scritta, contenuto nell’art. 23 T.U. n. 58 del 1998, è determinata dall’esigenza di non trascurare

l’applicazione dei principi di buona fede e correttezza anche nell’esercizio dei diritti in sede giurisdizionale. Nell’affrontare il quesito posto dall’ordinanza di rimessione, il Collegio ritiene di dover dare continuità al richiamo contenuto nei principi elaborati nella sentenza n. 898 del 2018, al fine di verificare se può configurarsi un esercizio del diritto a far valere, da parte dell’esclusivo legittimato, le nullità di protezione in un modo selettivo o se tale esercizio possa ed in quali limiti qualificarsi abusivo o contrario al canone,

costituzionalmente fondato, della buona fede.
15.3 Per poter svolgere l’indagine sopra delineata occorre in primo luogo definire l’ambito effettivo della deroga ai principi generali riguardanti il regime d’invalidità dei contratti desumibile dal peculiare regime giuridico delle nullità protettive. Sarà necessario, inoltre,

verificare se possa configurarsi una disciplina generale comune a tutte le nullità di protezione, salvo differenze di dettaglio ove previste da una normativa specifica di settore o se vi sia la coesistenza di differenziate forme di nullità di protezione, ciascuna dotata di un proprio statuto giuridico autonomo eventualmente anche in relazione all’esercizio selettivo dell’azione di nullità.

  1. Il regime giuridico della legittimazione a far valere tale forma di nullità contrasta con il disposto dell’art. 1421 cod. civ.: le nullità di protezione, sia che investano singole clausole sia che riguardino l’intero contratto non possono essere fatte valere che da una sola parte, salvo il rilievo d’ufficio del giudice nei limiti indicati dalle S.U. nella pronuncia n. 26442 del 2014, proprio in applicazione del principio solidaristico e costituzionalmente fondato, della buona fede. La legittimazione dell’altra parte è radicalmente esclusa, trattandosi di nullità che operano al fine di ricomporre un equilibrio quanto meno formale (S.U. 26442 del 2014) tra le parti. Tale esclusione è il frutto della predeterminazione legislativa della posizione di squilibrio contrattuale tra le parti in relazione ad alcune tipologie contrattuali.

Con riferimento ai contratti d’investimento, lo squilibrio che viene ad emersione giuridica ha carattere prevalentemente conoscitivo- informativo, fondandosi sull’elevato grado di competenza tecnica richiesta a chi opera nell’ambito degli investimenti finanziari. I rimedi volti a limitare od a colmare l’asimmetria informativa, riconosciuta come elemento caratterizzante l’intervento correttivo del legislatore, non sono riconducibili soltanto alle nullità di protezione. Proprio in funzione dell’effettiva attuazione del principio di buona fede, la nullità di protezione, applicata in via generale ed indifferenziata ad esclusivo vantaggio del cliente, opera sul requisito della forma (peraltro in chiave funzionale, come chiarito da S.U. 898 del 2018) del contratto quadro ma non in relazione a tutti gli obblighi informativi dell’intermediario, essendo la gran parte di essi conformati sul profilo del cliente e sul grado di rischiosità contrattualmente assunto. Ristabilito l’equilibrio formale con il testo contrattuale scritto, la

condizione soggettiva dell’investitore e le scelte d’investimento connotano peculiarmente gli obblighi informativi dell’intermediario ed incidono sullo scrutinio dell’adempimento dell’intermediario ai fini del risarcimento del danno o della risoluzione del contratto, tenendo conto in concreto della buona fede del cliente al momento della discovery delle sue caratteristiche d’investitore e del suo grado di conoscenza delle dinamiche degli investimenti finanziari (S.U. 26724 del 2007). Deve, pertanto, ritenersi che il principio di buona fede e correttezza contrattuale, così come sostenuto dai principi solidaristici di matrice costituzionale, operi, in relazione agli interessi dell’investitore, mediante la predeterminazione legislativa delle nullità di protezione predisposte a suo esclusivo vantaggio, in funzione di riequilibrio generale ed astratto delle condizioni negoziali garantite

dalla conoscenza del testo del contratto quadro, nonché in concreto mediante la previsione di un rigido sistema di obblighi informativi a carico dell’intermediario. Tuttavia, non può escludersi la

configurabilità di un obbligo di lealtà dell’investitore in funzione di garanzia per l’intermediario che abbia correttamente assunto le informazioni necessarie a determinare il profilo soggettivo del cliente al fine di conformare gli investimenti alle sue caratteristiche, alle sue capacità economiche e alla sua propensione al rischio.

Può, pertanto, rilevarsi che anche nei contratti, quali quello dedotto nel presente giudizio, caratterizzati da uno statuto di norme non derogabili dall’autonomia contrattuale volte a proteggere il contraente che strutturalmente è in una posizione di squilibrio rispetto all’altro, il principio di buona fede possa avere un ambito di operatività trasversale non limitata soltanto alla definizione del sistema di protezione del cliente, in particolare se gli strumenti normativi di riequilibrio possono essere utilizzati, anche in sede giurisdizionale, non soltanto per rimuovere le condizioni di svantaggio di una parte derivanti dalla violazione delle regole imposte al contraente “forte” ma anche per arrecare un ingiustificato pregiudizio all’altra, pur se

applicate conformemente al paradigma legale.
17. Ritiene, pertanto, il Collegio, che la questione della legittimità dell’uso selettivo delle nullità di protezione nei contratti aventi ad

oggetto servizi d’investimento debba essere affrontata assumendo come criterio ordinante l’applicazione del principio di buona fede, al fine di accertare se sia necessario alterare il regime giuridico peculiare di tale tipologia di nullità, sotto il profilo della legittimazione e degli effetti, per evitare che l’esercizio dell’azione in sede giurisdizionale possa produrre effetti distorsivi ed estranei alla ratio riequilibratrice in funzione della quale lo strumento di tutela è stato introdotto.

17.1. Per svolgere in modo esauriente tale indagine è necessario, in primo luogo, illustrare le opzioni alternative che si confrontano in dottrina e sono rappresentate in due pronunce della prima sezione civile, la n. 8395 del 2016 e la n.6664 del 2018.

17.1.1. Il nucleo centrale della divergenza risiede proprio nella diversa declinazione dell’ambito di operatività delle nullità di protezione, in relazione alla correlazione tra legittimazione e propalazione degli effetti. Ove si ritenga che il regime di protezione si esaurisca nella legittimazione esclusiva del cliente (o nella rilevabilità d’ufficio, nei limiti precisati nel par.15.2) a far valere la nullità per difetto di forma, una volta dichiarata l’invalidità del contratto quadro, gli effetti caducatori e restitutori che ne derivano possono essere fatti valere da entrambe le parti. Il principio, posto a base dell’accurata requisitoria dell’Avvocato Generale, è stato così espresso in Cass. n. 6664 del 2018: una volta che sia privo di effetti il contratto d’intermediazione finanziaria destinato a regolare i successivi rapporti tra le parti in quanto esso sia dichiarato nullo, operano le regole comuni dell’indebito (art. 2033 cod. civ.) non altrimenti derogate. La disciplina del pagamento dell’indebito è invero richiamata dall’art. 1422 cod. civ.: accertata la mancanza di una causa adquírendi- in

caso di nullità (…) l’azione accordata dalla legge per ottenere la restituzione di quanto prestato in esecuzione dello stesso è quella di ripetizione dell’indebito oggettivo; la pronuncia del giudice è l’evenienza che priva di causa giustificativa le reciproche obbligazioni dei contraenti e dà fondamento alla domanda del solvens di restituzione della prestazione rimasta senza causa”.

L’opinione radicalmente contraria si fonda invece sull’operatività piena, processuale e sostanziale, del regime giuridico delle nullità di protezione esclusivamente a vantaggio del cliente (nella specie dell’investitore), anche ove l’invalidità riguardi l’intero contratto. L’intermediario non può avvalersi della dichiarazione di nullità in relazione alle conseguenze, in particolare restitutorie, che ne possono scaturire a suo vantaggio, dal momento che il regime delle nullità di protezione opera esclusivamente in favore dell’investitore. Il contraente privo della legittimazione a far valere le nullità di

protezione può, di conseguenza, subire soltanto gli effetti della dichiarazione di nullità selettivamente definiti nell’azione proposta dalla parte esclusiva legittimata, non potendo far valere qualsiasi effetto “vantaggioso” che consegua a tale declaratoria. L’indebito, così come previsto nell’art. 1422 cod. civ., può operare solo ove la legge non limiti con norma inderogabile la facoltà di far valere la nullità ed i suoi effetti in capo ad uno dei contraenti, essendo direttamente inciso dallo “statuto” speciale della nullità cui si riferisce. Le nullità di protezione sono poste a presidio esclusivo del cliente. Egli ex lege ne può trarre i vantaggi (leciti) che ritiene convenienti. La selezione degli ordini sui quali dirigere la nullità è una conseguenza dell’esercizio di un diritto predisposto esclusivamente in suo favore. Una diversa interpretazione del sistema delle nullità di protezione

condurrebbe all’effetto, certamente non voluto dal legislatore, della sostanziale abrogazione dello speciale regime d’intangibilità ed impermeabilità proprio delle nullità di protezione (Cass. 8395 del 2016). In particolare, con riferimento alla tipologia contrattuale oggetto del presente giudizio, l’investitore, ove fosse consentito all’intermediario di agire ex art. 2033 cod. civ., non potrebbe mai far valere il difetto di forma di alcuni ordini in relazione ad un rapporto di lunga durata che abbia avuto parziale esecuzione, perché le conseguenze economico patrimoniali sarebbero per lui verosimilmente quasi sempre pregiudizievoli, così vanificandosi la previsione legale di un regime di protezione destinato ad operare a suo esclusivo vantaggio.

  1. Vi è una terza opzione che rinviene nel principio della buona fede, variamene declinato, lo strumento più adeguato, per affrontare il tema dell’uso eventualmente distorsivo dello strumento delle nullità di protezione in funzione selettiva, perché, senza alterarne il regime giuridico ed in particolare l’unilateralità dello strumento di tutela legislativamente previsto, consente, per la sua adattabilità al caso

concreto, di ricostituire l’equilibrio effettivo della posizione contrattuale delle parti, impedendo effetti di azioni esercitate in modo arbitrario o nelle quali può cogliersi l’abuso dello strumento di “protezione” ad esclusivo detrimento dell’altra parte. Già nelle ordinanze interlocutorie n. 12388, 12389 e 12390 del 2017, nelle quali la questione della legittimità dell’uso selettivo della nullità era subordinata a quella principale relativa alla validità, sotto il profilo del requisito di forma, del contratto quadro sottoscritto dal solo investitore, era stata prospettata l’esperibilità dell’exceptio doli generalis, al fine di paralizzare l’uso selettivo della nullità, ritenendo centrale nell’esaminare la questione, il rilievo della buona fede “come criterio valutativo della regola contrattuale”. Nell’ordinanza interlocutoria n. 23927 del 2018, dalla quale è scaturito il presente giudizio, anche alla luce degli orientamenti, ancorché non univoci che sono intervenuti medio tempore (Cass. 6664 e 10116 del 2018) è stata posta in evidenza la questione della compatibilità tra il peculiare regime delle nullità protettive nei contratti d’intermediazione

finanziaria e l’opponibilità della “eccezione di correttezza e di buona fede”, in funzione della individuazione di un punto di equilibrio tra le esigenze di garanzia degli investimenti dei privati in relazione alla collocazione dei propri risparmi (art. 47 Cost.) e la tutela dell’intermediario anche in funzione della certezza dei mercati in materia d’investimenti finanziari.

  1. La dottrina non ha prospettato soluzioni univoche, formulando indicazioni variamente assimilabili a quelle che hanno caratterizzato gli orientamenti giurisprudenziali sopra illustrati. Come riscontrato anche nel confronto tra le due ordinanze interlocutorie che hanno posto alle S.U. la questione della legittimità dell’uso selettivo delle nullità di protezione, il principio di buona fede non è stato preso in considerazione in modo univoco. Si è affermato che attraverso la

formulazione dell’exceptio doli generalis si possa impedire in via

generale l’uso selettivo delle nullità di protezione, in quanto dettato esclusivamente dall’intento di colpire gli investimenti non redditizi (la tesi viene prospettata seppure in via ipotetica nelle ordinanze interlocutorie n.12388,12389 12390 del 2017). In questa lettura l’azione di nullità, ove sia diretta a colpire alcuni soltanto degli ordini eseguiti, viene ritenuta intrinsecamente connotata da un intento opportunistico che va oltre la funzione di protezione voluta dal legislatore. Rispetto alla tesi illustrata nel par. 17.1.1, la differenza si può cogliere nell’ effetto esclusivamente paralizzante conseguente alla formulazione dell’eccezione, rimanendo preclusa all’intermediario l’esercizio dell’azione di ripetizione dell’indebito.

La tesi esposta postula che l’uso selettivo delle nullità di protezione determini sempre la violazione del canone di buona fede. L’investitore, ove intraprenda l’azione, si pone nella condizione di produrre un pregiudizio economico ingiustificato all’altra parte dovuto alla natura potestativa ed unilaterale della selezione operata. L’exceptio doli, così configurata, ricorrerebbe sempre in via generale ed astratta e deriverebbe dall’uso della nullità selettiva, ancorché astrattamente lecito. La tesi viene criticata per la sua assolutezza perché, pur non escludendo la formale applicazione dello statuto normativo delle nullità di protezione, ne trascura la funzione di reintegrazione di una preesistente condizione di squilibrio strutturale che permea le fattispecie contrattuali nelle quali trova applicazione e d’inveramento del sistema assiologico fondato sui principi di uguaglianza, solidarietà e tutela del risparmiatore ritraibili dalla Costituzione. Inoltre, con tale impostazione, si trascura la strutturale vocazione delle nullità protettive ad un uso selettivo, ancorché non

arbitrario, in quanto correlato alla operatività a vantaggio esclusivo di uno dei contraenti.

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  1. Nel solco dell’applicazione in chiave riequilibratrice del principio di buona fede si collocano posizioni intermedie che, partendo dalla legittimita’ dell’azione di nullità cd. selettiva da parte del cliente, ovvero di una domanda formulata in relazione ad alcuni ordini d’investimento, ritengono che da parte dell’intermediario possa essere fatta valere l’exceptio doli generalis ove l’esercizio del diritto da parte dell’investitore sia avvenuto in malafede attraverso una valutazione che deve essere svolta in concreto secondo parametri oggettivi e soggettivi sui quali, tuttavia, non si riscontra unitarietà di vedute.

Viene escluso, al riguardo, che il possibile conflitto tra la specifica istanza di solidarietà costituita dal regime peculiare delle nullità di protezione e quella che scaturisce dal principio di affidamento, possa trovare una soluzione, stabilendo un criterio di prevalenza applicabile in ogni ipotesi, tenuto conto che la dinamica selettiva è ipotizzabile esclusivamente nelle nullità di protezione. L’affidamento, che costituisce il nucleo costitutivo della nozione di buona fede, ha un sicuro ancoraggio costituzionale nell’art. 2 Cost. Le nullità di protezione, come evidenziato da S.U. 26242 del 2014, fondano l’inderogabilità del loro statuto, contrassegnato dall’operatività a “vantaggio” del cliente, non solo sull’art. 2 ma anche sull’art. 3 (essendo finalizzate a rimuovere il primo grado dell’asimmetria informativa) e sull’art. 41 cui si aggiunge, per l’intermediazione

finanziaria, la tutela del risparmio (art. 47 Cost.). Poiché le nullità di protezione costituiscono, dunque, una diretta attuazione di principi costituzionali, tale qualificazione non è priva di conseguenze in relazione alla concorrente operatività del principio di buona fede come criterio arginante l’uso arbitrario dello strumento di tutela. Ne consegue che la mera invocazione di effetti selettivi da parte del cliente non può giustificare di per sé – pena lo svuotamento e la vanificazione della funzione delle nullità di protezione e della

connessa tutela giurisdizionale,—l’automatica opponibilità da parte dell’intermediario dell’exceptio doli generalis. L’eccezione, secondo una delle tesi in campo, può essere proposta per paralizzare l’azione volta a far valere le nullità di protezione in funzione selettiva, tutte le volte che l’investitore ponga in essere una condotta soggettivamente connotata da malafede o frode ovvero preordinata alla produzione di un pregiudizio per l’intermediario, non ravvisandosi alcuna incompatibilità tra l’esercizio dell’azione di nullità e la predetta eccezione ma solo la necessità di un adeguato bilanciamento da svolgersi secondo il paradigma contenuto negli artt. 1993, secondo comma, e 2384, secondo comma, cod. civ. individuabile nel non potere agire, neanche attraverso l’esercizio di un proprio diritto, arrecando intenzionalmente danno all’altra parte. Lo statuto protettivo dell’investitore non può determinare a suo vantaggio, un regime di sostanziale irresponsabilità ed esonerarlo dal controllo della conformità del suo agire, in quanto la regola di buona fede, assiologicamente espressiva del dovere di solidarietà costituzionale e costituente il tessuto connettivo dei rapporti contrattuali, impone tale verifica di conformità purché svolta in concreto.

In conclusione, secondo questa prospettazione, occorre verificare se l’azione è stata preordinata alla produzione di un pregiudizio per l’altro contraente.
21. La tesi sopra illustrata si espone a rilievi critici per aver limitato l’opponibilità dell’exceptio doli alla valutazione della buona fede soggettiva così da escludere ogni rilevanza alla oggettiva determinazione di un ingiustificato e sproporzionato sacrificio di una sola controparte contrattuale. Al fine di poter svolgere un giudizio comparativo che tenga conto anche della eventuale violazione della buona fede sotto il profilo oggettivo del pregiudizio arrecabile ad una

sola delle parti, si è fatto ricorso alla categoria dell’abuso del diritto, in relazione al quale non è sufficiente che una parte del contratto

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abbia tenuto una condotta non idonea a salvaguardare gli interessi dell’altra, quando tale condotta persegua un risultato lecito attraverso mezzi legittimi, essendo, invece, configurabile allorché il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti formali, lo eserciti con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà sono attribuiti (Cass. 15885 del 2013; 10568 del 2018). Non è configurabile un abuso che derivi soltanto dall’aver voluto conseguire un proprio vantaggio economico mediante uno strumento di tutela previsto dall’ordinamento che, peraltro, deriva, dall’attivazione di uno statuto di tutela inderogabile, essendo necessario che il fine dell’azione sia incoerente rispetto a quello legale in funzione del quale è stato attribuito il diritto di agire (Cass.29792 del 2017, in relazione alla configurabilità dell’abuso del diritto potestativo dei soci di una società di capitali che rappresentino un terzo del capitale sociale, di chiedere il differimento dell’assemblea ove dichiarino di non essere stati sufficientemente informati) o determini effetti del tutto sproporzionati rispetto al fine di tutela per

cui si è agito.
22. Alla luce delle considerazioni svolte, ritiene il Collegio, in risposta al quesito formulato nel par. 17, di dovere, preliminarmente, escludere entrambe le opzioni che prescindono del tutto dalla considerazione del principio di buona fede o perché negano la legittimità dell’uso selettivo delle nullità di protezione fino al riconoscimento del diritto a richiedere la ripetizione dell’indebito in relazione agli investimenti non selezionati dall’investitore ma travolti dalla nullità del contratto quadro, o perché ne considerano legittima l’azione senza alcun limitazione, ritenendo tale soluzione l’unica

coerente con l’operatività ad esclusivo vantaggio del cliente delle nullità di protezione. In contrasto con le tesi criticate, il Collegio reputa che la questione della legittimità dell’uso selettivo delle nullità

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di protezione nei contratti aventi ad oggetto servizi d’investimento, possa essere risolta ricorrendo, come criterio ordinante, al principio di buona fede, da assumere, tuttavia, in modo non del tutto coincidente con le illustrate declinazioni dell’exceptio doli generalis e dell’abuso del diritto.

22.1 Al riguardo si ritiene di dover ribadire che, in relazione ai contratti d’investimento che costituiscono l’oggetto del presente giudizio, della dichiarata invalidità del contratto quadro, ancorché accertata con valore di giudicato, come già rilevato nei par.13 e 13.1, può avvalersi soltanto l’investitore, sia sul piano sostanziale della legittimazione esclusiva che su quello sostanziale dell’operatività ad esclusivo vantaggio di esso.

22.2 L’uso selettivo del rilievo della nullità del contratto quadro non contrasta, in via generale, con lo statuto normativo delle nullità di protezione ma la sua operatività deve essere modulata e conformata dal principio di buona fede secondo un parametro da assumersi in modo univoco e coerente. Ove si ritenga che l’uso selettivo delle nullità di protezione sia da stigmatizzare ex se, come contrario alla buona fede,solo perché limitato ad alcuni ordini di acquisto, si determinerà un effetto sostanzialmente abrogativo del regime giuridico delle nullità di protezione, dal momento che si stabilisce un’equivalenza, senza alcuna verifica di effettività, tra uso selettivo delle nullità e violazione del canone di buona fede. Deve rilevarsi, tuttavia, l’insufficienza anche della esclusiva valorizzazione della buona fede soggettiva, ove ravvisabile solo se si dimostri un intento dolosamente preordinato a determinare effetti pregiudizievoli per l’altra parte.

22.3 Al fine di modulare correttamente il meccanismo di riequilibrio effettivo delle parti contrattuali di fronte all’uso selettivo delle nullità di protezione, non può mancare un esame degli investimenti complessivamente eseguiti, ponendo in comparazione quelli oggetto

dell’azione di nullità, derivata dal vizio di forma del contratto quadro, con quelli che ne sono esclusi, al fine di verificare se permanga un pregiudizio per l’investitore corrispondente al petitum azionato. In questa ultima ipotesi deve ritenersi che l’investitore abbia agito coerentemente con la funzione tipica delle nullità protettive, ovvero quella di operare a vantaggio di chi le fa valere. Pertanto, per accertare se l’uso selettivo della nullità di protezione sia stato oggettivamente finalizzato ad arrecare un pregiudizio all’intermediario, si deve verificare l’esito degli ordini non colpiti dall’azione di nullità e, ove sia stato vantaggioso per l’investitore, porlo in correlazione con il petitum azionato in conseguenza della proposta azione di nullità. Può accertarsi che gli ordini non colpiti dall’azione di nullità abbiano prodotto un rendimento economico superiore al pregiudizio confluito nel petitum. In tale ipotesi, può essere opposta, ed al solo effetto di paralizzare gli effetti della dichiarazione di nullità degli ordini selezionati, l’eccezione di buona fede, al fine di non determinare un ingiustificato sacrificio economico in capo all’intermediario stesso. Può, tuttavia, accertarsi che un danno per l’investitore, anche al netto dei rendimenti degli investimenti relativi agli ordini non colpiti dall’azione di nullità, si sia comunque determinato. Entro il limite del pregiudizio per l’investitore accertato in giudizio, l’azione di nullità non contrasta con il principio di buona fede. Oltre tale limite, opera, ove sia oggetto di allegazione, l’effetto paralizzante dell’eccezione di buona fede. Ne consegue che, se, come nel caso di specie, i rendimenti degli investimenti non colpiti

dall’azione di nullità superino il petitum, l’effetto impeditivo è integrale, ove invece si determini un danno per l’investitore, anche all’esito della comparazione con gli altri investimenti non colpiti dalla nullità selettiva, l’effetto paralizzante dell’eccezione opererà nei limiti del vantaggio ingiustificato conseguito.

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  1. La soluzione della questione sottoposta all’esame del Collegio può, in conclusione, così essere sintetizzata.

    Anche in relazione all’art. 23, comma 3, d.lgs n. 58 del 1998, il regime giuridico delle nullità di protezione opera sul piano della legittimazione processuale e degli effetti sostanziali esclusivamente a favore dell’investitore, in deroga agli artt. 1421 e 1422 cod. civ. L’azione rivolta a far valere la nullità di alcuni ordini di acquisto richiede l’accertamento dell’invalidità del contratto quadro. Tale accertamento ha valore di giudicato ma l’intermediario, alla luce del peculiare regime giuridico delle nullità di protezione, non può avvalersi degli effetti diretti di tale nullità e non è conseguentemente legittimato ad agire in via riconvenzionale od in via autonoma ex artt. 1422 e 2033 cod. civ. I principi di solidarietà ed uguaglianza sostanziale, di derivazione costituzionale (art. 2,3, 41 e 47 Cost., quest’ultimo con specifico riferimento ai contratti d’investimento) sui quali le S.U., con la pronuncia n. 26642 del 2014, hanno riposto il

fondamento e la ratio delle nullità di protezione operano, tuttavia, anche in funzione di riequilibrio effettivo endocontrattuale quando l’azione di nullità, utilizzata, come nella specie, in forma selettiva, determini esclusivamente un sacrificio economico sproporzionato nell’altra parte. Limitatamente a tali ipotesi, l’intermediario può opporre all’investitore un’eccezione, qualificabile come di buona fede, idonea a paralizzare gli effetti restitutori dell’azione di nullità selettiva proposta soltanto in relazione ad alcuni ordini. L’eccezione sarà opponibile, nei limiti del petitum azionato, come conseguenza dell’azione di nullità, ove gli investimenti, relativi agli ordini non coinvolti dall’azione, abbiano prodotto vantaggi economici per l’investitore. Ove il petitum sia pari od inferiore ai vantaggi conseguiti, l’effetto impeditivo dell’azione restitutoria promossa dall’investitore sarà integrale. L’effetto impeditivo sarà, invece, parziale, ove gli investimenti non colpiti dall’azione di nullità abbiano

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prodotto risultati positivi ma questi siano di entità inferiore al pregiudizio determinato nel petitum.

L’eccezione di buona fede operando su un piano diverso da quello dell’estensione degli effetti della nullità dichiarata, non è configurabile come eccezione in senso stretto non agendo sui fatti costitutivi dell’azione (di nullità) dalla quale scaturiscono gli effetti restitutori, ma sulle modalità di esercizio dei poteri endocontrattuali delle parti. Deve essere, tuttavia, oggetto di specifica allegazione.

  1. La soluzione della questione di massima di particolare importanza rimessa all’esame delle S.U. può essere risolta alla luce del seguente principio di diritto:

“La nullità per difetto di forma scritta, contenuta nell’art. 23, comma 3, del d.lgs n. 58 del 1998, può essere fatta valere esclusivamente dall’investitore con la conseguenza che gli effetti processuali e sostanziali dell’accertamento operano soltanto a suo vantaggio. L’intermediario, tuttavia, ove la domanda sia diretta a colpire soltanto alcuni ordini di acquisto, può opporre l’eccezione di buona fede, se la selezione della nullità determini un ingiustificato sacrificio economico a suo danno, alla luce della complessiva esecuzione degli ordini, conseguiti alla conclusione del contratto quadro”.

  1. Ne consegue, in relazione al secondo motivo di ricorso, che deve essere confermata, con correzione della motivazione ex art. 384, ultimo comma, cod. proc. civ., la statuizione contenuta nella pronuncia impugnata, alla luce del principio di diritto di cui al par. 24. Rigettati il secondo e terzo motivo, è rimesso all’esame della prima sezione civile l’esame dei rimanenti e la statuizione sulle spese processuali del presente procedimento.

P.Q.M.

Rigetta il secondo e terzo motivo. Rimette l’esame degli altri alla sezione semplice, anche in relazione alle spese del presente procedimento.

Ric. 2014 n. 03225 sez. SU – ud. 09-04-2019 -28-

Così deciso nella camera di consiglio del 9/4/2019.

Il giudice est.

(‘
(Dr.ssa MariAcierno)

i

DEPOSITATO IN CANCELLERIA oggi, , 4N119.,.221

ti Funzionano Giudiziario,

Il Presidente
(Dr. Giovanni Mammone)

otLsa Pack!) c

 

Originally posted 2020-01-15 08:37:56.

guida in stato di ebbrezza,

in caso di esclusione della punibilita’ per particolare tenuita’ del fatto, sussiste il dovere per il giudice di disporre la sospensione della patente di guida

Ma la tenuità del fatto può essere applicata alla guida sotto effetto dell’alcol?

La norma merita una attenta analisi anche caso per caso 

 
 
 
Questa Corte ha gia’ statuito che, in tema di guida in stato di ebbrezza, in caso di esclusione della punibilita’ per particolare tenuita’ del fatto, sussiste il dovere per il giudice di disporre la sospensione della patente di guida atteso che l’applicazione della causa di non punibilita’ presuppone l’accertamento del fatto cui consegue, ai sensi dell’articolo 186 C.d.S., l’applicazione della sanzione amministrativa accessoria (Sez. 4, n. 44132 del 09/09/2015 – dep. 02/11/2015, Longoni, Rv. 264830). Appare rilevante in questa sede la diversita’ dei presupposti: a mente dell’articolo 186, comma 2, lettera b) e c), “all’accertamento della violazione consegue in ogni caso…” la sanzione amministrativa della sospensione della patente di guida. E’ quindi necessario, ma anche sufficiente, l’accertamento del fatto. Diversamente, per la confisca l’articolo 186, comma 2, lettera c), richiede una pronuncia di condanna o l’applicazione della pena su richiesta delle parti.
La giurisprudenza di legittimita’ ha avuto modo di occuparsi della relazione tra confisca e 131 bis c.p., in tema di armi. Ha affermato che la misura di sicurezza patrimoniale della confisca e’ imposta per tutti i reati concernenti le armi ed e’ obbligatoria anche in caso di proscioglimento dell’imputato per particolare tenuita’ del fatto ai sensi dell’articolo 131 bis c.p., restando esclusa soltanto nell’ipotesi di assoluzione nel merito per insussistenza del fatto (Sez. 1, n. 54086 del 15/11/2017 – dep. 30/11/2017, P.M. in proc. Loukili, Rv. 272085). Tale principio fonda, del tutto correttamente, sulla previsione della L. n. 152 del 1975, articolo 6, secondo il quale “Il disposto del primo capoverso dell’articolo 240, si applica a tutti i reati concernenti le armi, ogni altro oggetto atto ad offendere, nonche’ le munizioni e gli esplosivi”. Poiche’ l’articolo 240 c.p., comma 2, dispone (anche) che e’ sempre disposta la confisca delle cose, la fabbricazione, l’uso, il porto, la detenzione o l’alienazione delle quali costituisce reato, anche se non e’ stata pronunciata condanna, ben si coglie che la ammissibilita’ della confisca delle armi trova una specifica base legale.
 
