VIOLENZE OFFESE MINACCE ALLA FIDANZATA REATO DI TORTURA APPLICATO AL COMPAGNO

IL GRAVE FATTO

 

Letta la requisitoria del Procuratore Generale/che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso. Svolgimento del processo 1. E’ impugnata la sentenza indicata in epigrafe, con la quale la Corte di appello di Napoli ha confermato quella emessa dal giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere con la quale il ricorrente è stato dichiarato colpevole dei reati a lui ascritti e, unificati gli stessi dal vincolo della continuazione, è stato condannato, con la riduzione per il rito, alla pena di anni sei e mesi otto di reclusione, oltre al risarcimento dei danni ed al pagamento di una provvisionale e spese di giudizio in favore della parte civile, alle pene accessorie e conseguente condanna al pagamento delle spese processuali e di custodia cautelare sofferta. Al ricorrente sono stati contestati: (A) il reato di cui all’art. 572 c.p., perchè maltrattava la fidanzata O.M. con una serie di atti lesivi della sua integrità fisica e morale, sottoponendola ad un regime di vita vessatorio e violento, così da rendere abitualmente dolorosa e mortificante la relazione. In particolare: – nel dicembre 2017, dopo aver scoperto sul cellulare della donna un messaggio ricevuto dal precedente compagno, si impossessava del telefono, rispondendo ai messaggi e, dopo aver saputo i dettagli della relazione, la offendeva dicendole “sei una escort e i tuoi figli devono saperlo perchè mangiano con il tuo lavoro” e la minacciava di inviare i predetti messaggi alla moglie dell’ex compagno e ai figli della vittima, trattenendo il cellulare per una settimana ed usandolo come arma di ricatto, così sottoponendola ad uno stato di stress, di paura e di vergogna; – costantemente la controllava, anche a distanza, mediante l’applicazione whatsapp, chiedendo spiegazioni su tutti e tutto, controllandole il telefonino, il profilo Facebook, così tenendola sempre in uno stato di ansia e di paura; – nel febbraio 2018, in un’occasione, a fronte di un messaggio ricevuto dalla vittima da un numero sconosciuto, le diceva in maniera oppressiva “te lo devi ricordare” e, nonostante la donna lo invitasse a richiamare per eliminare qualunque suo dubbio, si rifiutava e per rabbia con un taglierino si tagliava sul braccio, incidendosi le iniziali della donna e le diceva “per colpa tua vedi”, compiacendosi del gesto compiuto; – nonostante la donna cercasse di tenerlo calmo per prevenire scenate, mandandogli spesso messaggi, facendo tutto quello che lui desiderasse e mettendolo al centro delle sue attenzioni, aveva sempre da ridire, dubitando di qualunque cosa al punto da controllarle continuamente il cellulare, diventando sempre più opprimente e ossessivo; – in più occasioni la offendeva con espressioni del tipo “mò te ne vai a casa, chissà con chi ti incontri, ti vai a preparare e lo sono lo stronzo che sta qua”; – dall’aprile 2018 la costringeva, urlando e dicendole con prepotenza “me li devi prestare perchè mi servono, so che li tieni e me li devi dare”, a farsi consegnare diverse somme di denaro per un totale di 500 Euro; – nel maggio 2018, mentre la donna era alla guida della propria autovettura, la percuoteva colpendola con schiaffi e pugni alla testa e al volto perchè, a suo dire, gli aveva negato di aver guardato un uomo e, quando la vittima fermava l’auto per scendere, glielo impediva, trattenendola per un braccio, mettendosi sopra di lei, facendola sbattere con il viso contro lo sportello che cercava di chiudere, dicendole “sei una puttana di merda ti meriti tutto questo, se ti fa piacere ti porto lo a farla per me sul vialone di Caserta” per poi giungere nella stanza dell'”(OMISSIS)” di Castel Volturno e, nonostante la donna fosse dolorante e scoraggiata al punto da invocare la morte, con violenza la costringeva a compiere gli atti sessuali di cui al capo B), nonostante il suo espresso dissenso; – dopo l’episodio sopra descritto, vedendo le foto ritraenti i lividi sul volto della persona offesa, le diceva “sei molto brava a camuffarti, usa il trucco”, facendosi mandare di continuo foto e messaggi per controllare se la donna fosse in compagnia di qualcuno per poi dirle “stai attenta a quello che dici, non parlare con nessuno male di me, questo è solo l’inizio, vedrai cosa sono capace di fare”; – ripetutamente e per futili motivi la percuoteva colpendola al volto, cagionandole in più occasioni ferite al labbro e l’offendeva con frasi del tipo “sei una puttana di merda, sei una troia, non mi pensi proprio, con chi stai chattando, con chi sei”; – ripetutamente la costringeva a consumare rapporti sessuali a cui la vittima acconsentiva per paura di essere picchiata e per il timore di una sua reazione violenta in caso di rifiuto; – reiteratamente la percuoteva, colpendola con pugni, calci e schiaffi sia a mani libere che utilizzando un cucchiaio, puntandole un coltello alla gola e mettendole le mani alla gola al punto da farla svenire, impedendole di piangere e di chiedere aiuto; – più volte la minacciava di fare del male alla sua famiglia; – in più occasioni la costringeva a fare uso di sostanze stupefacenti; – le impediva di frequentare amici e di tenere contatti con la famiglia di origine; – per farla tacere, la minacciava di divulgare video ritraenti rapporti sessuali, registrati a sua insaputa; – sistematicamente la faceva oggetto di violenze fisiche e psicologiche al punto da farla dimagrire circa 10 Kg; – costantemente la teneva in uno stato di soggezione psicologica a causa dei suoi comportamenti minacciosi e violenti; – sistematicamente la faceva oggetto di atti di umiliazione e disprezzo idonei a cagionare durevoli sofferenze fisiche e morali

 

 

DECIDE LA CORTE

Non coincidenti, da un confronto in astratto, gli elementi strutturali del reato di tortura e di quello di maltrattamenti, diversi essendo anche i beni giuridici tutelati dalle rispettive incriminazioni, va sottolineato come, nel caso di specie, non vi sia neppure piena sovrapponibilità, in fatto, tra le condotte poste a fondamento del delitto di maltrattamenti e quelle integranti il reato di tortura, atteso che la diversa determinazione temporale del periodo consumativo dei rispettivi reati (dal dicembre 2017 a luglio 2018 il reato di maltrattamenti: da luglio a settembre 2018, il reato di tortura), la reiterazione di atti di violenza e minaccia non gravi, le continue e pesanti offese verbali, le imposizioni, le futili pretese, le costanti umiliazioni, le sofferenze e le privazioni inflitte alla donna, estranee al raggio dell’incriminazione del reato di tortura, hanno assunto i connotati tipici del delitto di maltrattamenti, in quanto fonte di uno stato di disagio continuo e incompatibile con le normali condizioni di vita della persona offesa, nei confronti della quale è stata lesa in maniera sistematica l’integrità fisica ed il patrimonio morale mediante il compimento di condotte che hanno posto la vittima in uno stato di incessante disagio e avvilimento, costringendola a sostenere drammatiche condizioni di vita per un rilevante arco temporale (la relazione era stata avviata nel luglio 2017 e le violenze erano iniziate nel dicembre 2017, con il tempo erano andate aumentando sino ai drammatici episodi del luglio – settembre 2018, data di consumazione del reato di tortura).

 

 