 
Guida in stato di ebbrezza – Tenuità del fatto – Non punibilità ex art. 131 bis c.p. – Sanzione amministrativa della sospensione della patente di guida – Applicazione – Confiscabilità del veicolo – Non è ammissibile perché richiede una pronuncia di condanna o pena concordata
REPUBBLICA ITALIANA guida in stato di ebbrezza tenuita’ del fatto
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FUMU Giacomo – Presidente
Dott. FERRANTI Donatella – Consigliere
Dott. DOVERE Salvatore – rel. Consigliere
Dott. TORNESI Daniela Rita – Consigliere
Dott. SERRAO Eugenia – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
INCIDENTE CON VITTIME, FERITI GRAVI STRDA AUTOSTRADA
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D’APPELLO DI BRESCIA;
nel procedimento a carico di:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 10/04/2018 della CORTE APPELLO di BRESCIA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere SALVATORE DOVERE;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dott. DE MASELLIS Mariella, che ha concluso chiedendo l’inammissibilita’ del ricorso;
Il difensore presente avvocato (OMISSIS) in difesa di (OMISSIS) si associa alle conclusioni del Procuratore Generale;
chiede il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
  1. Il Tribunale di Brescia condannava (OMISSIS) alla pena ritenuta equa per il reato di guida in stato di ebbrezza alcolica (articolo 186 C.d.S., comma 2, lettera c)). La sentenza e’ stata riformata dalla Corte di Appello di Brescia, la quale ha ritenuto che l’imputato fosse non punibile per la particolare tenuita’ del fatto, ai sensi dell’articolo 131 bis c.p., ed ha disposto la restituzione al (OMISSIS) del velocipede utilizzato per commettere il reato.
  2. Avverso tale decisione il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Brescia propone ricorso per cassazione.
Con il ricorso deduce l’inosservanza ed erronea applicazione dell’articolo 186 C.d.S., in quanto il Giudice avrebbe dovuto disporre la sanzione amministrativa accessoria della confisca del velocipede condotto dall’imputato al momento del fatto, siccome in proprieta’ del medesimo, chiedendo l’annullamento della sentenza in parte qua con i conseguenti provvedimenti.

CONSIDERATO IN DIRITTO

  1. Il ricorso e’ infondato e va pertanto rigettato.

3.1. Nel caso di sentenza di condanna o di applicazione della pena per il reato di cui all’articolo 186 C.d.S., comma 2, lettera c), il giudice ha l’obbligo di disporre la confisca del veicolo condotto dal trasgressore (quale “sanzione amministrativa accessoria”, giusta il testo dell’articolo 224 ter C.d.S., che ha cosi’ qualificato una misura che in precedenza era da considerare una “sanzione penale accessoria”, in forza di quanto statuito dalla Corte costituzionale e dalle Sezioni unite della cassazione, rispettivamente nelle sentenze 4 giugno 2010 n. 196 e 25 febbraio 2010, Proc. Rep. Trib. Pordenone in proc. Caligo).
Per l’effetto, in tali casi, il giudice deve disporre la confisca e la sentenza, a cura del cancelliere, viene trasmessa in copia al prefetto competente (articolo 224 ter C.d.S., comma 2), salvo che il veicolo appartenga a persona estranea al reato; senza che rilevi che il veicolo oggetto dalla confisca non sia stato sottoposto a sequestro preventivo.
La disposizione non contempla la confisca nei casi in cui l’imputato riporti una pronuncia diversa da quelle appena menzionate.
Si pone quindi il tema della confiscabilita’ del veicolo nel caso in cui l’imputato venga ritenuto non punibile per la particolare tenuita’ del fatto.
L’osservanza del principio di legalita’ impone di ritenere che la confisca non sia ammessa.
Questa Corte ha gia’ statuito che, in tema di guida in stato di ebbrezza, in caso di esclusione della punibilita’ per particolare tenuita’ del fatto, sussiste il dovere per il giudice di disporre la sospensione della patente di guida atteso che l’applicazione della causa di non punibilita’ presuppone l’accertamento del fatto cui consegue, ai sensi dell’articolo 186 C.d.S., l’applicazione della sanzione amministrativa accessoria (Sez. 4, n. 44132 del 09/09/2015 – dep. 02/11/2015, Longoni, Rv. 264830). Appare rilevante in questa sede la diversita’ dei presupposti: a mente dell’articolo 186, comma 2, lettera b) e c), “all’accertamento della violazione consegue in ogni caso…” la sanzione amministrativa della sospensione della patente di guida. E’ quindi necessario, ma anche sufficiente, l’accertamento del fatto. Diversamente, per la confisca l’articolo 186, comma 2, lettera c), richiede una pronuncia di condanna o l’applicazione della pena su richiesta delle parti.
La giurisprudenza di legittimita’ ha avuto modo di occuparsi della relazione tra confisca e 131 bis c.p., in tema di armi. Ha affermato che la misura di sicurezza patrimoniale della confisca e’ imposta per tutti i reati concernenti le armi ed e’ obbligatoria anche in caso di proscioglimento dell’imputato per particolare tenuita’ del fatto ai sensi dell’articolo 131 bis c.p., restando esclusa soltanto nell’ipotesi di assoluzione nel merito per insussistenza del fatto (Sez. 1, n. 54086 del 15/11/2017 – dep. 30/11/2017, P.M. in proc. Loukili, Rv. 272085). Tale principio fonda, del tutto correttamente, sulla previsione della L. n. 152 del 1975, articolo 6, secondo il quale “Il disposto del primo capoverso dell’articolo 240, si applica a tutti i reati concernenti le armi, ogni altro oggetto atto ad offendere, nonche’ le munizioni e gli esplosivi”. Poiche’ l’articolo 240 c.p., comma 2, dispone (anche) che e’ sempre disposta la confisca delle cose, la fabbricazione, l’uso, il porto, la detenzione o l’alienazione delle quali costituisce reato, anche se non e’ stata pronunciata condanna, ben si coglie che la ammissibilita’ della confisca delle armi trova una specifica base legale.
Non altrettanto puo’ dirsi per la confisca del veicolo nel caso di guida in stato di ebbrezza, quando il fatto sia valutato di particolare tenuita’, non essendo revocabile in dubbio che non si e’ in presenza di una sentenza di condanna o a questa assimilabile.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.

Originally posted 2020-01-09 09:36:39.

 

 

 

SIMULAZIONE VENDITA IMMOBILIARE  :DONAZIONE CORTE APPELLO BOLOGNA

 

 

 

Secondo la Suprema Corte (si veda sez. 2^, ordinanza n. 15510 del 13/06/2018, da cui è tratta la massima che segue), «.L’erede legittimario che agisca per l’accertamento della simulazione di una vendita compiuta dal “de cuius”, siccome dissimulante una donazione affetta da nullità per difetto di forma, assume, rispetto ai contraenti, la qualità di terzo – con conseguente ammissibilità della prova testimoniale o presuntiva senza limiti o restrizioni – quando abbia proposto la domanda sulla premessa dell’avvenuta lesione della propria quota di legittima. In tale situazione, infatti, detta lesione assurge a “causa petendi” accanto al fatto della simulazione ed il legittimario, benché successore del defunto, non può, pertanto, essere assoggettato ai vincoli probatori previsti per le parti dall’art. 1417 c.c., non rilevando la circostanza che egli, quale erede legittimo, benefici non solo dell’effetto di reintegrazione della summenzionata quota, ma pure del recupero del bene al patrimonio ereditario per intero, poiché il regime probatorio non può subire differenziazioni a seconda del risultato finale cui conduca l’accoglimento della domanda. Massime precedenti Vedi: N. 8215 del 2013 Rv. 625756 – 01, N. 24134 del 2009 Rv. 610015 – 01.».

 

I vincoli paesaggistici, inseriti nelle previsioni del piano regolatore

generale, una volta approvati e pubblicati nelle forme previste Cass. civ. n. 24055/2008

hanno valore di prescrizione di ordine generale a contenuto normativo con efficacia “erga omnes”, come tale assistita da una presunzione legale di conoscenza assoluta da parte dei destinatari, sicché i vincoli in tal modo imposti, a differenza di quelli inseriti con specifici provvedimenti amministrativi a carattere particolare, non possono qualificarsi come oneri non apparenti gravanti sull’immobile, secondo l’art. 1489 c.c., e non sono, conseguentemente, invocabili dal compratore come fonte di responsabilità del venditore, che non li abbia eventualmente dichiarati nel contratto.

L’evizione totale o parziale si verifica solo quando l’acquirente sia privato in tutto o in parte del bene alienato

 

ovvero il diritto trasferito perda Cass. civ. n. 24055/2008

le sue caratteristiche qualitative o quantitative, mentre se la privazione riguardi esclusivamente limitazioni inerenti il godimento del bene o imposizioni di oneri che lascino integra l’acquisizione patrimoniale trova applicazione l’art. 1489 cod. civ riguardante i vizi della cosa venduta. (Nel caso di specie la Corte ha ritenuto che la mancanza della facoltà d’uso della corte condominiale comune, come area destinata a posto macchina scoperto per i condomini, prevista espressamente nel trasferimento immobiliare, non potesse integrare l’azione di garanzia per evizione parziale).

 

 

 

In ipotesi di compravendita di costruzione realizzata in difformità della licenza edilizia, non è ravvisabile un vizio della cosa,

 

 

 non vertendosi in tema di anomalie strutturali del bene, ma trova applicazione Cass. civ. n. 4786/2007

 l’art. 1489 c.c., in materia di oneri e diritti altrui gravanti sulla cosa medesima, sempre che detta difformità non sia stata dichiarata nel contratto o, comunque, non sia conosciuta dal compratore al tempo dell’acquisto, ed altresì persista il potere repressivo della P.A. (adozione di sanzione pecuniaria o di ordine di demolizione), tanto da determinare deprezzamento o minore commerciabilità dell’immobile. In mancanza di tali condizioni, non è possibile riconoscere all’acquirente la facoltà di chiedere la riduzione del prezzo. Il venditore non è tenuto a prestare la garanzia per gli oneri e i diritti di godimento Cass. civ. n. 11867/2000

 dei terzi che gravano la cosa venduta, quando detti oneri e diritti, siano stati menzionati nel contratto o comunque conosciuti dall’acquirente.

Se nel contratto definitivo di compravendita

Cass. civ. n. 14226/1999

 il venditore abbia espressamente garantito la destinazione edificatoria del suolo compravenduto,

specificando l’indice di edificabilità, il compratore, appresa l’esistenza di un vincolo urbanistico di inedificabilità che riduca la cubatura realizzabile sull’area (nella specie, parte dell’area era risultata attraversata da una strada del Piano particolareggiato), può avvalersi, essendo anche il vincolo non agevolmente riconoscibile per effetto delle asserzioni del venditore, della garanzia prevista dall’art. 1489 c.c., in materia di cosa gravata da oneri non apparenti; non ricorre, infatti, l’ipotesi del vizio redibitorio, che attiene alla materialità del bene compravenduto ed al suo modo di essere nella realtà materiale, bensì l’ipotesi di onere a favore di terzo gravante sulla res vendita, che consiste in un vincolo giuridico incidente sul godimento del proprietario e sul suo diritto.

Nella vendita di cosa gravata da oneri o da diritti di

godimento di terzi la Cass. civ. n. 2856/1995

responsabilità del venditore ai sensi dell’art. 1489 c.c.,

 

è esclusa tanto nel caso in cui il compratore abbia avuto effettiva conoscenza del peso gravante sulla cosa, presumendosi che egli l’abbia accettata con tale peso, quanto nel caso in cui si tratti di oneri e diritti apparenti, che risultino cioè da opere visibili e permanenti destinate la loro esercizio, perché il compratore, avendo la possibilità di esaminare la cosa prima dell’acquisto, ove abbia ignorato ciò che poteva ben conoscere in quanto esteriormente visibile, deve subire le conseguenze della propria negligenza, secondo il criterio di autoresponsabilità. Pertanto, in tema di vendita di terreno gravato da servitù di elettrodotto, è incensurabile la decisione di merito secondo la quale la clausola con cui l’immobile viene trasferito franco e libero da pesi, così come in loco è di stile in quanto confermativa della responsabilità del venditore in relazione a quegli oneri non apparenti rilevabili solo con particolari indagini, mentre non può riferirsi a quanto risulti ictu oculi e sia a tutti visibile come la servitù di elettrodotto, sicché non è idonea a fondare alcun fondamento del compratore circa l’estensione della garanzia oltre i limiti previsti dalla legge.

)

La violazione, da parte del promissario alienante di un immobile, dell’obbligazione assunta col contratto preliminare

 

 

di provvedere a rendere Cass. civ. n. 1781/1994

l’immobile stesso conforme alle prescrizioni di legge, ivi comprese quelle concernenti le condizioni per il rilascio del certificato di abitabilità, legittima il promissario acquirente, in applicazione analogica del disposto dell’art. 1489 c.c., a richiedere la risoluzione del detto contratto, senza che vi osti l’astratta possibilità, per quest’ultimo, di accertare presso la competente amministrazione il difetto delle prescritte autorizzazioni amministrative alla realizzazione dell’opera, in quanto essa non integra gli estremi dell’apparenza del difetto medesimo ovvero della sua concreta conoscenza o conoscibilità con l’ordinaria diligenza.

 

 

 

 

L’espressa dichiarazione del venditore che il bene

compravenduto è libero da oneri Cass. civ. n. 976/2006

o diritti reali o personali di godimento esonera l’acquirente dall’onere di qualsiasi indagine, operando a suo favore il principio dell’affidamento nell’altrui dichiarazione, con l’effetto che se la dichiarazione è contraria al vero, il venditore è responsabile nei confronti della controparte tanto se i pesi sul bene erano dalla stessa facilmente conoscibili, quanto, a maggior ragione, se essi non erano apparenti.

 

 

In tema di vendita di cosa gravata da oneri o da diritti di godimento Cass. civ. n. 21384/2005

di terzi (art. 1489 c.c.) l’apparenza degli oneri e dei diritti è equiparata,

 

 

 

ai fini dell’esclusione della responsabilità del venditore, alla conoscenza effettiva, a condizione che essa risponda a requisiti di precisione, univocità e chiarezza che possono porre l’acquirente in grado di tener conto della reale situazione dell’immobile. A tal fine per apparenza si intende la facile riconoscibilità, pertanto con riferimento a diritto personale di garanzia, è sufficiente a rendere apparente il diritto ogni indizio che lo renda facilmente conoscibile da un uomo di media diligenza. (Nella specie, relativa a vendita forzata di immobile locato, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso la tutela dall’aggiudicatario in quanto l’esistenza della locazione era da questi conoscibile mediante consultazione sia della relazione di stima, sia della perizia tecnica redatta da un geometra nel corso della procedura esecutiva).

 

Il vincolo di (temporanea) inalienabilità di immobile di edilizia convenzionata è di carattere apparente, in quanto connaturato al bene, sicché in caso di vendita Cass. civ. n. 13496/2005

esso è conoscibile dall’acquirente anche se non dichiarato dal venditore, non trovando in tal caso applicazione l’art. 1489 c.c.,

 

che ha riguardo alla diversa ipotesi di cosa venduta gravata da oneri reali o personali non apparenti, e non è invocabile quando ad essere taciuto è un vincolo derivante da norma imperativa. (Nell’enunziare il suindicato principio la S.C. ha ritenuto infondata la doglianza del ricorrente, che lamentava l’erroneità del rigetto da parte dei giudici di merito della domanda di risoluzione del contratto preliminare di compravendita avente ad oggetto la proprietà superficiaria di appartamento realizzato in regime di edilizia convenzionata, e recante clausola con la quale la promittente venditrice garantiva la libertà dell’immobile da vincoli ed oneri pregiudizievoli).

Secondo orientamento della suprema corte

Cass. civ. n. 19812/2004

a garanzia, prevista dall’art. 1489 c.c., per gli oneri reali o personali gravanti sulla cosa venduta, è in via analogica applicabile anche al contratto preliminare di compravendita.

La presunzione assoluta di conoscenza del vincolo di inedificabilità gravante su un immobile ha efficacia erga omnes quando esso sia stato imposto dalla legge o da un atto avente portata normativa, quale il piano regolatore, nel quale il vincolo sia stato inserito. Quando invece il vincolo risulti imposto in forza di uno specifico provvedimento amministrativo, stante il carattere particolare, e non generale e normativo, dell’atto impositivo, può presumersene la conoscenza solo da parte del proprietario del bene, che, quale soggetto interessato, può venirne a conoscenza con l’ordinaria diligenza, ma non anche da parte del compratore, il quale quindi può far valere nei confronti del venditore l’obbligo di garanzia derivante dall’art. 1489 c.c.

 (

 

VALUTAZIONI IMPRESE E PATTI SOCIALI

  1. Secondo la Suprema Corte, dunque, affinché operi l’esenzione dai vincoli probatori previsti dall’art. 1417 c.c., occorre che la parte che agisce per far dichiarare la simulazione di atti dispositivi compiuti dalde cuius, proponga la domanda sulla premessa dell’avvenuta lesione della propria quota di legittima e faccia quindi assurgere tale lesione acausa petendi della domanda.
Nella fattispecie ciò non è avvenuto, in quanto la parte ha espressamente indicato di agire per la declaratoria della simulazione assoluta o relativa, nella qualità di erede legittimo e al fine dichiarato di ricostruire l’asse ereditario da sottoporre poi a divisione, con finale attribuzione della quota di 1/2 del patrimonio così ricostruito.
In tale contesto, il primo giudice ha correttamente escluso che, in relazione alle domande principali di accertamento della simulazione assoluta o relativa delle alienazioni immobiliari, l’appellante potesse fruire del regime agevolato della prova, connesso alla qualità di legittimario e dunque di terzo.

 

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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

CORTE DI APPELLO DI BOLOGNA

1^ SEZIONE CIVILE

La Corte di Appello nelle persone dei seguenti magistrati:

dott. Giovanni Benassi – Presidente

dott. Carla Fazzini – Consigliere

dott. Andrea Lama – Consigliere Relatore

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile in grado di appello iscritta al n. r.g. 345/2012 promossa da:

YY rappresentato e difeso dall’Avv. Gian Franco Fontaine, elettivamente domiciliato in via Rubbiani, 2 Bologna

APPELLANTE

contro

XX quale erede di A(omissis) A(omissis) rappresentata e difesa dall’Avv. Paolo Faldella, elettivamente domiciliata in via D’Azeglio, 31 Bologna

JJ quale erede di A(omissis) A(omissis) rappresentata e difesa dall’Avv. Paolo Faldella, elettivamente domiciliata in via D’Azeglio, 31 Bologna

IMMOBILIARE ALFA S.R.L. rappresentata e difesa dall’Avv. Massimo Orsini, elettivamente domiciliata in via Panzacchi, 25 Bologna

IMMOBILIARE BETA S.R.L. rappresentata e difesa dall’Avv. Massimo Orsini, elettivamente domiciliata in via Panzacchi, 25 Bologna

IMMOBILIARE GAMMA S.R.L. rappresentata e difesa dall’Avv. Massimo Orsini, elettivamente domiciliata in via Panzacchi, 25 Bologna

JJ in proprio rappresentata e difesa dall’Avv. Silvia Salvati elettivamente domiciliata in via Guerrazzi, 28 Bologna

XX in proprio rappresentata e difesa dall’Avv. Silvia Salvati elettivamente domiciliata in via Guerrazzi, 28 Bologna

APPELLATO

CONCLUSIONI

Le parti hanno concluso come da verbale d’udienza di precisazione delle conclusioni.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO e MOTIVI DELLA DECISIONE

  1. YY conveniva in giudizio A(omissis) A(omissis), JJ e XX nonché le Società Immobiliare ‘Alfa’srl, Immobiliare ‘Beta’srl e Immobiliare ‘Gamma’ srl, proponendo le seguenti domande:

– accertamento della simulazione assoluta o relativa (in quanto dissimulanti una donazione) degli atti di compravendita immobiliare, intercorsi tra F(omissisC(omissis), de cuius, e A(omissis) A(omissis), moglie del de cuiusda un lato, e le società immobiliari convenute, dall’altro, e accertamento che tali beni non erano mai usciti dal patrimonio del de cuius(l’azione di simulazione relativa era finalizzata alla dichiarazione di nullità per difetto di forma degli atti simulati);

– scioglimento della comunione ereditaria tra l’attore e la madre A(omissis) A(omissis) con la quota di ½ ciascuno;

(tali azioni venivano espressamente proposte da YY nella dichiarata qualità di erede legittimo del de cuius F(omissisC(omissis));

– in via subordinata, previo accertamento della natura di donazione indiretta in favore di JJ e XX, figlie dell’attore, degli atti di alienazione immobiliare di cui si tratta, azione di riduzione di tali donazioni, al fine della reintegrazione della quota del legittimario, pari a un terzo dell’asse ereditario.

– azione di rendimento dei conti, in relazione alla gestione di tali immobili e azione di condanna delle parti convenute alla corresponsione dei frutti relativi a tali beni immobili.

  1. Le conclusioni di merito della società convenute sono state le seguenti:

“..voglia il Tribunale Ill.mo adito, contrariis reiectis e previa ogni più opportuna statuizione e con ogni conseguente Deliberazione

– accertare preliminarmente che l’attore è erede puro e semplice del padre F(omissis) C(omissis) e comunque è decaduto dal beneficio di inventario, donde la soggezione alle limitazioni probatorie contro le società convenute

– respingere la domanda principale svolta dall’attore contro le società e accertare, anche in via riconvenzionale, che le vendite impugnate ex adverso sono vere e reali, che le società convenute sono legittime proprietarie (anche in via subordinata e se del caso per effetto di usucapione) di quanto acquistato con le vendite impugnate dall’attore; che, in ogni caso, non vi sono donazioni, né dirette, né indirette; conseguentemente respingere ogni domanda attorea, perché inammissibile, prescritta, infondata in fatto e in diritto;

– respingere comunque tutte le domande attoree contro i convenuti perché infondate in fatto e diritto;

– condannare l’attore, anche ai sensi dell’art. 96 c.p.c., a risarcire i danni provocati alle convenute, in particolare alle società Imm.re Beta S.r.l. e Imm. Alfa S.r.l.“.

  1. Le conclusioni di merito di JJ e XX sono state le seguenti:aaaesperto-eredita-AVVOCATO SPECIALIZZATO esperto-eredita-oggi

Voglia Il Tribunale Ill.mo adito, contrariis reiectis, e previa ogni più opportuna statuizione in merito all’accertamento che il sig. YY è erede puro e semplice e/o comunque decaduto dal beneficio di inventario, con ogni conseguente deliberazione,

– RESPINGERE la domanda principale svolta dall’attore e pertanto ACCERTARE, anche in via riconvenzionale, che le vendite impugnate ex adverso sono vere e reali e che, quindi, non vi sono donazioni, né dirette, né indirette; conseguentemente RESPINGERE ogni domanda attorea, perché inammissibile, prescritta, infondata in fatto e in diritto;

– comunque DICHIARARE la domanda di riduzione nulla, inammissibile, e comunque infondata;

– CONDANNARE, anche in via riconvenzionale, l’attore ed imputare alla propria quota tutte le donazioni dirette o indirette ricevute in vita dal de cuius, e quindi anche di conseguenza RESPINGERE la domanda attorea;

– RESPINGERE comunque tutte le domande attoree contro le convenute JJ e XX, occorrendo anche per carenza di legittimazione passiva.“.

  1. Le conclusioni di merito diJJ e XX come eredi di A(omissis)A(omissis), deceduta nelle more del giudizio di primo grado, sono state le seguenti:

Piaccia al Tribunale Ill.mo, reiectiis contrariis, previe le più opportune declaratorie in via principale respingere la domanda dell’attore ed in accoglimento della domanda riconvenzionale spiegata dalla madre delle convenute ed ora da queste ultime, dichiarare che le vendite impugnate ex adverso sono reali ed effettive.

In via subordinata, salvo gravame, dichiarare, in via riconvenzionale, l’attore tenuto a prestare la collazione per imputazione, nell’ambito del giudizio divisionale di tutte le donazioni dirette ed indirette ricevute dal padre, nonché di tutti i suoi debiti pagati dal padre, donazioni e debiti che verranno provati in corso di causa e da valutarsi all’epoca dell’aperta successione e conseguentemente assegnare tutto il relictum alla madre condividente e per essa alle convenute eredi universali.

In ogni ipotesi respingere qualsiasi domanda spiegata dall’attore contro la madre ed ora le convenute.“.

  1. Il Tribunale:

– rigettava tutte le domande spiegate dalla parte attrice, sia in via principale sia in via subordinata;

– rigettava la domanda di risarcimento del danno, svolta dalle società Immobiliare ‘Alfa’ srl, Immobiliare ‘Beta’ srl, Immobiliare ‘Gamma’ srl ;

– rigettava ogni altra domanda istruttoria delle parti;

– condannava YY al rimborso delle spese di lite in favore delle parti convenute;

– ordinava la cancellazione della trascrizione della domanda giudiziale.

  1. Il Tribunale dava atto della vicenda fattuale oggetto di causa.

Il de cuiusF(omissisC(omissis), decedeva in data 16 maggio 1995, senza redigere testamento, lasciando quali suoi eredi la moglie A(omissis) A(omissis) e il figlio YY.

Nel corso dell’anno 1995 la A(omissis) A(omissis) provvedeva ad accettare l’eredità con beneficio di inventario, erigendo l’inventario.

Nel 2003 anche YY accettava l’eredità con beneficio di inventario, avvalendosi dell’inventario redatto dalla madre.

Nelle more del presente giudizio, in data 23 giugno 2008 decedeva anche A(omissis) A(omissis), e si costituivano quali eredi testamentarie le nipoti JJ e XX, anch’esse già convenute (YY risultava essere semplicemente erede necessario, del tutto pretermesso dal testamento pubblico della madre A(omissis) A(omissis)).

  1. Il Tribunale dava conto delle ragioni della propria decisione.

7.1 Erano infondate e dovevano essere rigettate le domande, volte all’accertamento della simulazione assoluta o relativa delle alienazioni immobiliari fatte dal 1987 al 1992 dal de cuiuse dalla moglie A(omissis) A(omissis), in regime di comunione legale dei beni, in favore delle società immobiliari convenute, costituite nel 1987 con intestazione al de cuius e alla moglie dell’usufrutto vitalizio con reciproco accrescimento delle quote sociali e con attribuzione della nuda proprietà di tali quote alle figlie di parte attrice, JJ e XX al 50% per ciascuna.

Il Tribunale rilevava che l’attore non poteva giovarsi del regime probatorio agevolato di cui all’art. 1417 c.c., essendo erede legittimo del padre, deceduto senza testamento.

7.2 Quanto alla simulazione assoluta, l’attore non forniva alcuna prova della inesistenza dei negozi che assumeva simulati, potendo gli interrogatori formali dedotti fornire la prova di un’eventuale donazione dissimulata.

Al contrario, il quadro, delineato dalla stessa parte attrice, dava dimostrazione della volontà delle parti degli effetti dell’alienazione, avendo il de cuius costituito le società immobiliari con la consorte e le nipoti, e avendo poi alienato a tali nuovi soggetti giuridici nel corso del tempo beni immobili, affinché fossero gestiti.

7.3 Quanto alla dedotta simulazione relativa, l’attore non aveva fornito prova scritta dell’accordo simulatorio (controdichiarazione).

Di conseguenza, gli immobili oggetto delle alienazioni de quibus non erano mai entrati a far parte del patrimonio ereditario né si doveva procedere a scioglimento della comunione su tali beni, mai venutasi a creare.

7.4 Quanto all’azione di riduzione delle donazioni asseritamente dissimulate.

Tale azione era priva della necessaria condizione di proponibilità prevista dall’art. 564 c.c. L’attore, infatti, aveva accettato tacitamente l’eredità paterna subito dopo il decesso del padre, come dimostrato dalla istruzione documentale e orale (testi N(omissis) P(omissis) e M(omissis) A(omissis)). L’attore imprenditore negli anni Ottanta, falliva in proprio e tramite sei società: veniva altresì arrestato per reati fallimentari (le procedure fallimentari venivano chiuse tra il 1987 e il 2002).

Il de cuius, dopo la dichiarazione di fallimento del figlio e delle società a lui riconducibili, aveva destinato al figlio un patrimonio mobiliare in titoli, pari a un miliardo e mezzo delle vecchie lire, versato in una gestione patrimoniale accesa presso la Banca Popolare di Milano, recante il n. 48005 collegata al c/c n. 8916, intestata al de cuius, alla moglie e al geometra N(omissis) P(omissis), uomo di fiducia.

I denari erano di proprietà del de cuius, affermato imprenditore edile, e non già della moglie, casalinga, e del geometra N(omissis) P(omissis), mero fiduciario. Mensilmente, il padre versava al figlio una somma variabile, mai inferiore ai due milioni di lire, traendola da questa gestione titoli, come dichiarato dal teste geometra N(omissis) P(omissis), incaricato dei pagamenti.

Alla morte del padre, in data 16 maggio 1995, erano ancora aperte le procedure fallimentari riconducibili a YY.

Due giorni dopo il decesso del de cuius (omissisC(omissis), in data 18 maggio 1995 A(omissis) A(omissis) provvedeva al trasferimento dei titoli dalla originaria gestione n. 48005 alla gestione n. 48031, intestata alla medesima A(omissis) A(omissis) e al geometra N(omissis) P(omissis). Tali titoli non venivano denunciati come appartenenti al patrimonio relitto del de cuius e non venivano menzionati nell’inventario eretto dalla A(omissis) A(omissis) nel 1995. Da tale fondo il YY continuava a percepire mensilmente una cospicua somma di denaro, anche dopo il decesso del padre.

Nel 1999 con le procedure fallimentari ancora aperte, le somme residue, pari a un miliardo e duecento milioni di lire, venivano poi trasferite su di un deposito acceso a nome della società “Epsilon“, costituita tra la convivente dell’attore, M(omissis) P(omissis) B(omissis) alla quale veniva intestata la nuda proprietà al 99% del capitale sociale, A(omissis) A(omissis) cui veniva intestato l’usufrutto pari al 99% e il geometra N(omissis) P(omissis), titolare del residuo un per cento di proprietà piena — e che era altresì amministratore unico della società —.

L’attore aveva dedotto di aver sempre ritenuto che le somme ricevute, dapprima dal padre e poi dalla madre, venissero erogate a titolo di mantenimento, ignorando che le somme provenissero da una gestione patrimoniale costituita dal padre.

Secondo il Tribunale tale ricostruzione non era credibile.

Il de cuius era un imprenditore affermato, mentre la madre era casalinga e priva di risorse.

Le erogazioni non avevano natura alimentare.

La gestione patrimoniale era stata costituita dal de cuius al fine di sottrarre le somme ai creditori del figlio fallito. Stessa finalità aveva il trasferimento delle somme in altra gestione intestata alla madre e al geom. N(omissis) P(omissis), avvenuto immediatamente dopo la morte del padre.

Stessa finalità aveva anche la creazione della società “Epsilon“, sul cui deposito era confluito il denaro di cui si tratta, poi utilizzato per l’acquisto dell’immobile sito in via ‘Melarancia’, ove l’attore risiedeva con la compagna M(omissis) P(omissis) B(omissis), titolare della nuda proprietà del 99% delle quote sociali di quella società.

Ciò integrava un’accettazione tacita da parte dell’attore dell’eredità paterna, ai sensi dell’art. 476 c.c. fin da subito dopo il decesso del padre, in quanto l’attore disponeva di ingenti somme di denaro di proprietà del padre defunto.

Pertanto, nessuna rilevanza aveva l’accettazione di eredità, avvenuta con beneficio di inventario ben otto anni dopo, atteso che l’attore aveva già tacitamente accettato la eredità paterna e utilizzato tutti i denari di provenienza paterna.

7.5 Anche le domande spiegate in via subordinata erano, pertanto, infondate.

7.6 Infine, anche le domande di rendimento del conto erano conseguentemente infondate, in mancanza di un titolo costituente il presupposto dell’obbligo di rendiconto.

7.7 Ne conseguiva il rigetto delle domande, proposte in via subordinata dalle convenute JJ e XX.

7.8 Infondata era anche la domanda di risarcimento del danno ex art. 96 c.p.c., derivante dalla trascrizione della domanda su tutti i beni immobili oggetto di causa.

  1. Proponeva appello YY.

8.1 Come primo motivo di impugnazione l’appellante censurava la sentenza nella parte in cui aveva ritenuto l’infondatezza delle domande, a causa della mancata accettazione con beneficio di inventario, ai fini e per gli effetti di cui all’art. 564 c.c.

Riteneva l’appellante che, per proporre la domanda di simulazione assoluta ovvero relativa degli atti di alienazione immobiliare, non occorresse alcuna accettazione con beneficio di inventario.

Deduceva che, in prima battuta, egli intendeva far riacquisire al patrimonio ereditario i beni uscitine mediante atti assolutamente simulati o relativamente simulati, configuranti in quest’ultimo caso donazioni dissimulate, nulle per difetto di forma.

Precisava l’appellante:

L’azione proposta in via principale dall’ing. YY non era preordinata all’azione di riduzioneche egli aveva dedotto in via subordinata, in ipotesi che gli atti compiuti fossero riconducibili a un complesso sistema di valide donazioni indirette: allora sarebbe dovuta scattare l’azione di riduzione.

Quindi, le azioni, proposte in via principale per simulazione assoluta e/o relativa, erano autonome e non erano strumentali all’azione di riduzione e quindi il beneficio di inventario o la preclusione del beneficio di inventario discendente dall’accettazione tacita erano tutti concetti … estranei al nostro caso e non applicabili.“.

L’appellante ribadiva le istanze di prova già proposte.

8.2 Come secondo motivo di appello l’appellante censurava la sentenza nella parte in cui aveva ritenuto una fattispecie di accettazione tacita dell’eredità del de cuius F(omissisC(omissis) in capo all’appellante YY.

Infatti, parte appellante aveva dedotto, nella comparsa conclusionale del giudizio di primo grado, che YY si era avvalso, ex art. 510 c.c., dell’accettazione beneficiata, fatta dalla madre coerede A(omissis) A(omissis) in data 3 agosto 1995. Secondo l’appellante, era irrilevante, ai sensi della citata norma, l’eventuale decadenza dal beneficio di inventario del YY, che aveva, comunque, a sua volta, accettato con beneficio di inventario in data 27 novembre 2003.

8.3 Come terzo motivo l’appellante deduceva l’erroneità della sentenza, laddove essa aveva ravvisato una fattispecie di accettazione tacita nella percezione da parte di YY del mantenimento mensile da parte del padre e, dopo la morte di costui, da parte della madre.

Il fatto che le somme (di cui alla gestione patrimoniale, da cui venivano prelevate tali somme, intestata al padre, alla madre e al geom. N(omissis) P(omissis)) non fossero state indicate nella denuncia di successione, né in sede di inventario, significava che si trattava di somme appartenenti alla madre e non al padre: al più, si trattava di denaro paterno di cui la madre si era impossessata dopo la morte del padre.

L’incasso delle somme, prima fornite dal padre e poi dalla madre, non aveva il significato di una volontà di accettazione dell’eredità paterna e dunque non era configurabile un’accettazione tacita di tale eredità.

Secondo l’appellante, il Tribunale aveva erroneamente “..dato rilevanza a irrilevanti episodi successivi all’accettazione materna con beneficio di inventario … presentata il 3 agosto 1995..”, mentre “..F(omissis) C(omissis) era deceduto il 16 maggio 1995, bisognava identificare in questi 78 giorni fatti di accettazione tacita compiuti da YY..”.

8.4 Come quarto motivo di appello, l’appellante deduceva di aver agito come legittimario e dunque come terzo, non soggetto, pertanto, ai limiti probatori di cui all’art. 1417 c.c.

8.5 Come quinto motivo di appello, l’appellante chiedeva la cancellazione delle righe a pagina 5 e 6 della sentenza, in cui si affermava che il YY era colpevole di reati di truffa e violenza carnale, fatti mai commessi e oggetto di deduzioni contestate.

  1. Così concludeva parte appellante:

1) Dichiarare la simulazione assoluta degli apparenti contratti di vendita di cui in narrativa o in ipotesi dichiarare la nullità delle donazioni dissimulate dai predetti apparenti contratti di vendita, per l’effetto dichiarare che i seguenti beni immobili fanno parte dell’asse ereditario relitto attribuibile a F(omissis) C(omissis) (…)

2) Procedere quindi allo scioglimento della relativa comunione ereditaria venutasi a determinare tra YY e la convenuta A(omissis) A(omissis) nella quota di legge di ½ ciascuno con ogni consequenziale determinazione e provvedimento;

3) in ipotesi, previo accertamento della natura di donazione indiretta degli atti di disposizione dei beni immobili di cui sopra, previa conseguente determinazione della quota di 1/3 dell’asse ereditario riservata all’attore quale legittimario, procedere a tutte le operazioni di riduzione previste dalla legge al fine di reintegrare l’attore stesso nella quota ereditaria a lui spettante e procedere quindi alla divisione dell’eventuale comunione venutasi a creare. 

4) in tutti i casi, condannare i convenuti, ciascuno per quanto di ragione, a rendere il conto dell’amministrazione dei beni immobili sopra indicati a far data dal 17 maggio 1995, condannare inoltre i convenuti, ciascuno per quanto di ragione, a corrispondere all’attore la quota allo stesso spettante quale erede e/o quale legittimario dei frutti di tali beni, a far data dall’aperta successione, o in ipotesi dal dì della domanda, il tutto nella misura che sarà accertata, oltre agli interessi;

Accertare e dichiarare la validità della procedura di eredità beneficiata invocata dall’attore e quindi ammettere le richieste istruttorie dedotte dall’attore al fine di permettere la ricostruzione della massa ereditaria nei confronti delle parti e di terzi;

Revocare ogni provvedimenti istruttorio emesso in corso di causa, Accogliere le conclusioni istruttorie di parte attrice di cui alla memoria 16.09.2005, ammettere c.t.u., escludere ogni avversa richiesta istruttoria.

  1. Le appellate Società Immobiliari si costituivano e concludevano nel merito come segue, previo deposito della sentenza tra le stesse parti, relativa alla successione materna (A(omissis) A(omissis)), pronunciata dal Tribunale di Bologna il 20-06-2016 n 1625/2016.

A) In via preliminare e/o pregiudiziale – dichiarare l’inammissibilità e/ l’improcedibilità dell’appello per le motivazioni di cui in narrativa e per qualsiasi altra motivazione di ragione o di legge

– respingere l’appello perché infondato in fatto e in diritto, confermando la sentenza di primo grado quanto al rigetto delle domande di YY

– in via di appello incidentaleriformare la sentenza impugnata sul capo relativo al risarcimento del danno subito dalle Società appellate per effetto della illegittima trascrizione della citazione.

Con vittoria di spese, competenze ed onorari di entrambi i gradi.“.

  1. JJ e XX si costituivano, rassegnando le seguenti conclusioni:

Dichiararsi l’inammissibilità o improcedibilità dell’appello. Rigettarsi l’appello nel merito. Con vittoria di spese.“.

  1. JJ e XX si costituivano, anche quali eredi universali della signora A(omissis) A(omissis), vedovaF(omissis)C(omissis), loro ava materna, e così concludevano, previo deposito della sentenza sopra citata n. 1625/2016 del Tribunale di Bologna pubblicata il 20 giugno 2016 avente ad oggetto la eredità di A(omissis) A(omissis):

In via principale dichiarare inammissibile e comunque respingere l’appello spiegato con l’atto notificato il 17 febbraio 2012.

Vinte le spese.

In via di estremo subordine nell’ipotesi accoglimento di una delle domande spiegate dall’appellante, salvo gravame, dichiarare, in via riconvenzionale, l’appellante tenuto a prestare la collazione per imputazione, nell’ambito del giudizio divisionale, di tutte le donazioni dirette ed indirette ricevute dal padre, nonché di tutti i suoi debiti pagati dal padre, donazioni e debiti che verranno provati in corso di causa e da valutarsi all’epoca dell’aperta successione e conseguentemente assegnare tutto il relictum alla madre condividente e per essa alle appellate eredi universali.“.

  1. Deve, preliminarmente, rigettarsi l’eccezione di inammissibilità dell’appello, in quanto asseritamente difforme dalle prescrizioni di cui all’art. 342 c.p.c. Infatti, l’appello evidenzia adeguatamente sia le parti della sentenza, di cui si chiede la riforma, sia le motivazioni, in base alle quali l’appellante ritiene dovuta tale riforma.

L’art. 342 c.p.c. prevede che l’atto di appello debba contenere, “..a pena di inammissibilità:

1) l’indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado;

2) l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata..”.

Ebbene, l’appello proposto evidenzia, con adeguata specificità e chiarezza, come già detto, sia le parti del provvedimento oggetto di gravame sia le ragioni per cui la parte appellante ritiene l’erroneità del provvedimento gravato: di ciò si è dato atto nella parte dedicata alla esposizione sintetica del contenuto dell’atto di appello. Pertanto, in considerazione della specifica articolazione dei motivi di gravame (sopra riferiti) nonché della puntuale indicazione delle statuizioni appellate e delle circostanze, da cui derivano le denunciate violazioni di legge nonché la loro rilevanza ai fini della decisione, deve ritenersi che l’appello — contrariamente a quanto dedotto da parte appellata — sia ammissibile, in quanto rispettoso delle indicazioni previste dall’art. 342 nn. 1 e 2 c.p.c.

  1. L’appello e infondato e deve essere rigettato.
  2. Parte appellante, come si evince chiaramente dall’atto di citazione introduttiva del giudizio di primo grado, ha proposto, in via principale, domanda di scioglimento della comunione ereditaria con la madre A(omissis) A(omissis) in morte del padreF(omissis)C(omissis), previo accertamento della simulazione assoluta ovvero relativa degli atti di alienazione con cui il padre si era spogliato del patrimonio immobiliare. YY ha espressamente dichiarato di agire nella veste di erede legittimo del padre e ha altrettanto espressamente finalizzato la domanda di accertamento della simulazione degli atti dispositivi alla ricostruzione dell’asse ereditario mediante tutti i beni alienati e ha chiesto lo scioglimento della comunione così ricostruita, con attribuzione di una porzione pari a 1/2 dell’asse ereditario. In tal modo, l’appellante ha espressamente finalizzato la domanda principale alla tutela della propria posizione e qualità di erede legittimo, titolare della quota di un mezzo dell’asse ereditario.
  3. In via subordinata, come si evince chiaramente dall’atto di citazione introduttivo del giudizio di primo grado, l’appellante ha proposto un’azione di accertamento della natura di donazione indiretta in favore delle proprie figlie JJ e XX degli atti di alienazione immobiliare.

In tale sede, l’appellante ha dichiarato di agire nella veste di erede legittimario, a tutela e a reintegrazione della propria quota di legittimario, pari a un terzo dell’asse ereditario.

Secondo la Suprema Corte (si veda sez. 2^, ordinanza n. 15510 del 13/06/2018, da cui è tratta la massima che segue), «.L’erede legittimario che agisca per l’accertamento della simulazione di una vendita compiuta dal “de cuius”, siccome dissimulante una donazione affetta da nullità per difetto di forma, assume, rispetto ai contraenti, la qualità di terzo – con conseguente ammissibilità della prova testimoniale o presuntiva senza limiti o restrizioni – quando abbia proposto la domanda sulla premessa dell’avvenuta lesione della propria quota di legittima. In tale situazione, infatti, detta lesione assurge a “causa petendi” accanto al fatto della simulazione ed il legittimario, benché successore del defunto, non può, pertanto, essere assoggettato ai vincoli probatori previsti per le parti dall’art. 1417 c.c., non rilevando la circostanza che egli, quale erede legittimo, benefici non solo dell’effetto di reintegrazione della summenzionata quota, ma pure del recupero del bene al patrimonio ereditario per intero, poiché il regime probatorio non può subire differenziazioni a seconda del risultato finale cui conduca l’accoglimento della domanda. Massime precedenti Vedi: N. 8215 del 2013 Rv. 625756 – 01, N. 24134 del 2009 Rv. 610015 – 01.».

  1. Secondo la Suprema Corte, dunque, affinché operi l’esenzione dai vincoli probatori previsti dall’art. 1417 c.c., occorre che la parte che agisce per far dichiarare la simulazione di atti dispositivi compiuti dalde cuius, proponga la domanda sulla premessa dell’avvenuta lesione della propria quota di legittima e faccia quindi assurgere tale lesione acausa petendi della domanda.

Nella fattispecie ciò non è avvenuto, in quanto la parte ha espressamente indicato di agire per la declaratoria della simulazione assoluta o relativa, nella qualità di erede legittimo e al fine dichiarato di ricostruire l’asse ereditario da sottoporre poi a divisione, con finale attribuzione della quota di 1/2 del patrimonio così ricostruito.

In tale contesto, il primo giudice ha correttamente escluso che, in relazione alle domande principali di accertamento della simulazione assoluta o relativa delle alienazioni immobiliari, l’appellante potesse fruire del regime agevolato della prova, connesso alla qualità di legittimario e dunque di terzo.

  1. Fatta tale precisazione, deve ribadirsi che l’azione di simulazione assoluta delle alienazioni immobiliari è infondata, previo rigetto dell’eccezione di giudicato interno sollevata da parte appellata (la statuizione sulla domanda di accertamento di simulazione assoluta è stata espressamente impugnata, come da punto n. 1 delle conclusioni di parte appellante).

18.1 Non vi è alcun elemento sintomatico di una volontà delle parti (di quegli atti di compravendita) di non procedere ad alcun trasferimento della titolarità dei beni. Anzi, il fatto che gli alienanti, cioè F(omissisC(omissis) e A(omissis) A(omissis), avessero all’epoca l’usufrutto della titolarità delle quote di partecipazione sociale delle società aventi causa, costituisce indice sintomatico dell’effettività del trasferimento e della volontà di alienazione della titolarità di tali beni. In altre parole, il fatto che comunque rimanesse in capo agli alienanti la disponibilità giuridica dei beni alienati, sebbene in forma indiretta tramite l’usufrutto delle quote di capitale delle società aventi causa, costituisce indice sintomatico dell’effettività del trasferimento della titolarità formale della proprietà dei beni in capo alle società immobiliari.

In sostanza, le parti volevano effettivamente che si realizzasse proprio l’intestazione della proprietà a soggetti terzi, ferma restando la protrazione di una situazione giuridica di controllo da parte di F(omissisC(omissis) e A(omissis) A(omissis), realizzata attraverso l’usufrutto delle quote di capitale delle società proprietarie dei beni: la predisposizione di un complicato meccanismo di costituzione di società immobiliari, cui intestare la proprietà dei beni immobili, lascia intendere che l’effetto giuridico fosse effettivamente voluto, bastando, diversamente, una mera intestazione fittizia a soggetto prestanome.

18.2 In ogni caso, la prova dedotta sul punto (prova orale per testi e per interrogatorio formale) era, al più, idonea a comprovare una simulazione relativa della compravendita e la dissimulazione della donazione, in quanto incentrata sul mancato pagamento del prezzo di compravendita, costituente elemento sintomatico classico di una dissimulazione di una donazione. Inoltre, nei casi di simulazione assoluta, “..la prova testimoniale è ammissibile in tutte e tre le ipotesi contemplate dal precedente art. 2724 c.c. ..”, ipotesi non ricorrenti nella fattispecie, in quanto nemmeno dedotte in giudizio (in tal senso si veda sez. 2^, Sentenza n. 10240 del 04/05/2007 di cui infra si riporta la massima per esteso).

La prova de qua, dunque, non doveva essere ammessa e il primo giudice correttamente non l’ha ammessa.

  1. Quanto all’azione di accertamento della simulazione relativa degli atti dispositivi di cui si tratta.

19.1 Anche in questo caso, si rivela infondata l’eccezione di giudicato interno sollevata da parte appellata (la statuizione sulla domanda di accertamento di simulazione relativa è stata espressamente impugnata come da punto n. 1 delle conclusioni di parte appellante).

19.2 L’appellante, come già evidenziato, ha agito nella dichiarata qualità di erede legittimo e ha espressamente finalizzato l’azione alla ricostruzione dell’asse ereditario, al fine di far valere la propria quota di un mezzo spettante a lui come erede legittimo.

19.3 Ne consegue in primo luogo, la prescrizione dell’azione.

Secondo la Suprema Corte (si veda Sez. 2, Sentenza n. 3932 del 29/02/2016, da cui è tratta la massima che segue), «.I beni oggetto di trasferimento a titolo oneroso (anche se a favore del coerede) sono soggetti a collazione ereditaria solo se sia accertata la natura simulata del relativo atto dispositivo in accoglimento di un’apposita domanda formulata in tal senso dal coerede che chiede la divisione. In tal caso il “dies a quo” del termine di prescrizione dell’azione di simulazione varia in rapporto all’oggetto della domanda: se questa è proposta dall’erede quale legittimario, facendo valere il proprio diritto alla riduzione della donazione (che si asserisce dissimulata) lesiva della quota di riserva, il termine di prescrizione decorre dal momento dell’apertura della successione; mentre se l’azione sia esperita al solo scopo di acquisire il bene oggetto di donazione alla massa ereditaria per determinare le quote dei condividenti e senza addurre alcuna lesione di legittima, il termine di prescrizione decorre dal compimento dell’atto che si assume simulato, subentrando in tal caso l’erede, anche ai fini delle limitazioni probatorie ex art. 1417 c.c., nella medesima posizione del “de cuius”). Massime precedenti Vedi: N. 7134 del 2001 Rv. 546997 – 01, N. 4021 del 2007 Rv. 595399 – 01.».

Nel caso di specie, l’ultima della alienazioni è avvenuta nel 1992, mentre l’odierna azione è stata proposta soltanto nel 2003, oltre quindi il decorso del termine decennale di prescrizione.

19.4 In ogni caso, sotto diverso profilo, l’azione è infondata nel merito.

Come già detto sopra, tale azione soggiace ai limiti probatori dell’art. 1417 c.c., proprio in quanto espressamente finalizzata non già all’azione di riduzione ma alla domanda di scioglimento della comunione ereditaria, previa ricostruzione dell’asse ereditario.

Tale precisazione è stata fatta anche in atto di appello (Precisava l’appellante: “L’azione proposta in via principale dall’ing. YY non era preordinata all’azione di riduzione, che egli aveva dedotto in via subordinata, in ipotesi che gli atti compiuti fossero riconducibili a un complesso sistema di valide donazioni indirette: allora sarebbe dovuta scattare l’azione di riduzione. Quindi, le azioni, proposte in via principale per simulazione assoluta e/o relativa, erano autonome e non erano strumentali all’azione di riduzione e quindi il beneficio di inventario o la preclusione del beneficio di inventario discendente dall’accettazione tacita erano tutti concetti … estranei al nostro caso e non applicabili..”). In tale contesto, la parte appellante avrebbe potuto provare la simulazione relativa solo con la controdichiarazione scritta, invece mancante, oppure mediante la prova testimoniale ma soltanto nei casi, non ricorrenti nella fattispecie, di perdita incolpevole del documento contrattuale scritto o di finalizzazione della testimonianza alla prova della illiceità del negozio (si veda sez. 2^, Sentenza n. 10240 del 04/05/2007, da cui è tratta la massima che segue: «.In tema di simulazione di un contratto di compravendita immobiliare, la prova per testi soggiace a limitazioni diverse a seconda che si tratti di simulazione assoluta o relativa. Nel primo caso, l’accordo simulatorio, pur essendo riconducibile tra i patti per i quali opera il divieto di cui all’art. 2722 cod. civ,. non rientra tra gli atti per i quali è richiesta la forma scritta “ad substantiam” o “ad probationem”, menzionati dall’art. 2725 cod. civ., avendo natura ricognitiva dell’inesistenza del contratto apparentemente stipulato, sicché la prova testimoniale è ammissibile in tutte e tre le ipotesi contemplate dal precedente art. 2724 cod. civ.. Nel secondo caso, occorre distinguere, in quanto se la domanda è proposta da creditori o da terzi – che, essendo estranei al negozio, non sono in grado di procurarsi le controdichiarazioni scritte – la prova per testi o per presunzioni non può subire alcun limite; qualora, invece, la domanda venga proposta dalle parti o dagli eredi, la prova per testi, essendo diretta a dimostrare l’esistenza del negozio dissimulato, del quale quello apparente deve rivestire il necessario requisito di forma, è ammessa soltanto nell’ipotesi di cui al n. 3 dell’art. 2724 citato, cioè quando il contraente ha senza colpa perduto il documento, ovvero quando la prova è diretta fare valere l’illiceità del negozio.»).

  1. Quanto all’azione di riduzione proposta contro le figlie JJ e XX, asseritamente destinatarie di una donazione indiretta avente ad oggetto i cespiti immobiliari di cui si tratta.

20.1 Difetta la condizione dell’azione, prevista dall’art. 564 c.c.

20.2 Parte appellante ha dedotto nella comparsa di risposta del giudizio di primo grado, di essersi avvalso degli effetti espansivi, previsti dall’art. 510 c.c. per il caso di accettazione con beneficio di inventario fatta da uno dei coeredi (nel caso di specie, l’accettazione beneficiata fatta dalla madre il 3 agosto 2003): ciò a prescindere dall’accettazione beneficiata fatta in proprio dal YY n data 27 novembre 2003.

20.3 Parte appellata ha eccepito, nel presente giudizio, che non potrebbero prodursi gli effetti di cui all’art. 510 c.c. in favore di YY, in quanto la madre, omettendo di indicare nell’inventario i denari (pari a oltre un miliardo di lire) di cui alla gestione n. 48005 già intestata anche al de cuius, avrebbe determinato la decadenza dal beneficio di inventario ex art. 494 c.c.

20.4 Deve subito evidenziarsi che l’eventuale decadenza dal beneficio di inventario è irrilevante, ai fini che ci occupano, tenuto conto del chiaro disposto di cui all’art. 510 c.c., primo comma ultima parte (“..questa disposizione non si applica all’erede che ha accettato col beneficio di inventario e che ne è decaduto.”).

20.5 Deve, invece, evidenziarsi come YY avesse già accettato in modo puro e semplice, seppur tacitamente, prima che la madre coerede effettuasse l’accettazione con beneficio di inventario in data 3 agosto 1995, così precludendo l’effetto espansivo di cui all’art. 510 c.c.

20.6 In atti è provato come:

– YY abbia continuato a percepire, senza soluzione di continuità, anche dopo la morte del padre, il contributo che in vita il padre, traendolo dalla gestione patrimoniale n. 48005, accesa presso la Banca Popolare di Milano e intestata a F(omissisC(omissis), alla moglie A(omissis) A(omissis) e al geom. N(omissis) P(omissis) da sempre uomo di fiducia di F(omissisC(omissis), forniva mensilmente al figlio;

– tale contributo ammontasse mediamente a due milioni di lire al mese;

– successivamente alla morte del padre, esattamente due giorni dopo il decesso, le somme portate da tale gestione patrimoniale, superiori al miliardo di lire, siano transitate su di una nuova gestione patrimoniale col n. 48031, intestata alla madre A(omissis) A(omissis) e al geom. N(omissis) P(omissis);

– da tale gestione le somme continuassero appunto a essere erogate mensilmente in favore di YY senza soluzione di continuità e dunque anche nel periodo tra il decesso del padre (maggio 1995) e accettazione con beneficio di inventario fatta dalla madre in data 3 agosto 1995.

20.7 Tali risultanze si evincono principalmente dalla dichiarazione testimoniale resa dal geom. N(omissis) P(omissis), particolarmente attendibile, in quanto autore materiale delle operazioni di pagamento in favore di YY, e da M(omissis) A(omissis), ex moglie di YY. Come esattamente ritenuto dal primo giudice, la gestione patrimoniale, seppur intestata anche alla moglie A(omissis) A(omissis) e all’uomo di fiducia, non poteva che avere ad oggetto somme di proprietà di F(omissisC(omissis), affermato imprenditore edile, dovendosi escludere che esse potessero appartenere alla moglie A(omissis) A(omissis), casalinga o al geom. N(omissis) P(omissis), mero uomo di fiducia di F(omissisC(omissis).

Ancora, deve escludersi che YY potesse ignorare tale assetto giuridico-economico o potesse ritenere una diversa appartenenza delle somme che a lui pervenivano mensilmente dall’inizio degli anni Novanta, conoscendo ovviamente quali fossero le effettive disponibilità patrimoniali ed economiche dei propri genitori e soprattutto la provenienza delle medesime. Analogamente, una volta deceduto il padre, YY non poteva plausibilmente ritenere, contrariamente a quanto sostenuto in atto di appello, che le somme di cui si tratta potessero provenire dal patrimonio della madre e non già, come sempre avvenuto, dal patrimonio del padre, a nulla rilevando che la madre si fosse “impadronita” delle somme, facendole confluire in altra gestione patrimoniale e omettendo di indicarle nell’inventario e della denuncia di successione.

Mediante le suddette operazioni, consistenti in atti dispositivi del patrimonio di F(omissisC(omissis) e dunque dell’asse ereditario, YY e la madre A(omissis) A(omissis), coeredi, diedero luogo ad una fattispecie di accettazione tacita dell’eredità, trattandosi ovviamente di atti dispositivi che non avrebbero avuto il diritto di fare se non nella qualità di eredi e dunque presupponenti necessariamente la volontà di accettare l’eredità (art. 476 c.c.).

20.8 La fattispecie di accettazione tacita facente capo ad A(omissis) A(omissis) non è stata dedotta in giudizio. La fattispecie di accettazione tacita di YY è stata, invece, ritualmente dedotta in giudizio. A causa e per effetto di tale accettazione tacita (che si è perfezionata, nel maggio 1995, immediatamente dopo il decesso del de cuius, all’atto della riscossione della prima erogazione di denari proveniente dalla provvista di cui era costituita la vecchia gestione patrimoniale, successivamente trasferita nella nuova gestione patrimoniale n. 48031), risultava preclusa l’accettazione con beneficio di inventario in capo a YY né egli poteva avvalersi degli effetti espansivi ex art. 510 c.c., ipoteticamente derivanti da quella fatta dalla madre in data 3 agosto 1995.

20.9 Su tale accettazione tacita si fonda la decisione, emessa dal primo giudice, di rigetto delle domande di YY.

Tale decisione è corretta e deve essere confermata nella presente sede.

  1. Ne consegue il rigetto della domanda di riduzione delle donazioni rappresentate asseritamente dalle alienazioni immobiliari, mancando la condizione dell’azione, costituita dall’accettazione con beneficio di inventario, avendo YY operato un’accettazione pura e semplice, seppur tacita, con le modalità sopra descritte.
  2. Per tutte le suesposte considerazioni, devono rigettarsi il primo, il secondo, il terzo e il quarto motivo di appello.
  3. È infondato, infine, il quinto motivo di gravame.

Parte appellante ha chiesto la cancellazione dei passi della sentenza in cui si fa riferimento a procedimenti penali per truffa e violenza carnale. Il doc. n. 7 in fascicolo di JJ e XX comprova che YY subì tali procedimenti (lettera con cui il difensore prof. Sgubbi chiedeva il pagamento degli onorari per le difese e svolte e descriveva i procedimenti con indicazione, in relazione a ciascuno di essi, del titolo di reato per cui si era proceduto). In sentenza il primo giudice si è limitato a dare atto che tali procedimenti erano stati iniziati nei confronti del YY, senza affermare nulla in ordine all’esito dei medesimi.

  1. È infondato altresì l’appello incidentale promosso dalle società immobiliari appellate.

In via di appello incidentale, le società appellate hanno chiesto di riformare la sentenza impugnata sul capo relativo al risarcimento del danno subito per effetto della illegittima trascrizione della citazione. Hanno dedotto che la trascrizione sarebbe illegittimamente avvenuta sui beni immobili di cui si tratta, per l’intero, e non soltanto sulle quote, a suo tempo facenti capo al solo F(omissisC(omissis). Inoltre, l’azione risarcitoria si fonderebbe sull’art. 96 secondo comma c.p.c., per aver YY agito senza la normale prudenza.

Quanto alla prima deduzione, la medesima è infondata.

L’azione di accertamento di simulazione degli atti di compravendita investiva necessariamente i contratti nella loro interezza e dunque l’oggetto dei medesimi, rappresentato dai beni immobili nella loro interezza. Dunque, la trascrizione non poteva che essere effettuata sull’intero bene immobile. Inoltre, a prescindere da ogni altro ordine di considerazioni, l’assunto, presupponente una distinzione di quote a suo tempo facenti capo autonomanente ai due alienanti (F(omissisC(omissis) e A(omissis) A(omissis)), è del tutto infondato, in quanto i due coniugi alienanti erano in comunione legale dei beni e la comunione legale dei beni è una comunione senza quote.

Anche per questo ordine di considerazioni, quindi, non è stata illegittima la trascrizione sui beni immobili nella loro interezza.

Deve, infine, escludersi che YY abbia agito senza la normale prudenza, avuto riguardo alla estrema complessità in fatto e in diritto della controversia.

  1. Quanto alle spese legali.
  2. La soccombenza di YY nei confronti di JJ e XX, sia in proprio, sia nella qualità di eredi della madre A(omissis) A(omissis), implica la condanna al rimborso delle spese del grado, liquidate come da dispositivo, con riferimento agli importi medi dello scaglione individuato sulla base del valore indeterminabile della causa. Vi è soccombenza reciproca tra YY e le società immobiliari, con maggiore soccombenza di parte appellante principale. Ciò giustifica una compensazione delle spese nella misura della metà, con condanna di YY al rimborso della residua metà, liquidata come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte, definitivamente pronunciando, ogni altra istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone:

I – rigetta l’appello proposto da YY la sentenza n. 1428 del 2011 del Tribunale di Bologna;

II – rigetta l’appello incidentale proposto da IMMOBILIARE ‘ALFA’ SRL, IMMOBILIARE ‘BETA’ SRL e IMMOBILIARE ‘GAMMA’ SRL;

III – conferma integralmente la sentenza appellata;

IV – condanna YY alla refusione in favore di XX e JJ, quali eredi di A(omissis) A(omissis), delle spese di lite, che liquida in € 6615,00 per compenso, oltre al 15% di spese forfettarie ed oltre accessori di legge;

V – condanna YY alla refusione in favore di XX e JJ, in proprio, delle spese di lite, che liquida in € 6615,00 per compenso, oltre al 15% di spese forfettarie ed oltre accessori di legge;

VI – dichiara la compensazione delle spese tra YY, da un lato, e le società IMMOBILIARE ‘ALFA’ SRL, IMMOBILIARE ‘BETA’ SRL e IMMOBILIARE ‘GAMMA’ SRL, dall’altro, nella misura della metà e condanna YY al rimborso in favore di IMMOBILIARE ‘ALFA’ SRL, IMMOBILIARE ‘BETA’ SRL e IMMOBILIARE ‘GAMMA’ SRL della residua quota di tali spese, che liquida, per l’intero, in € 6.615,00 per compenso, oltre al 15% di spese forfettarie ed oltre accessori di legge.