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Sentenza 31 agosto 2021, n. 32380 Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. MARINI Luigi – Presidente – Dott. DI NICOLA Vito – rel. Consigliere – Dott. SOCCI Angelo Matteo – Consigliere – Dott. CERRONI Claudio – Consigliere – Dott. NOVIELLO Giuseppe – Consigliere – ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: R.C.C., nato in (OMISSIS); avverso la sentenza del 04-06-2020 della Corte di appello di Napoli; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso trattato ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8; udita la relazione del Consigliere Di Nicola Vito; Letta la requisitoria del Procuratore Generale/che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso. Svolgimento del processo 1. E’ impugnata la sentenza indicata in epigrafe, con la quale la Corte di appello di Napoli ha confermato quella emessa dal giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere con la quale il ricorrente è stato dichiarato colpevole dei reati a lui ascritti e, unificati gli stessi dal vincolo della continuazione, è stato condannato, con la riduzione per il rito, alla pena di anni sei e mesi otto di reclusione, oltre al risarcimento dei danni ed al pagamento di una provvisionale e spese di giudizio in favore della parte civile, alle pene accessorie e conseguente condanna al pagamento delle spese processuali e di custodia cautelare sofferta. Al ricorrente sono stati contestati: (A) il reato di cui all’art. 572 c.p., perchè maltrattava la fidanzata O.M. con una serie di atti lesivi della sua integrità fisica e morale, sottoponendola ad un regime di vita vessatorio e violento, così da rendere abitualmente dolorosa e mortificante la relazione. In particolare: – nel dicembre 2017, dopo aver scoperto sul cellulare della donna un messaggio ricevuto dal precedente compagno, si impossessava del telefono, rispondendo ai messaggi e, dopo aver saputo i dettagli della relazione, la offendeva dicendole “sei una escort e i tuoi figli devono saperlo perchè mangiano con il tuo lavoro” e la minacciava di inviare i predetti messaggi alla moglie dell’ex compagno e ai figli della vittima, trattenendo il cellulare per una settimana ed usandolo come arma di ricatto, così sottoponendola ad uno stato di stress, di paura e di vergogna; – costantemente la controllava, anche a distanza, mediante l’applicazione whatsapp, chiedendo spiegazioni su tutti e tutto, controllandole il telefonino, il profilo Facebook, così tenendola sempre in uno stato di ansia e di paura; – nel febbraio 2018, in un’occasione, a fronte di un messaggio ricevuto dalla vittima da un numero sconosciuto, le diceva in maniera oppressiva “te lo devi ricordare” e, nonostante la donna lo invitasse a richiamare per eliminare qualunque suo dubbio, si rifiutava e per rabbia con un taglierino si tagliava sul braccio, incidendosi le iniziali della donna e le diceva “per colpa tua vedi”, compiacendosi del gesto compiuto; – nonostante la donna cercasse di tenerlo calmo per prevenire scenate, mandandogli spesso messaggi, facendo tutto quello che lui desiderasse e mettendolo al centro delle sue attenzioni, aveva sempre da ridire, dubitando di qualunque cosa al punto da controllarle continuamente il cellulare, diventando sempre più opprimente e ossessivo; – in più occasioni la offendeva con espressioni del tipo “mò te ne vai a casa, chissà con chi ti incontri, ti vai a preparare e lo sono lo stronzo che sta qua”; – dall’aprile 2018 la costringeva, urlando e dicendole con prepotenza “me li devi prestare perchè mi servono, so che li tieni e me li devi dare”, a farsi consegnare diverse somme di denaro per un totale di 500 Euro; – nel maggio 2018, mentre la donna era alla guida della propria autovettura, la percuoteva colpendola con schiaffi e pugni alla testa e al volto perchè, a suo dire, gli aveva negato di aver guardato un uomo e, quando la vittima fermava l’auto per scendere, glielo impediva, trattenendola per un braccio, mettendosi sopra di lei, facendola sbattere con il viso contro lo sportello che cercava di chiudere, dicendole “sei una puttana di merda ti meriti tutto questo, se ti fa piacere ti porto lo a farla per me sul vialone di Caserta” per poi giungere nella stanza dell'”(OMISSIS)” di Castel Volturno e, nonostante la donna fosse dolorante e scoraggiata al punto da invocare la morte, con violenza la costringeva a compiere gli atti sessuali di cui al capo B), nonostante il suo espresso dissenso; – dopo l’episodio sopra descritto, vedendo le foto ritraenti i lividi sul volto della persona offesa, le diceva “sei molto brava a camuffarti, usa il trucco”, facendosi mandare di continuo foto e messaggi per controllare se la donna fosse in compagnia di qualcuno per poi dirle “stai attenta a quello che dici, non parlare con nessuno male di me, questo è solo l’inizio, vedrai cosa sono capace di fare”; – ripetutamente e per futili motivi la percuoteva colpendola al volto, cagionandole in più occasioni ferite al labbro e l’offendeva con frasi del tipo “sei una puttana di merda, sei una troia, non mi pensi proprio, con chi stai chattando, con chi sei”; – ripetutamente la costringeva a consumare rapporti sessuali a cui la vittima acconsentiva per paura di essere picchiata e per il timore di una sua reazione violenta in caso di rifiuto; – reiteratamente la percuoteva, colpendola con pugni, calci e schiaffi sia a mani libere che utilizzando un cucchiaio, puntandole un coltello alla gola e mettendole le mani alla gola al punto da farla svenire, impedendole di piangere e di chiedere aiuto; – più volte la minacciava di fare del male alla sua famiglia; – in più occasioni la costringeva a fare uso di sostanze stupefacenti; – le impediva di frequentare amici e di tenere contatti con la famiglia di origine; – per farla tacere, la minacciava di divulgare video ritraenti rapporti sessuali, registrati a sua insaputa; – sistematicamente la faceva oggetto di violenze fisiche e psicologiche al punto da farla dimagrire circa 10 Kg; – costantemente la teneva in uno stato di soggezione psicologica a causa dei suoi comportamenti minacciosi e violenti; – sistematicamente la faceva oggetto di atti di umiliazione e disprezzo idonei a cagionare durevoli sofferenze fisiche e morali. Con la circostanza aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 1 per aver agito per motivi futili. Con la circostanza aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 4, per aver agito con crudeltà verso la persona offesa. In (OMISSIS); (B) il reato di cui agli artt. 81 cpv. e 609-bis c.p.p., art. 609-ter c.p.p., n. 5-quater, perchè, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, anche in tempi diversi, con violenza consistita nel colpire la persona offesa con schiaffi e pugni al volto e alla testa, nello sbatterla con la testa contro il muro al punto da provocarle una fuoriuscita di sangue, nello stringerle le mani alla gola, dicendole “sei una puttana di merda ti piace fare questo e adesso lo fai per me, chiamo qualcuno se non ti basto”, la costringeva a compiere atti sessuali, consistiti in un rapporto orale, nonostante il suo espresso dissenso (episodio del maggio 2018) e, in più occasioni, nonostante il dissenso espresso della donna, la costringeva a subire e a compiere atti sessuali a cui la vittima non riusciva ad opporsi a causa delle continue e reiterate violenze fisiche subite, della sua possenza fisica, della paura di essere picchiata, del timore che facesse del male anche ai figli, perchè era ormai sfinita e senza forze ed avendo perso ogni speranza di porre termine alle torture di cui era vittima. Con la circostanza aggravante dell’aver commesso il fatto nei confronti di persona alla quale il colpevole è o è stato legato da relazione affettiva. In (OMISSIS); (C) il reato di cui all’art. 613-bis c.p., commi 1 e 4, perchè, con violenze e minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagionava alla persona offesa, privata della libertà personale, in quanto la chiudeva a chiave in casa, portando con sè le chiavi, acute sofferenze fisiche, un verificabile trauma psichico ed una lesione personale dalla quale derivava una malattia nel corpo (ecchimosi diffuse, arto superiore, fronte, gamba sx; escoriazioni diffuse, ustione di primo grado fianco sx, frattura VII e IX costa di destra, giudicata guaribile in 21 giorni), mediante più condotte di seguito indicate. Ed in particolare: – nel luglio 2018 si recava a casa della donna, la colpiva con schiaffi, pugni e calci in tutte le parti del corpo, la prendeva per i capelli, la sbatteva contro i mobili ed il muro, le stringeva le mani al collo, soffocandola fino allo sfinimento, impedendole di urlare e le diceva “sei una puttana, meriti tutto questo guarda cosa mi hai fatto diventare non ti permettere di urlare che ti ammazzo, questa è la volta buona”, costringendola a non parlare con alcuna persona e minacciandola che diversamente l’avrebbe picchiata; – tra il luglio e l’agosto 2018 la colpiva con schiaffi al volto, spaccandole il labbro e la colpiva con un pugno allo zigomo; le controllava il telefono anche di notte; cancellava i messaggi in cui la minacciava ed in cui la donna cercava di convincerlo a lasciarla, dicendole che l’avrebbe lasciata quando l’avrebbe deciso lui; la costringeva ad avere rapporti sessuali a cui la donna acconsentiva per evitare ulteriori violenze, perchè se provava a negarsi diventava una bestia e per il timore che facesse del male ai suoi figli; aveva sempre il controllo della persona offesa, creandole ansia e paura; la minacciava di fare del male anche ai suoi figli con frasi del tipo “fai venire a S., lo so dove abiti e non ho niente da perdere”; le chiedeva ripetutamente somme di denaro, costringendola a consegnargli la postepay con il pin da cui prelevava la somma di 350 Euro; – la notte tra il (OMISSIS), a fronte del rifiuto opposto dalla donna ad avere un rapporto sessuale, andava in escandescenza, accusandola di tradirlo, frugava nella sua borsa e, dopo aver trovato la somma di 15 Euro ed un pacchetto di sigarette, la picchiava, colpendola con calci, pugni e schiaffi al volto, dicendole “zoccola, puttana, se ti piace fare la puttana adesso la fai per me, ti porto a Caserta sul vialone”, “ti sei venduta per 20 Euro a (OMISSIS)” e, nonostante la vittima gli dicesse di aver ottenuto il denaro dalla sorella, continuava a percuoterla e, tenendola ferma per un braccio, riscaldava sul fornello una forchetta e ferocemente gliela imprimeva sul fianco sinistro, dicendo con aria soddisfatta “ti ho fatto proprio un bel marchio”, così cagionandole un’ustione di primo grado, poi, guardandola con sguardo minaccioso e a denti stretti, le diceva di non urlare, la metteva a corpo nudo per più di un’ora sotto la doccia fredda, impedendole di uscire, la percuoteva con le mani e con un cucchiaio di acciaio, le sferrava calci su tutto il corpo e pugni alla testa; alle quattro di mattina, la costringeva a vestirsi e a prendere l’auto per recarsi a casa della donna e, durante il tragitto, la offriva ad ogni uomo di colore incontrato; giunti a casa, la costringeva a prendere i vestiti più sexy e le scarpe alte per indossarli il giorno dopo sul vialone di Caserta, minacciandola di non tornare a casa prima di una settimana per poi ritornare a casa sua dove la costringeva a subire un altro rapporto sessuale, a cucinare, a pulire casa, impedendole di andare a lavoro ed impedendole di allontanarsi dall’abitazione per tutta la giornata del (OMISSIS), avendo chiuso il cancello a chiave, continuando a costringerla ad avere rapporti sessuali noncurante dei lamenti della donna che, avendo ormai perso ogni speranza di porre termine alle torture di cui era vittima si limitava a dire “fai piano che sento dolore dappertutto” per poi liberarla il (OMISSIS) continuando a telefonarle finchè il figlio non bloccava il contatto. In (OMISSIS). 2. Il ricorrente, tramite il difensore di fiducia, impugna la citata sentenza con tre motivi, di seguito riassunti ai sensi dell’art. 173 disp. att. c.p.p.. 2.1. Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione di legge e difetto di motivazione in relazione all’art. 192 c.p.p. per travisamento del fatto (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e)). Assume che sarebbe difettosa la ricostruzione delle motivazioni contenute nella sentenza impugnata sulla attendibilità-credibilità della persona offesa, essendosi la Corte territoriale limitata, per altro, ad ancorarsi pedissequamente a quanto statuito con la sentenza di primo grado, finendo per determinare la violazione di legge ed il difetto di motivazione denunciato. Il ricorrente osserva che la Corte di appello avrebbe confermato la ricostruzione fornita dalla persona offesa, nonostante non vi fossero altri elementi probatori attestanti la veridicità di tali dichiarazioni, nè effettuando un controllo analitico delle dichiarazioni suindicate. Il ricorrente si mostra consapevole che le regole dettate dall’art. 192 c.p.p., comma 3, non si applicano alle dichiarazioni dell’offeso, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di responsabilità, ma obietta che deve pure esserci una previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto. Ricorda che tale verifica deve essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. Inoltre, qualora la persona offesa si sia costituita parte civile, può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi. Nel caso in esame, risulta, ad avviso del ricorrente, del tutto manchevole una valutazione analitica e rigorosa del narrato della persona offesa, laddove si pensi che la vittima ben avrebbe potuto mentire perchè risentita del rapporto sentimentale non andato a buon fine, tanto da comportare, appunto, la nascita del presente procedimento penale. A riprova di ciò, sottolinea come sia del tutto inverosimile che la persona offesa non si fosse mai recata in caserma per sporgere formale denuncia- querela, laddove si pensi che solo il (OMISSIS), ovvero dopo circa cinque mesi, venne allertato il Commissariato di Polizia dal personale del pronto soccorso. In altri termini, la Corte di appello avrebbe errato laddove in sentenza, e segnatamente a folio 10 delle motivazioni, asserisce che “la circostanza che la vittima abbia continuato ad avere rapporti con l’imputato, mediante l’invio di messaggi telefonici, anche in epoca successiva alla denuncia, è inoltre sintomatica della condizione di totale sottomissione e di paura nella quale ella viveva”, ritenendo ciò senza spendere alcuna motivazione circa l’iter logico-deduttivo posto a fondamento di una tale affermazione. Nulla direbbe la Corte di appello in ordine ai canoni ermeneutici sottesi alla ricostruzione della attendibilità intrinseca della persona offesa. Alcuna parola sarebbe stata spesa sulla verifica degli SMS intercorsi nei giorni successivi alla denuncia che attestavano la prosecuzione della relazione tra l’imputato e la persona offesa. Analogamente, la Corte di appello, allorquando ha analizzato la presenza di conversazioni avvenute tramite whatsapp, avrebbe omesso di verificare che vi erano state conversazioni intercorse tra l’imputato e la persona offesa (sms e messaggi whatsapp), sino al 7 settembre 2018, ovvero fino al momento del fermo del ricorrente. La motivazione della Corte di appello sarebbe poi totalmente assente in relazione alla abitualità della condotta che deve necessariamente integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia. 2.2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta violazione di legge difetto di motivazione in relazione all’art. 613-bisc.p. (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e)). Sostiene che il delitto di cui all’art. 613-bis c.p., presuppone l’esistenza di un rapporto qualificato tra l’autore e la vittima, richiedendo che quest’ultima sia “una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa”. Ne consegue che la Corte partenopea avrebbe errato laddove non ha effettuato alcun accertamento circa la sussistenza di un rapporto caratterizzato da una condizione di affidamento al reo della persona offesa, ovvero di privazione della libertà personale di quest’ultima o di minorata difesa, che deve preesistere alla realizzazione della condotta. Sarebbe pertanto erroneo il principio di diritto affermato dalla Corte d’appello secondo il quale, ai fini della configurabilità del delitto di tortura, non occorre che la condizione di privazione della libertà personale sia preesistente alla commissione della condotta, atteso che la norma non conterrebbe alcun riferimento ad eventuali provvedimenti restrittivi di natura giurisdizionale. Obietta il ricorrente che, tuttavia, nel gravame proposto non vi era alcun cenno circa la presenza di provvedimenti di restrizione di natura giurisdizionale in capo alla vittima, quanto piuttosto era richiesta, per l’integrazione della fattispecie incriminatrice, la presenza di una condizione di privazione della libertà personale o di minorata difesa che doveva preesistere alla condotta incriminata, quale elemento implicito di fattispecie. Tale condizione, quindi, non poteva e non doveva ravvisarsi nell’ambito di una relazione affettiva, in quanto il riferimento a chi è affidato alla custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza di altri postula un rapporto intrinsecamente connotato da più pregnanti obblighi di tutela a carico del reo nei confronti della persona offesa, di natura diversa da quelli di carattere solidale che nascono all’interno di un consorzio familiare o affettivo e la cui violazione sarebbe già sanzionata dalla norma di cui all’art. 572 c.p.. Quanto, perciò, alla privazione della libertà personale e alla minorata difesa deve ritenersi, ad avviso del ricorrente, che le stesse non debbano essere cagionate dal reo in esecuzione della condotta di tortura, ma preesistere quali elementi impliciti della fattispecie: tali conclusioni il ricorrente trae, a suo dire, da un interpretazione letterale della norma in esame, in cui la condotta tipica è data dal cagionare acute sofferenze fisiche ovvero un verificabile trauma psichico, non già dalla privazione della libertà personale o dal porre il soggetto in una condizione di minorata difesa. 2.3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione di legge e difetto di motivazione in relazione agli artt. 62-bis e 133 c.p. (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e)). Sostiene che la Corte partenopea ha confermato la severa pena applicata all’esito del primo giudizio, negando al ricorrente la concessione delle attenuanti generiche, ma senza considerare che la finalità precipua delle invocate attenuanti è quella di permettere un più congruo adeguamento della pena in concreto, considerata la globalità degli elementi soggettivi e oggettivi declinati dall’art. 133 c.p.. Ricorda che la concessione delle attenuanti generiche non implica necessariamente un giudizio di non gravità del fatto reato. Sul punto, la stringata motivazione della Corte di appello sarebbe, allora, del tutto difettosa, in quanto il riconoscimento delle invocate circostanze attenuanti sarebbe stato negato ricorrendo a frasi di stile e senza, quindi, alcuna idonea motivazione in proposito. 3. Il Procuratore generale ha concluso per l’inammissibilità del ricorso. Quanto al primo motivo, ha sottolineato la sua aspecificità, avendo la Corte territoriale sostenuto il giudizio confermativo della colpevolezza del ricorrete non soltanto sulla base delle dichiarazioni della persona offesa ma anche sulla base dei documenti acquisiti al processo (fotografie e referti medici). Quanto al reato di “tortura”, il ricorso appare, ad avviso del Procuratore generale, destituito di fondamento, dolendosi il ricorrente dell’assenza dell’accertamento di uno dei presupposti del reato: condizione di affidamento al reo della persona offesa, privazione della libertà personale di quest’ultima ovvero minorata difesa (seconda pagina del motivo n. 2), senza considerare però che il capo d’imputazione indica con chiarezza che, di questi, il presupposto valorizzato è quello della “privazione della libertà personalè in quanto “la chiudeva a chiave in casa, portando con sè la chiave…”, presupposto del cui accertamento la motivazione dà conto in modo congruo. D’altra parte, il Procuratore generale rileva che dal contesto della motivazione stessa appare evidente la sussistenza anche del presupposto della “minorata difesa” per come pacificamente configurata dalla più recente giurisprudenza della Corte, riportata nelle conclusioni scritte. Motivi della decisione 1. Il ricorso è infondato. 