Così deciso in Bologna, nella camera di consiglio della Prima Sezione Civile, il 28 maggio 2019

Il Presidente

dott. Giovanni Benassi

Il Consigliere estensore

dott. Andrea Lama

 

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Originally posted 2020-01-08 08:17:29.

ADDEBITO SEPARAZIONE TRIBUNALE DI BOLOGNA

L’apprezzamento circa la responsabilità di uno o di entrambi i coniugi nel determinarsi della intollerabilità della convivenza è istituzionalmente riservato al giudice di merito (Cass. n. 18074/2014, par. 2.10; Cass. n. 4550/2011). In tema di onere della prova, questa Corte ha affermato che grava sulla parte che richieda, per l’inosservanza degli obblighi nascenti dal matrimonio, l’addebito della separazione all’altro coniuge l’onere di provare la relativa condotta e la sua efficacia causale nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza, mentre è onere di chi eccepisce l’inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda provare le circostanze su cui l’eccezione si fonda, vale a dire l’anteriorità della crisi matrimoniale all’accertata violazione (ex multis, Cass. 3923/2018, par. 2).

Nel caso in cui, infatti, l’autorità giudiziaria appuri che la rottura dell’unione coniugale è dipesa dalla violazione, da parte di una sola delle parti, dei doveri disciplinati dall’art. 143 del codice civile (di fedeltà reciproca, di assistenza morale e materiale, di collaborazione nell’interesse della famiglia e di coabitazione), ove sussista specifica richiesta in tal senso, potrà pronunciare sentenza di separazione con addebito.

Come noto, la pronuncia di addebito non può, tuttavia, fondarsi sulla mera violazione degli obblighi coniugali, essendo altresì necessario accertare che tale violazione sia stata eziologicamente idonea a determinare il fallimento della convivenza e del rapporto coniugale (tra le altre, si v.: Cass. civ., n. 8862/2012). Il duplice accertamento che il giudice di merito deve compiere, – valutando dapprima la violazione di obblighi matrimoniali e, in secondo luogo, la riferibilità della crisi familiare a detta violazione -, trova tuttavia una attenuazione qualora il comportamento addebitato al coniuge consista in atti di violenza, fisici o psichici.

In tal caso, il contegno aggressivo è ex se sufficiente a fondare l’addebitabilità della separazione, senza che si renda necessaria l’ulteriore indagine in merito all’incidenza causale di tale comportamento rispetto alla frattura del rapporto di coniugio (si v., Cass. civ., n. 11981/2013; n. 3925/18).

Tale principio, affermato costantemente dalla giurisprudenza di merito e di legittimità, non costituisce invero una deroga al normale procedimento di accertamento dell’addebitabilità della separazione, ma piuttosto si fonda sul postulato, difficilmente controvertibile, per cui l’atto di violenza è in re ipsa fatto idoneo a determinare o aggravare l’intollerabilità della convivenza, sicchè esso consente in definitiva di ritenere provato, ex se, il nesso causale tra la violazione del dovere coniugale di assistenza e solidarietà tra i coniugi (cfr. Tribunale di Milano, sez. IX,11 luglio 2013).

Inoltre, costituisce principio pacifico che “In tema di separazione personale dei coniugi, la pronuncia di addebito richiesta da un coniuge per le violenze perpetrate dall’altro non è esclusa qualora risulti provato un unico episodio di percosse, trattandosi di comportamento idoneo comunque a sconvolgere definitivamente l’equilibrio relazionale della coppia, poiché lesivo della pari dignità di ogni persona” (Cassa. n. 7388/17, 433/16).

Ciò premesso, la domanda di addebito formulata dalla ricorrente è fondata e pertanto merita accoglimento in quanto vi sono elementi sufficienti in atti tali per affermare che quando la X ha lasciato la casa coniugale il 22.3.2017 la convivenza era stata resa intollerabile dalle condotte prevaricatrici, vessatorie, minatorie, umilianti ed in un’occasione violente del marito, contrarie ai doveri nascenti dal matrimonio.

Con particolare riferimento all’episodio dello schiaffo avvenuto in data 22.03.2017, per quanto contestato dal resistente, questo trova riscontro da un lato nella denuncia querela presentata dalla ricorrente, a cui ha fatto poi seguito il decreto di rinvio a giudizio del 18.05.2018, e dall’altro nel decreto ex art. 342 bis c.c. avverso il quale, tra l’altro, non è stato proposto reclamo; conseguentemente possono ritenersi provati i fatti e le circostanze ivi riportate.

Va inoltre precisato che il suddetto episodio rappresenta solo il culmine di una situazione di intollerabilità della vita coniugale provocata dal Y che, come confermato dai sommari informatori sentiti nell’ambito del procedimento ex art. 342 bis c.c., già a decorrere dal 2016 era solito aggredire verbalmente la moglie con minacce e mortificazioni, scatenando litigi così violenti da essere uditi dagli altri condomini, i quali sono stati più volte sul punto di contattare le forze dell’ordine.

In particolare la sig. xxxxall’udienza del 15.5.2017 riferiva “i problemi sono sorti negli ultimi tempi, un anno circa. Fino a quel momento non si era mai confidata con noi….poi ci ha confidato i suoi problemi di coppia. Lei era in ansia perché lui arrivava a casa tardi, non le preparava da mangiare. Lui è cambiato, lei non conosce le motivazioni. Ci ha raccontato di numerose aggressioni verbali” (cfr doc. 12 fascicolo ricorrente, depositato tempestivamente con la memoria n. 2 ex art. 183 comma 6 c.p.c.).

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO di BOLOGNA

Sezione Prima Civile

Il Tribunale, in composizione collegiale nelle persone dei seguenti magistrati:

dott. Matilde Betti Presidente

dott. Arianna D’Addabbo Giudice Relatore

dott. Silvia Migliori Giudice

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 597/2018 promossa da:

X, nata a (omissis) (BO), il 22/11/1951, elettivamente domiciliata in VIA GHIRARDACCI N. 1 BOLOGNA presso lo studio dell’Avv. MENGOZZI BEATRICE che la rappresenta e difende, giusta delega in atti

RICORRENTE

contro

affido condiviso-separazioni Bologna

affido condiviso-separazioni Bologna

Y, nato a (omissis) (BO), il 07/08/1947, elettivamente domiciliato in PIAZZA ROOSEVELT 4 BOLOGNA presso lo studio dell’Avv. MARINO VINCENZO che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti

RESISTENTE

CON L’INTERVENTO DEL PUBBLICO MINISTERO 

CONCLUSIONI 

PER PARTE RICORRENTE: Come da memoria n. 1 ex art. 183, comma 6 c.p.c., datata 22.12.2018

PER PARTE RESISTENTE: Come da memoria difensiva datata 24.05.2018, da integrarsi con la dichiarazione resa dal difensore all’udienza del 7.6.2018

Concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione

Con ricorso depositato in data 12.01.2018 X chiedeva all’intestato Tribunale di pronunciare la separazione personale dal coniuge Y , unione celebrata in (omissis) in data 12.06.1977 e dalla quale non nascevano figli; la ricorrente dava atto della disgregazione del rapporto coniugale e della intollerabilità della convivenza, svolgendo domanda di addebito nei confronti del marito.

La signora X, affetta dal 2002 da una patologia che l’ha portata progressivamente a perdere la vista e quasi completamente l’udito rendendola, di conseguenza, non autosufficiente, riferiva che il marito a partire dal 2016 ha iniziato ad assumere comportamenti aggressivi e vessatori nei suoi confronti, sfociati, il 22 marzo 2017, in un episodio di violenza in cui le avrebbe sferrato un violento schiaffo al volto. Successivamente a tale episodio la ricorrente abbandonava il tetto coniugale e decideva di trasferirsi presso la propria madre stante il grande stato di ansia provocatole.

Chiedeva, altresì, l’assegnazione della casa coniugale e la restituzione di somme di denaro.

Si costituiva Y , il quale non si opponeva alla separazione ma chiedeva il rigetto della domanda di addebito e la corresponsione di un assegno per il proprio mantenimento da quantificarsi in € 250,00.

All’udienza tenutasi ai sensi dell’art. 708 c.p.c. il giorno 24.05.2018 il Presidente, su richiesta di entrambi i difensori, rinviava all’udienza del 07.06.18 per permettere alle parti di tentare di definire la controversia in via bonaria.

Con ordinanza del 07.06.2018, il Presidente delegato, dato atto sia del fallimento del tentativo di riconciliazione dei coniugi sia della rinuncia del resistente alla domanda di assegno per il proprio mantenimento e della ricorrente alla restituzione di somme di denaro, assumeva i provvedimenti provvisori ed urgenti di propria competenza: in particolare, li autorizzava a vivere separati e disponeva che la casa coniugale restasse in godimento alla signora X , stante la disponibilità manifestata dalle parti.

All’udienza del 08.11.2018, in cui nessuno compariva per parte resistente, il difensore di parte ricorrente precisava le conclusioni sul vincolo sulle quali, intervenuto il PM, si pronunciava il Collegio con sentenza parziale n. 2993/2018 resa in data 13.11.2018. Con separata ordinanza la causa veniva rimessa sul ruolo per la decisione della domanda di addebito.

Rigettate le istanze istruttorie con ordinanza del 12.3.2019, all’udienza del 12.9.2019 parte ricorrente precisava le conclusioni, mentre parte resistente non compariva e la causa veniva rimessa al Collegio per la decisione.

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Preliminarmente, occorre dare atto del fatto che i coniugi X e Y sono già separati per effetto della sentenza parziale n. 2993/2018 resa da questo Tribunale in data 13.11.2018, ormai passata in giudicato.

Considerato che parte ricorrente ha rinunciato alla domanda di assegnazione della casa coniugale e di restituzione di somme e parte resistente alla domanda volta ad ottenere l’assegno di mantenimento, resta da esaminare sola la richiesta di addebito formulata dalla X.

Sull’addebito della separazione 

Occorre rilevare che, ai sensi dell’art. 151 co. II c.c., il giudice pronunziando la separazione dichiara, ove ne ricorrano le circostanze e ne sia richiesto, a quale dei coniugi sia la stessa addebitabile, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio.

Come noto, la pronuncia di addebito non può, tuttavia, fondarsi sulla mera violazione degli obblighi coniugali, essendo altresì necessario accertare che tale violazione sia stata eziologicamente idonea a determinare il fallimento della convivenza e del rapporto coniugale (tra le altre, si v.: Cass. civ., n. 8862/2012). Il duplice accertamento che il giudice di merito deve compiere, – valutando dapprima la violazione di obblighi matrimoniali e, in secondo luogo, la riferibilità della crisi familiare a detta violazione -, trova tuttavia una attenuazione qualora il comportamento addebitato al coniuge consista in atti di violenza, fisici o psichici.

In tal caso, il contegno aggressivo è ex se sufficiente a fondare l’addebitabilità della separazione, senza che si renda necessaria l’ulteriore indagine in merito all’incidenza causale di tale comportamento rispetto alla frattura del rapporto di coniugio (si v., Cass. civ., n. 11981/2013; n. 3925/18).

Tale principio, affermato costantemente dalla giurisprudenza di merito e di legittimità, non costituisce invero una deroga al normale procedimento di accertamento dell’addebitabilità della separazione, ma piuttosto si fonda sul postulato, difficilmente controvertibile, per cui l’atto di violenza è in re ipsa fatto idoneo a determinare o aggravare l’intollerabilità della convivenza, sicchè esso consente in definitiva di ritenere provato, ex se, il nesso causale tra la violazione del dovere coniugale di assistenza e solidarietà tra i coniugi (cfr. Tribunale di Milano, sez. IX,11 luglio 2013).

Inoltre, costituisce principio pacifico che “

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Ciò premesso, la domanda di addebito formulata dalla ricorrente è fondata e pertanto merita accoglimento in quanto vi sono elementi sufficienti in atti tali per affermare che quando la X ha lasciato la casa coniugale il 22.3.2017 la convivenza era stata resa intollerabile dalle condotte prevaricatrici, vessatorie, minatorie, umilianti ed in un’occasione violente del marito, contrarie ai doveri nascenti dal matrimonio.

Con particolare riferimento all’episodio dello schiaffo avvenuto in data 22.03.2017, per quanto contestato dal resistente, questo trova riscontro da un lato nella denuncia querela presentata dalla ricorrente, a cui ha fatto poi seguito il decreto di rinvio a giudizio del 18.05.2018, e dall’altro nel decreto ex art. 342 bis c.c. avverso il quale, tra l’altro, non è stato proposto reclamo; conseguentemente possono ritenersi provati i fatti e le circostanze ivi riportate.

Va inoltre precisato che il suddetto episodio rappresenta solo il culmine di una situazione di intollerabilità della vita coniugale provocata dal Y che, come confermato dai sommari informatori sentiti nell’ambito del procedimento ex art. 342 bis c.c., già a decorrere dal 2016 era solito aggredire verbalmente la moglie con minacce e mortificazioni, scatenando litigi così violenti da essere uditi dagli altri condomini, i quali sono stati più volte sul punto di contattare le forze dell’ordine.

In particolare la sig. xxxxall’udienza del 15.5.2017 riferiva “i problemi sono sorti negli ultimi tempi, un anno circa. Fino a quel momento non si era mai confidata con noi….poi ci ha confidato i suoi problemi di coppia. Lei era in ansia perché lui arrivava a casa tardi, non le preparava da mangiare. Lui è cambiato, lei non conosce le motivazioni. Ci ha raccontato di numerose aggressioni verbali” (cfr doc. 12 fascicolo ricorrente, depositato tempestivamente con la memoria n. 2 ex art. 183 comma 6 c.p.c.).

La signora xxxxxxvicina di casa di entrambe le parti in causa, riferiva “da circa un anno le discussioni sono diventate più accese…Io e la mia famiglia ci siamo spaventati perché abbiamo sentito il Y minacciare di dare un pugno in faccia alla signora. E’ successo a dicembre 2016 nel pomeriggio, ero con mia figlia che stavo studiando. Ho pensato di chiamare la polizia, poi la situazione si è placata. Era da tempo che sentivo aggressioni verbali. Il Y urlava ripetendo più volte ossessivamente “stai zitta”, faccio quello che voglio”, “voglio vederti piangere”. La signora cercava di parlare in tono pacato, ma lui urlava…Ci sono stati episodi sia precedenti sia successivi all’episodio di dicembre. Gli ultimi episodi sono stati a febbraio, poi abbiamo saputo che la signora si era trasferita. Verso marzo ha chiesto a mio marito se era disponibile a essere presente quando lei doveva entrare in casa a prendere delle cose perché era spaventata….durante i litigi c’erano tentativi di dialogo da parte della signora, parlava in tono normale e raramente sentiva quello che diceva. Poi lui la invitava a tacere con toni aggressivi!” (cfr doc. 12 fascicolo ricorrente).

Risulta altresì provata ex. art. 115 c.p.c., in quanto non contestata dall’odierno resistente se non nella comparsa conclusionale e quindi tardivamente, la circostanza secondo cui lo stesso, alla presenza della moglie, in più occasioni, ha mostrato agli amici ed amiche della coppia fotografie che lo ritraevano, senza vestiti, in compagnia di altre donne, generando così un profondo senso di umiliazione nella coniuge che assisteva inerte a tali scene. Tale condotta, peraltro, è stata confermata dalla sig. ra Toschi all’udienza del 15.5.2017 in cui riferiva che “il Y mi mandava foto di donne poco vestite su whatsApp. Le inviava anche all’altra amica” 

Risulta altresì provata ex. art. 115 c.p.c., in quanto non contestata dall’odierno resistente ed anzi ammessa nell’ambito del giudizio ex art. 342 bis c.c., la circostanza che il marito il 6.2.2017 abbia sottratto € 2.000,00 dal conto corrente della moglie, senza il consenso della stessa.

Il resistente ha reiteratamente negato, nei suoi atti, la propria responsabilità in merito alla separazione, ed in particolare ha negato – seppur in maniera generica – di avere usato violenza intra-familiare allegando altresì che nell’emettere il decreto ex art. 736-bis il convincimento del Giudice sarebbe stato influenzato dalle condizioni di salute in cui versa la ricorrente.

Tuttavia tali censure non risultano meritevoli di accoglimento, in quanto sia dalle risultanze documentali (decreto di rinvio a giudizio del 18.05.18, decreto ex art. 342 bis c.cordinanza di applicazione di misura cautelare del 17.09.18) sia da quelle testimoniali assunte nell’ambito del procedimento ex art. 736-bis emerge la rappresentazione di un contesto familiare altamente pregiudizievole per l’integrità psico-fisica della ricorrente; ciò a causa dei reiterati atteggiamenti aggressivi, violenti e mortificanti del resistente, resi ancor più gravi dalla circostanza di aver profittato della posizione di inferiorità e fragilità della moglie, dovuta alla patologia da cui è affetta.

Per tutte le ragioni sin qui esposte, dunque, si reputa ampiamente acquisita la prova di una condotta del Y contraria ai doveri nascenti dal matrimonio e tale da determinare l’irreversibilità della crisi coniugale, avendo egli in particolare violato i doveri di rispetto e solidarietà nei confronti della moglie, dando causa al legittimo allontanamento della moglie dalla causa coniugale, cosicché si impone la pronuncia di addebito della separazione a carico del resistente.

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Sulle spese di lite 

Considerato l’esito della lite, che ha visto il convenuto soccombente, le spese sono poste integralmente a carico di Y . La relativa liquidazione è fatta in dispositivo sulla base del valore indeterminato della causa con applicazione dei valori medi di cui al D.M. n. 55/2014 attualmente in vigore (scaglione da € 26.000,01 a € 52.000,00), per le fasi di studio, introduttiva e decisionale; in ragione del fatto che non sono state assunte prove in corso di causa viene invece applicata una diminuzione del 50% all’importo relativo alla fase istruttoria.

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni altra istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone:

1) dichiara che la separazione è addebitabile a Y ,

2) condanna il resistente a rifondere alla ricorrente le spese di lite che liquida in euro 6.394,00 per compensi, oltre accessori come per legge

Così deciso in Bologna, nella camera di consiglio, il 26 novembre 2019

Il Presidente

dott. Matilde Betti

Il Giudice Relatore

dott. Arianna D’Addabbo

Pubblicazione il 04/12/2019

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Originally posted 2020-01-08 08:04:54.

Per il divorzio consensuale c’è bisogno di un avvocato matrimonialista?

Se si è in procinto di affrontare una separazione o un divorzio consensuali, ci si potrebbe interrogare sulla necessità di fare affidamento o meno su un avvocato matrimonialista. La legislazione relativa alla separazione consensuale e al divorzio consensuale è stata modificata di recente dal decreto legge n. 132 del 12 settembre del 2014, il cosiddetto decreto Sblocca Italia, che ha reso possibile ottenere, con l’assistenza di un avvocato, non solo la separazione e il divorzio consensuali, ma anche la modifica delle condizioni previste per la separazione o per il divorzio. In virtù del divorzio consensuale, tale possibilità può essere sfruttata in tempi celeri, molto più veloci rispetto a quel che accadeva in passato, in virtù di una procedura che è stata semplificata in misura considerevole.

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Non c’è bisogno del tribunale

Come potrebbe spiegare qualsiasi avvocato matrimonialista, la separazione e il divorzio consensuali possono essere ottenuti addirittura senza che vi sia la necessità di coinvolgere un tribunale: nel giro di pochi giorni si usufruisce della risoluzione desiderata. Tutto quel che bisogna fare è contattare un avvocato matrimonialista, in modo tale da pervenire a un accordo di negoziazione assistita: con questa procedura non c’è più bisogno di depositare un ricorso in tribunale. In pratica, al posto della sentenza di separazione o di divorzio consensuali, è sufficiente un accordo di negoziazione assistita da un avvocato, a patto che lo stesso venga firmato da tutti e due i coniugi.

Perché contattare un avvocato

Rivolgendosi allo Studio legale dell’Avvocato Sergio Armaroli o a un altro avvocato, si può approfittare di una procedura decisamente breve: spetta all’avvocato stesso, poi, trasmettere l’accordo di negoziazione assistita al Comune presso il quale il matrimonio era stato iscritto o trascritto. Si tratta di un’esecuzione che richiede poco tempo, e che per altro si fa apprezzare per i costi contenuti che presuppone, di certo più bassi rispetto alle spese che sarebbe necessario sostenere nel caso in cui si optasse per una procedura in tribunale. Con poche centinaia di euro per coniuge ce la si cava: vale la pena di pensarci.

Anche se il divorzio è consensuale, non si può pensare di scegliere un avvocato solo: ognuna delle due parti ha bisogno dell’assistenza di un legale diverso. In verità questa regola appare un po’ in contrasto con il desiderio di rendere le procedure più semplici e più rapide, soprattutto se si pensa al fatto che per le richieste di separazione o di divorzio consensuali che vengono proposte in tribunale non è da escludere la possibilità che lo stesso legale presti la propria assistenza a tutti e due i coniugi. D’altro canto, è pur vero che, non essendo coinvolto il controllo di un giudice, la presenza di due legali fa sì che venga osservata – almeno in linea teorica – la tutela degli interessi di entrambe le parti. Nell’accordo è indispensabile dichiarare che gli avvocati hanno informato i coniugi della possibilità di ricorrere alla mediazione familiare, hanno provato a conciliare le parti e hanno messo in evidenza l’importanza per i figli minorenni di passare del tempo coi genitori.

Cosa succede se ci sono i figli

Il divorzio o la separazione consensuali in presenza di figli seguono le stesse regole delle procedure previste per le coppie senza figli: ciò vuol dire che anche in questo caso è prevista la possibilità di fare riferimento alla negoziazione assistita da un avvocato, sia che ci siano dei figli minorenni, sia che ci siano dei figli maggiorenni ma incapaci o non autosufficienti dal punto di vista economico. La sola differenza di cui è bene tenere conto è che in tale circostanza è necessario trasmettere l’accordo a cui si perviene al Procuratore della Repubblica del tribunale competente, entro dieci giorni, al fine di ottenere la relativa autorizzazione. Il Procuratore, a sua volta, in questa fase è tenuto ad accertare che l’accordo raggiunto permetta di tutelare e favorire l’interesse della prole; dopodiché, in caso di esito positivo, l’accordo viene inviato dal Procuratore al Presidente del tribunale entro cinque giorni, e a quel punto non devono passare più di trenta giorni prima che venga stabilita un’udienza per la comparizione delle parti.

Nel caso in cui la coppia che vuole separarsi o divorziare in maniera consensuale abbia figli maggiorenni non incapaci o portatori di handicap, occorre che l’accordo venga trasmesso al Procuratore della Repubblica, il quale si limita a dare il nulla osta.

 

Originally posted 2020-01-04 11:26:32.

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DISCONOSCIMENTO PATERNITA’ BOLOGNA RAVENNA FORLI CESENA OTTIENI

Il corollario, che ammette la possibilità di dimostrare lo stesso adulterio anche ricorrendo alla prova tecnica, non incide però sul momento iniziale del decorso del termine previsto dall’art. 244 c.c., e non interferisce dunque sulla disciplina dettata in tema di decadenza per la quale rilevano solo la scoperta del fatto “adulterio” ed il momento in cui il padre ne sia venuto a conoscenza, quale che sia stata la fonte che lo abbia reso edotto, prescindendo dall’accertamento della sua corrispondenza alla verità, che egli ha semplicemente il potere processuale di dimostrare senza incorrere in preclusioni, dunque attraverso ogni opportuna indagine tesa ad accertare le incompatibilità idonee a dimostrare l’adulterio” Col terzo motivo il ricorrente denuncia violazione dell’art. 2043 c.c., e art. 567 c.p., e lamenta che la Corte del merito, nel contesto di una motivazione omessa o insufficiente, ne avrebbe fatto malgoverno avendo rigettato la sua domanda risarcitoria avendola ritenuta dipendente da quella principale – rigettata -, pur in presenza della prova acquisita in atti dell’illecito penale rappresentato dalla falsa attestazione di stato dei figli.

I resistenti chiedono il rigetto della censura.

Il motivo deve essere dichiarato inammissibile. Statuito il rigetto della domanda risarcitoria, attesa la sua stretta correlazione con la domanda di disconoscimento, la Corte territoriale ha dichiarato nel contempo inammissibile la prospettazione della nuova causa petenti, siccome assunta a fondamento della domanda risarcitoria solo in sede d’appello in violazione dell’art. 345 c.p.c., laddove è stata riferita al disposto dell’art. 567 c.p. Trattasi di autonoma ratio decidendi contro cui il mezzo in esame non agita critica alcuna.

 

 

 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE I CIVILE

Sentenza 26 marzo 2013, n. 7581

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella – Presidente –

Dott. CULTRERA Maria Rosaria – rel. Consigliere –

Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 19843/2011 proposto da:

I.E. (C.F. (OMISSIS)), elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE ANGELICO 97, presso l’avvocato LEONE GENNARO, che lo rappresenta e difende, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

F.V. (C.F. (OMISSIS)), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TIBULLO 16, presso l’avvocato PATRIZIA VELLETRI, rappresentato e difeso dall’avvocato BRACCIALE FRANCO, giusta procura in calce al controricorso;

P.B. (C.F. (OMISSIS)), I.S. (C.F. (OMISSIS)), elettivamente domiciliate in ROMA, VIA ACHILLE PAPA 21, presso l’avvocato PAGANO MARIA TERESA, che le rappresenta e difende, giusta procura a margine del controricorso;

G.V., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA ADRIANA 15, presso l’avvocato VALERIA CAMPISI, rappresentato e difeso dall’avvocato TUCCITTO VINCENZO, giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrenti –

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contro

 

IA.SI., PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE D’APPELLO DI ROMA;

 

– intimati –

 

avverso la sentenza n. 2828/2010 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 30/06/2010;

 

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/02/2013 dal Consigliere Dott. MARIA ROSARIA CULTRERA;

 

udito, per il ricorrente, l’Avvocato GENNARO LEONE che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

 

udito, per le controricorrenti P.B. e I.S., l’Avvocato MARIA TERESA PAGANO che ha chiesto il rigetto del ricorso;

 

udito, per il controricorrente F., l’Avvocato FRANCO BRACCIALE che ha chiesto il rigetto del ricorso;

 

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FUCCI Costantino, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Svolgimento del processo

 

I.E. con citazione del 10.10.2002, ha proposto innanzi al Tribunale di Latina domanda di disconoscimento della paternità dei figli minori I.S. e Ia.Si., nati rispettivamente l'(OMISSIS) ed il (OMISSIS) dal matrimonio con P.B., da cui intanto si era separato, e di dichiarazione giudiziale di paternità nei confronti di G.V. e F.V., assumendo di non essere il padre naturale dei minori in quanto all’epoca del loro concepimento la moglie aveva intrattenuto relazioni extraconiugali prima con il G. e poi col F., nei cui confronti ha altresì chiesto pronuncia di condanna unitamente a P.B. al risarcimento dei danni morali e materiali subiti. Con sentenza n. 849/2006, il Tribunale adito ha dichiarato inammissibile la domanda di disconoscimento essendo la I. decaduto dall’azione in quanto promossa oltre l’anno dalla conoscenza delle distinte relazioni della moglie, da farsi risalire già alle date di nascita dei figli o al più tardi all'(OMISSIS); ha dichiarato inammissibile anche la domanda di dichiarazione giudiziale di paternità, ed ha rigettato le domande risarcitorie. I.E. ha impugnato la decisione innanzi alla Corte d’appello di Roma deducendo d’aver avuto antecedentemente all’anno previsto per l’instaurazione del giudizio un mero sospetto, che divenne consapevolezza circa le relazioni extraconiugali della moglie da cui erano nati i minori S. e Si., solo nel (OMISSIS), allorchè aveva reperito un biglietto anonimo che lo informava del fatto, aveva ricevuto le confidenze della conoscente Pa.Ma.An., aveva assunto informazioni da un investigatore privato ed infine aveva acquisito il risultato negativo dell’esame del dna dei minori, lamentando altresì di non aver potuto fornire esauriente prova del suo assunto per non aver il primo giudice ammesso la prova contraria da lui articolata sui capitoli dedotti dalle controparti, sì che si era trovato nell’impossibilità di dimostrare il mendacio delle testimoni I.A., sua sorella e moglie del F., e F.A., congiunta di quest’ultimo, da lui denunciate per falsa testimonianza, in ordine alla loro conoscenza delle relazioni intrattenute dalla moglie, e che comunque il Tribunale avrebbe dovuto dare ingresso alla prova genetica. Gli appellati, ciascuno dei quali si è ritualmente costituito, hanno chiesto il rigetto del gravame. F. V. ha dedotto altresì in linea preliminare la carenza della propria legittimazione passiva in relazione alla domanda di disconoscimento della paternità del presunto figlio Si., posto che litisconsorti necessari erano questi, la madre ed il padre, quest’ultimo peraltro sprovvisto di legittimazione attiva in relazione all’azione di riconoscimento della paternità di Si.

 

in capo allo stesso F. Si è inoltre costituita l’Avv. Carmela Docimo, quale curatore speciale dei minori, che ha chiesto il rigetto del gravame. In corso di giudizio si è infine costituita I.S., divenuta maggiorenne, che ha dedotto l’infondatezza delle domande. La Corte territoriale, ritualmente instauratosi il contraddittorio nei confronti di tutti gli appellati che si sono costituiti per chiedere il rigetto del gravame, ha confermato la precedente statuizione con sentenza n. 2828 depositata il 30 giugno 2010. Avverso la decisione I.E. ha proposto infine ricorso per cassazione articolato in tre motivi resistiti da G. V., F.V., P.B. e I.S.

 

Il ricorrente ed i resistenti F.V. e P.B. e I.S. hanno altresì depositato memoria difensiva ai sensi dell’art. 378 c.p.c.

 

L’altra intimata non ha invece svolto difese.

 

Motivi della decisione

 

In linea preliminare va dichiarato il difetto della legittimazione passiva dei convenuti G.V. e F.V., secondo quanto del resto quest’ultimo ha dedotto con eccezione sottoposta al giudice d’appello e ribadita in questa sede, in ordine all’azione di disconoscimento della paternità esperita dall’attore anche nei loro confronti per l’asserita qualità di padri naturali dei figli S. e Si. Osserva a riguardo il collegio che questa Corte, con consolidato orientamento a cui si intende in questa sede dare continuità (per tutte da ultimo n. 430/2012), ha già affermato che “la sentenza che accolga la domanda di disconoscimento della paternità, in quanto pronunciata nei confronti del pubblico ministero e di tutti gli altri contraddittori necessari, assume autorità di cosa giudicata erga omnes, essendo inerente allo status della persona (Cass. 1985/194). In particolare, la paternità legittima non può essere messa in discussione e neppure difesa da colui che è indicato come padre naturale, il quale, allorchè deduca che l’esito positivo dell’azione di disconoscimento di paternità si riverbera sull’azione di riconoscimento della paternità intentata nei suoi confronti, si limita in realtà a far valere un pregiudizio di mero fatto, tanto da non poter agire contro la sentenza di disconoscimento neppure con l’opposizione di terzo, atteso che il rimedio contemplato dall’art. 404 c.p.c., presuppone in capo all’opponente un diritto autonomo la cui tutela sia però incompatibile con la situazione giuridica risultante dalla sentenza impugnata (Cass. 2005/12167)”. La questione, rilevabile peraltro anche in via officiosa non essendosi su di essa formato il giudicato in assenza di statuizione del giudice d’appello, pur investito sul punto,va risolta pertanto nei sensi prospettati.

 

Col primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 235 c.c., comma 3, dell’art. 244 c.c., comma 2, e correlato vizio d’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su fatto controverso e decisivo. Lamenta che la Corte territoriale, facendo altresì malgoverno degli enunciati pur riferiti in sentenza, avrebbe erroneamente assunto a dato decisivo, ai fini dello scrutinio dell’ammissibilità dell’azione da lui esperita di disconoscimento della paternità, la dimostrata esistenza del mero sospetto da lui nutrito sulle relazioni extraconiugali intrattenute con i due convenuti dalla P., e non già la scoperta del loro rapporto adultero, da intendersi quale acquisizione della conoscenza di una relazione ovvero di un incontro che comunque avesse investito la sfera sessuale, sì da determinare il concepimento dei figli che intendeva disconoscere. Il giudice dell’appello avrebbe in sostanza equiparato alla conoscenza dell’adulterio, da cui decorre il termine di decadenza posto dalla norma in rubrica, il mero dubbio circa la frequentazione della P. con gli altri uomini, desunto dalla condotta concretatasi nello stretto rapporto con G. e dall’episodio del massaggio non terapeutico del F.. La decisione sarebbe pertanto affetta dal denunciato error juris laddove equipara il sospetto, emerso dal compendio istruttorio acquisito, alla scoperta degli adulteri della moglie, e risulterebbe illogicamente argomentata nella parte in cui desume tale conoscenza dai riferiti, pur criticabili episodi, riguardanti i presunti padri naturali dei figli. Il ricorrente formula infine conclusivo ma superfluo quesito di diritto ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., abrogato dalla L. n. 69 del 2009, in relazione alle decisioni pronunciate successivamente alla data del 4 luglio 2009 della sua entrata in vigore.

 

Tutti i resistenti deducono l’inammissibilità ovvero l’infondatezza del motivo.

 

Il motivo espone censura priva di pregio.

 

La Corte del merito, premesso che il termine decadenziale previsto dall’art. 244 c.c., va correlato alla conoscenza non già del concepimento del figlio bensì dell’adulterio della moglie che, secondo orientamento giurisprudenziale citato, deve concretarsi nella cognizione di un legame a sfondo sessuale della donna, ha ritenuto acquisita in giudizio la relativa prova anzitutto alla luce dalle stesse affermazioni contenute nell’atto di citazione – l’intenzione più volte manifestata dalla P. di andarsene con la figlia S. ed il G. e le scenate di gelosia del F. per la relazione intrattenuta tra la predetta e E.V.-, correttamente ritenute dal primo giudice aventi contenuto confessorio circa la certezza e non già il semplice sospetto delle relazioni della moglie con i due convenuti, attestanti durata ed intensità affettiva di quegli stretti legami. Indi ne ha tratto conferma dalla deposizione di I.A., sorella dell’attore e moglie di F.V., che, escussa a prova diretta, dichiarò che il fratello, affetto sin dal (OMISSIS) da oligospermia, accettò i figli come suoi pur sapendo di non averli generati. Ha infine concluso che il coerente quadro istruttorio emerso, non validamente contrastato dalle deposizioni degli altri testi R. e Pa., ammantano di conclusiva univocità l’intempestività dell’azione promossa dallo I. L’approdo richiama puntualmente nella motivazione il quadro normativo che regola il caso di specie alla stregua del disposto dell’art. 235 comma 1, n. 3, che prevede che l’azione per il disconoscimento della paternità del figlio concepito durante il matrimonio è consentita “se nel detto periodo la moglie ha commesso adulterio —“, in combinato con l’art. 244 c.c., corretto a seguito dell’intervento della Corte Costituzionale con sentenza n. 134 del 1985 che estese all’adulterio la soluzione prevista per il celamento della nascita, che al comma 3 legittima l’azione entro un anno dal momento della conoscenza del fatto che la rende ammissibile, vale a dire dell’adulterio. E citandolo in parte, si uniforma all’orientamento consolidato di questa Corte – cfr. Cass. n. 5248/2000, n. 1264/01, n. 14887/02, n. 6477/2003, n. 4090/2005, n. 15777/2010- che il collegio condivide ed al quale intende in questa sede dare continuità, secondo cui il dies a quo del termine annuale va collocato nel momento della scoperta dell’adulterio, intesa quale conoscenza della relazione o dell’incontro di carattere sessuale della donna con altro uomo, idonei a determinare il concepimento del figlio che s’intende disconoscere. Nel solco di questo contesto esegetico ed in assoluta coerenza, ha dunque criticamente vagliato il compendio istruttorio acquisito in giudizio, apprezzando l’idoneità dei fatti da esso emersi a rendere noto allo I. il duplice adulterio, consumato della moglie prima con l’uno e poi con l’altro dei convenuti nei periodi concomitanti con il concepimento dei figli Si. e S.

 

Il percorso logico che ne sostiene la conclusione è all’evidenza immune dal vizio denunciato. La valutazione delle evenienze istruttorie e la sintesi ricostruttiva da essa desunta, esaustivamente e logicamente argomentate, ineriscono al merito e, risultando argomentate sulla base di puntuale tessuto motivazionale, non sono sindacabili da parte di questa Corte cui è preclusa la rivisitazione della vicenda fattuale. Ne discende il rigetto del motivo.

 

Il secondo motivo, con cui il ricorrente ribadisce analoga censura anche in relazione all’art. 116 c.p.c., verte sull’attendibilità della deposizione della sorella I.A., moglie del F., a suo avviso con questo compiacente. Ed invero, la Corte d’appello, secondo il ricorrente, non avrebbe tenuto conto del testo della telefonata nel corso della quale ella gli disse che avrebbe dovuto schierasi con la P. e purtroppo “fare le cose contro di lui”, nè che la deposizione non era decisiva poichè non ineriva all’adulterio ma alla sua situazione clinica di impotentia generarteli. Gli altri testi, anch’essi inattendibili, non avrebbero smentito che egli apprese dell’adulterio solo all’esito delle prove genetiche, dunque entro l’anno dall’introduzione del giudizio.

 

Il motivo, di cui i resistenti chiedono il rigetto, è inammissibile laddove induce palesemente alla rilettura della deposizione della testa I.A., preclusa a questa Corte, e richiama in senso assolutamente generico le altre deposizioni senza trascriverne il contenuto. E’ infondato laddove in senso inconferente richiama la dichiarazione d’illegittimità costituzionale dell’art. 235 c.c., comma 1, n. 3, pronunciata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 2006/266 con riguardo alla parte che, ai fini dell’azione di disconoscimento della paternità, subordina l’esame delle prove tecniche da cui risulta che il figlio presenta caratteristiche genetiche o del gruppo sanguigno incompatibili con quelle del presunto padre alla previa dimostrazione dell’adulterio della moglie.

 

Con la citata sentenza n. 15777/2010, che si richiama e si condivide, si è chiarito che tale pronuncia, correggendo l’interpretazione che della norma era stata data da questa Corte, che subordinando all’indagine sul verificarsi dell’adulterio la prova della sussistenza o meno del rapporto procreativo comportava che questa, anche se espletata contemporaneamente alla prova dell’adulterio, poteva essere esaminata solo subordinatamente al raggiungimento di quest’ultima, e al diverso fine di stabilire il fondamento del merito della domanda, sicchè, in difetto di prova dell’adulterio, non poteva pronunciarsi il disconoscimento neppure se fosse risultata dimostrata l’incompatibilità genetica o del gruppo sanguigno del figlio rispetto al presunto padre, afferma che la norma consente l’accesso alle prove ematiche anche a prescindere dalla previa prova dell’adulterio perchè la contraria interpretazione viola i principi di libero accesso alla prova e della pienezza del diritto di difesa.

 

Il corollario, che ammette la possibilità di dimostrare lo stesso adulterio anche ricorrendo alla prova tecnica, non incide però sul momento iniziale del decorso del termine previsto dall’art. 244 c.c., e non interferisce dunque sulla disciplina dettata in tema di decadenza per la quale rilevano solo la scoperta del fatto “adulterio” ed il momento in cui il padre ne sia venuto a conoscenza, quale che sia stata la fonte che lo abbia reso edotto, prescindendo dall’accertamento della sua corrispondenza alla verità, che egli ha semplicemente il potere processuale di dimostrare senza incorrere in preclusioni, dunque attraverso ogni opportuna indagine tesa ad accertare le incompatibilità idonee a dimostrare l’adulterio” Col terzo motivo il ricorrente denuncia violazione dell’art. 2043 c.c., e art. 567 c.p., e lamenta che la Corte del merito, nel contesto di una motivazione omessa o insufficiente, ne avrebbe fatto malgoverno avendo rigettato la sua domanda risarcitoria avendola ritenuta dipendente da quella principale – rigettata -, pur in presenza della prova acquisita in atti dell’illecito penale rappresentato dalla falsa attestazione di stato dei figli.

 

I resistenti chiedono il rigetto della censura.

 

Il motivo deve essere dichiarato inammissibile. Statuito il rigetto della domanda risarcitoria, attesa la sua stretta correlazione con la domanda di disconoscimento, la Corte territoriale ha dichiarato nel contempo inammissibile la prospettazione della nuova causa petenti, siccome assunta a fondamento della domanda risarcitoria solo in sede d’appello in violazione dell’art. 345 c.p.c., laddove è stata riferita al disposto dell’art. 567 c.p. Trattasi di autonoma ratio decidendi contro cui il mezzo in esame non agita critica alcuna.

 

Tutto ciò premesso, il ricorso devesi rigettare con condanna del ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio liquidate come da dispositivo.

 

P.Q.M.

 

La Corte:

 

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio liquidandole in favore di P.B. e I.S. nell’importo di Euro 3.000,00, per compensi, ed Euro 200,00 per spese, in favore di F.V. in egual misura ed in favore di G.V. nell’importo di Euro 2.500,00 per compensi e di Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge.

 

Ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, comma 5, in caso di diffusione della presente sentenza si devono omettere le generalità e gli altri dati identificativi delle parti.

 

Così deciso in Roma, il 12 febbraio 2013.

 

Depositato in Cancelleria il 26 marzo 2013.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nell’azione di disconoscimento di paternità, a seguito delle pronunce della Corte costituzionale (Corte cost. 6 maggio 1985, n. 134), il termine annuale di decadenza dell’azione, di cui all’art. 244 c.c., nel testo anteriore al D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, art. 18, decorre dal giorno in cui il marito sia venuto a conoscenza dell’adulterio della moglie.

 

Questa Corte (cfr. Cass. 26 giugno 2014, n. 14556) ha sancito il principio che la regola posta dall’art. 244 c.c., comma 2, novellato dal D.Lgs. n. 154 del 2013, art. 18 predetto – secondo cui il marito può disconoscere il figlio nel termine di un anno, che decorre, nel caso in cui egli provi di aver ignorato l’adulterio della moglie al momento del concepimento, dal giorno in cui ne ha avuto conoscenza si applica anche ai giudizi pendenti al momento dell’entrata in vigore della riforma.

 

La norma, peraltro, ha recepito un principio costituente ormai “diritto vivente” (sin da Cass. 30 maggio 2013, n. 13638).

 

Inoltre, secondo la giurisprudenza di questa Corte, la scoperta dell’adulterio commesso all’epoca del concepimento va intesa come acquisizione certa della conoscenza (e non come mero sospetto) di un fatto – non riducibile, perciò, a mera infatuazione, o a mera relazione sentimentale, o a mera frequentazione della moglie con un altro – rappresentato o da una e propria uomo vera relazione, o da un incontro idoneo a determinare il concepimento del figlio: il termine di decadenza per l’esercizio dell’azione è correlato alla scoperta in maniera certa dell’adulterio (Cass. 26 giugno 2014, n. 14556; 23 aprile 2003, n. 6477).

 

In definitiva, anche nel giudizio in esame è onere dell’attore provare il momento in cui sia venuto a conoscenza dell’adulterio, quale fatto idoneo a generare, da parte della moglie, che si pone come dies a quo dell’azione di disconoscimento.

AFFIDO FIGLI AFFIDO OCNDIVISO AVVOCATO DIVORZISTA BOLOGNA

AFFIDO FIGLI AFFIDO OCNDIVISO AVVOCATO DIVORZISTA BOLOGNA

 

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

 

 

SEZIONE PRIMA CIVILE 

 

 

Sentenza 1°-30 giugno 2016, n. 13436

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

 

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –

 

Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere –

 

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

 

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –

 

Dott. NAZZICONE Loredana – rel. Consigliere –

 

ha pronunciato la seguente:

 

 

 

SENTENZA

 

sul ricorso 21825-2015 proposto da:

 

G.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEL TRITONE 102, presso l’avvocato SIMONA BASTONI, rappresentato e difeso dall’avvocato LUIGI LIBERTI, giusta procura a margine del ricorso: – ricorrente –

 

contro

 

L.L., nella qualità di Curatore speciale della minore G.R., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEL TRITONE 102, presso l’avvocato VITO NANNA, rappresentato e difeso dall’avvocato ANDREA VIOLANTE, giusta procura a margine del controricorso; – controricorrente –

 

contro

 

LA.VI.; – intimata –

 

avverso la sentenza n. 179/2015 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositata il 12/02/2015;

 

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 01/06/2016 dal Consigliere Dott. LOREDANA NAZZICONE;

 

udito, per il ricorrente, l’Avvocato LIBERTI LUIGI che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

 

udito, per il controricorrente, l’Avvocato VIOLANTE UMBERTO, con delega, che ha chiesto il rigetto del ricorso;

 

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CAPASSO Lucio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Svolgimento del processo

 

La Corte d’appello di Bari con sentenza del 12 febbraio 2015 ha respinto l’impugnazione avverso la decisione del Tribunale della stessa città del 10 ottobre 2013, con la quale è stata dichiarata inammissibile l’azione di disconoscimento di paternità, proposta da G.A. nei confronti di La.Vi. e della minore G.R..

 

La corte territoriale ha confermato il giudizio di tardività dell’azione, non avendo l’attore provato di averla intrapresa entro un anno dalla scoperta dell’adulterio della moglie: infatti, egli ha affermato, nell’atto di citazione, che solo “recentemente la convenuta ha confessato l’attore di aver concepito la minore con un altro uomo”, ma non è possibile fissare tale data al momento della valutazione di compatibilità genetica dell’8 novembre 2011, in quanto l’attore ha utilizzato la medesima espressione anche nell’istanza di nomina di un curatore speciale alla minore presentata il 20 dicembre 2011, e la notifica dell’atto di citazione è avvenuta il 16 luglio 2012.

 

Correttamente, inoltre, il tribunale ha disatteso l’istanza di rimessione in termini allo scopo di offrire tale prova, istanza fondata sull’assunto che il dato non era stato contestato sino all’eccezione sollevata al riguardo dal curatore speciale, posto che l’onere della relativa prova spetta all’attore indipendentemente da qualunque eccezione, nè al riguardo vi è alcun obbligo di un’indagine d’ufficio. Infine, ha dichiarato assorbito il motivo vertente su “ulteriori conferme documentali”.

 

Avverso questa sentenza ha proposto ricorso il soccombente, affidato a sei motivi, cui ha resistito con controricorso il curatore speciale della minore.

 

Fissata l’adunanza in camera di consiglio e depositata la relazione, nonchè la memoria dal ricorrente, con ordinanza interlocutoria del 17 febbraio 2016, la Sottosezione Sesta, presso cui la causa era stata incardinata, ha rimesso la medesima alla pubblica udienza.

 

Motivi della decisione

 

  1. – Il ricorrente propone sei motivi di ricorso, che possono essere come segue riassunti:

    1) violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 4, e art. 111 Cost., comma 6, per avere la corte del merito reso una motivazione solo apparente circa il momento cronologico esposto dall’attore con l’avverbio “recentemente”, laddove l’attore aveva ricollegato la confessione della moglie proprio al ritiro del test genetico;

    2) omesso esame di fatto decisivo discusso tra le parti, posto che, nell’atto di citazione, l’avverbio predetto e la confessione erano stati collegati al momento di ricezione del certificato delle analisi in data 8 novembre 2011, fatto del tutto trascurato dalla sentenza impugnata;

    3) violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 153 e 167 c.p.c., in quanto sia la madre, sia il curatore avevano contestato unicamente l’attendibilità della relazione del laboratorio, non la sua idoneità a porsi come fonte della conoscenza dell’adulterio, onde non erano più consentite contestazioni successive, come avvenuto solo all’udienza di precisazione delle conclusioni del 6 marzo 2013; in caso contrario, l’attore avrebbe almeno dovuto essere rimesso in termini per provare di non essere decaduto dall’azione;

    4) violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c. ed omessa motivazione su fatti decisivi discussi tra le parti, non avendo motivato circa l’indispensabilità di documenti prodotti in appello ed a ciò necessari, dunque non esaminati, essendosi la corte del merito limitata a ritenere assorbito il relativo motivo d’appello;

    5) violazione dell’art. 345 c.p.c. ed omesso esame di fatto decisivo discusso tra le parti, posto che la moglie gli aveva inviato una lettera confessoria del 27 ottobre 2011, riferendosi alla non paternità del solo secondogenito, onde unicamente dalle analisi di laboratorio sul genoma il ricorrente poteva avere appreso della non paternità anche della primogenita, il successivo 8 novembre 2011: ma la corte del merito ha ignorato l’indispensabilità di quella lettera;

    6) violazione e falsa applicazione dei principi di diritto circa le indagini probatorie d’ufficio anche in materia di diritti indisponibili, posto che il giudice avrebbe dovuto indagare d’ufficio il reale status.

    2. – I primi tre motivi, da esaminare congiuntamente per la loro intima connessione, sono fondati.

    2.1. – Nella vicenda in esame, l’attore ha chiesto il disconoscimento di paternità indicando, in citazione, le due circostanze di avere ricevuto confessione dell’adulterio dalla moglie e di avere ricevuto le analisi genetiche, da cui risulta la non paternità rispetto alla figlia, in data 8 novembre 2011. L’atto di citazione è stato notificato il 16 luglio 2012.

    A fronte di tale assunto, i convenuti non hanno contestato alcunchè circa la data di conoscenza esposta dall’attore, o su altro possibile dies a quo del termine precisa della effettiva discendenza genetica della minore.

    Il processo, quindi, è proseguito sino all’udienza di precisazione delle conclusioni, durante la quale per la prima volta è stata dal curatore della minore sollevata la questione della decadenza dall’azione, senza che però da tale momento sia stato più permesso all’attore, sebbene egli anche in appello avesse insistito in tal senso, di provare la tempestività dell’azione proposta.

    La sentenza impugnata, come sopra ricordato, ha ritenuto l’attore decaduto dalla domanda, perchè egli nell’atto di citazione ha dichiarato “che recentemente la convenuta ha confessato all’attore di aver concepito la minore con un altro uomo- e l’identica espressione è contenuta nell’istanza di nomina del curatore speciale alla minore, presentata il 20 dicembre 2011, laddove l’atto di citazione è stato notificato il 16 luglio 2012, onde non può avere rilievo la data indicata come quella di ritiro delle analisi genetiche dell’8 novembre 2011, invece indicata dall’attore come di scoperta della falsa paternità.

    2.2. – Nell’azione di disconoscimento di paternità, a seguito delle pronunce della Corte costituzionale (Corte cost. 6 maggio 1985, n. 134), il termine annuale di decadenza dell’azione, di cui all’art. 244 c.c., nel testo anteriore al D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, art. 18, decorre dal giorno in cui il marito sia venuto a conoscenza dell’adulterio della moglie.

    Questa Corte (cfr. Cass. 26 giugno 2014, n. 14556) ha sancito il principio che la regola posta dall’art. 244 c.c., comma 2, novellato dal D.Lgs. n. 154 del 2013, art. 18 predetto – secondo cui il marito può disconoscere il figlio nel termine di un anno, che decorre, nel caso in cui egli provi di aver ignorato l’adulterio della moglie al momento del concepimento, dal giorno in cui ne ha avuto conoscenza si applica anche ai giudizi pendenti al momento dell’entrata in vigore della riforma.

    La norma, peraltro, ha recepito un principio costituente ormai “diritto vivente” (sin da Cass. 30 maggio 2013, n. 13638).

    Inoltre, secondo la giurisprudenza di questa Corte, la scoperta dell’adulterio commesso all’epoca del concepimento va intesa come acquisizione certa della conoscenza (e non come mero sospetto) di un fatto – non riducibile, perciò, a mera infatuazione, o a mera relazione sentimentale, o a mera frequentazione della moglie con un altro – rappresentato o da una e propria uomo vera relazione, o da un incontro idoneo a determinare il concepimento del figlio: il termine di decadenza per l’esercizio dell’azione è correlato alla scoperta in maniera certa dell’adulterio (Cass. 26 giugno 2014, n. 14556; 23 aprile 2003, n. 6477).

    In definitiva, anche nel giudizio in esame è onere dell’attore provare il momento in cui sia venuto a conoscenza dell’adulterio, quale fatto idoneo a generare, da parte della moglie, che si pone come dies a quo dell’azione di disconoscimento.

    2.3. – E, però, al riguardo, vigono le usuali norme che regolano l’onere della prova, ivi compreso il principio di non contestazione.

    Com’è noto, nel nostro ordinamento la non contestazione dei fatti allegati da controparte può assumere una duplice valenza ai fini della prova dei medesimi: in forza del principio previsto dall’art. 115 c.p.c., comma 1, la non contestazione specifica di un fatto dedotto è comportamento univocamente rilevante ai fini della determinazione del thema probandum; ove, invece, detto principio non possa operare, ad esempio in relazione ai fatti costitutivi dei diritti non disponibili, la mancata contestazione è comunque valutabile, ai sensi dell’art. 116 c.p.c., comma 2.

    In particolare, già l’art. 167 c.p.c., imponendo al convenuto l’onere di prendere posizione sui fatti costitutivi del diritto preteso dalla controparte, considera la non contestazione un comportamento univocamente rilevante, in quanto l’atteggiamento difensivo delle parti espunge il fatto stesso dall’ambito degli accertamenti richiesti (cfr., e multis, Cass. 25 maggio 2004, n. 10031).

    Pertanto, in materia di diritti indisponibili, come quelli implicati nella causa in esame, il principio di non contestazione, se non può operare ai fini della prova degli elementi costitutivi dell’azione (in particolare, l’essere il disconoscendo figlio naturale del genitore), tuttavia resta efficace con riguardo al fatto assunto in citazione come rilevante ai fini della tempestività dell’azione medesima per non essere decorso il termine di decadenza.

    Tale profilo, invero, integra un fatto mero l’episodio della vita che si pone quale momento iniziale della decorrenza del termine di decadenza – che ricade nell’ambito applicativo dell’art. 115 c.p.c..

    Che non possa parlarsi tout court di “materia indisponibile” con riguardo a qualsiasi elemento oggetto di prova in giudizio, invero, è stato già chiarito da questa Corte, la quale ha precisato che, se è vero che l’azione di disconoscimento della paternità verte in materia di diritti indisponibili in relazione ai quali non è ammesso alcun tipo di negoziazione o di rinunzia, nondimeno “l’indagine sull’epoca della conoscenza dell’adulterio, ai fini della prova della tempestività dell’azione di disconoscimento della paternità fondata sull’adulterio della moglie, inerisce a un dato cronologico ed oggettivamente neutro che va autonomamente provato con ogni mezzo di prova consentito dall’ordinamento, quale evento condizionante l’ammissibilità dell’azione e quindi estraneo alla materia attinente allo status” (così, in motivazione, Cass. 26 giugno 2014, n. 14556).

    Inoltre, si è già chiarito che, in tema di azione di disconoscimento di paternità, trova applicazione, ai fini dell’individuazione del thema probandum, il principio di non contestazione, dovendosi ritenere tale condotta idonea ad escludere, in via immediata, i fatti non contestati dal novero di quelli bisognosi di prova, anche se “l’effetto della non contestazione non può essere lo stesso che essa produce in presenza di situazioni giuridiche di cui le parti possono liberamente disporre: l’interesse pubblico che sta alla base dell’indisponibilità della situazione giuridica dedotta in giudizio, se da un lato non impedisce al giudice di avvalersi di tutti gli elementi e degli argomenti di prova di cui dispone ai fini dell’accertamento dei fatti, ivi compresi quelli desumibili dalla condotta processuale delle parti, dall’altro però esclude che egli possa ritenersi vincolato a ritenere sussistenti o insussistenti determinati fatti in virtù di dichiarazioni o ammissioni delle stesse, la cui valutazione resta pertanto devoluta al suo prudente apprezzamento” (Cass. 11 giugno 2014, n. 13217).

    Ciò conduce al parziale superamento di un orientamento meno recente, secondo cui “l’attore deve dare la prova che l’azione è stata promossa entro il termine senza che alcun rilievo possa avere in proposito la circostanza che nessuna parte abbia eccepito il decorso del termine” (Cass. 11 febbraio 2000, n. 1512), posto che non era stato all’epoca ancora sancito il principio di cui all’art. 115 c.p.c.; mentre, come subito si dirà, non si pone qui in discussione la regola del rilievo d’ufficio della decadenza, che non è soggetta invero ad eccezione di parte.

    Con riguardo al termine di decadenza dall’azione di disconoscimento della filiazione, invero, occorre ora operare alcune precisazioni.

    L’efficacia del principio di non contestazione, pure da affermarsi al riguardo, non vuol dire però che sul punto la regola divenga assimilabile a quella dell’eccezione di parte, restando, invece, la decadenza sempre rilevabile d’ufficio, ove emerga dagli atti (nota essendo la differenza concettuale tra eccezione in senso stretto e principio di non contestazione, posti su piani diversi), in ragione della preminenza dell’interesse pubblico nelle questioni di stato delle persone.

    Il principio di non contestazione non esclude, pertanto, che il giudice possa e debba esaminare gli atti e i documenti del giudizio prodotti dalle parti, per rilevare d’ufficio, se del caso, la decadenza dall’azione.

    Il principio di non contestazione mira a selezionare i fatti pacifici e a separarli da quelli controversi, per i quali soltanto si pone l’esigenza dell’istruzione probatoria. Ciò non implica, però, che ad essere disponibile sia la verità storica e che, dunque, sia sottratto al giudice ogni potere di verificarla (per alcuni spunti in tal senso, cfr. Cass. 5 maggio 2015, n. 8969).

    In particolare, il principio di non contestazione opera in maniera più attenuata nell’ambito delle questioni rilevabili d’ufficio, come nel presente caso, concernente l’eventuale inammissibilità dell’azione di disconoscimento del figlio: questione che, attenendo all’ingresso della causa innanzi al giudice e dovendo essere verificata anche d’ufficio, non impedisce il rilievo ex actis (termine che, secondo questo Ufficio, è soggetto alla sospensione feriale: Cass. 11 febbraio 2000, n. 1512; 13 maggio 1999, n. 6874).

    Sull’epoca della scoperta dell’adulterio, quindi, opera il principio di non contestazione, che espunge tale fatto dall’ambito del thema probandum; ma, a fronte della condotta acquiescente dei convenuti circa la data esposta in citazione come dies a quo della proponibilità della domanda, la quale la renda tempestiva, il giudice può e deve ancora rilevare ex actis un eventuale anteriore termine di decorrenza, il quale renda l’azione inammissibile; mentre resta che, in mancanza di altri elementi, acquisiti al processo, che palesino detta decadenza, egli non potrà porre in non cale gli effetti della non contestazione del momento di decorrenza del termine decadenziale, onde dovrà considerare senz’altro l’azione ammissibile, senza imputare all’attore le conseguenze del non avere egli stesso offerto mezzi di prova al riguardo.

    3. – I rimanenti motivi restano assorbiti.

    4. – In conclusione, la sentenza impugnata va cassata in relazione ai motivi accolti, e la causa rinviata alla Corte d’appello di Bari per nuovo esame, in particolare perchè essa valuti se sia integrata la non contestazione circa la scoperta dell’adulterio con l’effettuazione di analisi genetiche in data 8 novembre 2011, e verifichi, secondo il suo prudente apprezzamento, se risulti ex actis la dimostrazione di un’epoca anteriore di conoscenza dell’adulterio della moglie da parte del marito, tale da implicare il decorso del termine annuale; in mancanza, proceda alla trattazione nel merito.

    Alla corte territoriale si demanda pure la liquidazione delle spese di legittimità.

 

P.Q.M.

 

La Corte accoglie i motivi primo, secondo e terzo del ricorso, assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per la liquidazione delle spese di legittimità, innanzi alla Corte d’appello di Bari, in diversa composizione.

Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.

 

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 1° giugno 2016.

 

Depositato in Cancelleria il 30 giugno 2016.

 

 

 

 

 

Tribunale di Monza

 

Sezione IV Civile

 

Sentenza 17 febbraio 2010

 

Repubblica Italiana

 

in nome del Popolo Italiano

 

TRIBUNALE DI MONZA

 

Sezione Quarta Civile

 

Il Tribunale, riunito in camera di consiglio nelle persone dei Sigg.magistrati:

 

dott.Piero CALABRO’ …………………………………………Presidente

 

dott.C. LOJACONO – Giudice

 

dott.Davide DE GIORGIO – Giudice

 

ha pronunziato la seguente

 

SENTENZA

 

nella causa civile iscritta al R.G. n.1713/2009 promossa con atto di citazione notificato in data 30.1.2009

 

da

 

  1. A., in persona del Curatore Speciale avv.M.G.Tamborini, che la rappresentata e difende in proprio e presso il cui studio in Cologno M. viale Lombardia n.34 è elettivamente domiciliata………………….ATTRICE

 

contro

 

  1. W., rappresentato e difeso dall’avv.M.Giussani, presso il cui studio in Varedo p.zza Panceri n.11 ha eletto domicilio.……CONVENUTO

 

e contro

 

  1. C., rappresentata e difesa dall’avv.R.Beretta, presso il cui studio in Monza via Caronni n.8 ha eletto domicilio…….CONVENUTA

 

con l’intervento in giudizio del

 

PUBBLICO MINISTERO in persona del Sostituto Proc. della Repubblica presso il Tribunale di Monza dott.W. Mapelli…………INTERVENUTO

 

——————————————————————————————

 

Oggetto della causa : disconoscimento paternità ex art.244 CC

 

——————————————————————————————

 

All’udienza del 21.1.2010 i procuratori delle parti precisavano le

 

CONCLUSIONI

 

come da n.4 fogli vistati dal G.I. ed allegati al processo verbale

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

 

Con atto di citazione notificato in data 30.1.09 R. A., in persona del procuratore speciale avv.M.G.Tamborini, chiedeva a questo Tribunale di accertare e dichiarare di non essere figlia biologica di R. W..

 

Deduceva parte attrice:

 

-che venne riconosciuta figlia legittima dei convenuti in quanto nata durante il matrimonio tra R. W. e la madre P. C.;

 

-che, nel corso di un procedimento innanzi al Tribunale per i Minorenni di Milano, era emerso che, invece, non era figlia biologica del convenuto;

 

-che, pertanto, doveva considerarsi “indiscutibile” l’interesse della minore a ottenere il disconoscimento della paternità legittima attribuita al presunto padre R. W..