2. Il primo motivo è inammissibile per manifesta infondatezza, avendo la Corte d’appello correttamente applicato i principi di diritto affermati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di valutazione delle dichiarazioni rese dalla persona offesa. Inoltre, la doglianza, così come sollevata, non è consentita perchè – in presenza di un’adeguata motivazione, priva di vizi di manifesta illogicità – i rilievi, in ordine al formulato giudizio di attendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa, si risolvono in censure tipicamente fattuali che, riguardando il merito della regiudicanda, si sottraggono al controllo in sede di giudizio di legittimità. Per dare conto di ciò – anche al fine di delineare con precisione i fatti accertati nel corso del giudizio di merito, risultando la ricostruzione utile per lo scrutinio del secondo motivo di gravame,con il quale il ricorrente contesta la configurabilità del delitto di tortura “comune”, cosiddetta “orizzontale” o tra “privati” – è sufficiente ricordare come i giudici di merito, con doppia e conforme motivazione, abbiano ritenuto pienamente attendibili le dichiarazioni della persona offesa per avere la dichiarante collocato nella giusta dimensione spaziale e temporale gli episodi narrati. 2.1. Nel pervenire a tale conclusione, la Corte d’appello ha chiarito che le propalazioni accusatorie della vittima hanno anche trovato pieno riscontro probatorio sia nel referto medico in atti, attestante la riscontrata presenza di lesioni compatibili con il narrato della donna, sia nelle fotografie versate in atti e relative alle violenze fisiche subite nell’aprile 2018 nonchè in data 2 settembre dello stesso anno e sia nel testo dei messaggi estrapolati dal telefono cellulare della vittima. Con accertamento di fatto, adeguatamente e logicamente motivato, insuscettibile pertanto di sindacato in sede di giudizio di legittimità, la Corte d’appello ha correttamente ritenuto irrilevante, ai fini del giudizio sull’attendibilità della persona offesa, la circostanza secondo la quale la vittima, prima del settembre 2018, non si fosse mai recata in ospedale a seguito delle percosse patite e che non si fosse mai confidata con i familiari per raccontare ciò che le stava accadendo. La Corte di merito, a questo proposito, ha ricordato come la vittima avesse precisato di non avere, prima di allora, mai sporto denuncia nei confronti dell’uomo, e di non essersi confidata con i suoi familiari, poichè temeva le ritorsioni dell’imputato, nei confronti suoi e dei suoi tre figli. La circostanza che la vittima abbia continuato ad avere rapporti con il ricorrente, mediante l’invio di messaggi telefonici, anche in epoca successiva alla denuncia, è stata logicamente ritenuta, sulla base dei reiterati comportamenti violenti dell’uomo, sintomatica della condizione di totale sottomissione e di paura nella quale costei viveva. Quanto alla genuinità del racconto della persona offesa, si evince, dal testo del provvedimento impugnato, come le modalità di emersione dei fatti abbiano consentito di escludere che le accuse potessero essere riconducibili a intenti calunniatori. In particolare, è stato accertato che, in data (OMISSIS), la vittima venne ricoverata presso il Pronto Soccorso dell’Ospedale di Sessa Aurunca, presentando sul corpo ecchimosi diffuse all’arto superiore destro, alla fronte e alla gamba sinistra, escoriazioni diffuse, una ustione di primo grado al fianco sinistro, la frattura di due costole, con prognosi di ventuno giorni. Solo a seguito del ricovero ospedaliero, la vittima sporse denuncia nei confronti dell’imputato, raccontando agli investigatori le continue umiliazioni, le minacce, le violenze fisiche e morali patite nel corso della relazione sentimentale da parte del “compagno”, al quale costei era legata sentimentalmente dal luglio 2017, uomo violento ed aggressivo, geloso in modo ossessivo della donna. L’imputato, secondo il racconto della vittima, aveva colpito la persona offesa con calci, schiaffi e pugni in tutte le parti del corpo, l’aveva afferrata per i capelli, aveva sbattuto la testa della vittima contro il muro, le aveva stretto le mani intorno al collo facendole quasi perdere i sensi, l’aveva pesantemente offesa, chiamandola “puttana”, e aveva minacciato di ucciderla. La donna riferì, in particolare, di specifici episodi di violenza. Nel maggio 2018, mentre erano in macchina, l’imputato l’accusò di avere guardato un altro uomo, iniziando a picchiarla con schiaffi e pugni in testa e al volto, impedendole con la forza di uscire dall’abitacolo dell’auto, chiamandola “puttana” e minacciando di portarla sul vialone di Caserta per farla prostituire. Subito dopo l’imputato e la vittima si recarono presso l’abitazione dell’uomo, il quale, nell’occasione, la costrinse a praticargli un rapporto orale, nonostante lo stato di sofferenza fisica patito dalla donna a causa delle percosse subite, dicendole “sei una puttana di merda, ti piace fare questo e adesso lo fai per me, chiamo qualcuno se lo non ti basto”. Durante l’atto sessuale, l’imputato colpì la donna con schiaffi e pugni al volto e alla testa, sbattendola contro il muro, stringendole le mani intorno al collo, quasi a soffocarla. L’imputato poi la costrinse a pernottare presso la sua abitazione, chiudendo la porta della casa e nascondendo le chiavi. Dopo essersi impossessato anche delle chiavi dell’auto della vittima, durante la notte, costrinse la donna ad avere altri rapporti sessuali, che la vittima subì non avendo la forza di opporsi a cagione delle percosse patite, e temendo di essere nuovamente picchiata dall’uomo. Durante gli amplessi, lei lo pregò di fermarsi ma era terrorizzata per la propria vita, e dunque si sottomise al volere dell’uomo. Nei giorni successivi a tale episodio, l’imputato la minacciò per impedirle di raccontare gli abusi subiti dicendole “stai attenta a quello che dici, non parlare con nessuno male di me, questo è solo l’inizio, vedrai cosa sono capace di fare”. Le violenze e le minacce proseguirono anche nel periodo successivo. Nel mese di luglio 2018, durante una scenata di gelosia, l’imputato picchiò nuovamente la vittima, con schiaffi, pugni e calci in tutte le parti del corpo, afferrandola per i capelli, sbattendola contro il muro ed il mobilio, minacciandola di morte. In quello stesso mese, la vittima si intrattenne, per diverse notti, a dormire nella nuova casa dell’imputato. Quando usciva, il ricorrente chiudeva la vittima in casa, portava con sè le chiavi e le intimava di non parlare con i vicini altrimenti al suo ritorno l’avrebbe picchiata. Durante questo periodo di convivenza – nei mesi di luglio ed agosto – la vittima subì altri rapporti sessuali per timore che il suo rifiuto avrebbe scatenato l’ira violenta dell’imputato, il quale aveva anche iniziato ad avanzare nei suoi confronti continue richieste di denaro, che la donna assecondò per timore di ritorsioni, e temendo anche per l’incolumità dei propri figli nei confronti dei quali il ricorrente aveva iniziato ad avanzare minacce. I segni delle percosse erano così evidenti che spesso la vittima era costretta a restare in casa e solo quando non si notavano eccessivamente poteva mascherarli con il trucco e uscire. L’uomo aveva poi fatto in modo che la vittima rimanesse isolata da tutti i suoi affetti, la controllava in tutti i suoi movimenti, arrivando a leggere i messaggi sul suo cellulare. La situazione peggiorò nel mese di settembre 2018. La sera del primo settembre la vittima si recò a casa e la sorella le prestò dei soldi, perchè l’imputato aveva prelevato tutto il denaro sulla carta prepagata intestata alla vittima. Rientrata a casa dell’imputato, la persona offesa si rifiutò di consumare con l’uomo un rapporto sessuale. Il ricorrente iniziò allora a frugare nella borsa della donna e, avendo rinvenuto il denaro che costei aveva ricevuto poco prima dalla sorella, iniziò a picchiarla con pugni e schiaffi al volto, accusandola di essersi venduta per 20,00 Euro a (OMISSIS). Poi a bloccò con il braccio e, dopo avere riscaldato una forchetta sul fuoco, le impresse l’utensile sul fianco sinistro dicendole “ti ho fatto proprio un bel marchio”; quindi la tenne con la forza sotto la doccia di acqua fredda per circa un’ora, impedendole di allontanarsi e continuando a picchiarla con calci sul corpo e pugni in testa, utilizzando per colpirla sia le mani che un cucchiaio di acciaio. Intorno alle 04.00 del mattino, l’imputato accompagnò la vittima nella sua casa di (OMISSIS) per farle prelevare degli abiti succinti, dicendole che il giorno successivo l’avrebbe accompagnata sul vialone di Caserta per farla prostituire e, durante il tragitto, offrì la donna ai passanti. Il giorno successivo, pretese nuovamente di avere rapporti sessuali con la compagna, nonostante costei fosse dolorante per le percosse subite e la costrinse a pulire l’abitazione e a cucinare per lui. L’imputato aveva inoltre impedito alla donna di allontanarsi da casa per andare al lavoro, nascondendo le chiavi del cancello dell’abitazione. Solo il giorno 3 settembre uscirono da casa e la vittima, dopo avere accompagnato l’imputato al lavoro, si recò presso l’abitazione dei suoi genitori. Il 4 settembre la donna si portò in ospedale accompagnata dai familiari. Alla luce di tali risultanze, correttamente i Giudici di merito hanno concordemente concluso per l’affermazione della responsabilità penale dell’imputato per tutti i reati a lui ascritti. 2.2. Pertanto, la sentenza impugnata ha espresso ragionevoli elementi di giudizio, fornendo una corretta e completa disamina di tutte le risultanze processuali, nel contesto di una valutazione complessiva e critica dei fatti narrati dalla persona offesa, della cui attendibilità, a torto, il ricorrente dubita. A questo proposito, quanto cioè alla valutazione della prova dichiarativa relativa alla narrazione testimoniale della vittima del reato, in ispecie se costituita parte civile, la giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che le regole dettate dall’art. 192 c.p.p., comma 3, non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte, Rv. 253214). E’ pur vero che il Giudice deve valutare l’opportunità di procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi ma la Corte di merito non si è sottratta a tale non necessaria incombenza, posto che i riscontri esterni sono stati enunciati nella sentenza impugnata e le obiezioni difensive tutte dettagliatamente disattese. Sul punto, è il caso di precisare come la Corte di legittimità abbia, in diverse occasioni, sottolineato che i riscontri esterni, i quali non sono predeterminati nella specie e nella qualità, possono essere di qualsiasi tipo e natura e possono essere tratti sia da dati obiettivi, quali fatti e documenti, sia da dichiarazioni di altri soggetti, purchè siano idonei a convalidare “aliunde” l’attendibilità dell’accusa, tenuto anche presente che essi devono essere ricercati e valutati, con specifico riferimento alle dichiarazioni della persona offesa, nella prospettiva della verifica del grado di affidabilità della dichiarazione e non ai fini specifici previsti dall’art. 192 c.p.p., comma 3, disposizione che non si applica alle dichiarazioni della vittima del reato (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte, cit.); con la conseguenza che, per fondare il ragionevole convincimento che il dichiarante non abbia mentito, è sufficiente che i riscontri siano idonei a confermare, anche dal punto di vista logico, la credibilità della dichiarazione nel suo complesso e non rispetto a ciascuno dei particolari riferiti dal dichiarante e che neppure è necessario che i riscontri attengano alla posizione soggettiva della persona attinta dalle dichiarazioni, perchè le narrazioni della persona offesa, anche se costituita parte civile, non possono mai essere equiparate alla chiamata in reità o in correità (Sez. 3, n. 33589 del 24/04/2015, T., non mass.). La sentenza impugnata è perciò immune da vizi logici, essendosi la motivazione sviluppata su una solida base argomentativa poggiante su tutte le risultanze processuali emerse: sulle dichiarazioni della persona offesa nonchè sui riscontri oggettivi che sono stati acquisiti con riferimento al narrato della vittima e costituiti dalle relazioni mediche, dai referti dei sanitari, comprovanti la circostanza decisiva secondo cui le lesioni subite dalla vittima fossero del tutto compatibili con il narrato della donna, dalle fotografie versate in atti, comprovanti le violenze fisiche subite nell’aprile e nel settembre 2018, dal testo dei messaggi estrapolati dal telefono cellulare della persona offesa. Pertanto, in presenza di una ampia e positiva verifica, corredata da adeguata motivazione priva di vizi di manifesta illogicità, in ordine alla credibilità soggettiva della persona offesa e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, anche ampiamente riscontrato su tutti i punti centrali della narrazione, per i quali è stata comunque fornita, nella sentenza impugnata, una congrua giustificazione, la Corte d’appello non è incorsa in alcun vizio nella valutazione della prova, cosicchè, sotto tale specifico aspetto, il motivo di ricorso si connota anche per la sua manifesta infondatezza. Sotto altro e convergente aspetto, occorre precisare che, in sede di giudizio di legittimità, l’attendibilità della persona offesa non può essere seriamente messa in discussione quando non emergono disarmonie e incongruenze considerevoli tra la dichiarazione della vittima e le altre prove. Peraltro, va ricordato che, in tema di reati sessuali, poichè la testimonianza della persona offesa è spesso unica fonte del convincimento del giudice, è essenziale la valutazione circa l’attendibilità del teste; tale giudizio, essendo di tipo fattuale, ossia di merito, può essere effettuato solo attraverso la dialettica dibattimentale, mentre è precluso in sede di legittimità, specialmente quando il giudice del merito abbia fornito, come nella specie, una spiegazione plausibile della sua analisi probatoria (Sez. 3, n. 41282 del 05/10/2006, Agnelli, Rv. 235578 – 01). La valutazione prettamente fattuale, ovvero di merito, del giudizio di attendibilità è, infatti, una diretta conseguenza dei principi di oralità e di immediatezza che governano il processo penale, perchè solo attraverso l’esame delle parti – che ordinariamente trova la propria sede naturale nella dialettica dibattimentale e, dunque, solo dal contatto immediato con la fonte di prova – il giudice può desumere elementi diretti per percepire la veridicità del teste, la spontaneità e genuinità delle sue dichiarazioni oppure le incoerenze del narrato, le anomalie, le stranezze e tutti i segnali che possano contaminare la dichiarazione. Tutto ciò è, all’evidenza, precluso in sede di giudizio /C di legittimità, dove non è consentito, in presenza di una logica e adeguata motivazione, contestare l’attendibilità della persona offesa quando, dal testo del provvedimento impugnato o da altri atti del processo specificamente indicati con il motivo di gravame, non emergono, come nel caso in esame, disarmonie e incongruenze considerevoli tra le dichiarazioni della persona offesa e le altre prove. Il motivo è pertanto inammissibile. 3. Il secondo motivo di gravame è invece infondato. 3.1. Il ricorrente, sotto diversi profili, lamenta l’inconfigurabilità, nel caso di specie, del ritenuto delitto di tortura per la supposta mancanza degli elementi costitutivi necessari per l’integrazione della fattispecie incriminatrice. Per dare conto dell’infondatezza della doglianza, sono necessarie alcune premesse, alle quali debbono seguire brevi cenni sulla struttura del reato di tortura nei limiti indispensabili per fornire adeguata risposta ai rilievi formulati dal ricorrente con il motivo di ricorso. 3.2. Nelle carte internazionali, il divieto di tortura è previsto dall’art. 3 della Convenzione EDU e dall’art. 7 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, patto dal quale è scaturita la Dichiarazione ONU sulla protezione di tutte le persone sottoposte a forme di tortura e altre pene o trattamenti inumani, crudeli o degradanti, adottata dall’Assemblea generale il 9 dicembre 1975. Il 10 dicembre 1984 è stata approvata dall’Assemblea generale dell’ONU la Convenzione contro la tortura, ratificata dall’Italia con la L. 3 novembre 1988, n. 498. Va anche ricordata l’adozione della Convenzione Europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti del 26 novembre 1987, ratificata dall’Italia con la L. 2 gennaio 1989, n. 7 (entrata in vigore in data 1 aprile 1989) e le sue integrazioni. La citata Convenzione ONU del 1984 contro la tortura ed altri trattamenti e pene crudeli, inumane e degradanti (la c.d. CAT), prevede l’obbligo per gli Stati di legiferare affinchè qualsiasi atto di tortura sia espressamente e immediatamente previsto come reato nel diritto penale interno. Vale la pena ricordare, non essendo possibile soffermarsi sul contenuto delle carte internazionali, che la Convenzione del 1984, per quanto qui interessa, ha fissato una soglia minima di punibilità della tortura, privilegiando quelle forme in cui la struttura del reato richiede il dolo specifico (dove cioè l’elemento finalistico è caratterizzato dal fatto che la condotta debba tendere al conseguimento di tre scopi alternativi: ossia 1) ottenere informazioni o confessioni, 2) punire, intimidire o fare pressioni e 3) discriminare) e in cui vi sia il coinvolgimento necessario di funzionari pubblici. La Convenzione, tuttavia, consente agli Stati di prevedere una fattispecie di più ampio raggio e perciò maggiormente comprensiva, purchè nel rispetto della soglia minima fissata dagli standard definitori del trattato. In buona sostanza, il modello legale di reato configurato negli ordinamenti giuridici nazionali non può restringere l’area di punibilità minima fissata dal trattato, con la conseguenza che non può scalfire, limitandone la portata, gli elementi costitutivi della tortura di Stato fissati nella Convenzione. Gli obblighi di incriminazione, che non discendono soltanto dalle richiamate disposizioni di diritto internazionale, sono stati ottemperati dall’Italia con la L. 14 luglio 2017, n. 110 che ha introdotto, per quanto qui interessa, nel codice penale gli artt. 613-bis e 613-ter. In particolare, con l’art. 613-bis c.p., è stato tipizzato il reato di tortura, strutturato come delitto “a geometria variabile”, potendo l’ambito di operatività della norma penale ricomprendere sia la tortura privata (cosiddetta comune o orizzontale o impropria: art. 613-bis, comma 1) e sia la tortura pubblica (cosiddetta di Stato o verticale o propria: art. 613-bis, comma 2). Ne deriva che, con la legge citata, sono stati configurati due autonomi titoli di reato e, quindi, due diverse e autonome fattispecie incriminatrici, a disvalore progressivo, secondo la qualifica del soggetto attivo del reato: la tortura pubblica (reato proprio) se il soggetto attivo sia un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio che commetta il fatto tipico descritto nell’art. 613-bis c.p., comma 1, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio; tortura privata (reato comune) negli altri casi. La norma penale è stata collocata in seno ai delitti contro la persona, tra i delitti contro la libertà individuale e, in particolare, alla fine della sezione relativa ai delitti contro la libertà morale. La collocazione individuata dal legislatore, sebbene criticata, induce a ritenere che l’oggettività giuridica criminosa “generica” debba identificarsi nella tutela della c.d. libertà morale o psichica della persona, intesa come diritto dell’individuo di autodeterminarsi liberamente, in assenza di coercizioni fisiche e psichiche che ne limitino la libertà di movimento (personale), libertà pesantemente pregiudicata da condotte costrittive (violenze o minacce gravi oppure da una condotta commessa con