 

  1. C. e R. W. si costituivano in giudizio e, pur rimarcando che il difetto di paternità era stato dagli stessi segnalato sin dal 19.10.2005 nel procedimento di separazione dei coniugi, si opponevano alla domanda attrice reputandola non corrispondente all’interesse della minore.

 

L’atto di citazione veniva ritualmente notificato anche al P.M. che, peraltro, non partecipava attivamente al giudizio.

 

Compiutamente trattato ed istruito il processo (mediante l’ausilio di una CTU medico-legale) e precisate le conclusioni, la causa era trattenuta dal Collegio per la decisione allo spirare dei termini di cui all’art.190 CPC.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

 

Nel merito, la domanda è fondata e deve essere accolta, sussistendo tutti i presupposti di legge per emettere la chiesta pronunzia di disconoscimento della paternità.

 

Dalle risultanze dell’espletata CTU biologica depositata in data 26.11.2009 dal dott. L.S. (che il Tribunale ritiene senz’altro di poter fare propria, anche quale “fonte oggettiva di prova”, sia in relazione ai metodi ed agli strumenti d’indagine adottati, sia con riferimento alle conclusioni raggiunte: v. Cass.8.1.2004 n.88; Cass.9.9.2003 n.13169; Cass.30.1.2003 n.1512), in particolare dal c.d. “esame del DNA”, sono emerse ben 12 incompatibilità genetiche su 15 marcatori utilizzati, da ritenersi piu’ che sufficienti al fine di escludere qualsiasi rapporto di paternità biologica tra R. A. e R. W..

 

La madre, a conforto della rimanenti risultanze processuali (v. Cass.2113/92 e Cass.1785/65), ha del tutto omesso di contestare quanto sostenuto dalla figlia nell’atto di citazione, così suffragrando le inequivoche e, del resto, pacifiche risultanze della CTU.

 

Conseguentemente il Tribunale, sussistendo le condizioni tutte di cui alla norma dell’art.244 CC, ritiene accertato che R. A. non è figlia del padre legittimo R. W..

 

A tale accertamento non può ritenersi ostativa la pretesa sua contrarietà agli interessi preminenti della minore, sostenuta da entrambi i convenuti con allegazioni solo in apparenza concordi.

 

Dalla relazione depositata in data 14.5.2009 dai Servizi Sociali del Comune di Triuggio si evince, in effetti, che tra le odierne parti convenute (coniugi da tempo separati) vige un mero “accordo formale” quanto alle modalità ed alle scelte educative e di vita della minore e che la madre, in asserite gravi difficoltà economiche, sostiene che R. W. “pretende di fare il padre senza però contribuire al mantenimento della bambina”.

 

L’ulteriore pretesa dell’odierno convenuto, segnalata dai Servizi Sociali, di “voler continuare ad essere il padre di A.” subordinando “l’assunzione degli impegni economici in favore della minore alla decisione del Tribunale di confermare o meno la sua paternità” appare, oltre che confermativa delle gravi asserzioni della madre, significativamente dimostrativa del carattere in gran parte egoistico dell’interesse manifestato dal R. certamente non coincidente con i preminenti interessi della minore, enucleati dalla Corte di Cassazione nelle invocate sentenze 5.6.2004 n.10742 e 19.9.2006 n.20254.

 

Pertanto, deve qui considerarsi il criterio del “favor veritatis” prevalente e, comunque, rispondente all’interesse della minore, quanto all’accertamento disconoscitivo della paternità ai sensi dell’art.244 CC (al quale segue il solo adempimento di legge della annotazione, nell’atto di nascita, della sentenza di accoglimento della domanda).

 

Non essendo stata formulata alcuna istanza di cambiamento del cognome di R. A. e, anzi, avendo i convenuti sostanzialmente manifestato la loro contraria volontà laddove hanno chiesto il rigetto della domanda attrice, reputa questo Tribunale di non dovervi provvedere, allo stato degli atti.

 

Non ostano a tale conclusione le norme vigenti, così come interpretate a suo tempo dalla Corte Costituzionale (sentenze: 3.2.1994 n.13; 23.7.1996 n.297) che ha sostanzialmente sancito il diritto del figlio naturale di mantenere il cognome, del quale era in precedenza titolare, quando lo stesso sia divenuto “un autonomo segno distintivo della sua identità personale” (come può, in modo ragionevole, reputarsi nel caso di specie, essendo A. prossima al raggiungimento dell’età scolare): principio recepito anche dall’art.95 DPR 396/2000 istitutivo del nuovo Ordinamento dello Stato Civile.

 

Principi analoghi possono, in via interpretativa, essere desunti anche dalla giurisprudenza di legittimità (vedansi Cass. n.6098/2001 e n.12641/2006) ed appaiono confacenti al caso di specie, laddove il mantenimento del cognome “R.” potrà evitare alla minore i possibili traumi paventati dalle parti convenute, anche in considerazione della sua ancor tenera età, della assenza di rapporti con il (non conosciuto) padre naturale, della volontà manifestata da R. W. di mantenere nei suoi confronti un comportamento del tutto similare al ruolo paterno e dal positivo legame tra quest’ultimo e A., evidenziato dalla relazione dei Servizi Sociali del Comune di Triuggio.

 

Nulla, dunque, è dato provvedere in relazione al non richiesto cambiamento del cognome della minore, quantomeno allo stato degli atti, dovendosi per il futuro considerare la fattispecie regolata dalla norma di cui all’art.262 CC (così come interpretata dalla già citata sentenza 23.7.1996 n.297 della Corte Costituzionale) e dalla norma procedurale di cui all’art.38 disp.att.CC.

 

Le spese processuali e di CTU seguono la soccombenza dei convenuti e si liquidano come da dispositivo.

 

p.q.m.

 

Il Tribunale, definitivamente pronunziando sulla domanda proposta con atto di citazione notificato in data 30.1.2009 da R. A., in persona del curatore speciale avvocato M.G.Tamborini, nei confronti di R. W. e P. C., con la chiamata in giudizio del Pubblico Ministero, così provvede:

 

1) accerta e dichiara che R. A., nata a Monza il 20.8.2004, non è figlia di R. W.;

 

2) nulla dispone in ordine all’eventuale cambiamento del cognome della minore, allo stato degli atti;

 

3) dispone che la presente sentenza, a cura del Cancelliere, sia trasmessa in copia autentica all’Ufficiale dello Stato Civile del Comune di Monza, per le consequenziali annotazioni nell’atto di nascita;

 

4) condanna i convenuti al solidale pagamento delle spese processuali in favore dell’avv.M.G.Tamborini, liquidate limitatamente alle difese nella complessiva somma di € 2.492,35 (di cui € 14,35 per esborsi, € 1.278,00 per diritti ed € 1.200,00 per onorari), oltre spese generali, IVA e CPA;

 

5) pone le spese di CTU a carico definitivo e solidale dei convenuti;

 

6) dichiara la presente decisione provvisoriamente esecutiva, per quanto di ragione.

 

MONZA, 17.2.2010

 

IL PRESIDENTE REL.EST.

 

(dott. Piero Calabrò)

 

 

 

 

Nell’ipotesi in cui un test ematochimico dimostri inequivocabilmente che il figlio nato in costanza di matrimonio è frutto di relazione adulterina della madre, è legittimo che il marito della medesima non solo esperisca l’azione per il disconoscimento della paternità, ma proponga anche apposita istanza giudiziale affinché venga attribuito al figlio il cognome materno in luogo del proprio, fino a quel momento utilizzato.

 

 

 

 

 

CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. I CIVILE – SENTENZA 16 aprile 2014, n.8876 – Pres. Forte – est. Didone

 

[omissis]

 

2.1.- Con il primo motivo di ricorso i ricorrenti denunciano la violazione dell’art. 95 DPR n. 396/2000. Deducono che prima della sentenza della Corte costituzionale del 2006 nessuna indagine ematologica sarebbe stata possibile e la domanda di disconoscimento non avrebbe potuto superare la fase preliminare rivolta all’accertamento dell’adulterio. Talché non vi era alcuna necessità di proporre la domanda di mantenimento del cognome. Il ricorrente deduce di essere divenuto – nelle more del giudizio – ingegnere chimico affermato a livello internazionale utilizzando il cognome C., che non rappresenta un identificativo inscindibilmente connesso con la famiglia dell’autore del disconoscimento né è collegato con casato particolarmente illustre. Sarebbe applicabile lo jus superveniens.

 

2.2.- Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano la violazione dell’art. 394 C.P.C. nonché vizio di motivazione. Deducono che l’art. 394 c.p.c. consente in sede di conclusioni le modifiche rese necessarie dalla sentenza della Cassazione e che solo a seguito della sentenza della Corte costituzionale e delle modifiche apportate dal Legislatore gli era consentito proporre la domanda di mantenimento del cognome.

 

3.- Entrambi i motivi di ricorso – esaminabili congiuntamente – sono infondati.

 

Ve rilevato, infatti, che la Corte costituzionale, sin dal 1994 (Corte cost., 3 febbraio 1994, n. 13) ha osservato che, posto che nella disciplina giuridica del nome confluiscono esigenze di natura sia pubblica che privata, ove si accerti che il cognome già attribuito ad un soggetto non è quello spettantegli per legge in base allo ‘status familiae’, l’interesse pubblico a garantire la fede del registro degli atti dello stato civile è soddisfatto mediante la rettifica dell’atto riconosciuto non veritiero, ma non può condurre a sacrificare l’interesse individuale a conservare il cognome mantenuto fino a quel momento nella vita di relazione e divenuto ormai segno distintivo dell’identità personale, tutelata dall’art. 2 Cost.; tanto più che, nel caso in cui la rettifica riguardi persona in età avanzata con discendenti, la negazione dell’interesse individuale finirebbe col pregiudicare lo stesso interesse generale alla certa e costante identificazione delle persone. Pertanto, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo – per contrasto con l’art. 2 Cost. – l’art. 165 del r. d. 9 luglio 1939 n. 1238, nella parte in cui non prevedeva che, quando la rettifica degli atti dello stato civile, intervenuta per ragioni indipendenti dal soggetto cui si riferisce, comportava il cambiamento del cognome, il soggetto stesso potesse ottenere dal giudice il riconoscimento del diritto a mantenere il cognome originariamente attribuitogli ove questo fosse ormai da ritenersi autonomo segno distintivo della sua identità personale.

 

L’art. 95, comma 3, del DPR 3 novembre 2000, n. 396 ha codificato il principio enunciato con la pronuncia della Corte costituzionale, prevedendo che nell’ipotesi di rettificazione di atti dello stato civile «l’interessato può comunque richiedere il riconoscimento del diritto al mantenimento del cognome originariamente attribuitogli se questo costituisce ormai autonomo segno distintivo della sua identità personale».

 

Pertanto, sin dal 1994, nel corso del giudizio di primo grado, invocando lo jus superveniens costituito dalla pronuncia della Corte costituzionale, il C. (costituito a mezzo di curatore speciale) avrebbe potuto formulare la domanda diretta al mantenimento del cognome. Ciò a prescindere dalle probabilità di accoglimento dell’azione di disconoscimento e per l’ipotesi di positivo esperimento della stessa.

 

Dunque, la possibilità di formularla non è dipesa dalla pronuncia della Corte costituzionale sull’art. 235 c.c. né dalla pronuncia della Cassazione.

 

E’ errato, peraltro, il presupposto dal quale muovono i ricorrenti: cioè l’impossibilità per il C. di richiedere l’applicazione dell’art. 95, comma 3, cit. per effetto del formarsi del giudicato sull’inammissibilità della domanda proposta in questo giudizio.

 

Per converso, deve essere ricordato che nel processo civile, l’irregolarità nell’introduzione di una domanda, sanzionata dall’ordinamento con l’invalidità ostativa ad una pronunzia nel merito, non è vizio che attenga all’esistenza dei presupposti di un diritto o di una azione; pertanto, in caso di omessa pronunzia nel merito su una domanda dichiarata inammissibile per vizio nella sua introduzione o notificazione, la parte interessata può denunziare l’omissione in sede di gravame, previa impugnazione della declaratoria d’inammissibilità o del rigetto in rito, ovvero coltivare la domanda in separato giudizio, posto che la rinunzia implicita alla pretesa, correlabile al mancato esperimento del gravame, ha valore meramente processuale e non sostanziale; ne consegue che, in quest’ultimo caso, non possono essere fondatamente opposte né una preclusione derivante dalla mancata impugnazione della precedente sentenza per la dichiarata inammissibilità o per il rigetto in rito, né una preclusione da giudicato sulla domanda (Sez. 1, n. 13614/2010).

 

Il ricorso, dunque, deve essere rigettato.

 

P.Q.M.

 

La Corte rigetta il ricorso.

 

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi delle parti a norma dell’art. 52 d.lgs. 196/03 in

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La Corte ha affermato che in sede di giudizio di merito sul disconoscimento di paternità non può trovare ingresso l’indagine sull’interesse del minore sostenendo che tale interesse deve essere valutato solo in sede di nomina del curatore speciale ai sensi dell’artt. 244 c.c. e 737 c.p.c. Le ragioni della affermata centralità del favor veritatis sono state rintracciate nel processo di equiparazione tra filiazione naturale e legittima (da ultimo riconfermato dal legislatore con il D.lgs n. 154/2013) in ragione del quale non sarebbe più necessario porre baluardi a difesa dello status di figlio legittimo tenendo anche conto che “la ricerca della verità naturale risulta agevolata dalle avanzate acquisizioni scientifiche nel campo della genetica e dall’elevatissimo grado di attendibilità dei risultati delle indagini” (C. Cost. n. 170/1999). Inoltre ha sottolineato la Corte che la ricerca della verità biologica viene oggi considerata dalla giurisprudenza nazionale e sovranazionale espressione del diritto fondamentale all’identità personale che si esplica anche attraverso la ricerca della propria origine biologica. Da qui il favor veritatis quale cardine della disciplina in materia di accertamento dei rapporti familiari.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. I CIVILE , SENTENZA 15 febbraio 2017, n.4020 – Pres. Di Palma – est- Lamorgese

 

Fatto

 

1.- L’avv. D.F.F. , nominata dal Tribunale di Milano curatrice speciale del minore F.A.F.I. su richiesta di P.L.F. , propose azione di disconoscimento della paternità del minore, nato (il (omissis) ) in costanza di matrimonio tra F.M. e M.D. , ma figlio biologico del P. con il quale la M. aveva avuto una relazione extraconiugale nel periodo del concepimento. Alla domanda di disconoscimento si opposero il F. e la M.

 

2.- Il Tribunale emise sentenza parziale con la quale dichiarò inammissibile l’intervento in causa del P. e sentenza definitiva con la quale dichiarò che il minore non era figlio del F. e che quest’ultimo non era legittimato a chiedere che il minore conservasse il cognome F. .

 

3.- Il gravame del F. è stato rigettato dalla Corte d’appello di Milano, con sentenza 28 aprile 2015.

 

4.- Avverso questa sentenza il F. ha proposto ricorso per cassazione affidato a sei motivi; la M. si è difesa con controricorso; la curatrice speciale non ha svolto attività difensiva.

 

Ragioni della decisione

 

1.- Con il primo e secondo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 165 e 149, terzo comma, c.p.c., in ordine al rigetto dell’eccezione di nullità del processo di primo grado per la tardiva iscrizione della causa a ruolo rispetto al termine di dieci giorni a decorrere dalla data di perfezionamento della notifica dell’atto di citazione per l’attore, e cioè dalla data di consegna dell’atto, e non dalla ricezione da parte del destinatario.

 

I motivi in esame sono infondati.

 

È principio consolidato che la distinzione dei momenti di perfezionamento della notifica per il notificante e per il destinatario dell’atto, con il riferimento per il notificante al momento della consegna dell’atto per la notifica, trova applicazione solo quando dal protrarsi del procedimento notificatorio possano verificarsi conseguenze negative per il notificante (come la decadenza conseguente al tardivo compimento di attività riferibili all’ufficiale giudiziario o all’agente postale) e non, invece, ove sia previsto che un termine a suo carico debba iniziare a decorrere o altro adempimento debba essere compiuto dal momento dell’avvenuta notificazione, poiché il consolidamento della notifica dipende anche per il notificante dal perfezionamento del procedimento notificatorio nei confronti del destinatario (v. Cass. n. 27010/2008, n. 10837 e 11783/2007; Cons. di Stato, sez. VI, n. 3150/2011). Pertanto, la corte di merito, nel rigettare l’eccezione di nullità del giudizio di primo grado, correttamente ha escluso che vi fosse stata una violazione del termine (di dieci giorni) per l’iscrizione della causa a ruolo (avvenuta in data 7 luglio 2009) a decorrere dalla data di consegna dell’atto di citazione all’ufficiale giudiziario (26 giugno 2009), dovendosi invece avere riguardo alla data di ricezione dell’atto da parte del destinatario (3 luglio 2009).

 

2.- Con il terzo e quarto motivo è denunciata violazione e falsa applicazione dell’art. 246 c.p.c. per avere i giudici di merito formato il proprio convincimento sulla base della deposizione di un teste inattendibile (il P.).

 

I motivi sono inammissibili poiché non colgono la ratio decidendi della sentenza impugnata: infatti i giudici d’appello hanno ritenuto fondata l’azione di disconoscimento non sulla base della sola deposizione testimoniale menzionata, ma valorizzando plurimi elementi probatori emersi nel giudizio, tra i quali l’esistenza di una relazione sentimentale con risvolti sessuali tra il P. e la M. nel periodo del concepimento (fine 2003 inizio 2004), confermata da entrambi e dal F. , e l’esito della c.t.u. da cui risultava l’incompatibilità biologica del minore con il F. .

 

3.- Con il quinto motivo è denunciata violazione e falsa applicazione dell’art. 244 c.c., per avere i giudici di merito indagato sull’assenza di rischi per il minore derivanti dall’azione di disconoscimento della paternità, mentre avrebbero dovuto valutare il suo interesse rispetto ad un’azione che aveva l’effetto di travolgere la sua serenità e il suo equilibrio nell’attuale e delicata fase preadolescenziale, con effetti imprevedibili nel contesto familiare e scolastico.

 

Il motivo è infondato.

 

3.1.- Ad avviso del ricorrente, al principio del favor veritatis, inteso come prevalenza della verità biologica su quella legale, non potrebbe essere riconosciuto un valore di importanza particolare o preminente, in considerazione del fatto che l’art. 30, quarto comma, Cost. (“la legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità”) ha demandato al legislatore ordinario il potere di privilegiare, nel rispetto degli altri valori di rango costituzionale, la paternità legale rispetto a quella naturale, nonché di fissare le condizioni e le modalità per far valere quest’ultima, così affidandogli anche la valutazione in via generale della soluzione più idonea per la realizzazione dell’interesse del minore. Questa interpretazione (talora seguita dalla giurisprudenza, v. Cass. n. 20254/2006) non può condurre a fare ritenere che al legislatore ordinario sia stata rimessa, non solo, la scelta discrezionale delle modalità procedurali tramite le quali è consentito ai soggetti interessati di ottenere l’accertamento della verità biologica com’è quella ragionevolmente demandata al curatore speciale del minore nominato dal giudice (art. 244, ult. comma, c.c.) ma anche il potere di precludere tale accertamento all’esito di valutazioni di opportunità effettuate in astratto e preventivamente.

 

La stessa sentenza da ultimo citata ha dato atto dell’accentuato favore per la conformità dello status alla realtà della procreazione, chiaramente espresso nel progressivo ampliamento in sede legislativa delle ipotesi di accertamento della verità biologica, nonché – si deve aggiungere – nel diritto vivente che ne ha evidenziato il valore di rilevanza costituzionale primaria (v, tra le altre, Corte cost. n. 7/2012 e Cass., sez. I, n. 19599/2016).

 

Infatti, non si può negare l’importanza del legame genetico sotto il profilo dell’identità personale, nella quale sono compresi il diritto di accertare la propria discendenza biologica (Corte Edu, 14 gennaio 2016, Mandet c. Francia) e il diritto dell’adottato di conoscere le proprie origini (Corte cost. n. 278 del 2013). L’imprescrittibilità riguardo al figlio delle azioni di stato (artt. 270, primo comma; 263, secondo comma; 244, quinto comma, c.c.) dimostra l’importanza della discendenza biologica e della connessa identità personale, la cui tutela rientra a pieno titolo nell’ambito dei diritti fondamentali della persona riconosciuti dalla nostra Costituzione, prima ancora che dalle fonti internazionali. La Corte costituzionale ha ritenuto (nell’ordinanza n. 7 del 2012) che “la crescente considerazione del favor veritatis (la cui ricerca risulta agevolata dalle avanzate acquisizioni scientifiche nel campo della genetica e dall’elevatissimo grado di attendibilità dei risultati delle indagini: sentenze n. 50 e n. 266 del 2006) non si ponga in conflitto con il favor minoris, poiché anzi la verità biologica della procreazione costituisce una componente essenziale dell’interesse del medesimo minore, che si traduce nella esigenza di garantire ad esso il diritto alla propria identità e, segnatamente, alla affermazione di un rapporto di filiazione veridico (sentenze 322 del 2011, n. 216 e n. 112 del 1997)”.

 

È alla luce di questa complessiva evoluzione normativa e giurisprudenziale che, come rilevato da un’attenta dottrina, dev’essere letto il citato art. 30, quarto comma, Cost., così come il terzo comma, la cui portata limitativa della tutela dei figli nati fuori del matrimonio (nei limiti in cui sia “compatibile con i diritti della famiglia legittima”) è ormai superata dall’evoluzione normativa (v. legge n. 219/2012 e d.lgs. n. 154/2013). Come osservato dalla Corte costituzionale, “il legislatore della riforma del diritto di famiglia ha superato la impostazione tradizionale che attribuiva preminenza al favor legitimitatis attraverso la equiparazione della filiazione naturale a quella legittima ed ha di conseguenza reso omogenee le situazioni che discendono dalla conservazione dello stato ancorato alla certezza formale rispetto a quelle che si acquisiscono con l’affermazione della verità naturale, la cui ricerca risulta agevolata dalle avanzate acquisizioni scientifiche nel campo della genetica e dall’elevatissimo grado di attendibilità dei risultati delle indagini” (Corte cost. n. 170/1999).

 

3.2.- Nella specie, con riguardo al profilo dell’interesse del minore che non sarebbe stato valutato nella fase della nomina del curatore speciale, si deve dare continuità all’orientamento secondo cui la proposizione da parte del minore infrasedicenne (o, a seguito della riforma, infraquattordicenne) di azione di disconoscimento di paternità postula l’apprezzamento in sede giudiziaria dell’interesse di questi, non potendo considerarsi utile equipollente la circostanza che sia l’ufficio del pubblico ministero a richiedere la nomina del curatore speciale abilitato all’esercizio dell’azione stessa; tuttavia, siffatto apprezzamento trova istituzionale collocazione nel procedimento diretto a quella nomina – essendo, nel corso di esso, possibile l’acquisizione dei necessari elementi di valutazione e dovendosi, col provvedimento conclusivo, che secondo l’art. 737 c.p.c. ha la forma del decreto motivato, giustificare congruamente le conclusioni raggiunte in ordine alla sussistenza dell’interesse – ma non anche nel successivo giudizio di merito (v. Cass. n. 71/1994, coerentemente con Corte cost. n. 429/1991). Una diversa interpretazione, in base alla quale la valutazione dell’interesse del minore dovrebbe essere effettuata anche nel giudizio di merito, ai fini dell’ammissibilità dell’azione di disconoscimento proposta dal curatore, non solo, è priva di basi normative, non essendo prevista dall’art. 244, ult. comma, c.c. (nemmeno dopo la riforma apportata dall’art. 18, comma 1, d.lgs. n. 154/2013), ma rappresenterebbe un’inutile duplicazione di una indagine già compiuta e sottoposta al vaglio del giudice ai fini della nomina del curatore.

 

In ogni caso, nella specie, la corte di merito ha ampiamente argomentato – con apprezzamento di fatto non censurato con idoneo mezzo ex art. 360 n. 5 c.p.c. – in ordine all’interesse del minore, evidenziando il valore positivo della conoscenza della verità, non contrastata da elementi idonei a fare presumere il rischio di un concreto pregiudizio, tenuto conto che non era posto in discussione il valore della positiva relazione genitoriale con il padre legale e che non era possibile compiere alcuna valutazione negativa in ordine al profilo del padre biologico, il quale, tra l’altro, aveva dimostrato un serio interesse nei confronti del figlio.

 

4.- Con il sesto motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 95, comma 3, dPR n. 396 del 2000, 316 e 320 c.c., in ordine alla sua negata legittimazione a chiedere la conservazione del cognome F. da parte del minore, avendo la corte di merito omesso di valutare che egli aveva la potestà genitoriale sul figlio e che era tenuto a tutelarlo rispetto ai pregiudizi personali e sociali derivanti dal disconoscimento.

 

Il motivo è infondato.

 

La corte di merito ha ritenuto che il F. non fosse legittimato a chiedere che il minore conservasse il proprio cognome, a seguito dell’annotazione della sentenza di disconoscimento nell’atto di nascita ex art. 49, comma 1, lett. o), dPR n. 396/2000, trattandosi di una decisione spettante esclusivamente al minore interessato, in considerazione della natura personalissima del diritto al nome. È una decisione conforme a diritto: l’art. 95, comma 3, dPR n. 396 del 2000 conferisce solo all’”interessato” la facoltà di “richiedere il riconoscimento del diritto al mantenimento del cognome originariamente attribuitogli se questo costituisce ormai autonomo segno distintivo della sua identità personale”.

 

5.- Il ricorso è rigettato.

 

Sussistono giusti motivi per compensare le spese del presente giudizio, a norma dell’art. 92, secondo comma, c.p.c. (nel testo vigente anteriormente alle modifiche apportate dall’art. 45, comma 11, della legge n. 69 del 2009), in considerazione della complessità e novità delle questioni controverse.

 

P.Q.M.

 

La Corte rigetta il ricorso; compensa le spese del presente giudizio.

 

Sussistono i presupposti per porre a carico del ricorrente il pagamento dell’ulteriore contributo dovuto per legge.

 

In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi.

 

 

 

 

 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

 

SEZIONE I CIVILE

 

Sentenza 3 aprile 2017, n. 8617

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

 

SEZIONE PRIMA CIVILE

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

 

Dott. DOGLIOTTI Massimo – Presidente –

 

Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –

 

Dott. BISOGNI Giacinto – Consigliere –

 

Dott. LAMORGESE Antonio – Consigliere –

 

Dott. DE MARZO Giuseppe – rel. Consigliere –

 

ha pronunciato la seguente:

 

SENTENZA

 

sul ricorso 16147/2015 proposto da:

 

B.C., D.E., domiciliati in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA CIVILE DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall’avvocato RAFFAELLA RICHINI, giusta procura in calce al ricorso;

 

– ricorrenti –

 

contro

 

G.P., nella qualità di curatore speciale di D.D., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MUGGIA 21, presso l’avvocato SIMONA RENDINA, che la rappresenta e difende, giusta procura a margine del controricorso;

 

– controricorrente –

 

contro

 

PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI APPELLO DI BRESCIA, PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI BERGAMO;

 

– intimati –

 

avverso la sentenza n. 15/2015 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 07/01/2015;

 

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 30/09/2016 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE DE MARZO;

 

udito, per i ricorrenti, l’Avvocato RAFFAELLA RICHINI che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

 

udito, per la controricorrente, l’Avvocato SIMONA RENDINA che ha chiesto il rigetto del ricorso;

 

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CERONI Francesca, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

 

Svolgimento del processo

 

  1. Con sentenza depositata il 7 gennaio 2015 la Corte d’appello di Brescia ha rigettato l’appello proposto da B.C. e da D.E.L. avverso la decisione di primo grado, con la quale era stato accertato che quest’ultimo non era il padre di D.D., nato ad (OMISSIS).

  2. La Corte territoriale ha ritenuto: a) che la documentazione esaminata dal Tribunale, ancorché proveniente da Bi.Gi., ossia da colui che assumeva di essere il padre naturale del minore, era stata prodotta dalle parti legittimate al processo; b) che, del resto, la madre del minore, nell’istanza di revoca del provvedimento di nomina del curatore speciale, aveva esplicitamente affermato che non intendeva negare la relazione con il Bi. nè il suo convincimento che il marito non fosse il padre biologico del figlio; c) che il pubblico ministero, nel richiedere la nomina di un curatore speciale, aveva agito dopo avere valutato le sommarie informazioni risultanti dai documenti in suo possesso; d) che l’audizione del minore sarebbe stata inopportuna, in considerazione della sua giovane età, al momento della proposizione della domanda, mentre, successivamente, avrebbe potuto costituire fonte di pregiudizio, in considerazione della delicatezza della causa, non risultando chiaramente il grado di preparazione ad affrontare una vicenda tanto complessa che poteva scatenare conseguenze imprevedibili; e) che peraltro la questione che veniva in rilievo era quella dell’interesse del minore a conoscere le proprie radici biologiche; f) che il consulente tecnico per tre volte aveva inutilmente fissato un appuntamento con le parti per effettuare i prelievi necessari allo svolgimento delle indagini sul DNA, con la conseguenza che non poteva essere addebitato alla curatrice di non avere adottato misure coercitive per garantire la presenza del minore; g) che, pertanto, correttamente il tribunale aveva ritenuto rilevante tale comportamento, ai sensi dell’art. 116 c.p.c., e lo aveva valutato unitamente alla non contestata relazione adulterina della madre con il Bi. e al materiale fotografico che ritraeva quest’ultimo con il bambino e la B. nei primi anni di vita; h) che il tribunale, in definitiva, aveva valorizzato il principio di verità biologica della procreazione, come componente essenziale dell’interesse del minore.

  3. Avverso tale sentenza, la B. e il D. propongono ricorso per cassazione affidato a dieci motivi. Resiste con controricorso la curatrice speciale del minore, la quale ha anche depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.

 

Motivi della decisione

 

  1. Con il primo motivo si lamenta violazione o falsa applicazione degli artt. 235 e 244 c.c., per avere i giudici di merito fondato il proprio convincimento su documentazione costruita ad hoc ad opera del Bi. e prodotta dalla curatrice e dal pubblico ministero, attraverso la quale si era realizzata una indiretta partecipazione al processo di un soggetto, il presunto padre naturale, privo di legittimazione rispetto all’azione di disconoscimento, il quale era giunto a fare pressioni sul curatore perché l’azione venisse promossa il prima possibile.

  2. Con il secondo motivo si lamenta nullità della sentenza o del procedimento, in conseguenza della violazione dell’art. 244 c.c., comma 6, dell’art. 80 cod. proc., nonché dell’art. 6 della Convenzione di Strasburgo sull’esercizio dei diritti del fanciullo, ratificata con la L. n. 77 del 2003, per avere la Corte territoriale attribuito al pubblico ministero il compito di ascoltare il minore, invece spettante al giudice, e avere contraddittoriamente ritenuto pregiudizievole l’audizione del minore e non anche l’attivazione della procedura di disconoscimento di paternità.

 

I ricorrenti si dolgono del fatto che la nomina del curatore speciale non era stata preceduta dall’assunzione di sommarie informazioni e dall’audizione delle persone interessate e che il mancato ascolto del minore aveva assunto rilievo anche con riguardo all’accertamento del suo interesse rispetto all’azione di disconoscimento.

 

  1. Con il terzo motivo si lamenta violazione o falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., rilevando: a) che le fotografie e la corrispondenza intercorsa tra il Bi. e la B. non dimostrano il fondamento dell’azione di disconoscimento; b) che il risultato dell’esame del DNA allegato dalla curatrice, oltre all’incertezza degli esiti, era fondato su un illegittimo trattamento di dati genetici.

  2. Con il quarto motivo si lamenta omessa motivazione su un fatto decisivo per il giudizio, per non avere i giudici di merito argomentato in ordine alla sussistenza dei requisiti di gravità, precisione e concordanza degli indizi – peraltro neppure specificamente individuati – posti a fondamento della decisione.

  3. Con il quinto motivo si lamenta omessa motivazione su un fatto decisivo per il giudizio, per avere la Corte territoriale trascurato di valutare le critiche indirizzate al ruolo attivo e poco imparziale del pubblico ministero, il quale si era limitato a recepire la versione dei fatti del presunto padre naturale.

  4. Con il sesto motivo si lamenta omessa motivazione su un fatto decisivo per il giudizio, per avere la Corte territoriale trascurato di valutare il motivo di appello con il quale si censurava la sentenza di primo grado, che aveva ritenuto implicita, nel decreto di nomina del curatore, la valutazione della sussistenza dell’interesse del minore alla proposizione dell’azione.

  5. Con il settimo motivo si lamenta violazione o falsa applicazione degli artt. 116 e 118 c.p.c., precisando che i ricorrenti, in evidente conflitto di interessi con il minore, non potevano e non dovevano accompagnarlo dal consulente tecnico d’ufficio, in quanto tale compito spettava alla curatrice, la quale non si era mai offerta di provvedervi nè aveva autorizzato i genitori a farlo.

 

Si aggiunge che era stata ancora la curatrice a disertare colpevolmente l’udienza fissata per l’assunzione di una prova testimoniale, in tal modo pregiudicando l’accertamento dei fatti.

 

  1. Con l’ottavo motivo si lamenta violazione o falsa applicazione degli artt. 116 e 118 c.p.c. , nonchè artt. 2729 e 2697 c.c. , sottolineando l’inidoneità degli elementi valorizzati dai giudici di merito a dimostrare l’insussistenza del rapporto di filiazione e ribadendo che la documentazione prodotta dalla curatrice era stata contestata, al punto che se ne era chiesta l’espunzione.

  2. Con il nono motivo si lamenta violazione o falsa applicazione dell’art. 243 bis c.p.c., e art. 2733 c.c., comma 2, dal momento che le carenze probatorie esistenti non potevano essere colmate utilizzando le dichiarazioni della B., alle quali, attesa la natura indisponibile degli interessi in gioco, non poteva essere attribuita efficacia confessoria.

  3. Con il decimo motivo si lamenta violazione o falsa applicazione dell’art. 244 c.p.c., e art. 78 c.p.c., in relazione alla mancata considerazione dell’inosservanza, da parte della curatrice, delle disposizioni che avrebbe dovuto seguire nello svolgimento dell’incarico, sia con riferimento alla valutazione dell’interesse del minore alla proposizione dell’azione di disconoscimento, sia con riguardo alla colpevole decadenza dalle prove orali.

  4. Assume carattere preliminare l’esame del secondo e del sesto motivo di ricorso, i quali investono, sotto diversi profili, il tema della verifica dell’interesse del minore rispetto all’azione proposta, verifica nel quale assume aspetto centrale l’audizione del minore.

 

In linea generale, deve, infatti, ribadirsi, come già affermato di recente da questa Corte (Cass. 10 aprile 2012, n. 5653) che, sebbene il succedersi degli interventi della Corte costituzionale e di questa stessa Corte segnali una progressiva e lenta affermazione, anche alla luce dei progressi registrati sul piano tecnico e scientifico, nonché dei mutamenti intervenuti nel quadro normativo e nella stessa sensibilità sociale in tema di rapporti fra filiazione cd. legittima e naturale (nel senso della tendenziale abolizione di ogni pregiudizievole disfavore nei confronti della seconda), del favor veritatis, rimane coessenziale all’ordinamento l’esigenza di un bilanciamento, in quanto il superamento della finalità, che permeava l’originaria impostazione legislativa, di preservare lo status di figlio legittimo non elide la necessità di garantire i valori inerenti alla certezza e alla stabilità degli status. Come questa Corte ha già affermato, pur a fronte di un accentuato favore per una conformità dello status alla realtà della procreazione – chiaramente espresso nel progressivo ampliamento in sede legislativa delle ipotesi di accertamento della verità biologica – il favor veritatis non costituisce un valore di rilevanza costituzionale assoluta da affermarsi comunque, atteso che l’art. 30 Cost., non ha attribuito un valore indefettibilmente preminente alla verità biologica rispetto a quella legale, ma, nel disporre al comma 4, che “la legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità”, ha demandato al legislatore ordinario il potere di privilegiare, nel rispetto degli altri valori di rango costituzionale, la paternità legale rispetto a quella naturale, nonché di fissare le condizioni e le modalità per far valere quest’ultima, così affidandogli anche la valutazione in via generale della soluzione più idonea per la realizzazione dell’interesse del figlio (Cass. 30 maggio 2013, n. 13638).

 

L’esigenza di operare una razionale comparazione degli interessi in gioco, alla luce della concreta situazione dei soggetti coinvolti e, in particolare, del minore, nel caso di specie destinatario degli esiti di un’azione giudiziaria alla cui proposizione è rimasto completamente estraneo, dà conto dell’erroneità della soluzione divisata dalla Corte territoriale in termini astratti e senza alcuna considerazione della specifica vicenda sottoposta al suo esame, per effetto della prevalenza assegnata all’interesse alla conoscenza delle proprie radici.

 

Le due sentenze della Corte costituzionale valorizzate dalla decisione impugnata per cogliere nel principio di verità biologica della procreazione una componente essenziale dell’interesse del minore non sono pertinenti.

 

La sentenza 25 novembre 2011, n. 322 non si occupa in alcun modo della questione, perché ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 245 c.c., nella parte in cui non prevedeva che la decorrenza del termine indicato nell’art. 244 c.c., fosse sospesa anche nei confronti del soggetto che, sebbene non interdetto, versasse in condizione di abituale grave infermità di mente, con conseguente incapacità di provvedere ai propri interessi.

 

La sentenza 3 luglio 1997, n. 216 ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 274 c.c., commi 1 e 2, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 30 e 31 Cost. , sottolineando che il procedimento in esame era ispirato (prima che la medesima Corte cost., con la sentenza 10 febbraio 2006, n. 50, dichiarasse l’illegittimità in radice dell’art. 274 cod. civ.) a due finalità concorrenti e non in contrasto tra loro, essendo posto a tutela non solo del convenuto contro il pericolo di azioni temerarie e ricattatorie, ma anche e soprattutto del minore, il cui interesse sta nell’affermazione di un rapporto di filiazione veridico, che non pregiudichi la formazione e lo sviluppo della propria personalità.

 

Va anzi aggiunto che la Corte costituzionale ha anche osservato che era “quindi compito precipuo del tribunale per i minorenni, cui del resto è stata attribuita la relativa specifica competenza, verificare se la modifica dello status del minore risponda al suo interesse e non sia per lui di pregiudizio”.

 

L’ultima puntualizzazione appena riportata conferma l’assenza di ogni automatismo nel cogliere l’interesse del minore rispetto al principio di verità biologica della filiazione.

 

La necessità di un attento bilanciamento degli interessi che vengono in rilievo è peraltro imposta non solo dalle fonti interne, ma anche da quelle sovranzionali.

 

In generale, l’ingerenza della pubblica autorità nella vita privata e familiare degli individui presuppone, infatti, la verifica della sua necessarietà (art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali: per un caso, nel quale la Corte Europea ha ritenuto che i ricorrenti si fossero comportati nei confronti del minore come dei genitori e ha concluso in favore dell’esistenza di una vita famigliare de facto tra i ricorrenti e il minore, v. sentenza 27 gennaio 2015, ric. n. 25358/12, Paradiso e Campanelli c. Italia).

 

Tale centralità dell’interesse del minore e del conseguente giudizio di bilanciamento è, del resto, confermata dall’art. 24, par. 2 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

 

Siffatta verifica di carattere sostanziale, peraltro, si alimenta di strumenti processuali, come conferma, non solo l’art. 24, par. 1 della citata Carta dei diritti fondamentali, ma anche l’art. 6 della Convenzione Europea sull’esercizio dei diritti dei minori, firmata a Strasburgo il 25 gennaio 1996 (a proposito della quale si veda la L. 20 marzo 2003, n. 77, contenente l’autorizzazione alla ratifica e l’ordine di esecuzione), il cui art. 6 impone all’autorità giudiziaria, prima di giungere a qualunque decisione, di: a) esaminare se dispone di informazioni sufficienti a tal fine, tenuto conto del superiore interesse del minore e, se necessario, ottenere informazioni supplementari, in particolare da parte dei detentori delle responsabilità genitoriali; b) quando il diritto interno ritiene che il minore abbia una capacità di discernimento sufficiente: – assicurarsi che il minore abbia ricevuto tutte le informazioni pertinenti; – nei casi che lo richiedono, consultare il minore personalmente, se necessario in privato, direttamente o tramite altre persone od organi, con una forma adeguata alla sua maturità, a meno che ciò non sia manifestamente contrario agli interessi superiori del minore, al fine di permettere a quest’ultimo di esprimere la propria opinione; c) tenere in debito conto l’opinione da lui espressa.

 

E anche sotto tale strumentale profilo, la sentenza impugnata presenta una evidente frattura motivazionale, dal momento che, dopo avere sottolineato l’inopportunità di sentire il minore all’inizio della procedura, in ragione della giovane età, osserva, con riguardo ai successivi sviluppi processuali, che la mancata audizione dello stesso era giustificata “dalla delicatezza della causa per cui appariva fonte di possibile pregiudizio l’ascolto del bambino, nel frattempo cresciuto d’età, del quale non risultava chiaro il grado di preparazione ad affrontare una vicenda tanto complessa che poteva scatenare dinamiche imprevedibili”.

 

Siffatto passaggio argomentativo si espone a varie critiche, sul piano logico e giuridico: in primo luogo, perchè giustifica la mancata audizione sulla base di un presupposto non verificato, ossia il grado di maturità del minore, laddove proprio l’accertamento delle capacità di discernimento e di espressione del minore, attraverso le opportune cautele, delle proprie esigenze rappresenta il prius di ogni conclusione sul tema; in secondo luogo, perchè correla alla delicatezza della causa e alla possibilità che il suo esito possa scatenare dinamiche imprevedibili non la conseguenza di una attenta verifica della situazione del minore, ma, al contrario, l’aprioristica decisione di prescindere da ogni accertamento concreto.

 

D’altra parte, su un piano strettamente processuale, deve osservarsi che è certo esatto che, in tema di azione di disconoscimento di paternità, la relativa proposizione ad opera di minore infrasedicenne postula l’apprezzamento in sede giudiziaria dell’interesse di quest’ultimo, non potendo considerarsi utile equipollente la circostanza che sia l’ufficio del pubblico ministero a richiedere la nomina del curatore speciale abilitato all’esercizio dell’azione stessa, fermo restando che siffatto apprezzamento trova istituzionale collocazione nel procedimento diretto a quella nomina – essendo, nel corso di esso, possibile l’acquisizione dei necessari elementi di valutazione e dovendosi, col provvedimento conclusivo, che secondo l’art. 737 c.p.c., ha la forma del decreto motivato, giustificare congruamente le conclusioni raggiunte in ordine alla sussistenza dell’interesse (Cass. 5 gennaio 1994, n. 71).

 

Meno condivisibile è, invece, l’affermazione, che pure si coglie nella motivazione di quest’ultima sentenza, secondo cui il giudizio di merito non rappresenterebbe la sede per approfondire siffatta valutazione.

 

L’esaltazione dell’interesse del minore e la necessità di una sua costante valutazione impone, infatti, anche una verifica condotta in termini di attualità, anche in sede di appello, soprattutto quando, a fronte di una iniziativa processuale non correlata ad alcuna esplicita volontà del minore stesso (come appunto nel caso del minore infrasedicenne), quest’ultimo, ossia il reale protagonista della vicenda, acquisisca nel corso del procedimento una maturità di comprensione e di determinazione rispetto alla propria identità personale.

 

Del resto, siffatta conclusione trova una sua ricaduta anche sul piano processuale, in quanto, in tema di azione di disconoscimento di paternità, il provvedimento di nomina o revoca del curatore speciale di cui all’art. 244 c.c., è privo sia del requisito della definitività (poiché esso non si sottrae alla più generale disciplina della revocabilità dettata dall’art. 742 c.p.c. , da intendersi come previsione del più ampio ius poenitendi da parte del giudice del procedimento, legittimato in ogni tempo alla modifica o revoca del provvedimento stesso tanto in base ad un riesame ed a una diversa valutazione delle risultanze originarie, quanto in virtù della sopravvenienza di nuovi elementi di fatto – tra cui il venir meno delle condizioni di legittimità in epoca successiva all’emanazione del primo decreto), sia di quello della decisorietà (attesa la sua innegabile natura di procedimento camerale cosiddetto “unilaterale”, la cui struttura, imperniata tutta sulla valutazione e sulla tutela dell’interesse del minore, vede, non a caso, come unico destinatario della comunicazione del provvedimento il P.M., e non anche i genitori legittimi ovvero il sedicente padre), con conseguente inammissibilità del relativo ricorso per Cassazione presentato ai sensi dell’art. 111 Cost. (Cass. 25 novembre 1998, n. 11947).

 

Pertanto, è proprio nella sede di merito che il controllo va operato in termini sindacabili da questa Corte.

 

  1. In relazione all’accoglimento delle indicate censure, restano assorbiti i restanti motivi di impugnazione.

  2. In conseguenza delle superiori considerazioni, la sentenza impugnata va annullata con rinvio, anche per la regolamentazione delle spese, alla Corte d’appello di Brescia, in diversa composizione.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il secondo e il sesto motivo di ricorso, assorbiti i restanti e, in relazione al disposto accoglimento, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per la regolamentazione delle spese, alla Corte d’appello di Brescia, in diversa composizione. Dispone che, in caso di diffusione del presente provvedimento, siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti menzionati in sentenza.

 

Così deciso in Roma, il 30 settembre 2016.

 

Depositato in Cancelleria il 3 aprile 2017

 

 

 

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Originally posted 2020-01-02 15:09:18.

REATI EDILIZI BOLOGNA – AVVOCATO ESPERTO ABUSI EDILIZI, URBANISTICI E PAESAGGISTICI

Art. 44 D.P.R. 380/01 – Artt. 169 ss. e 181 ss. d.lgs. 42/2004: REATI EDILIZI BOLOGNA-AVVOCATO ESPERTO ABUSI EDILIZI

Ai sensi del Testo Unico sull’Edilizia (D.P.R. 6 giugno 2001 n. 380) costituisce abuso edilizio un’opera edilizia,  realizzata su suolo non edificabile  o su suolo edificabile ma senza approvazione ovvero un ampliamento del volume o della superficie o qualsiasi modifica alla sagoma di un edificio preesistente in assenza di completa autorizzazione amministrativa.

REATI EDILIZI BOLOGNA-AVVOCATO ESPERTO ABUSI EDILIZI

Le sanzioni penali comminate in caso di condanna sono le seguenti:

– multe fino a 10.329 euro per non aver osservato le prescrizioni del Testo Unico e della normativa locale;

– l’arresto fino a due anni e una multa da 5.164 a 51.645 euro nei casi di esecuzione dei lavori in totale contrasto o assenza del permesso e prosecuzione dei lavori nonostante l’ordine di sospensione;

– l’arresto fino a due anni e un multa da 15.493 a 51.645 euro nel caso di lottizzazione abusiva, cioè di edificazione su terreni liberi e privi di infrastrutture (strade, illuminazione, ecc.).REATI EDILIZI BOLOGNA-AVVOCATO ESPERTO ABUSI EDILIZI

Close-up Of A Judge Striking Gavel Between Split House Over Wooden Desk

la deroga espressamente prevista dalla seconda parte dell’art. 3 cit. si riferisce soltanto agli “immobili” sottoposti a vincoli, mentre, nel caso in esame, il vincolo riguarda una “zona”.

L’argomento richiama, in realtà, il dibattito che, in dottrina, si è sviluppato sulla non coincidenza tra l’art. 44, lett. c), T.U.E., che parla di “interventi edilizi nelle zone sottoposte a vincolo (…)”, e l’art. 32, comma 3, T.U.E., che, nel disciplinare le variazioni essenziali, equipara, ai fini sanzionatori, gli interventi effettuati “su immobili sottoposti a vincolo (…)”, ritenuti sempre in totale difformità o in variazione essenziale.

Tuttavia, a prescindere da una isolata dottrina, anche in giurisprudenza si è sostenuto che “ai sensi del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 32, comma 3 – per gli interventi eseguiti in zone assoggettate a vincolo paesaggistico, nel caso in cui l’opera sia difforme da quella autorizzata con il permesso di costruire, non c’è spazio per l’applicazione della meno grave fattispecie di cui all’art. 44 cit., lett. a), poichè ogni difformità dal progetto, anche se di minima rilevanza, costituisce abuso punito ai sensi dell’art. 44, lett. c), dello stesso T.U.” (Sez. 3, n. 16392 del 17/02/2010, Santonicola, non massimata).

Con riferimento specifico alla norma derogatoria di cui all’art. 3 T.U.E., peraltro, va osservato che, a differenza dell’art. 32, comma 3, che comunque elenca analiticamente vincoli che possono riguardare anche soltanto “immobili” – come nel caso del vincolo architettonico, o degli immobili “ricadenti sui parchi o in aree protette” -, l’art. 3 sancisce una disciplina derogatoria con un richiamo per relationem ai vincoli previsti dal D.Lgs. n. 42 del 2004.

Al riguardo, va innanzitutto evidenziato che il D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 134 definisce quali “beni paesaggistici: a) gli immobili e le aree ((di cui)) all’art. 136, individuati ai sensi degli artt. da 138 a 141; b) le aree ((di cui)) all’art. 142”.

Ebbene, l’art. 136 prevede, tra gli immobili e le aree vincolate, “le cose immobili che hanno cospicui caratteri di bellezza naturale”; “le ville, i giardini e i parchi (…) che si distinguono per la loro non comune bellezza”, “i complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale”, “le bellezze panoramiche (…) e così pure quei punti di vista o di belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di quelle bellezze”.

L’art. 142, inoltre, individua, tra le aree sottoposte a vincolo, “i territori costieri compresi in una fascia della profondità di 300 metri dalla linea di battigia”, “i territori contermini ai laghi compresi in una fascia della profondità di 300 metri dalla linea di battigia”, “i fiumi, i torrenti, i corsi d’acqua iscritti negli elenchi”, “le montagne per la parte eccedente 1.600 metri sul livello del mare per la catena alpina e 1.200 metri sul livello del mare per la catena appenninica e per le isole”, “i ghiacciai e i circhi glaciali”, “i parchi e le riserve nazionali o regionali, nonchè i territori di protezione esterna dei parchi”, “i territori coperti da foreste e da boschi”, “le aree assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi civici”, “le zone umide incluse nell’elenco”, “i vulcani”, “le zone di interesse archeologico”.

La nozione di “immobile” sottoposto a vincolo ai sensi del D.Lgs. n. 42 del 2004, dunque, è un concetto normativo, per la cui integrazione l’art. 3 T.U.E. rinvia espressamente alle norme in materia ambientale, appena richiamate;

dalle quali si evince che i beni sottoposti a vincolo paesaggistico possono essere immobili o aree, o intere zone.

Ed è la stessa natura di alcuni vincoli (ambientale, idrogeologico, archeologico, ecc.) richiamati dall’art. 3 cit. a riguardare esclusivamente le “zone”, e non singoli edifici; anche perchè l’accezione restrittiva alla quale la tesi del ricorrente, sostenuta da una isolata dottrina, vorrebbe accedere per affermare la natura di mera ristrutturazione dell’intervento prescinde dalla considerazione che anche il termine adoperato dal legislatore – “immobile” non coincide con il singolo edificio, ma comprende, da un punto di vista lessicale e da un punto di vista normativo, anche le aree, i terreni, ed ogni cosa stabile suscettibile di antropizzazione.

Il termine adoperato dal legislatore, dunque, oltre a rinviare al concetto di “immobile vincolato” rilevante ai sensi del D.Lgs. n. 42 del 2004, non appare tanto un’imprecisione linguistica, integrando, invece, una metonimia, con estensione semantica del suo significato usuale ad un altro che abbia una relazione di contiguità o di dipendenza: nel caso di specie, l'”immobile” vincolato sta ad indicare la “zona” vincolata sulla quale l’immobile (edificio, area, terreno, ecc.) insiste.

CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. III PENALE , SENTENZA 28 luglio 2016, n.33043 – Pres. Ramacci; Rel. Riccardi

RITENUTO IN FATTO

  1. Con sentenza del 18/01/2013 il Tribunale di Cagliari condannava gli odierni ricorrenti alle pene rispettivamente ritenute di giustizia, in ordine ai reati di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c), (capo A) e D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma 1 bis, (capo B), per avere realizzato in zona vincolata, in difformità dal progetto edilizio e dalle autorizzazioni paesaggistiche, opere edili abusive, consistenti in un aumento dell’altezza della gronda, un aumento di volumetria mediante realizzazione di un sottotetto, di un bagno, di una loggia, e di una cisterna; condannava, inoltre, M. e G., rispettivamente responsabile area tecnica e responsabile del procedimento, per il reato di abuso d’ufficio (capo C), in relazione al rilascio delle concessioni per ristrutturazione edilizia, con aumento di volumetria, alterazione dello stato dei luoghi e del profilo esteriore, nonostante nell’area fossero assentibili solo interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, senza aumento di volumetria e alterazione dei luoghi e della sagoma.

Con sentenza del 28/05/2014 la Corte di Appello di Cagliari, in parziale riforma della sentenza di 1 grado, assolveva gli imputati dai reati di cui ai capi A e B, limitatamente alla cisterna, M. e G. dai reati loro ascritti, limitatamente al rilascio dei titoli abilitativi del 2008, e, relativamente al capo A, pronunciava declaratoria di estinzione per prescrizione; confermava nel resto la sentenza, riducendo la pena inflitta a M. e G..

  1. Avverso tale provvedimento ricorre A.A.S., chiedendo l’annullamento della sentenza.

2.1. Con un primo motivo, deduce la violazione di legge sostanziale e il vizio di motivazione in ordine al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44: proponendo una rivalutazione del compendio probatorio, nega di aver realizzato l’aumento della gronda di 20 cm., l’aumento di volumetria con il sottotetto, che è solo un vano tecnico, il bagno di 6 mq., che, dopo l’approvazione della seconda concessione in variante, non è stato più realizzato, e la loggia, contestando, altresì, la tesi, sostenuta nella sentenza impugnata, che l’intervento costituisse una nuova costruzione, e non già una ristrutturazione.

2.2. Con un secondo motivo, deduce la violazione di legge sostanziale e il vizio di motivazione in ordine al D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma 1 bis: la Soprintendenza ha ritenuto paesaggisticamente compatibili gli interventi, e comunque non sussiste danno al bene tutelato.

2.3. Con un terzo motivo deduce la mancanza di motivazione in ordine alla omessa diminuzione di pena che avrebbe dovuto conseguire all’assoluzione dai capi A e B, limitatamente alla realizzazione della cisterna.

  1. Ricorre per cassazione G.R., chiedendo l’annullamento della sentenza per vizio di motivazione e violazione di legge, in relazione all’art. 323 cod. pen..

Con un primo motivo lamenta che le opere assentite con la seconda concessione, del 2008, erano legittime, ed il ricorrente è stato assolto; in tal senso, non sussiste l’abuso d’ufficio relativo al rilascio del provvedimento.

Con un secondo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione, in ordine all’affermazione del dolo del reato di abuso d’ufficio, che andrebbe invece escluso alla luce della nota del 21/03/2014 del Ministero dei Beni culturali.

Con un terzo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione, in ordine all’affermazione del concorso di persone nel reato del geom. G. sulla base della sottoscrizione dell’autorizzazione paesaggistica e della concessione edilizia, lamentando che non sia stato evidenziato il contributo causale alla realizzazione dell’illecito.

  1. Con distinto ricorso M.A. chiede l’annullamento della sentenza deducendo la violazione di legge ed il vizio di motivazione.

Lamenta che le opere assentite con la seconda concessione, del 2008, erano legittime, ed il ricorrente è stato assolto; in tal senso, non sussiste l’abuso d’ufficio relativo al rilascio del provvedimento.

Con un secondo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione, in ordine all’affermazione del dolo del reato di abuso d’ufficio, che andrebbe invece escluso alla luce della nota del 21/03/2014 del Ministero Beni culturali.

CONSIDERATO IN DIRITTO

  1. Il ricorso di A.A.S., progettista e direttore dei lavori, è inammissibile.

1.1. Il primo motivo è generico, in quanto ripropone le medesime censure già sollevate con l’atto di appello; al riguardo, va ribadito che deve ritenersi inammissibile il ricorso per cassazione fondato sugli stessi motivi proposti con l’appello e motivatamente respinti in secondo grado, sia per l’insindacabilità delle valutazioni di merito adeguatamente e logicamente motivate, sia per la genericità delle doglianze che, così prospettate, solo apparentemente denunciano un errore logico o giuridico determinato (ex multis, Sez. 3, n. 44882 del 18/07/2014, Cariolo, Rv. 260608).

Invero, nel caso in esame i motivi di ricorso appaiono identici a quelli sollevati con l’appello, e motivatamente respinti dalla sentenza impugnata, con la quale non propongono un reale e motivato confronto argomentativo, limitandosi a contestazioni avulse dal concreto tessuto motivazionale, e ad una mera lettura alternativa delle risultanze processuali.

Peraltro, l’inammissibilità del motivo si appunta altresì sulla sostanziale richiesta di rivalutazione del compendio probatorio, come si evince dai diffusi richiami alle deposizioni testimoniali ( Me.Gi., Ma.Fr.Ma., P.G., Pa.Fr., As.Ma., Po.Sa.) ed alle consulenze tecniche, già oggetto di espressa valutazione da parte della sentenza impugnata.

Giova al riguardo rammentare che il sindacato di legittimità è circoscritto alla verifica sulla completezza e sulla correttezza della motivazione di una sentenza, e non può esondare dai limiti cognitivi sanciti dagli artt. 606 e 609 cod. proc. pen. mediante una rinnovata valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella fornita dal giudice di merito; le valutazioni espresse dalla sentenza impugnata, se coerenti, sul piano logico, con una esauriente analisi delle risultanze probatorie acquisite, si sottraggono al sindacato di legittimità, una volta accertato che il processo formativo del libero convincimento del giudice non ha subito il condizionamento di una riduttiva indagine conoscitiva o gli effetti altrettanto negativi di un’imprecisa ricostruzione del contenuto di una prova (Sez. U, n. 2110 del 23/11/1995, Fachini, Rv. 203767).

Ed anche la novella codicistica, introdotta con la l. n. 46 del 2006, che ha riconosciuto la possibilità di deduzione del vizio di motivazione anche con il riferimento ad atti processuali specificamente indicati nei motivi di impugnazione, non ha mutato la natura del giudizio di cassazione, che rimane pur sempre un giudizio di legittimità, sicchè gli atti eventualmente indicati devono contenere elementi processualmente acquisiti, di natura certa ed obiettivamente incontrovertibili, che possano essere considerati decisivi in rapporto esclusivo alla motivazione del provvedimento impugnato e nell’ambito di una valutazione unitaria, e devono pertanto essere tali da inficiare la struttura logica del provvedimento stesso (ex multis, Sez. 2, Sentenza n. 7380 del 11/01/2007, Messina, Rv. 235716, che ha altresì precisato che resta esclusa la possibilità di una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito, attraverso una diversa lettura, sia pure anch’essa logica, dei dati processuali o una diversa ricostruzione storica dei fatti o un diverso giudizio di rilevanza o attendibilità delle fonti di prova).

Pertanto, l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato – per espressa volontà del legislatore – a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali. L’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dal testo della sentenza o da altri atti specificamente indicati, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purchè siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794).

Ebbene, esclusa l’ammissibilità di una rivalutazione del compendio probatorio, va ribadito che la sentenza impugnata ha fornito logica e coerente motivazione in ordine alla ricostruzione dei fatti, ed alla qualificazione giuridica degli stessi, con argomentazioni prive di illogicità (tantomeno manifeste) e di contraddittorietà.

Al riguardo, va infatti evidenziato che la Corte territoriale, a prescindere dalla realizzazione della cisterna, che ha ritenuto assentita con l’autorizzazione n. 290/2006, ha accertato che le opere oggetto di richiesta di permesso di costruire consistevano in una ristrutturazione con demolizione e ricostruzione di un precedente manufatto in zona agricola e paesaggisticamente vincolata; tuttavia, ad integrare le macroscopiche violazioni che, oltre ad fondare la tipicità dei reati edilizi e paesaggistici contestati, indiziano il reato di abuso d’ufficio – contestato a M. e G. -, vi è la circostanza assorbente – ed omessa in tutti i ricorsi – che la committente non era un imprenditore agricolo, e non aveva, dunque, alcun titolo per beneficiare di una concessione per nuova costruzione (p. 17 e 18 della sentenza impugnata), e che le opere avevano determinato un aumento di volumetria (mediante realizzazione di un bagno di 6 mq. ed avanzamento di una parete, nonchè di un vano sottotetto abitabile, munito di finestra e di scala interna di accesso) ed una differenza di sagoma (mediante trasformazione del tetto da due falde ad una sola falda, ed avanzamento della parete per la costruzione del bagno).

In particolare, la sentenza impugnata, all’esito di una diffusa (e condivisibile) valutazione dei progetti e delle opere realizzate, comunque insuscettibile di sindacato in sede di legittimità, ha affermato che il progetto redatto da A., ed assentito dai due tecnici del Comune di Carloforte, riguardava non già un intervento di semplice ristrutturazione, “come contrabbandato” nel progetto e nella concessione, bensì un intervento di nuova costruzione.

Come già osservato nella sentenza impugnata (p. 19), infatti, non rileva la modifica, invocata dal ricorrente, introdotta dalla L. n. 98 del 2013, art. 30, comma 1, lett. c), alla nozione di “interventi di ristrutturazione edilizia” definiti dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, comma 1, lett. d), che ha escluso la necessità di mantenere identica la sagoma.

Invero, oltre a rivelarsi irrilevante, in quanto è stato accertato anche un aumento di volumetria, che connotava l’intervento in termini di “nuova costruzione”, in ogni caso è proprio lo stesso art. 3 T.U.E. a precisare che “Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell’edificio preesistente”.