crudeltà) che cagionano acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a persona privata della libertà personale o affidata alla custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza dell’agente oppure che versi in una situazione di assoluta vulnerabilità (minorata difesa), con la conseguenza che la forza di resistenza del soggetto passivo risulta, in quest’ultimo caso, ostacolata da particolari condizioni personali e ambientali che facilitano l’azione criminale del colpevole e che rendono effettiva la signoria o il controllo dell’agente sulla vittima, agevolando il depotenziamento se non l’annullamento delle capacità di reazione di quest’ultima (Sez. 5, n. 50208 del 11/10/2019, S., Rv. 277841 – 04; Sez. 5, n. 47079 del 08/07/2019, R., Rv. 277544 – 03), e tutto ciò quando il fatto di reato sia commesso con più condotte o, in mancanza di condotte plurime, comporti un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona. L’asse della lesività del delitto è, pertanto, calibrato sulla natura della condotta nella tortura privata, dove non rileva affatto la qualifica giuridica soggettiva dell’agente se non limitatamente ad un elemento costitutivo di fattispecie rappresentato dai rapporti di affidamento, affrancati però completamente dalla componente pubblicistica, mentre il fulcro dell’offesa, nel reato di tortura pubblica, è spostato sull’esercizio illegale del potere o del servizio pubblico, cosicchè la medesima condotta acquista un maggiore disvalore, risultando perciò il fatto di reato più gravemente (e autonomamente) punito, in considerazione, come è stato opportunamente osservato, della perversione del potere coercitivo affidato al funzionario pubblico, il quale tradisce il senso e sormonta i limiti per il quale il potere è stato conferito, vulnerando nel suo significato più sostanziale il principio di legalità, perno di qualsiasi Stato di diritto e la cui osservanza è, in primis, imposta gli organi pubblici. Tuttavia, l’oggettività giuridica criminosa “specifica”, ossia il bene giuridico tutelato dall’incriminazione, ha un contenuto più pregnante. Consistendo la tortura nell’inflizione brutale di sofferenze corporali, essa determina un grave e prolungato patimento fisico e morale dell’essere umano che la patisce, cosicchè la sua particolarità risiede nella conclamata e terribile attitudine che la stessa possiede e cioè quella di assoggettare completamente la persona la quale, in balia dell’arbitrio altrui, è trasformata da essere umano in cosa, ossia in una “res” oggetto di accanimento. La sofferenza corporale, fisica e/o psichica, inflitta a una persona umana è tuttavia solo una componente della fattispecie incriminatrice,ma il contenuto preciso dell’offesa penalmente rilevante sta nella lesione della “dignità umana”, che costituisce la cifra comune della lesività specifica, tanto del reato di tortura privata quanto del reato di tortura pubblica, e che si traduce nell’asservimento della persona umana e, di conseguenza, nell’arbitraria negazione dei suoi diritti fondamentali inviolabili. Trattandosi di un concetto relazionale, l’offesa penalmente rilevante può riguardare differenti fenomeni di compressione del bene giuridico (dignità umana o della persona), cosicchè le forme di tutela possono essere diversamente modulate dal legislatore attraverso la previsione di modelli legali di reato calibrati sul tipo di incriminazione (schiavitù, tratta, tortura, ecc.). Nel caso di specie, con la previsione del modello legale descritto nell’art. 613-bis c.p., si è voluto ampliare il raggio dell’incriminazione rispetto alla soglia minima richiesta, come ius cogens, dal diritto internazionale, riconoscendo la configurabilità del reato anche nelle relazioni private, fermo restando che la tortura pubblica non può assumere la forma circostanziale rispetto a quella privata, ma costituisce un reato autonomo sia per la natura del soggetto attivo, sia per l’indipendenza del trattamento sanzionatorio rispetto alla tortura privata e sia per la necessità di un obbligo di incriminazione specifico di quest’ultima fattispecie, non anche dell’altra, obbligo che sarebbe da considerare disatteso, con diretta collisione del diritto interno con quello internazionale, nel caso in cui si considerasse l’art. 613-bis c.p., comma 2, una circostanza di un altro reato, e cioè della tortura privata, il cui obbligo di incriminazione non era vietato ma neppure imposto, diversamente dalla tortura di Stato, dalle carte internazionali. 3.3. Quanto alla struttura dell’incriminazione, il delitto di cui all’art. 613-bis c.p., comma 1, è un reato comune (potendo essere realizzato da chiunque); è reato a forma vincolata (essendo richiesto, come è stato anticipato, un requisito modale della condotta e potendo il reato essere commesso solo mediante violenze o minacce gravi oppure agendo con crudeltà); è un reato di evento (dovendo essere cagionate acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico); è un reato eventualmente abituale improprio (soltanto per talune modalità della condotta – ossia per le violenze o le minacce gravi, che perciò costituiscono di per sè reato e che devono necessariamente estrinsecarsi in condotte plurime – è richiesta la reiterazione della condotta, requisito non previsto per altre modalità di realizzazione della fattispecie incriminatrice ovvero qualora si agisca con crudeltà); è un reato a dolo generico (non avendo il legislatore recepito la tripartizione in tortura giudiziaria, punitiva e discriminatoria fatta propria dall’art. 1 della Convenzione ONU del 1984), che ammette la forma del dolo eventuale (potendo le acute sofferenze fisiche o il verificabile trauma psichico costituire eventi semplicemente accettati e voluti dal soggetto attivo, secondo il modello proprio del dolo eventuale); la limitazione della libertà personale, la relazione di affidamento e la condizione di minorata difesa sono presupposti della condotta (comunque rientrando nel fuoco del dolo); il fatto di reato, infine, deve essere commesso mediante più condotte (nel senso che la reiterazione non deve esaurirsi in un ristretto ambito temporale ma deve essere cronologicamente consistente) oppure, quando è richiesta per l’integrazione della fattispecie la commissione di un’unica condotta, deve conseguire da essa, oltre agli eventi tipici (acute sofferenze fisiche o verificabile trauma psichico), anche un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona. Si tratta di ulteriori elementi costitutivi del reato, e non condizioni obiettive di punibilità, i quali afferiscono, rispettivamente, alla condotta o all’evento. Ai fini che qui interessano, è utile infine ricordare che la fattispecie incriminatrice ex art. 613-bis c.p., non richiede espressamente che la privazione della libertà personale consegua ad un provvedimento giurisdizionale, con la conseguenza che la norma trova applicazione anche nel caso in cui la vittima del reato sia stata illegittimamente privata della libertà personale dall’autore del reato. La privazione della libertà personale non deve consistere necessariamente in una forma di detenzione, potendo, in conformità all’interesse giuridicamente tutelato dall’incriminazione, risolversi in una limitazione della libertà di movimento, in linea con il dettato di cui all’art. 13 Cost., nella parte in cui la disposizione si riferisce, oltre alla detenzione, a qualsiasi altra restrizione della libertà personale, dovendosi invece escludere che ogni forma di limitazione della libertà in senso lato (di fare o di non fare) rientri nell’oggettività giuridica criminosa della fattispecie in esame. Gli eventi tipici del reato, tra di loro alternativi, ossia le “acute sofferenze fisiche” o l’insorgenza di “un verificabile trauma psichico” non debbono necessariamente sfociare in lesioni personali, essendo prevista una specifica aggravante in proposito. Neppure è previsto che il trauma psichico sia durevole, sicchè nella nozione vi rientrano anche quelli a carattere transeunte, ma deve essere “verificabile”, nel senso che deve essere provato nel corso del giudizio e non necessariamente attraverso perizia o altro accertamento tecnico. Allo stesso modo del “grave e perdurante stato di ansia e di paura”, di cui al reato di atti persecutori, l’accertamento può essere ancorato ad elementi sintomatici del turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente ed anche da quest’ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l’evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata (Sez. 5, n. 17795 del 02/03/2017, S., Rv. 269621 – 01). Nel presente procedimento, il reato di tortura è stato contestato e ritenuto in concorso con quelli di violenza sessuale e di maltrattamenti. Va perciò sottolineato come, secondo l’orientamento più volte espresso dalla Corte Europea (Aydin c. Turchia, 25 settembre 1997, ric. n. 23178/94), anche la violenza sessuale può assurgere a tortura, con la conseguenza che essa può integrare, a condizioni esatte, una condotta rilevante ai sensi dell’art. 613-bis c.p.. Più delicati sono i rapporti tra il delitto di tortura e quello di maltrattamenti, rientrando entrambi nello schema dei reati di durata: eventualmente abituale, il reato di tortura; necessariamente abituale quello di maltrattamenti. Avuto riguardo ai principi che regolano il concorso di reati, va ricordato che, ai fini della individuazione della disposizione prevalente, il presupposto della convergenza di norme può ritenersi integrato solo in presenza di un rapporto di continenza tra le norme stesse, alla cui verifica deve procedersi mediante il confronto strutturale tra le fattispecie astratte configurate e la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definirle (Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano, Rv. 248864 – 01), cosicchè il confronto strutturale delle fattispecie depone, nel caso in esame, per la configurabilità del concorso materiale di reati posto che, in linea astratta, per l’integrazione dell’art. 572 c.p. possono assumere rilievo anche fatti non penalmente rilevanti, o comunque non gravi, mentre ai fini della configurabilità dell’art. 613-bis c.p., dovranno invece necessariamente considerarsi solo fatti che costituiscano di per sè reato (a seconda dei casi, minaccia, percosse, lesioni, violenza privata), e che si caratterizzino per la loro gravità e per la loro idoneità a produrre acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico, con la conseguenza che ciascuno dei singoli atti che concorrono ad integrare la fattispecie di tortura deve necessariamente superare una soglia minima di gravità che non è richiesta, invece, per i maltrattamenti. 3.4. Alla stregua delle precedenti considerazioni, deve ritenersi perciò sussistente il reato di tortura privata. Come risulta dal testo della sentenza impugnata, la vittima è stata costretta, in più occasioni, a subire atti sessuali con inaudita violenza e persino subito dopo che era stata sensibilmente debilitata dalle reiterate percosse dell’imputato sfociate in lesioni corporali che avevano provocato nella donna forti dolori, come quando l’imputato, in una delle tante dolorose circostanze, l’aveva costretta a praticargli un rapporto orale, nonostante lo stato di sofferenza fisica della donna per le percosse precedentemente subite, dicendole “sei una puttana di merda, ti piace fare questo e adesso lo fai per me, chiamo qualcuno se lo non ti basto”. Durante l’atto sessuale, l’imputato colpiva la donna con schiaffi e pugni al volto e alla testa, facendole sbattere la testa contro il muro, e le stringeva le mani intorno al collo quasi a soffocarla. In alcune occasioni, inoltre, la vittima aveva subito senza reagire i rapporti sessuali imposti dall’imputato, perchè esausta e senza forze a causa le percosse subite, temendo di essere nuovamente picchiata dal compagno. Pertanto – alla luce della ricostruzione dei fatti operata dalle concordi valutazioni dei Giudici di merito e sulla base delle dettagliate, coerenti e precise dichiarazioni della persona offesa, della documentazione sanitaria e dei riscontri emergenti ex actis (testo dei messaggi pervenuti sul cellulare della vittima, fotografie) – può ritenersi ampiamente provato che l’imputato: ha minacciato ripetutamente la vittima, rivolgendole gravi minacce, anche di morte, spesso indirizzate ai figli della donna; ha usato violenze ripetute nei confronti della persona offesa, cagionandole acute sofferenze fisiche mentre la stessa era privata della sua libertà di movimento dall’imputato; ha costretto la donna contro la sua” volontà a subire rapporti sessuali immediatamente dopo che la vittima era stata violentemente percossa. Tutto ciò è stato compiuto attraverso gravi minacce e altrettanto gravi e inaudite violenze, ponendo la vittima in una condizione di completo assoggettamento e sconforto, realizzando atti tipici di inflizione della sofferenza corporale attraverso una pluralità di condotte reiterate e cronologicamente consistenti in quanto non limitate e non contenute ed esaurite in un unico contesto spazio-temporale, mostrando particolare efferatezza, insensibilità, gratuità e ponendo in essere comportamenti, oltre che di grande sofferenza fisica, anche umilianti: la donna venne marchiata sul fianco con una forchetta rovente e, in altra occasione, venne costretta a rimanere nuda sotto la doccia fredda per circa un’ora mentre l’imputato continuava a percuoterla con calci e corpi contundenti. Tali condotte hanno provocato alla vittima acute sofferenze fisiche (la donna è stata marchiata sul fianco nonchè ripetutamente colpita con pugni, calci, schiaffi, sul corpo, al volto e alla testa, a volte anche con corpi contundenti), riportando lesioni a causa delle percosse subite, come ampiamente dimostrato dalla documentazione sanitaria in atti e dalle fotografie. Le plurime condotte violente e minacciose hanno inoltre cagionato alla vittima un trauma psichico: dalla relazione sanitaria del 17 dicembre 2018 della Psicologa del Pronto Soccorso Rosa del Presidio Ospedaliero San Rocco di Sessa Aurunca emerge che, dai test somministrati alla persona offesa, è stato riscontrato nella vittima un disagio psicologico significativo, che è perdurato dopo il primo mese di post-trauma. E’ stato anche accertato come tale disagio non fosse dovuto agli effetti di una sostanza o di una condizione medica generale, nè ad altro disturbo psicologico, ma fosse l’effetto, fortemente dannoso, della violenza subita, avendo la vittima, nel corso dell’esame psicologico, riferito di rivivere nella memoria continuamente l’evento, pur cercando di evitare il più possibile la rievocazione. E’ stato inoltre accertato che i sintomi della riesperienza, dell’evitamento e dell’aumentata vigilanza sono stati presenti per più di un mese dall’evento violento e che il sonno è stato fortemente turbato, con la presenza di incubi ed interruzioni notturne. Le condotte tipiche sono state commesse e gli eventi del reato si sono verificati quando la vittima versava in uno stato di privazione della libertà personale, posto che alla persona offesa era stato impedito di allontanarsi dall’abitazione dell’imputato e che costui aveva nascosto le chiavi del cancello di ingresso alla casa e le chiavi della macchina per impedire alla donna di muoversi liberamente, restrizioni che la vittima ha ripetutamente subito. Non coincidenti, da un confronto in astratto, gli elementi strutturali del reato di tortura e di quello di maltrattamenti, diversi essendo anche i beni giuridici tutelati dalle rispettive incriminazioni, va sottolineato come, nel caso di specie, non vi sia neppure piena sovrapponibilità, in fatto, tra le condotte poste a fondamento del delitto di maltrattamenti e quelle integranti il reato di tortura, atteso che la diversa determinazione temporale del periodo consumativo dei rispettivi reati (dal dicembre 2017 a luglio 2018 il reato di maltrattamenti: da luglio a settembre 2018, il reato di tortura), la reiterazione di atti di violenza e minaccia non gravi, le continue e pesanti offese verbali, le imposizioni, le futili pretese, le costanti umiliazioni, le sofferenze e le privazioni inflitte alla donna, estranee al raggio dell’incriminazione del reato di tortura, hanno assunto i connotati tipici del delitto di maltrattamenti, in quanto fonte di uno stato di disagio continuo e incompatibile con le normali condizioni di vita della persona offesa, nei confronti della quale è stata lesa in maniera sistematica l’integrità fisica ed il patrimonio morale mediante il compimento di condotte che hanno posto la vittima in uno stato di incessante disagio e avvilimento, costringendola a sostenere drammatiche condizioni di vita per un rilevante arco temporale (la relazione era stata avviata nel luglio 2017 e le violenze erano iniziate nel dicembre 2017, con il tempo erano andate aumentando sino ai drammatici episodi del luglio – settembre 2018, data di consumazione del reato di tortura). Del resto, la giurisprudenza di legittimità è compatta nel ritenere che, in tema di maltrattamenti in famiglia, l’art. 572 c.p., è applicabile non solo ai nuclei familiari fondati sul matrimonio, ma a qualunque relazione sentimentale che, per la consuetudine dei rapporti creati, implichi l’insorgenza di vincoli affettivi e aspettative di assistenza assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale (Sez. 6, n. 31121 del 18/03/2014, C., Rv. 261472 – 01). Nel caso in esame, è risultato che la relazione tra l’imputato e la vittima era iniziata nel luglio 2017, e dal mese di luglio 2018, la vittima aveva iniziato anche a dormire nella abitazione del prevenuto tre notti a settimana. Sulla base delle dichiarazioni lineari, precise e costanti nel tempo rese dalla persona offesa, deve ritenersi provato anche il delitto di violenza sessuale ascritto al ricorrente. 4. Inammissibile è anche il terzo motivo di gravame. Con adeguata e logica motivazione la Corte territoriale ha negato la concessione delle attenuanti generiche ed ha ritenuto congruo il trattamento sanzionatorio. La Corte di merito ha premesso come la pena inflitta sia apparsa perfettamente adeguata ai parametri di cui agli artt. 132 e 133 c.p., e, come tale, non suscettibile di ridimensionamento. A proposito del diniego delle circostanze attenuanti generiche, la Corte distrettuale ha stigmatizzato il comportamento dell’imputato che non ha manifestato alcuna forma di resipiscenza, sottolineando la particolare odiosità della condotta e la reiterazione nel tempo delle violenze consumate ai danni della persona. Nel pervenire a tali conclusioni, la Corte partenopea si è attenuta ai principi di diritto reiteratamente affermati dalla giurisprudenza di legittimità in forza dei quali, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche, non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione (ex multis, Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Lule, Rv. 259899 – 01). L’irrogazione di una pena base in misura superiore alla media edittale, neppure censurata dal ricorrente, è stata poi oggetto di una specifica motivazione in ordine ai criteri soggettivi e oggettivi elencati dall’art. 133 c.p., avendo la Corte distrettuale chiarito che la scelta operata dal primo Giudice di applicare all’imputato una pena superiore al minimo edittale per il reato di tortura è stata giustificata sulla base della gravità dei fatti, desunta dalla particolare efferatezza della condotta e dal grado di pressione psicologica sulla vittima nonchè dalla ripetizione nel tempo delle condotte di minaccia e violenza. Il motivo è pertanto manifestamente infondato. 5. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene che il ricorso debba essere rigettato con conseguente condanna dell’imputato, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese del grado sostenute dalla parte civile ammessa al gratuito patrocinio. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre, l’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte di appello di Napoli con separato decreto di pagamento ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, disponendo il pagamento in favore dello Stato. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge. Così deciso in Roma, il 25 maggio 2021. Depositato in Cancelleria il 31 agosto 202

 

Originally posted 2021-09-13 18:47:04.

AREZZO FIRENZE INCIDENTE MORTALE DANNO PARENTI MINISTERO Morte del congiunto – Danno non patrimoniale – Liquidazione – In via equitativa – Sussiste

Tanto accertato in merito alla sussistenza della responsabilità del Ministero degli Interni, relativamente alla tipologia di danni risarcibili occorre innanzitutto fare riferimento al danno da perdita del rapporto parentale subito sia dalla madre, che dal fratello di Si.Ma..

Il Ministero degli Interni, pertanto, avrebbe utilizzato un mezzo privo dei requisiti imposti ex lege, in grado di provocare danni a chi lo utilizza. Così facendo sarebbe venuto meno all’obbligo sancito dall’art. 35 Dlgs 626/1994, come modificato dal Dlgs 359/1999 di porre a disposizione dei lavoratori strumenti ed attrezzature idonei ai fini della sicurezza. Secondo le argomentazioni di parte attrice, eventuali concorrenti profili colposi addebitabili al fabbricante o al fornitore dei macchinari messi a disposizione dei lavoratori, non eliderebbero il nesso causale tra la condotta del datore di lavoro e l’evento lesivo in danno del lavoratore. Inoltre non assumerebbe alcun rilievo la circostanza che nel corso del procedimento penale sia stato accertato che né le verifiche interne programmate, né le revisioni periodiche eseguite dalla USL sarebbero comunque state inidonee a rilevare il malfunzionamento che ha causato il sinistro, proprio perché queste non esaurivano le iniziative che il datore di lavoro avrebbe dovuto intraprendere prima di rendere disponibile l’autogrù ai propri dipendenti. A tal riguardo parte attrice ha rappresentato che, nonostante detto mezzo fosse stato in dotazione al Comando Provinciale di Arezzo fin dal 1982, da allora non erano mai state effettuate verifiche complete sullo stesso, volte ad individuare eventuali carenze occulte del mezzo, non rilevabili a vista o nell’uso quotidiano

Per tale si intende infatti il danno di natura non patrimoniale che un soggetto subisce per la morte di una persona cara, a cui era legata da un rapporto di natura familiare o affettiva. Anche recentemente la Corte di Cassazione ha affermato che tale danno si concretizza “nel vuoto costituito dal non potere più godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno e perciò nell’irrimediabile distruzione di un sistema di vita basato sull’affettività, sulla condivisione, sulla rassicurante quotidianità dei rapporti tra moglie e marito, tra madre e figlio, tra fratello e fratello, nel non poter più fare ciò che per anni si è fatto, nonché nell’alterazione che una scomparsa del genere inevitabilmente produce anche nelle relazioni tra i superstiti’ (Cass. n. 9196/2018).

La liquidazione di detto danno non può che essere compiuta in via equitativa, tenendo conto di vari fattori quali l’intensità del vincolo familiare, la presenza o meno di una situazione di convivenza e ogni altra circostanza utile quali la consistenza più o meno ampia del nucleo familiare, le abitudini di vita, l’età della vittima e dei superstiti.

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Per quanto riguarda il fratello della vittima, Lu.Ma., questi all’epoca del sinistro aveva 27 anni e pur non convivendo con Si.Ma., all’epoca ventinovenne, è sicuramente presumibile il forte legame che lega due fratelli di età molto ravvicinata. I due inoltre risiedevano comunque all’interno del medesimo Comune e, come emerso dalla consulenza tecnica svolta in corso di causa, frequentemente Si.Ma. si recava nella casa in cui vivevano la madre ed il fratello, avendo uno stabile legame affettivo con entrambi.

Pertanto, tenuto conto del grado di parentela, dell’età della vittima e del congiunto, della non convivenza dei due e degli ulteriori elementi sopra indicati, sulla base delle tabelle elaborate dal Tribunale di Milano e dal Tribunale di Roma ed attualmente vigenti, si ritiene che il danno da perdita del rapporto parentale subito da Lu.Ma. debba essere quantificato in Euro 73.550,25 in moneta attuale.

 

 

Con atto di citazione ritualmente notificato Se.Si. e Ma.Lu. hanno chiesto il risarcimento dei danni subiti iure proprio in qualità rispettivamente di madre e fratello di Ma.Si. in ordine all’infortunio mortale in cui questi era rimasto coinvolto il 28.1.2003.

In particolare parte attrice ha rappresentato che in tale data un autoarticolato, condotto da tale Al.Br., composto da un trattore e da un semirimorchio-cisterna contenente un carico di gas propano, era uscito di strada ad Arezzo, lungo la Strada Statale n. 73, finendo nove metri al di sotto del livello stradale, sul greto del torrente Ce.. Sul posto era giunta pertanto una squadra di uomini e mezzi dei Vigili del Fuoco del Comando Provinciale di Arezzo, oltre ad un’ambulanza con medico a bordo e una pattuglia dei Carabinieri della Stazione di Palazzo del Pero. Il conducente del TIR, Al.Br., era stato sbalzato dal veicolo ed il medico dell’ambulanza intervenuta, dott. Gi.Sg., aveva diagnosticato un trauma alla colonna vertebrale, per cui aveva consigliato che lo stesso venisse trasportato in modo da rimanere il più possibile in posizione orizzontale. Il caposquadra dei Vigili del Fuoco, Ca.Si., aveva così deciso di calare, con il braccio telescopico dell’autogru giunta sul posto, il vigile Si.Ma., assegnandogli il ruolo di portare con sé una barella di tipo toboga, di imbracare il ferito e proteggerlo nella risalita. Una volta che Si.Ma. era stato calato nel vuoto, tuttavia, il cavo dell’autogru, cui lo stesso era agganciato, si era spezzato ed il bozzello che lo sovrastava lo aveva raggiunto colpendolo violentemente sulla testa e causandone la morte immediata. Gli altri Vigili del Fuoco a quel punto avevano imbracato Si.Ma. nella stessa barella destinata all’autista del TIR e lo avevano trasportato a braccia sulla strada, risalendo a piedi la scarpata. Anche il conducente dell’autoarticolato, infine, era stato portato a braccia dai Vigili del Fuoco seguendo il percorso del fiume, ossia la stradella bianca che si ricongiungeva alla sede stradale.

In diritto parte attrice ha innanzitutto rilevato che al Ministero convenuto deve essere attribuita la responsabilità di quanto accaduto ai sensi dell’art. 2087 c.c. in virtù del quale il datore di lavoro ha l’onere di adottare le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica dei propri dipendenti. In particolare parte attrice ha dedotto che all’epoca dei fatti, in tema di tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori, vigeva il Dlgs n. 626/1994, il cui art. 1 comma 2 prevedeva che, nei riguardi delle forze armate e di polizia, dei servizi di protezione civile, ecc., la disciplina normativa era da applicare tenendo conto delle particolari esigenze connesse al servizio espletato, individuate con decreto del Ministro dell’Interno n. 450 del 14.6.1999.

Alla luce di tale normativa, parte attrice ha individuato un primo profilo di responsabilità nelle condizioni dell’autogru utilizzata per l’intervento.

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Tribunale|Firenze|Sezione 2|Civile|Sentenza|30 luglio 2020| n. 1787

Morte del congiunto – Danno non patrimoniale – Liquidazione – In via equitativa – Sussiste

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO DI FIRENZE

SECONDA SEZIONE CIVILE

Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Maria Novella Legnaioli ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 8299/2017 promossa da:

SE.SI. (C.F. (…)) e MA.LU. (C.F. (…)), con il patrocinio degli avv. SI.DE., RO.DE. e GI.CA., elettivamente domiciliati in VIA (…), FIRENZE presso il difensore avv. GI.CA.

ATTORI

contro

MINISTERO DEGLI INTERNI (C.F. (…)), in persona del Ministro pro tempore, con il patrocinio ex lege dell’Avvocatura Distrettuale dello Stato, legalmente domiciliato in VIA (…), FIRENZE presso l’AVVOCATURA DISTRETTUALE DI FIRENZE

CONVENUTO

CONCISA ESPOSIZIONE DELLE RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE

Con atto di citazione ritualmente notificato Se.Si. e Ma.Lu. hanno chiesto il risarcimento dei danni subiti iure proprio in qualità rispettivamente di madre e fratello di Ma.Si. in ordine all’infortunio mortale in cui questi era rimasto coinvolto il 28.1.2003.

In particolare parte attrice ha rappresentato che in tale data un autoarticolato, condotto da tale Al.Br., composto da un trattore e da un semirimorchio-cisterna contenente un carico di gas propano, era uscito di strada ad Arezzo, lungo la Strada Statale n. 73, finendo nove metri al di sotto del livello stradale, sul greto del torrente Ce.. Sul posto era giunta pertanto una squadra di uomini e mezzi dei Vigili del Fuoco del Comando Provinciale di Arezzo, oltre ad un’ambulanza con medico a bordo e una pattuglia dei Carabinieri della Stazione di Palazzo del Pero. Il conducente del TIR, Al.Br., era stato sbalzato dal veicolo ed il medico dell’ambulanza intervenuta, dott. Gi.Sg., aveva diagnosticato un trauma alla colonna vertebrale, per cui aveva consigliato che lo stesso venisse trasportato in modo da rimanere il più possibile in posizione orizzontale. Il caposquadra dei Vigili del Fuoco, Ca.Si., aveva così deciso di calare, con il braccio telescopico dell’autogru giunta sul posto, il vigile Si.Ma., assegnandogli il ruolo di portare con sé una barella di tipo toboga, di imbracare il ferito e proteggerlo nella risalita. Una volta che Si.Ma. era stato calato nel vuoto, tuttavia, il cavo dell’autogru, cui lo stesso era agganciato, si era spezzato ed il bozzello che lo sovrastava lo aveva raggiunto colpendolo violentemente sulla testa e causandone la morte immediata. Gli altri Vigili del Fuoco a quel punto avevano imbracato Si.Ma. nella stessa barella destinata all’autista del TIR e lo avevano trasportato a braccia sulla strada, risalendo a piedi la scarpata. Anche il conducente dell’autoarticolato, infine, era stato portato a braccia dai Vigili del Fuoco seguendo il percorso del fiume, ossia la stradella bianca che si ricongiungeva alla sede stradale.

In diritto parte attrice ha innanzitutto rilevato che al Ministero convenuto deve essere attribuita la responsabilità di quanto accaduto ai sensi dell’art. 2087 c.c. in virtù del quale il datore di lavoro ha l’onere di adottare le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica dei propri dipendenti. In particolare parte attrice ha dedotto che all’epoca dei fatti, in tema di tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori, vigeva il Dlgs n. 626/1994, il cui art. 1 comma 2 prevedeva che, nei riguardi delle forze armate e di polizia, dei servizi di protezione civile, ecc., la disciplina normativa era da applicare tenendo conto delle particolari esigenze connesse al servizio espletato, individuate con decreto del Ministro dell’Interno n. 450 del 14.6.1999.

Alla luce di tale normativa, parte attrice ha individuato un primo profilo di responsabilità nelle condizioni dell’autogru utilizzata per l’intervento.

Nell’ambito del procedimento penale svoltosi davanti al Tribunale di Arezzo, le relazioni peritali del consulente del gip e del gup, Ing. Fa.Ca., e del consulente nominato in sede dibattimentale, Ing. St.Ce., avrebbero infatti attestato la pericolosità intrinseca del mezzo, in virtù dell’inefficienza del dispositivo di fine corsa di sollevamento del bozzello. Il Ministero degli Interni, pertanto, avrebbe utilizzato un mezzo privo dei requisiti imposti ex lege, in grado di provocare danni a chi lo utilizza. Così facendo sarebbe venuto meno all’obbligo sancito dall’art. 35 Dlgs 626/1994, come modificato dal Dlgs 359/1999 di porre a disposizione dei lavoratori strumenti ed attrezzature idonei ai fini della sicurezza. Secondo le argomentazioni di parte attrice, eventuali concorrenti profili colposi addebitabili al fabbricante o al fornitore dei macchinari messi a disposizione dei lavoratori, non eliderebbero il nesso causale tra la condotta del datore di lavoro e l’evento lesivo in danno del lavoratore. Inoltre non assumerebbe alcun rilievo la circostanza che nel corso del procedimento penale sia stato accertato che né le verifiche interne programmate, né le revisioni periodiche eseguite dalla USL sarebbero comunque state inidonee a rilevare il malfunzionamento che ha causato il sinistro, proprio perché queste non esaurivano le iniziative che il datore di lavoro avrebbe dovuto intraprendere prima di rendere disponibile l’autogrù ai propri dipendenti. A tal riguardo parte attrice ha rappresentato che, nonostante detto mezzo fosse stato in dotazione al Comando Provinciale di Arezzo fin dal 1982, da allora non erano mai state effettuate verifiche complete sullo stesso, volte ad individuare eventuali carenze occulte del mezzo, non rilevabili a vista o nell’uso quotidiano.

Parte attrice ha poi rappresentato che il manuale d’uso della macchina non prevedeva l’utilizzo della stessa per movimentare le persone e, ai sensi dell’art. 184 D.P.R. n. 547/1955, il sollevamento delle persone poteva essere effettuato solo in casi eccezionali e purché fossero prese adeguate misure in materia di sicurezza, con il controllo appropriato dei mezzi impiegati e la registrazione di tale controllo.

Oltre a tali profili di responsabilità secondo la difesa di parte attrice, la colpa del datore di lavoro sarebbe riscontrabile anche nella tipologia di intervento prescelto.

L’ordine impartito a Si.Ma. di calarsi dal braccio dell’autogru per recuperare il ferito avrebbe rappresentato una procedura scellerata, non regolamentata in alcun protocollo, né come tecnica speleo alpino fluviale, né come procedura operativa standard. Inoltre tale scelta, secondo parte attrice, non sarebbe stata legittimata neppure dall’urgenza, in quanto non vi sarebbe stata alcuna fretta di intervenire visto che l’autobotte era stata messa in sicurezza e la persona da soccorrere non era in pericolo di vita. In realtà vi sarebbero stati quantomeno due percorsi alternativi, ossia quello di risalire a piedi la scarpata utilizzando il camminatoio creato dalla fuoriuscita dell’autoarticolato dalla sede stradale, oppure quello di percorrere a piedi la stradella bianca che scendeva lungo l’argine del fiume Ce., poi di fatto utilizzata per trasportare il conducente del TIR. L’ordine impartito dal Caposquadra Ca. sarebbe stato dunque errato e su costui doveva gravare la conseguente responsabilità.

In merito alla tipologia di danni risarcibili, parte attrice ha chiesto innanzitutto la liquidazione del danno da perdita del vincolo parentale subito sia dalla madre, che dal fratello di Si.Ma., rappresentando che la morte del loro congiunto avrebbe determinato un’alterazione anche nelle relazioni tra i superstiti e di questi ultimi nei confronti della comunità. Inoltre esclusivamente in relazione a Se.Si. è stata chiesta la liquidazione anche del danno biologico subito a causa di tale evento traumatico. La donna, infatti, a causa di tale incidente, aveva dovuto porsi in cura presso uno specialista in psichiatria nonché psicoterapeuta e, a seguito di varie visite, le era stato diagnosticato un disturbo post traumatico da stress ad andamento cronico che aveva profondamente invalidato la sua qualità di vita.