Nelle zone paesaggisticamente vincolate, dunque, anche la modifica della sagoma assume rilievo ai fini dell’integrazione dell’intervento di “nuova costruzione”, con il relativo regime assentivo.

Al riguardo, va altresì evidenziato che il ricorrente ha sostenuto che la deroga espressamente prevista dalla seconda parte dell’art. 3 cit. si riferisce soltanto agli “immobili” sottoposti a vincoli, mentre, nel caso in esame, il vincolo riguarda una “zona”.

L’argomento richiama, in realtà, il dibattito che, in dottrina, si è sviluppato sulla non coincidenza tra l’art. 44, lett. c), T.U.E., che parla di “interventi edilizi nelle zone sottoposte a vincolo (…)”, e l’art. 32, comma 3, T.U.E., che, nel disciplinare le variazioni essenziali, equipara, ai fini sanzionatori, gli interventi effettuati “su immobili sottoposti a vincolo (…)”, ritenuti sempre in totale difformità o in variazione essenziale.

Tuttavia, a prescindere da una isolata dottrina, anche in giurisprudenza si è sostenuto che “ai sensi del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 32, comma 3 – per gli interventi eseguiti in zone assoggettate a vincolo paesaggistico, nel caso in cui l’opera sia difforme da quella autorizzata con il permesso di costruire, non c’è spazio per l’applicazione della meno grave fattispecie di cui all’art. 44 cit., lett. a), poichè ogni difformità dal progetto, anche se di minima rilevanza, costituisce abuso punito ai sensi dell’art. 44, lett. c), dello stesso T.U.” (Sez. 3, n. 16392 del 17/02/2010, Santonicola, non massimata).

Con riferimento specifico alla norma derogatoria di cui all’art. 3 T.U.E., peraltro, va osservato che, a differenza dell’art. 32, comma 3, che comunque elenca analiticamente vincoli che possono riguardare anche soltanto “immobili” – come nel caso del vincolo architettonico, o degli immobili “ricadenti sui parchi o in aree protette” -, l’art. 3 sancisce una disciplina derogatoria con un richiamo per relationem ai vincoli previsti dal D.Lgs. n. 42 del 2004.

Al riguardo, va innanzitutto evidenziato che il D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 134 definisce quali “beni paesaggistici: a) gli immobili e le aree ((di cui)) all’art. 136, individuati ai sensi degli artt. da 138 a 141; b) le aree ((di cui)) all’art. 142”.

Ebbene, l’art. 136 prevede, tra gli immobili e le aree vincolate, “le cose immobili che hanno cospicui caratteri di bellezza naturale”; “le ville, i giardini e i parchi (…) che si distinguono per la loro non comune bellezza”, “i complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale”, “le bellezze panoramiche (…) e così pure quei punti di vista o di belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di quelle bellezze”.

L’art. 142, inoltre, individua, tra le aree sottoposte a vincolo, “i territori costieri compresi in una fascia della profondità di 300 metri dalla linea di battigia”, “i territori contermini ai laghi compresi in una fascia della profondità di 300 metri dalla linea di battigia”, “i fiumi, i torrenti, i corsi d’acqua iscritti negli elenchi”, “le montagne per la parte eccedente 1.600 metri sul livello del mare per la catena alpina e 1.200 metri sul livello del mare per la catena appenninica e per le isole”, “i ghiacciai e i circhi glaciali”, “i parchi e le riserve nazionali o regionali, nonchè i territori di protezione esterna dei parchi”, “i territori coperti da foreste e da boschi”, “le aree assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi civici”, “le zone umide incluse nell’elenco”, “i vulcani”, “le zone di interesse archeologico”.

La nozione di “immobile” sottoposto a vincolo ai sensi del D.Lgs. n. 42 del 2004, dunque, è un concetto normativo, per la cui integrazione l’art. 3 T.U.E. rinvia espressamente alle norme in materia ambientale, appena richiamate;

dalle quali si evince che i beni sottoposti a vincolo paesaggistico possono essere immobili o aree, o intere zone.

Ed è la stessa natura di alcuni vincoli (ambientale, idrogeologico, archeologico, ecc.) richiamati dall’art. 3 cit. a riguardare esclusivamente le “zone”, e non singoli edifici; anche perchè l’accezione restrittiva alla quale la tesi del ricorrente, sostenuta da una isolata dottrina, vorrebbe accedere per affermare la natura di mera ristrutturazione dell’intervento prescinde dalla considerazione che anche il termine adoperato dal legislatore – “immobile” non coincide con il singolo edificio, ma comprende, da un punto di vista lessicale e da un punto di vista normativo, anche le aree, i terreni, ed ogni cosa stabile suscettibile di antropizzazione.

Il termine adoperato dal legislatore, dunque, oltre a rinviare al concetto di “immobile vincolato” rilevante ai sensi del D.Lgs. n. 42 del 2004, non appare tanto un’imprecisione linguistica, integrando, invece, una metonimia, con estensione semantica del suo significato usuale ad un altro che abbia una relazione di contiguità o di dipendenza: nel caso di specie, l'”immobile” vincolato sta ad indicare la “zona” vincolata sulla quale l’immobile (edificio, area, terreno, ecc.) insiste.

1.2. Il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato.

La doglianza, oltre alla già evidenziata rivalutazione del compendio probatorio, si concentra sull’asserita mancanza di un danno al bene ambientale, con riferimento al reato di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma 1 bis.

Al riguardo, è sufficiente richiamare la costante giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale “il reato, formale e di pericolo, previsto dal D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, che, indipendentemente dal danno arrecato al paesaggio, sanziona la violazione del divieto di intervento in determinate zone vincolate senza la preventiva autorizzazione amministrativa, può concorrere con la contravvenzione punita dall’art. 734 cod. pen., la quale, invece, presuppone l’effettivo danneggiamento delle aree sottoposte a protezione” (Sez. 3, n. 37472 del 06/05/2014, Coniglio, Rv. 259942; Sez. 3, n. 14746 del 28/03/2012, Mattera, Rv. 252625).

1.3. Il terzo motivo di ricorso è manifestamente infondato, in quanto l’assoluzione ha riguardato non già un titolo di reato, bensì una singola (e peraltro modesta) opera oggetto dei lavori eseguiti abusivamente, per i quali è stata confermata l’affermazione di responsabilità penale e la conseguente condanna alla pena ritenuta di giustizia.

In assenza di contestazione della continuazione, che avrebbe fondato l’ipotesi di una pluralità di reati, e dunque, in caso di assoluzione per uno di essi, la corrispondente scissione del vincolo e la riduzione pro quota della pena, l’assoluzione ha riguardato non già un reato-satellite, bensì uno degli oggetti materiali del reato.

Deve pertanto ritenersi immune da censure la lamentata omessa riduzione della pena.

2.1 ricorsi di G.R. e M.A., rispettivamente responsabile del procedimento e responsabile dell’area tecnica del Comune di Carloforte, che vanno valutati congiuntamente, proponendo le medesime censure, sono inammissibili.

2.1. Il primo motivo di ricorso, proposto da entrambi i ricorrenti in termini identici, seppur con diversa impaginazione, è inammissibile per difetto di specificità.

Non è dato, infatti, comprendere l’oggetto specifico delle censure proposte ed i motivi posti a fondamento delle stesse, che si limitano ad una critica – invero, piuttosto oscura anche lessicalmente e logicamente – alla decisione della Corte territoriale, della quale vengono richiamati ampi passaggi.

Al riguardo, è stato condivisibilmente affermato che alla Corte di Cassazione non spetta il potere, nè il dovere, di ricostruire i possibili significati del motivo di ricorso non sufficientemente chiaro, sicchè questo, per assolvere utilmente alla sua funzione limitativa dell’ambito dell’impugnazione, deve essere specifico (Sez. U, n. 11493 del 24/06/1998, Verga, Rv. 211468).

Ebbene, nel caso di specie manca quella specificità del motivo di doglianza che il legislatore del rito penale, in particolare, pretende in ogni ipotesi di impugnazione (art. 581 c.p.p., comma 1, lett. c)).

Infatti, l’art. 581 c.p.p. stabilisce che l’impugnazione si propone con atto scritto nel quale, tra l’altro, sono “enunciati”: “a) i capi e i punti della decisione ai quali si riferisce l’impugnazione; b) le richieste; c) i motivi con l’indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta”; sicchè un atto privo dei requisiti prescritti, che si limiti ad esprimere la volontà di impugnare senza indicare i capi o i punti cui intende riferirsi, o senza enunciare i motivi di doglianza rispetto alla decisione censurata (e anche in ciò consiste la specificità), non può costituire una valida forma d’impugnazione e, quindi, non può produrre gli effetti introduttivi del giudizio del grado successivo, cui si collega la possibilità di emettere una pronuncia diversa dalla dichiarazione d’inammissibilità (Sez. U, n. 11493 del 24/06/1998, Verga, Rv. 211468).

Del resto, se si ritenesse il contrario, si giungerebbe ad una conclusione assurda, perchè si dovrebbe riconoscere ad una generica (ed invalida) dichiarazione d’impugnazione l’effetto di consentire al giudice una cognizione estesa a tutti i capi della sentenza, mentre lo stesso effetto non potrebbe riconoscersi ad una impugnazione proposta validamente, ma con riferimento solo ad alcuni capi della sentenza, dato che per gli altri capi, e i relativi addebiti, la vicenda processuale dovrebbe ritenersi conclusa, come questa Corte ha già evidenziato (Sez. U, n. 21 del 11/11/1994, dep. 1995, Cresci, Rv. 199903, in motivazione).

2.2. Il secondo motivo di ricorso, proposto da entrambi i ricorrenti in termini identici, seppur con diversa impaginazione, è inammissibile in quanto manifestamente infondato.

Se ben si comprende dal tenore, anch’esso non connotato da sufficiente chiarezza, del motivo, i ricorrenti censurano che, con riferimento all’affermazione di responsabilità per il reato di abuso d’ufficio, sia stata attribuita rilevanza, nella sentenza impugnata, alla modifica della sagoma conseguente alla realizzazione del bagno e del vano sottotetto, senza considerare che, con la seconda concessione, è stata eliminata la finestra e la scala interna, e che non sussiste il “pericolo di danno quale elemento del reato”; si aggiunge, a sostegno del ricorso, che i due imputati non avrebbero agito con il dolo necessario ad integrare l’abuso d’ufficio, in quanto dalla lettura della nota del 21/03/2014 del Ministero dei Beni Culturali si evincerebbe che la modificazione della falda del tetto in falda unica sarebbe elemento tipico dell’edificato rurale sparso dell’isola di San Pietro, e che non rileva la diversa estensione del sindacato riconosciuto alla Sovrintendenza dopo il 2010, secondo quanto affermato nella sentenza impugnata; i due imputati, dunque, avrebbero rilasciato gli atti assentivi in buona fede, e contando sull’affidamento ingenerato dai pareri della Sovrintendenza; inoltre, la delega paesaggistica sarebbe stata comunque esercitata previo parere favorevole della Sovrintendenza.

Anche in tal caso, come già evidenziato infra 1.1., la doglianza si risolve nella sostanziale richiesta di rivalutazione del compendio probatorio, insuscettibile di sindacato in sede di legittimità, peraltro proponendo questioni di fatto che implicano un confronto tra le opere effettivamente realizzate, quelle progettate ed il contenuto dei titoli abilitativi; questioni risolte, mediante incensurabile apprezzamento di fatto, dalle sentenze di merito, sul punto, peraltro, conformi.

In ogni caso, nel tentativo di enucleare dei profili suscettibili di valutazione da parte di questa Corte, ed al solo fine di appagare la richiesta di controllo di legittimità implicita nei ricorsi proposti, va evidenziato innanzitutto che non rileva, ai fini dell’integrazione del reato di abuso d’ufficio (dalla sentenza impugnata accertato con riferimento alla sola concessione rilasciata nel 2006, essendo intervenuta assoluzione con riferimento a quella rilasciata in variante nel 2008), la circostanza che non sia conseguito danno, ovvero che, nel secondo progetto, venne eliminata la finestra e la scala interna al vano sottotetto.

Invero, l’abusività della condotta contestata ai due imputati nel rilascio della prima concessione del 2006 è stata individuata nel rilascio dell’atto in macroscopica violazione della legislazione regionale vigente (la L.R. Sardegna 25 novembre 2004, n. 8, denominata “salva-coste”) e del piano paesaggistico regionale; come si è già evidenziato, ad integrare le macroscopiche violazioni che, oltre ad fondare la tipicità dei reati edilizi e paesaggistici contestati, indiziano il reato di abuso d’ufficio – contestato a M. e G. -, vi è la circostanza assorbente – ed omessa in tutti i ricorsi – che la committente non era un imprenditore agricolo, e non aveva, dunque, alcun titolo per beneficiare di una concessione per nuova costruzione (p. 17 e 18 della sentenza impugnata), e che le opere progettate e assentite determinavano un aumento di volumetria (mediante realizzazione di un bagno di 6 mq. ed avanzamento di una parete, nonchè di un vano sottotetto abitabile, munito di finestra e di scala interna di accesso) ed una differenza di sagoma (mediante trasformazione del tetto da due falde ad una sola falda, ed avanzamento della parete per la costruzione del bagno).

In particolare, la sentenza impugnata, all’esito di una diffusa (e condivisibile) valutazione dei progetti e delle opere realizzate, comunque insuscettibile di sindacato in sede di legittimità, ha affermato che il progetto redatto da A., ed assentito dai due tecnici del Comune di Carloforte, riguardava non già un intervento di semplice ristrutturazione, “come contrabbandato” nel progetto e nella concessione, bensì un intervento di nuova costruzione.

Inoltre, la sentenza impugnata ha rilevato che la L.R. 12 agosto 1998, n. 28, art. 3 consente il rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche soltanto per gli interventi minori su edifici esistenti, e, quanto alle opere di “nuova costruzione”, soltanto per gli interventi ricadenti nelle zone di completamento “B”; al contrario, per gli interventi di nuova costruzione in zona urbanistica “E”, come quello oggetto di accertamento, il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica non era di competenza dell’ente comunale, bensì della Regione.

Il rilievo, immune da censure, e, del resto, non contestato nella dimensione interpretativa dai ricorrenti, rende del tutto irrilevante l’invocazione della buona fede e dell’affidamento, così come l’allegazione di una nota del Ministero, successiva di otto anni rispetto al rilascio della concessione: l’autorizzazione è stata infatti rilasciata dai due funzionari dell’ente comunale, in totale difetto di competenza.

Inoltre, a connotare il dolo di fattispecie dell’abuso d’ufficio, la sentenza impugnata correttamente osserva che, oltre alle violazioni macroscopiche integrate dal rilascio di una concessione a soggetto privo di titolo (perchè non imprenditore agricolo), in relazione ad opere non assentibili (perchè comportanti aumento di volumetria e difformità di sagoma), e di una autorizzazione paesaggistica da parte di organo incompetente, l’intenzionalità del dolo dei due funzionari è vieppiù indiziata dal fatto che “si guardarono bene dal richiamare, nell’illegittima autorizzazione paesaggistica rilasciata il 24.2.2006 in vista della concessione edilizia, l’aumento volumetrico relativo al bagno previsto in progetto”, che “avrebbe svelato in modo clamoroso che quell’autorizzazione veniva rilasciata da un’autorità non competente, per giunta in un periodo in cui erano vigenti le rigorosissime norme di salvaguardia introdotte con la già citata L.R. n. 8 del 2004” (p. 21 della sentenza impugnata); con la conseguenza che la stessa nota del 2014 della Sovrintendenza, invocata ripetutamente dai ricorrenti, “non poteva che prendere atto di un provvedimento che non menzionava un aspetto fondamentale che, anche sul mero piano della legittimità, avrebbe imposto di affermare l’incompetenza del comune al rilascio dell’autorizzazione” (p. 21 della sentenza impugnata).

Al riguardo, è stato sovente ribadito da questa Corte che in tema di abuso d’ufficio, la prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie criminosa, può essere desunta anche da elementi sintomatici come la macroscopica illegittimità dell’atto compiuto, non essendo richiesto l’accertamento dell’accordo collusivo con la persona che si intende favorire, in quanto l’intenzionalità del vantaggio ben può prescindere dalla volontà di favorire specificamente quel privato interessato alla singola vicenda amministrativa (ex multis, Sez. 6, n. 36179 del 15/04/2014, Dragotta, Rv. 260233; Sez. 3, n. 48475 del 07/11/2013, Scaramazza, Rv. 258290).

La sentenza impugnata, dunque, appare correttamente motivata, e la nota del 2014 allegata dai ricorrenti più che rivelarsi irrilevante, ai fini dell’integrazione del dolo di fattispecie di un reato commesso nel 2006, appare corroborare la valutazione secondo la quale, alla base dell’omessa attivazione dei poteri regionali, vi era in realtà la falsa rappresentazione, per omissione, di un elemento di fatto significativo (l’aumento di volumetria).

2.3. Il terzo motivo di ricorso concernente la violazione di legge ed il vizio di motivazione in ordine al contributo concorsuale, proposto dal solo G.R., è manifestamente infondato.

Invero, il ricorrente lamenta che il concorso di persone sia stato affermato soltanto sulla base della sottoscrizione, da parte del geom. G., in qualità di responsabile del procedimento, dell’autorizzazione paesaggistica e della successiva concessione edilizia, e che quest’ultima sia stata sottoscritta anche dal Dirigente responsabile dell’area urbanistica del Comune di Carloforte, Ing. M.; la condotta del G. sarebbe stata dunque ininfluente, in quanto l’efficacia del provvedimento sarebbe connessa alla sottoscrizione del Dirigente.

La sentenza impugnata, tuttavia, lungi dall’omettere la motivazione, espone diffusamente le condotte ascritte, a titolo di abuso d’ufficio, a G.R., evidenziando come questi, in qualità di responsabile del procedimento, avesse firmato l’autorizzazione paesaggistica del 24/02/2006 e la concessione n. 84 del 17/10/2006 (p. 22 della sentenza impugnata).

Non appare enucleabile un margine di motivazione più diffuso o preciso di quello richiamato, atteso che, prescindendo dal profilo della valutazione, che, in mancanza di contraddittorietà o manifesta illogicità, non è sindacabile in sede di legittimità, la sentenza impugnata ha correttamente individuato il contributo concorsuale fornito da G.R., che, nella scansione procedimentale in oggetto, ha rivestito un ruolo giuridico e fattuale significativo, essendo il responsabile dell’istruttoria, ed il sottoscrittore dell’autorizzazione paesaggistica, nonchè della concessione (sottoscritta anche dal dirigente M.).

Al riguardo, è stato affermato che, ai fini della configurabilità del concorso di persone nel reato, il contributo concorsuale acquista rilevanza non solo quando abbia efficacia causale, ponendosi come condizione dell’evento illecito, ma anche quando assuma la forma di un contributo agevolatore e di rafforzamento del proposito criminoso già esistente nei concorrenti, in modo da aumentare la possibilità di commissione del reato (Sez. 6, n. 36125 del 13/05/2014, Minardo, Rv. 260235, che ha ritenuto corretto il giudizio di colpevolezza pronunciato nella sentenza impugnata per il reato di abuso di ufficio commesso dal dirigente di un consorzio che aveva espresso un parere facoltativo e non vincolante favorevole all’adozione di un provvedimento illegittimo produttivo di un ingiusto vantaggio ad altri).

Nel caso in esame, il contributo del G., lungi dall’essere ininfluente o di scarsa rilevanza, o comunque di mera agevolazione, è risultato significativo e determinante per la consumazione del reato, in ragione del concreto ruolo svolto e della posizione pubblicistica rivestita nell’ambito del procedimento amministrativo.

  1. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue la condanna al pagamento delle spese processuali e la corresponsione di una somma di denaro in favore della cassa delle ammende, somma che si ritiene equo determinare in Euro 1.000,00: infatti, l’art. 616 cod. proc. pen. non distingue tra le varie cause di inammissibilità, con la conseguenza che la condanna al pagamento della sanzione pecuniaria in esso prevista deve essere inflitta sia nel caso di inammissibilità dichiarata ex art. 606 cod. proc. pen., comma 3, sia nelle ipotesi di inammissibilità pronunciata ex art. 591 cod. proc. pen.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 ciascuno in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 8 marzo 2016.

Depositato in Cancelleria il 28 luglio 2016

Originally posted 2019-12-31 16:54:01.

OMESSO VERSAMENTO MANTENIMENTO FIGLI BOLOGNA PUO’ ESSERE SOSPESO?

GENITORI SEPARAZIONE ATTENZIONE MASSIMA MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA PRIVARE DELLA FUNZIONE

GENITORI SEPARAZIONE ATTENZIONE MASSIMA MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA PRIVARE DELLA FUNZIONE

‘in re ipsa’ una condizione soggettiva dello stato di bisogno, che obbliga i genitori a contribuire al loro mantenimento, assicurando ai predetti i mezzi di sussistenza (Sez. 6, n. 53607 del 20/11/2014, Rv. 261871) e che lo stato di bisogno e l’obbligo del genitore di contribuire al mantenimento dei figli minori non vengono meno quando gli aventi diritto siano assistiti economicamente da terzi, anche in relazione alla percezione di eventuali elargizioni a carico della pubblica assistenza (Sez. 6, n. 46060 del 22/10/2014, Rv. 260823).

 

In linea con i consolidati principi affermati da questa Corte, i giudici di merito hanno ribadito che la minore età dei discendenti, destinatari dei mezzi di sussistenza, rappresenta ‘in re ipsa’ una condizione soggettiva dello stato di bisogno, che obbliga i genitori a contribuire al loro mantenimento, assicurando ai predetti i mezzi di sussistenza (Sez. 6, n. 53607 del 20/11/2014, Rv. 261871) e che lo stato di bisogno e l’obbligo del genitore di contribuire al mantenimento dei figli minori non vengono meno quando gli aventi diritto siano assistiti economicamente da terzi, anche in relazione alla percezione di eventuali elargizioni a carico della pubblica assistenza (Sez. 6, n. 46060 del 22/10/2014, Rv. 260823).

 

 

CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. VI PENALE – SENTENZA 14 maggio 2018, n.21320 – Pres. Paoloni – est. Criscuolo

Ritenuto in fatto

Il difensore di D.F. propone ricorso avverso la sentenza indicata in epigrafe, con la quale la Corte di appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, ha confermato la sentenza emessa dal Tribunale di Taranto in data 8 ottobre 2014, che aveva condannato l’imputato alla pena di mesi 3 di reclusione e 300 Euro di multa, con i doppi benefici, per i reati di cui agli artt. 3 l. n. 54/2006 e 570, comma 2, cod. pen. per aver omesso di contribuire al mantenimento della figlia minore e fatto mancare i mezzi di sussistenza al coniuge separato, omettendo di versare la somme mensile di 300 Euro, come disposto con il decreto di omologazione della separazione consensuale dal Tribunale di Taranto in data 14 febbraio 2007.

Ne chiede l’annullamento per i seguenti motivi:

1.1 violazione ed erronea applicazione della legge penale, in quanto la Corte di appello ha travisato il contenuto delle imputazioni, giustificando la decisione con riferimento all’art. 570, comma 2 n. 2, cod. pen., mentre la contestazione faceva riferimento al primo comma di detta norma; ha fatto riferimento alla giurisprudenza di questa Corte sulla presunzione dello stato di bisogno, sebbene non corrispondente alla fattispecie; erroneamente ha ritenuto che la mera inosservanza dell’obbligo di versare l’assegno di mantenimento integri il reato di cui al secondo comma dell’art. 570 cod. pen. indipendentemente dalla circostanza che l’inosservanza abbia comportato il venir meno dei mezzi di sussistenza per il beneficiario, mentre, invece, l’art. 12 sexies l. 898/70 sanziona il semplice inadempimento. In particolare, la Corte di appello non ha tenuto conto delle circostanze emerse in dibattimento e confermate dalla persona offesa ovvero che l’inadempimento non si era protratto per un periodo tale da incidere sulla disponibilità dei mezzi economici per gli aventi diritto; il D. aveva provveduto per intero alle spese straordinarie per la minore; la persona offesa aveva ammesso di lavorare e di aver fruito dell’aiuto del padre e dei figli conviventi; aveva già ottenuto dall’Inps le somme pignorate ai ricorrente, che aveva provveduto alle esigenze della minore ed aveva consegnato all’altro figlio convivente con la madre l’intero ricavato della vendita di un terreno per l’apertura di una pizzeria;

1.2 contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, in quanto è stata affermata la responsabilità del ricorrente ed irrogata la pena congiunta della reclusione e della multa, nonostante la contestazione riguardasse la sola violazione dell’art. 3 l. n. 54/06 e dell’art. 570, comma 1, cod. pen., che pacificamente comporta l’applicazione della pena alternativa di cui al comma 1 dell’art. 570 cod. pen.;

1.3 errata valutazione della prova ed errata condanna del ricorrente al pagamento della provvisionale, nonostante risultasse provato documentalmente che la persona offesa aveva ricevuto dall’Inps, terzo pignorato gli importi dovuti per l’assegno non corrisposto e l’assegnazione di futuri crediti vantati nei confronti del ricorrente, cosicché la condanna al pagamento della provvisionale risulta illegittima.

Considerato in diritto

Il ricorso è infondato per le ragioni di seguito illustrate.

Il primo motivo è infondato, in quanto l’imputazione contesta in fatto ed espressamente addebita all’imputato di aver fatto mancare i mezzi di sussistenza alla figlia minore ed al coniuge, come ritenuto dai giudici di merito, che hanno giustificato la decisione, puntualizzando le differenze tra i due reati contestati, ritenuti entrambi sussistenti nel caso in esame.

I giudici di merito hanno, infatti, concordemente dato atto che dall’istruttoria dibattimentale era emerso che: l’inadempimento del ricorrente era stato parziale dal luglio 2010 e totale dal giugno 2012, periodo questo cui l’imputazione ancorava la decorrenza della permanenza; la documentazione prodotta dalla difesa dell’imputato si riferiva a periodi precedenti al giugno 2012 e non aveva ad oggetto somme di danaro, ma prestazioni diverse in favore della figlia minore; l’inadempimento si era protratto nel tempo ed aveva inciso in modo apprezzabile sulla disponibilità dei mezzi economici degli aventi diritto, in quanto la persona offesa si era assunta anche l’onere di pagare la metà del mutuo della casa familiare, con ovvie ripercussioni sulle disponibilità economiche; contrariamente all’assunto difensivo, la casa familiare era solo assegnata alla ex moglie e non di proprietà della stessa, costretta a ricorrere a lavori saltuari, all’aiuto del padre per sopravvivere e ad accettare gli sporadici contributi del figlio maggiorenne per pagare le bollette; l’imputato aveva solo prestato, non donato, al figlio maggiorenne la somma ricavata dalla vendita di un terreno, come risultava dalla scrittura privata prodotta, cosicché doveva ritenersi provato lo stato di bisogno degli aventi diritto, destinatari della somma mensile di 300 Euro, stabilita in sede di separazione, che risultava realmente commisurata ai bisogni essenziali della moglie e della figlia.

I giudici hanno pertanto, ritenuto sussistenti gli estremi dei reati contestati, sottolineando che l’art. 3 della legge n. 54/2006 ha esteso anche all’assegno per il mantenimento dei figli di coniugi separati l’applicazione dell’art. 12 sexies legge 1 dicembre 1970 n. 898, ampliando la tutela ai figli dei genitori separati, e che il reato è integrato per il solo fatto del mancato versamento dell’assegno stabilito nella sentenza di separazione, prescindendo dallo stato di bisogno delle persone offese, mentre l’art. 570, comma secondo n.2, cod. pen. appresta tutela penale alla violazione da parte dei genitori dell’obbligo di assicurare i mezzi di sussistenza ai figli minori in stato di bisogno.

In linea con i consolidati principi affermati da questa Corte, i giudici di merito hanno ribadito che la minore età dei discendenti, destinatari dei mezzi di sussistenza, rappresenta ‘in re ipsa’ una condizione soggettiva dello stato di bisogno, che obbliga i genitori a contribuire al loro mantenimento, assicurando ai predetti i mezzi di sussistenza (Sez. 6, n. 53607 del 20/11/2014, Rv. 261871) e che lo stato di bisogno e l’obbligo del genitore di contribuire al mantenimento dei figli minori non vengono meno quando gli aventi diritto siano assistiti economicamente da terzi, anche in relazione alla percezione di eventuali elargizioni a carico della pubblica assistenza (Sez. 6, n. 46060 del 22/10/2014, Rv. 260823).

Ritenuto provato anche lo stato di bisogno del coniuge separato e l’oggettività dell’inadempimento, protratto dal giugno 2012 sino alla sentenza di primo grado, la sentenza impugnata risulta, pertanto, sorretta da congrua motivazione, priva di illogicità o contraddittorietà.

Del tutto inconferente è l’obiezione del ricorrente, che ha fatto riferimento alla sentenza n. 23010/2016 di questa Sezione, con la quale era stata annullata la sentenza di appello che, al pari di quella impugnata, in presenza di versamenti parziali, aveva presunto la sussistenza dello stato di bisogno per la presenza di figli minori ed aveva ritenuto ininfluenti i versamenti effettuati da familiari, senza verificare in concreto la sussistenza di un effettivo stato di bisogno degli aventi diritto.

Deve osservarsi che il caso esaminato nella sentenza indicata presentava profili notevolmente diversi da quello in oggetto, in quanto, in quel caso, l’imputato aveva versato una somma ridotta, ma comunque, consistente; il ridotto inadempimento era durato pochi mesi ed era stato in seguito interamente sanato; inoltre, si era accertato che la moglie disponeva di risparmi di un certo rilievo economico: non solo tali circostanze non ricorrono nel caso di specie, ma è erroneo il presupposto su cui si fonda l’obiezione, avendo i giudici precisato, come già detto, che i versamenti parziali effettuati dall’imputato erano precedenti al periodo oggetto di contestazione e, pertanto, sono stati correttamente ritenuti ininfluenti.

Altrettanto correttamente i giudici hanno ritenuto sussistente il concorso formale tra i reati contestati, aderendo all’orientamento prevalente di questa Corte, che esclude l’assorbimento nel reato di cui all’art. 570, comma secondo n. 2, cod. pen. della fattispecie prevista dalla legge speciale in ragione dell’eterogeneità delle fattispecie, della diversità strutturale dei reati e degli elementi specializzanti delle due fattispecie (Sez. 6, n. 55064 del 13/09/2017, Rv. 271669; Sez. 6, n. 12307 del 13/03/2012, Rv. 252605; Sez. 6, n. 34736 del 16/06/2011, Rv. 250839).

Dalla valutazione che precede discende l’infondatezza anche del secondo motivo, risultando correttamente applicata la sanzione cumulativa prevista dal comma secondo dell’art. 570 cod. pen.

Infondato è anche l’ultimo motivo, avendo la Corte di appello chiarito che i pignoramenti erano relativi ad altri, precedenti inadempimenti, non a quelli oggetto di contestazione, cosicché era infondata la richiesta di revoca della provvisionale, determinata in misura corrispondente alle 22 mensilità non corrisposte nel periodo oggetto di contestazione.

Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

Originally posted 2022-06-17 11:09:34.

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