Il Ministero dell’Interno si è costituito in giudizio eccependo innanzitutto l’inammissibilità della domanda di parte attrice alla luce dell’art. 652 cpp, rilevando come in merito alla medesima vicenda fosse già intervenuta una sentenza irrevocabile di assoluzione nei confronti del Comandante dei Vigili del Fuoco di Arezzo Fr.Si., dell’autista e manovratore dell’autogru Vi.Le. e del responsabile della manutenzione ordinaria degli automezzi Ma.Co.. Stante la costituzione di parte civile di Se.Si. e Ma.Lu. all’interno di detto processo penale, svoltosi davanti al Tribunale di Arezzo, secondo parte convenuta nel caso di specie opererebbe la preclusione al giudizio civile a favore del datore di lavoro che non ha preso parte al giudizio penale per non essere stato citato o per non essere intervenuto.

Nel merito, riguardo alla pericolosità intrinseca del mezzo utilizzato, quale profilo di inadempimento rispetto a quanto previsto dall’art. 2087 cc, parte convenuta ha rilevato che l’obbligo di mantenere in sicurezza i sistemi di funzionamento della autogrù deve essere valutato in concreto ed esiste nel momento in cui il fattore di rischio che caratterizza le attrezzature di lavoro sia riconoscibile e prevenibile con le conoscenze tecniche di cui dispone il datore di lavoro. Nel caso di specie, anche sulla base di quanto accertato nel corso del procedimento penale, invece, il rischio derivante dal malfunzionamento del dispositivo di fine corsa non sarebbe stato prevedibile, in quanto tale dispositivo era protetto da un carter di alloggiamento che non poteva essere rimosso perché la sua rimozione ed il controllo all’interno del dispositivo non erano previsti né dalla legge, né dal manuale tecnico di utilizzo della gru. Anzi tale attività sarebbe stata addirittura non dovuta e vietata per il personale non autorizzato e non dotato della necessaria competenza tecnica.

Su tale punto la sentenza n. 170/2007 del GUP presso il Tribunale di Arezzo di non luogo a procedere nei confronti di Co.Ma., quale addetto alla manutenzione ordinaria del mezzo, avrebbe riconosciuto che egli non doveva occuparsi dei controlli inerenti al dispositivo di bloccaggio.

Relativamente all’altro imputato Si.Fr., nella sentenza n. 367/2009 del Tribunale di Arezzo era stato affermato che le condizioni del meccanismo di fine corsa che aveva mal funzionato non sarebbero state normalmente ispezionabili se non previa rimozione del carterino di protezione ed il perito aveva affermato che non vi sarebbe stato modo per Si.Fr. di avvedersi del malfunzionamento.

A conferma che la pericolosità del mezzo non era conosciuta, parte convenuta ha poi affermato che tale autogru era stata utilizzata fin dal 1982 senza mai far sorgere dubbi sul corretto funzionamento del meccanismo di arresto automatico di salita del bozzello, che nel mese di gennaio del 2003 quel mezzo era già stato utilizzato sette volte, che nell’ultima settimana lo stesso era stato utilizzato per il recupero di un’autovettura e di una trattrice con rimorchio, ossia carichi sicuramente maggiori rispetto al peso di Si.Ma., e che in tali operazioni il dispositivo di sicurezza aveva correttamente funzionato.

Secondo le argomentazione del Ministero dell’Interno, inoltre, il vasto utilizzo su tutto il territorio nazionale di automezzi analoghi a quello in questione testimoniava l’alta fiducia riposta d agli operatori del mestiere sull’efficienza e sulla sicurezza del mezzo. Pertanto il Ministero non sarebbe stato in grado, al momento della scelta del mezzo, né successivamente, di individuare e di risolvere il problema del malfunzionamento del dispositivo di fine corsa, perché caratterizzato da una sostanziale aleatorietà non conosciuta, né conoscibile secondo la comune esperienza nell’ambito di lavoro dei Vigili del Fuoco.

La difesa di parte convenuta ha rappresentato inoltre che, stanti gli accertamenti tecnici svolti in sede penale, la problematica relativa al dispositivo di fine corsa fuoriuscirebbe dalle competenze del Comando dei Vigili del Fuoco e rientrerebbe invece in quelle del fabbricante e che trattandosi di un vizio occulto sarebbe stato impossibile per il datore di lavoro accertarlo.

In merito alla lamentata violazione dell’art. 35, comma 3, lett. c) bis Dlgs 626/1994 introdotta con Dlgs 359/1999 il Ministero ha osservato che tale norma prescrive obblighi in capo al datore di lavoro al momento della scelta delle attrezzature di lavoro e l’autogru utilizzata era stata acquistata prima del 1999 e pertanto nessuna violazione era imputabile al Ministero.

Il Ministero ha poi rilevato che l’uso dell’autogrù per sollevare le persone sarebbe stato consentito ai sensi dell’art. 184 del D.P.R. 547/1995, in quanto detta norma prevede tale possibilità in casi eccezionali, quale era sicuramente quello in cui i Vigili del Fuoco stavano operando e purché venissero prese efficaci misure in materia di sicurezza, obbligo che sarebbe stato rispettato in quanto Ma.Si. era stato dotato di una idonea imbracatura di sicurezza collegata a mezzo di fettuce al gancio sottostante il bozzolo.

Parte convenuta ha inoltre osservato che l’unico obbligo di sicurezza che non e ra stato soddisfatto era quello di revisione periodica dell’autogru, revisione che la USL doveva eseguire annualmente in qualità di unico soggetto a ciò preposto dalla legge e che, invece, era stata effettuata l’ultima volta soltanto nel febbraio 2000, quindi quasi tre anni prima dell’evento. Tuttavia il Ministero ha rilevato che in sede penale anche tale profilo era stato affrontato ed il giudice del dibattimento aveva accertato che l’omissione di tale controllo non aveva avuto alcuna incidenza causale nel la verificazione dell’infortunio mortale. Ciò in quanto in ogni caso si sarebbe trattato soltanto di un controllo esteriore del mezzo, senza procedere allo smontaggio delle sue parti, e pertanto non avrebbe in alcun modo modificato l’esito degli eventi.

Il Ministero ha contestato poi anche l’altro profilo di responsabilità datoriale rappresentato da parte attrice, ossia l’adozione di una procedura di soccorso del tutto errata, richiamando anche in questo caso gli accertamenti compiuti in sede penale. Il medico intervenuto per primo, infatti, aveva sostenuto che, visti i traumi riportati dall’autotrasportatore, la tipologia di soccorso più consona sarebbe stata quella di trasportarlo con l’autogrù, in modo da mantenere il traumatizzato in posizione orizzontale senza sottoporlo ad ulteriori ed eccessivi scossoni nella fase della risalita. Far risalire il traumatizzato a braccio per la scarpata avrebbe aggravato lo stato fisico dell’uomo, mentre l’intervento dell’elicottero sarebbero stato materialmente più difficile da attuare vista l’impervietà dei luoghi.

La difesa di parte convenuta ha poi contestato anche la quantificazione del danno da perdita del rapporto parentale operata da controparte facendo riferimento ai valori massimi stabiliti dalle Tabelle di Milano senza tuttavia argomentare tale esigenza ed ha ritenuto insussistente il danno biologico lamentato da Se.Si..

All’udienza del 18.1.2018 su richiesta di entrambe le parti sono stati concessi i termini di cui all’art. 183 comma 6 c.p.c. e la causa è stata rinviata al 6.12.2018. A scioglimento della riserva assunta in tale udienza, con ordinanza del 10.2.2019, è stata disposta la ctu psichiatrica – psicologica sulla persona di Se.Si. e la causa è stata rinviata al 12.3.2019. In tale sede, con ferito l’incarico al consulente tecnico, il processo è stato rinviato al 17.10.2019. A detta udienza entrambi i difensori hanno chiesto la fissazione dell’udienza di precisazione delle conclusioni. A tal fine è stata dunque fissata l’udienza del 17.2.2020, alla quale le parti hanno precisato le conclusioni e la causa è stata trattenuta in decisione con la concessione dei termini ai sensi dell’art. 190 c.p.c..

La domanda di parte attrice è fondata e deve essere accolta per i seguenti motivi.

Innanzitutto, occorre analizzare l’eccezione di inammissibilità della domanda ai sensi dell’art. 652 cpp sollevata da parte convenuta. Tale norma non sancisce alcun automatismo tra la sentenza penale irrevocabile di assoluzione emessa con le formule “perché il fatto non sussiste” o “per non aver commesso il fatto” e l’esito del giudizio di responsabilità civile. Al contrario il giudicato penale deve essere valutato caso per caso tenendo conto dell’effettivo accertamento contenuto nella sentenza di assoluzione.

Nel caso di specie, mentre il processo penale ha avuto ad oggetto le specifiche condotte tenute rispettivamente dal Comandante dei Vigili del Fuoco di Arezzo Fr.Si., dall’autista e manovratore dell’autogrù Vi.Le. e dal responsabile della manutenzione ordinaria degli automezzi Ma.Co., nel presente giudizio parte attrice ha chiesto in via principale di accertare la responsabilità del Ministero dell’Interno quale datore di lavoro del Vigile del Fuoco Si.Ma., non per fatto dei propri dipendenti, bensì per fatto ad esso stesso addebitabile, ossia per aver messo a disposizione del proprio lavoratore un mezzo difettoso, la cui intrinseca pericolosità risulta essere emersa anche nel corso del procedimento penale.

Sotto tale profilo la domanda risulta dunque pienamente ammissibile e non può trovare applicazione il disposto di cui all’art. 652 cpp.

Allo stesso modo risulta ammissibile anche la domanda di parte attrice volta ad ottenere l’accertamento della responsabilità del Ministero degli Interni in virtù della tipologia di intervento prescelto. Sotto tale punto di vista il Ministero degli Interni sarebbe chiamato a rispondere non per fatto proprio, ma dei propri dipendenti e sebbene all’interno del giudizio penale tale profilo di responsabilità sia stato analizzato e il giudice abbia ritenuto impraticabili eventuali altri percorsi, nella sentenza n. 367/2009 del Tribunale di Arezzo, è stato espressamente affermato che eventuali profili di indebito utilizzo dell’autogru potevano essere fatti ricadere esclusivamente sul caposquadra e non sul soggetto al quale erano stati addebitati in imputazione. Per tale motivo, non essendo stata emessa detta sentenza anche nei confronti dell’unico soggetto eventualmente responsabile per la tipologia di intervento prescelto, nessuna efficacia di giudicato può produrre la sentenza di assoluzione sopra richiamata all’interno del presente processo e pertanto l’eccezione di parte convenuta risulta infondata.

Tanto chiarito, occorre analizzare il primo profilo di responsabilità lamentato da parte attrice, ossia la pericolosità intrinseca dell’autogru messa a disposizione dal Ministero degli Interni.

A tal riguardo occorre innanzitutto osservare che entrambe le difese nei propri scritti difensivi hanno richiamato ed utilizzato le risultanze delle due perizie svolte all’interno del processo penale, quella dell’Ing. Fa.Ca. e quella dell’Ing. St.Ce.. Tali elaboratori, le cui conclusioni non sono state contestate né dagli attori, né dal convenuto, potranno dunque essere posti a fondamento della presente decisione.

In particolare, alle pagine 3 e 4 del proprio elaborato l’Ing. Ce. ha chiarito innanzitutto come funzionasse il dispositivo di finecorsa di cui era dotata l’autogrù (…), targata (…) utilizzata nell’intervento del 28.1.2003. Tale dispositivo era costituito da un microinterruttore fissato mediante due viti direttamente sul braccio della gru e doveva essere azionato da un bilanciere che gli veniva spinto contro da due molle a trazione. Nel momento in cui il bilanciere schiacciava il pulsante del microinterruttore veniva inibita la salita del bozzello e lo sfilamento del braccio. Il bilanciere era tenuto lontano dal microinterruttore tramite un contrappeso infilato in una fune di sollevamento e solo quando il bozzello nella sua risalita andava a sollevare il contrappeso, il bilanciere, non più trattenuto, avrebbe dovuto schiacciare il pulsante sotto l’effetto delle due molle.

Ebbene, secondo quanto affermato dal perito con un dispositivo così concepito non si aveva alcuna certezza sul suo funzionamento in quanto un qualunque malfunzionamento del finecorsa, sia meccanico che elettrico, di una qualunque delle varie componenti, avrebbe prodotto l’effetto di non bloccare la salita del bozzello come avvenuto nel caso di specie. L’ing. Ce. ha poi affermato che “all’epoca in cui si sono verificati i fatti un simile dispositivo non poteva essere montato sull’autogrù; ma doveva essere sostituito da un dispositivo che garantisse la sicurezza anche in condizioni di guasto. Il finecorsa avrebbe dovuto funzionare esattamente al contrario di quello installato. Ciò avrebbe dovuto consentire il funzionamento dell’autogrù solamente quando azionato e bloccarla per qualunque malfunzionamento potesse verificarsi”.

Alla luce di tale elaborato emerge dunque come il dispositivo di fine corsa di cui era dotata l’autogrù oggetto di causa fosse intrinsecamente pericoloso e, inoltre, è risultato pacifico che l’incidente fosse stato cagionato proprio dal suo mancato funzionamento.

Ebbene, ai sensi dell’art. 2087 c.c. il datore di lavoro è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. Tale disposizione rappresenta la norma di chiusura del sistema di prevenzione, operante anche in assenza di specifiche regole di esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, al fine di sanzionare l’omessa predisposizione di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di venire a conoscenza e di indagare sull’esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico (cfr. Cass. n. 24742/2018).

Nel caso di specie, oltre a tale disposizione, viene anche in rilievo il disposto dell’art. 35 Dlgs n. 626/1994, così come modificato dal Dlgs n. 359/1999, vigente all’epoca dei fatti. Se è pur vero infatti che il comma 3 lett. c bis), introdotto a seguito di tale modifica legislativa, prescriveva obblighi in capo al datore di lavoro al momento della scelta delle attrezzature di lavoro e l’autogru utilizzata era stata acquistata prima del 1999, è altrettanto vero che il successivo comma 4 della medesima norma stabiliva espressamente che “il datore di lavoro prende le misure necessarie affinché le attrezzature di lavoro siano.. .. oggetto di idonea manutenzione al fine di garantire nel tempo la rispondenza ai requisiti di cui all’art. 36 e siano corredate, ove necessario, da apposite istruzioni d’uso”. Così come il comma 4 quater stabiliva che “il datore di lavoro, sulla base della normativa vigente, provvede affinché le attrezzature di cui all’allegato XIV siano sottoposte a verifiche di prima installazione o di successiva installazione e a verifiche periodiche o eccezionali, di seguito denominate “verifiche”, al fine di assicurarne l’installazione corretta e il buon funzionamento” e tra le attrezzature indicate nell’allegato XIV vi erano anche le gru e gli apparecchi di sollevamento di portata 200 kg.

Ebbene, alla luce di tali disposizioni, occorre innanzitutto osservare che nessun rilievo hanno le argomentazioni utilizzate dalla difesa del convenuto relativamente agli accertamenti contenuti nelle sentenze penali passate in giudicato, al fine di escludere la propria responsabilità.

A tal riguardo, come già chiarito, quanto accertato in sede penale riguarda esclusivamente i profili di responsabilità addebitabili ai soggetti imputati e non ogni altra omissione e conseguente responsabilità gravante sul datore di lavoro che ha messo a disposizione dei propri lavoratori un mezzo intrinsecamente pericoloso.

Non assumono dunque alcun rilievo in questa sede innanzitutto le argomentazioni spese dal GUP presso il Tribunale di Arezzo nella sentenza di assoluzione di Co.Ma.. Il GUP ha infatti accertato soltanto che a tale soggetto erano assegnate le mansioni di seguire il settore dell’officina interna, la manutenzione, gestione e dislocazione degli automezzi; il settore delle verifiche periodiche degli automezzi e dei materiali tecnici; e che non rientrava nelle sue competenze l’occuparsi di quel dispositivo, raffinato e delicato, che proprio per tale motivo era stato protetto da possibili manomissioni ed era dotato di un carterino di protezione. Tuttavia, la circostanza che tra le attività di manutenzione ordinaria esigibili dal Vigile del Fuoco Co.Ma. non rientrasse quella di verificare il corretto funzionamento di tale dispositivo, non esclude che il Ministero degli Interni, nella propria qualità di datore di lavoro, non fosse gravato da tale obbligo in virtù della normativa sopra richiamata.

Analogo ragionamento vale per quanto affermato dal Tribunale di Arezzo nella sentenza n. 367/2009, relativamente all’imputato Si.Fr., in qualità di Comandante dei Vigili del Fuoco di Arezzo. Anche l’accertamento contenuto in tale provvedimento infatti è limitato all’esigibilità di un efficace manutenzione del dispositivo di sicurezza di fine corsa esclusivamente in capo all’imputato. Occorre pertanto affermare ancora una volta che l’accertamento della inesigibilità di tale condotta da parte del Comandante dei Vigili del Fuoco di Arezzo, non esonera il Ministero degli Interni, nella propria veste di datore di lavoro, dall’obbligo di compiere o segnalare la necessità di compiere agli organi a ciò preposti tutti i necessari accertamenti, prima di mettere a disposizione dei propri dipendenti un mezzo.

Entrambi i periti, infatti, si sono limitati ad affermare che il malfunzionamento non poteva essere notato se non togliendo il carter di alloggiamento, ma non che nessuno fosse tenuto ad effettuare tale tipologia di controllo.

Neppure assumono rilievo le argomentazioni per cui la revisione periodica dell’autogrù ad opera della USL, seppur omessa, non avrebbe modificato in alcun modo l’esito degli eventi. In quanto se è pur vero che tale controllo meramente “a vista” non avrebbe permesso di riscontrare la difettosità del dispositivo di fine corsa, protetto da un carter e quindi non visibile sulla base di una semplice ispezione esterna, non è in alcun modo concepibile che un automezzo come quello di cui è causa, in dotazione al Comando dei Vigili del Fuoco dal 1982, non fosse soggetto anche ad altri e più pregnanti obblighi di revisione e manutenzione, che se correttamente eseguiti avrebbero permesso di individuare e correggere l’intrinseca pericolosità del dispositivo.

Analogamente non appare dirimente la circostanza che fino al 28.1.2003 nessuna autogru analoga a quella coinvolta nel sinistro avesse manifestato problemi. Il corretto funzionamento del dispositivo di fine corsa del mezzo non poteva infatti essere rimesso alla aleatorietà, come affermato da parte convenuta, bensì doveva essere oggetto di controlli e manutenzioni, che avrebbero permesso di rilevarne la pericolosità, come accaduto attraverso la perizia eseguita durante il dibattimento nel processo penale.

Oltretutto, la circostanza risultante dalla perizia dell’Ing. Ce. che dopo il sinistro per cui è causa, su di un’autogrù analoga, utilizzata dal Comando dei Vigili del Fuoco di Grosseto, fosse stata apportata una modifica del dispositivo di fine corsa, rappresenta la dimostrazione che l’errato funzionamento di tale dispositivo non solo fosse riscontrabile, ma anche correggibile, al fine di evitare incidenti analoghi a quello accorso a Si.Ma..

In definitiva, nell’ambito del processo penale è emersa, da un lato, l’intrinseca pericolosità del mezzo fornito dal Ministero degli Interni che non offriva le minime garanzie di sicurezza e, dall’altro, che la difettosità del dispositivo di fine corsa fosse sia prevenibile, che evitabile, stanti gli interventi correttivi operati su un’autogrù analoga in seguito al sinistro del 28.1.2003.

A tal riguardo, se è pur vero che in astratto può ritenersi sussistente una responsabilità del fabbricante, il quale avrebbe dovuto fornire un dispositivo di fine corsa che funzionasse al contrario, dall’altro lato, sarebbe stato onere del Ministero degli Interni convenuto ai sensi degli art. 2087 e 1218 c.c. provare di aver correttamente adempiuto all’obbligazione su di lui gravante, non solo richiamando quanto accertato in sede penale, ma dimostrando che ogni attività di controllo e di manutenzione del mezzo, anche di competenza di soggetti diversi rispetto a quelli imputati nel procedimento penale, fosse stato effettuato.

Anche la giurisprudenza di legittimità ha infatti affermato che “in tema di responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c., posto che, ai fini del superamento della presunzione di cui all’art. 1218 c.c., grava sul datore di lavoro l’onere di dimostrare di aver rispettato le norme specificamente stabilite in relazione all’attività svolta, e di aver adottato tutte le misure che, in considerazione della peculiarità dell’attività e tenuto conto dello stato della tecnica, siano necessarie per tutelare l’integrità del lavoratore, vigilando altresì sulla loro osservanza, il vizio strutturale del macchinario, quale fatto liberatorio, non può prescindere dalla prova circostanziata, da parte del datore di lavoro, dell’assolvimento dei suddetti obblighi di protezione specifici” (cfr. Cass. n. 14468/2017).

Nel presente giudizio, infatti, è stato pacificamente accertato, e non contestato da parte convenuta, che il sinistro del 28.1.2003 era stato causato dal mancato funzionamento del dispositivo di fine corsa. Risulta inoltre sussistente il nesso di causalità tra l’omesso controllo del corretto funzionamento di tale dispositivo e la morte di Si.Ma., in quanto se questo fosse stato oggetto di controllo, sarebbe stato immediatamente accertato che un simile dispositivo non poteva essere montato sull’autogrù e sarebbe stata adottata una modifica in modo che il finecorsa funzionasse esattamente al contrario di come invece operava, ossia consentendo il funzionamento dell’autogrù solamente quando azionato. A conferma di ciò occorre osservare, come emerso nella perizia dell’Ing. Ce. e già rilevato, che una tale modifica di fatto era stata effettuata su di un mezzo analogo a quello oggetto di causa proprio in seguito al sinistro.

Al contrario, invece, non è stata fornita alcuna prova da parte del Ministero convenuto circa il corretto collaudo prima e i controlli di conformità poi del dispositivo di fine corsa di cui era dotata l’autogrù in questione, essendosi limitato il Ministero degli Interni a contestare la domanda di part e attrice richiamando le statuizioni del processo penale.

Tuttavia proprio all’interno della sentenza n. 367/2009 del Tribunale di Arezzo è stato accertato che nessuna delle attività previste dalla normativa di riferimento è stata svolta nel termine di legge previsto dalla “direttiva macchine”, con riferimento al dispositivo di fine corsa dell’autogrù costruita nel 1982.

Come infatti evidenziato all’interno della predetta sentenza, per i mezzi già immessi sul mercato muniti della marcatura CE alla data dell’entrata in vigore dell’art. 35, comma 3 let. c-bis) Dlgs 626/1994, in virtù del Dlgs n. 359/1999, l’art. 7 del D.P.R. n. 459/1996 dispone che i controlli della conformità ai requisiti essenziali di sicurezza di cui all’Allegato 1 siano operati dal Ministero dell’Industria, del commercio e dell’artigianato e dal Ministero del lavoro e della previdenza sociale attraverso i propri organi ispettivi in coordinamento permanente tra loro. Al successivo comma 3 della medesima norma è poi previsto che qualora gli organismi di vigilanza competenti per la prevenzione e la sicurezza accertino la non conformità di una macchina o di un componente di sicurezza ai requisiti essenziali di sicurezza di cui all’Allegato 1, ne devono dare immediata comunicazione al Ministero dell’industria, del commercio e dell’artigianato e al Ministero del lavoro e della previdenza sociale. Inoltre il regolamento di attuazione della “direttiva macchine” (“Linee guida e modalità operative per l’applicazione del Dlgs n. 626/1994 in relazione alla emanazione del D.P.R. n. 459/1996) indica le attività da adottare per le ipotesi in cui i servizi delle Aziende USL trovino macchine che presentino situazioni di rischio grave ed immediato, anche con riferimento alle c.d. carenze occulte, indicate a titolo di esempio, come le carenze progettuali non rilevabili da un semplice esame visivo e dall’uso quotidiano della macchina).

Ebbene, il giudice del dibattimento ha avuto modo di accertare come nessuna delle attività previste dalla normativa di riferimento sia stata svolta nel termine di legge.

A quanto emerso in sede penale deve aggiungersi che nel presente giudizio il Ministero degli Interni non ha ad ogni modo fornito la prova non solo di aver compiuto tutti gli accertamenti previsti dalla normativa in vigore, ma neppure di aver provveduto a segnalare la necessità di compiere accertamenti agli organi a ciò preposti. Obbligo che sicuramente gravava sul convenuto tenuto oltretutto conto del fatto che, se è pur vero che ai sensi dell’art. 184 D.P.R. n. 547/1955 il sollevamento di persone in casi eccezionali può essere effettuato anche con attrezzature non previste a tal fine, ciò può avvenire solo laddove siano state prese adeguate misure in materie di sicurezza. Tra tali misure, per espressa previsione normativa, non si fa riferimento all’eventuale utilizzo di imbracature come sostenuto da parte convenute, bensì alla necessità che i mezzi utilizzati, seppur eccezionalmente a tale scopo, conformemente alle disposizioni di buona tecnica, non solo siano sottoposti a controlli appropriati, ma anche che tali controlli siano registrati.

Anche sotto tale punto di vista, il Ministero convenuto non ha fornito alcuna prova.

Pertanto, alla luce di tutti gli elementi sopra richiamati, si ritiene che nel caso di specie sussista la responsabilità del Ministero degli Interni, quale datore di lavoro di Si.Ma., in ordine all’infortunio mortale a lui occorso il 28.1.2003, per avere messo a disposizione del proprio dipendente un mezzo intrinsecamente pericoloso, omettendo di compiere i doverosi e indispensabili controlli sul medesimo, mezzo, oltretutto, potenzialmente destinato, seppure in casi eccezionali, al sollevamento di persone.

Il profilo di responsabilità del Ministero degli Interni sopra analizzato è tale da assorbire anche l’altro invocato da parte attrice e relativo alla tipologia di intervento prescelto. Sulla base di quanto sopra accertato, infatti, l’evento mortale è stato causato dal difetto del dispositivo di fine corsa di cui era dotata l’autogrù in questione. La scelta del caposquadra di utilizzare tale macchinario per calare Si.Ma. assieme alla barella al fine di soccorrere il ferito non era infatti di per sé vietata. Come sopra accennato, l’autogrù poteva in casi eccezionali, quale quello che si era verificato,essereutiliz0ta per la movimentazione di persone, ma solo a seguito degli indispensabili controlli che il Ministero degli Interni avrebbe dovuto eseguire prima di mettere a disposizione dei propri dipendenti tale mezzo.

Tanto accertato in merito alla sussistenza della responsabilità del Ministero degli Interni, relativamente alla tipologia di danni risarcibili occorre innanzitutto fare riferimento al danno da perdita del rapporto parentale subito sia dalla madre, che dal fratello di Si.Ma..

Per tale si intende infatti il danno di natura non patrimoniale che un soggetto subisce per la morte di una persona cara, a cui era legata da un rapporto di natura familiare o affettiva. Anche recentemente la Corte di Cassazione ha affermato che tale danno si concretizza “nel vuoto costituito dal non potere più godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno e perciò nell’irrimediabile distruzione di un sistema di vita basato sull’affettività, sulla condivisione, sulla rassicurante quotidianità dei rapporti tra moglie e marito, tra madre e figlio, tra fratello e fratello, nel non poter più fare ciò che per anni si è fatto, nonché nell’alterazione che una scomparsa del genere inevitabilmente produce anche nelle relazioni tra i superstiti’ (Cass. n. 9196/2018).

La liquidazione di detto danno non può che essere compiuta in via equitativa, tenendo conto di vari fattori quali l’intensità del vincolo familiare, la presenza o meno di una situazione di convivenza e ogni altra circostanza utile quali la consistenza più o meno ampia del nucleo familiare, le abitudini di vita, l’età della vittima e dei superstiti.

Per quanto riguarda il fratello della vittima, Lu.Ma., questi all’epoca del sinistro aveva 27 anni e pur non convivendo con Si.Ma., all’epoca ventinovenne, è sicuramente presumibile il forte legame che lega due fratelli di età molto ravvicinata. I due inoltre risiedevano comunque all’interno del medesimo Comune e, come emerso dalla consulenza tecnica svolta in corso di causa, frequentemente Si.Ma. si recava nella casa in cui vivevano la madre ed il fratello, avendo uno stabile legame affettivo con entrambi.

Pertanto, tenuto conto del grado di parentela, dell’età della vittima e del congiunto, della non convivenza dei due e degli ulteriori elementi sopra indicati, sulla base delle tabelle elaborate dal Tribunale di Milano e dal Tribunale di Roma ed attualmente vigenti, si ritiene che il danno da perdita del rapporto parentale subito da Lu.Ma. debba essere quantificato in Euro 73.550,25 in moneta attuale.

Per quanto riguarda la madre della vittima, Si.Se., la donna all’epoca dei fatti aveva 47 anni. Questa conviveva con l’altro figlio, Lu.Ma. ed analogamente a quest’ultimo aveva un forte legame con Si.Ma. che, nonostante si fosse sposato nel 2000, vista anche la sua giovane età, si presume avesse ancora uno stretto rapporto con la madre, tenuto conto della frequenza con la quale il Vigile del Fuoco si recava a casa della madre e del fratello, anche in compagnia dei propri colleghi. Dalla consulenza tecnica svolta in corso di causa è inoltre emerso che tra i congiunti della donna, oltre all’altro figlio, vi erano la madre e il compagno, in quanto il marito, nonché padre di Luca e Simone era deceduto per un carcinoma nel 1997.

Tenuto conto dunque del grado di parentela, dell’età della vittima e del congiunto, della non convivenza dei due e degli ulteriori elementi sopra indicati, sulla base delle tabelle elaborate dal Tribunale di Milano e dal Tribunale di Roma ed attualmente vigenti, si ritiene che il danno da perdita del rapporto parentale subito da Se.Si. debba essere quantificato in Euro 132.390,45 in moneta attuale.

In merito al risarcimento del danno biologico richiesto dalla madre di Si.Ma., Se.Si., occorre innanzitutto chiarire che la morte di un prossimo congiunto può causare nei familiari superstiti oltre al danno parentale, sopra analizzato, anche un danno biologico vero e proprio, in presenza di una effettiva compromissione dello stato di salute fisica o psichica di chi lo invoca. I due danni, pertanto, devono essere oggetto di separata considerazione e liquidazione trattandosi di diversi elementi del danno non patrimoniale, senza tuttavia giungere ad alcuna duplicazione risarcitoria.

Al fine di valutare la sussistenza del danno biologico suddetto nel corso del presente giudizio, stante la documentazione medica prodotta, è stata svolta CTU medica all’esito della quale il consulente, dott. Pa.Ci., ha diagnosticato a Se.Si. un disturbo da stress post traumatico cronico, diagnosi condivisa anche dai consulenti tecnici di parte.

Per stabilire la gravità di tale patologia, tenuto conto delle osservazioni mosse dal consulente tecnico del Ministero degli Interni, il ctu ha poi analizzato la possibile presenza di fattori concausali. Dall’analisi di Se.Si. è infatti emerso che nel 1997 aveva subito la perdita del marito a causa di un carcinoma e che poco prima dell’incidente mortale in cui era rimasto coinvolto il figlio, nel dicembre del 2002, il padre della donna era morto per suicidio mediante arma da fuoco. L’uomo era stato operato ad una carotide per ostruzione circolatoria nell’ottobre del 2002 e aveva manifestato dei cambiamenti caratteriali post-operatori. Tuttavia, il ctu sulla base degli elementi raccolti ha avuto modo di riscontrare, con argomentazioni che si ritiene di condividere, come entrambi tali eventi fossero stati superati senza l’insorgere di disturbi psicopatologici che alterassero la vita sociale e lavo rativa della donna e senza che si rendesse necessario il ricorso a consulenze specialistiche e a trattamenti psichiatrici. Al contrario, la morte del figlio Simone era stata vissuta in modo diverso rispetto ai precedenti lutti, a causa della modalità traumatiche ed inaspettate con cui la stessa era avvenuta. Tale evento aveva provocato un rifiuto psicologico all’accettazione e aveva comportato l’insorgenza di una sintomatologia riferibile a disturbo da stress post traumatico, per la cui cura la donna era dovuta ricorrere alle terapie psicofarmacologiche di uno psichiatria e di una psicologa psicoterapeuta.

Inoltre, come rilevato dal ctu a seguito dell’analisi della certificazione rilasciata dallo psichiatra e psicoterapeuta dott. Paolo Serra, la morte traumatica del figlio aveva creato nella Sereni uno stato mentale di sconvolgimento completamente nuovo che in un’occasione l’aveva anche portata a recarsi nei luoghi in cui si era verificato il sinistro, aggirandosi nei dintorni fino ad entrare nel fiume, in uno stato di disperazione e di incompleta padronanza dei propri impulsi.

Alla luce di tali elementi si ritiene di condividere le conclusioni a cui è giunto il ctu, in quanto risulta accertato che i disturbi psichici della donna siano sorti a seguito della morte del figlio e non possano trovare concausa nei due precedenti lutti subiti dalla stessa. La perdita di un figlio, in circostanze oltretutto improvvise e traumatiche durante lo svolgimento della propria attività lavorativa, risulta essere infatti la causa esclusiva del disturbo manifestato da Si.Se., come emerso anche nel corso dei colloqui clinici avuti con il ctu. Mentre dopo la morte del marito avvenuta nel 1997 la donna aveva ripreso a lavorare, in seguito alla scomparsa del figlio questa aveva molto rallentato la propria attività nel suo negozio e vi si era recata soltanto sporadicamente per distrarsi, spronata dall’altro figlio. Nel corso di tali colloqui, pur emergendo anche la morte del padre per suicidio, non risulta che tale evento abbia inciso sulla condizione psicologica della Sereni al punto di degenerare in una patologia, in quanto dai racconti dalla stessa effettuati è stata la morte del figlio ad aver rappresentato un evento imprevisto e insuperabile, tanto da decidere di rivolgersi a degli specialisti su consiglio del proprio medico di famiglia.

Si ritiene dunque di condividere la quantificazione del danno biologico effettuata dal ctu e pari al 12%, in quanto la stessa è stata effettuata conformemente a quanto previsto per il disturbo da stress post traumatico in forma lieve al massimo punteggio secondo le linee guida SIMLA per la determinazione del danno biologico derivante dalla morte di un familiare stretto, avente una portata psicologica molto elevata.

Pertanto, nel caso concreto, tenuto conto del tipo di malattia cagionata, dell’età dell’attrice al momento dei fatti (anni 47), dell’entità dei postumi permanenti, si ritiene liquidabile a titolo di invalidità permanente la somma di Euro 28.625,00 in moneta attuale.

In merito alla richiesta di risarcimento dei danni patrimoniali subiti da Si.Se. in virtù delle spese mediche sostenute, si ritiene che risultino pertinenti e congrue le spese documentate, essendo relative a visite specialistiche e sedute psicoterapeutiche effettuate dalla donna in conseguenza del trauma cagionato dal sinistro. Sulla base della documentazione prodotta risulta quindi risarcibile la somma di Euro 4.025.

L’importo complessivamente dovuto a Si.Se. a titolo di risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale patito a seguito del sinistro in cui ha perso la vita il figlio Si.Ma. risulta essere pari ad Euro 165.040 in moneta attuale.

Tale somma, deve poi essere devalutata alla data dell’evento, ovvero al 28 gennaio 2003, risultando pari ad Euro 131.088. Secondo l’insegnamento della sentenza a Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 1712/1995, su questa somma, rivalutata anno per anno, devono poi essere calcolati gli interessi compensativi nella misura legale fino alla data della presente decisione, per un totale complessivo di Euro 208.307.

Dalla data della sentenza sono dovuti gli interessi al tasso legale sul solo importo liquidato, corrispondente al capitale già rivalutato.

Allo stesso modo l’importo dovuto a Lu.Ma. a titolo di risarcimento del danno da perdita del vincolo parentale, pari ad Euro 73.550,25, deve essere devalutato alla data dell’evento, ammontando così ad Euro 58.326,92. Su tale somma, rivalutata anno per anno, devono poi essere calcolati gli interessi compensativi nella misura legale fino alla data della presente decisione, per un totale complessivo di Euro 92.789,69.

Dalla data della sentenza sono dovuti gli interessi al tasso legale sul solo importo liquidato, corrispondente al capitale già rivalutato.

Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo in base al DM 55/2014, tenuto conto del valore della causa ritenuto in sentenza. Allo stesso modo anche le spese di CTU vengono definitivamente poste a carico di parta convenuta. Il Ministero degli Interni dovrà infine rimborsare altresì le spese sostenute per l’attività prestata dal consulente tecnico di parte attrice dott.ssa El.Co., documentate da parte attrice e pari ad Euro 5.000.

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone:

1) accertata la responsabilità del Ministero degli Interni nella determinazione dell’infortunio mortale occorso a Ma.Si. in data 28.1.2003, condanna il Ministero degli Interni, in persona del Ministro pro tempore, a corrispondere:

– a Ma.Lu., a titolo di risarcimento del danno da perdita del vincolo parentale, la somma di Euro 92.789,69, oltre interessi legali dalla data della sentenza al saldo;

– a Se.Si., a titolo di risarcimento del danno da perdita del vincolo parentale, biologico e patrimoniale, la somma di Euro 208.307,00, oltre interessi legali dalla data della sentenza al saldo;

2) pone definitivamente a carico del Ministero degli Interni le spese di CTU medico legale, come già liquidate in corso di causa;

3) condanna il Ministero degli Interni, in persona del Ministro pro tempore, al pagamento delle spese di lite sostenute da Se.Si. e Ma.Si., che si liquidano in Euro 1.253,93 per spese (contributo unificato, marca e spese notifica), Euro 5.000 per spese di ctp ed Euro 21.387,00 per compensi, oltre i.v.a., c.p.a. e 15% per spese generali.

Così deciso in Firenze il 29 luglio 2020.

Depositata in Cancelleria il 30 luglio 2020.

 

Originally posted 2021-09-04 11:10:39.

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Diapositiva1

La massima

1. La caparra confirmatoria costituisce un contratto che si perfeziona con la consegna che una parte fa all’altra di una somma di danaro o di una determinata quantità di cose fungibili per il caso d’inadempimento delle obbligazioni nascenti da un diverso negozio ad essa collegato (c.d. contratto principale).

2. La caparra (sia confirmatoria che penitenziale) è una clausola che ha lo scopo di rafforzare il vincolo contrattuale; il relativo patto contrattuale ha natura reale, e, come tale, è improduttivo di effetti giuridici ove non si perfezioni con la consegna della relativa somma. Ciò tuttavia non esclude che le parti, nell’ambito della loro autonomia negoziale, possano differire la dazione della caparra in tutto o in parte ad un momento successivo alla conclusione del contratto, come previsto dall’art. 1385, primo comma c.c., purché anteriore alla scadenza delle obbligazioni pattuite. Tale possibilità non comporta tuttavia anche quella di escludere la natura reale del contratto e ad attribuire all’obbligazione della sua prestazione gli effetti che l’art. 1385, 2 comma c.c. ricollega alla sua consegna.

ACASA

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE II

SENTENZA 24 aprile 2013, n.10056

Svolgimento del processo

La Berna Tech srl, con atto ritualmente notificato, proponeva opposizione avverso il decreto ingiuntivo n. 1165/2000 con cui il Tribunale di Monza – sez. distaccata di Desio, le aveva ingiunto il pagamento, in favore della ricorrente srl A.B. System, della somma di L. 161.778.725 oltre accessori, a titolo di caparra confirmatoria prevista nel contratto d’appalto stipulato tra le parti, avente ad oggetto la realizzazione e fornitura di facciate continue, serramenti in alluminio e facciate Forster, contratto che era stato risolto proprio per la mancata corresponsione della caparra in questione. Deduceva la società opponente in specie l’inefficacia e/o nullità del patto relativo alla caparra stante il mancato versamento della somma e la natura reale del patto stesso nonché l’intervenuta risoluzione del contratto per muto consenso e non per inadempimento, per cui non sussistevano i presupposti per la risoluzione o il recesso del contratto. Chiedeva quindi la revoca del decreto opposto, previo accertamento dell’inesistenza e/o inefficacia del patto relativo alla caparra confirmatoria e la declaratoria dell’avvenuta risoluzione del contratto per concorde volontà della parti. In riconvenzionale chiedeva la condanna della srl AB System al pagamento della somma di L. 22.620.000 a saldo della fattura n. …. Instaurato il contraddittorio, la società opposta chiedeva il rigetto dell’opposizione, sostenendo che il mancato versamento della caparra aveva legittimato il suo recesso dal contratto in questione. Previa sospensione della provvisoria esecutorietà del provvedimento monitorio opposto, l’adito tribunale, con sentenza n. 39/04 accoglieva l’opposizione, revocava il decreto ingiuntivo e in accoglimento della riconvenzionale condannava la srl AB System al pagamento in favore dell’opponente della somma di Euro 11.682,00, oltre interessi legali. Il primo giudice, qualificato come appalto il contratto concluso tra le parti e rilevata la natura reale del patto di caparra, osservava che l’inadempimento dell’obbligo di versare la caparra non era così grave da giustificare il venir meno dell’interesse al mantenimento del contratto e il rapporto fiduciario con la Berna Tech.
Avverso tale pronunzia proponeva appello la srl AB System che insisteva in specie sull’erronea qualificazione della natura reale della caparra confirmatoria e della mancanza d’inadempimento ai fini del legittimo recesso dell’appellante, lamentando altresì l’omessa pronuncia sulla domanda di risoluzione contrattuale. Resisteva la Berna Tech che proponeva appello incidentale in punto compensazione delle spese processuali; l’adita Corte d’Appello di Milano, con sentenza n. 2961/06 depos. in data 12.12.2006 rigettava sia l’appello principale che quello incidentale, condannando l’AB System al pagamento delle spese del grado. Secondo la corte, non vi era alcun vizio di omesso esame della domanda di risoluzione, in quanto il tribunale si era implicitamente pronunciato sulla stessa respingendola, ritenendo che l’inadempimento della Brna Tch non era ancora definitivo, trattandosi di un mero ritardo nel versamento dell’acconto e del correlato patto accessorio di caparra. Rilevava tra l’atro che, in mancanza di specifici motivi d’appello circa la cause della risoluzione del contrato per inadempimento, si era formato il giudicato su tale specifico punto. Precisava la Corte che “il mancato versamento della caparra non (poteva) configurare inadempimento…., né una legittima causa di recesso del contratto, ma giustificare un’azione obbligatoria per il versamento di tale importo”.
Per la cassazione di tale pronunzia, ricorre AB System sulla base di 4 mezzi; la società intimata non ha svolto difese.

Motivi delle decisione

1 – Con il primo motivo, la società ricorrente eccepisce il vizio di motivazione ‘per non avere la corte d’appello enunciate le ragioni che l’hanno portata a ritenere valide le argomentazioni del giudice di primo grado in ordine alla questione della natura degli effetti della caparra confirmatoria’. Eccepisce altresì la violazione e falsa applicazione degli artt. 1385, 1322 e 1655 c.c.’ nella parte in cui si è ritenuto non applicabile l’istituto della caparra confirmatoria in mancanza della materiale consegna della corrispondente somma di danaro.

Ritiene pertanto l’esponente che l’accordo circa il versamento della caparra ha efficacia vincolante per le parti anche se la relativa somma non sia stata versata al momento della stipula del contratto.

Il mezzo si conclude con i seguenti quesiti di diritto:

a) ‘se contrattualmente pattuito il versamento di una somma a titolo di caparra confirmatoria, si producano gli effetti di cui all’art. 1385 comma 2 c.c. anche in mancanza di materiale versamento della relativa somma’;

b) ‘se in relazione al disposto di cui all’art. 1655 ult comma c.c. e nel rispetto dell’autonomia contrattuale previsto dall’art. 1322 c.c., possa ritenersi valida ed efficace la pattuizione che pone a carico della parte committente l’onere del versamento di una somma di danaro a titolo di caparra confirmatoria, prima della realizzazione dell’opera da parte dell’appaltatore’. La doglianza è infondata.

Occorre premettere che, la caparra confirmatoria, costituisce un contratto che si perfeziona con la consegna che una parte fa all’altra di una somma di danaro o di una determinata quantità di cose fungibili per il caso d’inadempimento delle obbligazioni nascenti da un diverso negozio ad essa collegato (c.d. contratto principale). La caparra (sia confirmatoria che penitenziale) è dunque, come è noto, una clausola che ha lo scopo di rafforzare il vincolo contrattuale; il relativo patto contrattuale ha natura reale, e, come tale, è improduttivo di effetti giuridici ove non si perfezioni con la consegna della relativa somma (Cass. n. 2870 del 07/06/1978). Ciò tuttavia non esclude che le parti, nell’ambito della loro autonomia negoziale, possano differire la dazione della caparra in tutto o in parte ad un momento successivo alla conclusione del contratto, come previsto dall’art. 1385, primo comma c.c., purché anteriore alla scadenza delle obbligazioni pattuite (Cass. n. 5424 del 14.4.2002; Cass. 3071 del 13.02.2006; Cass. n. 17127 del 9.8.2011). Tale possibilità non comporta tuttavia anche quella di escludere la natura reale del contratto e ad attribuire all’obbligazione della sua prestazione gli effetti che l’art. 1385, 2 comma c.c. ricollega alla sua consegna, che nel caso di specie non è avvenuta. Con tale conclusione resta assorbito l’esame delle ulteriori censure contenute nel motivo.

2- Con il 2 motivo la società denuncia la violazione degli artt. 1655, 1453 e 1455 c.c. ‘nella parte in cui la corte ha ritenuto l’insussistenza dell’inadempimento e della sua gravità’. Assume che dagli elementi acquisiti risultava che la Berna Tech non aveva né intenzione e né possibilità di adempiere al contratto di appalto e che erano pretestuosi i motivi da lei addotti per ritardare il pagamento della caparra, la quale peraltro era economicamente rilevante per la ricorrente, che doveva a sua volta, affrontare altri impegni economici con altre aziende per adempiere agli obblighi scaturenti dal contratto d’appalto stipulato con la controparte.

La doglianza non è fondata, non ravvisandosi i denunciati vizi.

Al riguardo la corte distrettuale ha puntualmente osservato che il recesso era stato fondato sul mancato versamento della caparra e non sul mancato pagamento del prezzo; che inoltre si era formato il giudicato sul rigetto implicito della domanda di risoluzione perché ‘era riscontrabile un mero ritardo nell’adempimento dell’obbligo di versamento dell’acconto e del correlato patto accessorio di caparra’ e che ‘siffatto ritardo non era così grave da giustificare il venir meno dell’interesse al mantenimento del contratto’ avente ad oggetto una fornitura d’ingente valore (quasi un miliardo di lire).

3 – Con il 3 motivo si deduce la violazione dell’art. 342 cpc, nonché il vizio di motivazione ‘per non avere la corte specificato le ragioni per cui ha ritenuto l’esame della domanda di risoluzione precluso dalla formazione del giudicato e ciò nonostante detta domanda sia stata espressamente proposta in grado d’appello e siano state enunciate le ragioni poste a suo fondamento e non accolte in primo grado.

La doglianza non ha pregio ed è inammissibile perché non attiene alla ratio decidendi. La sentenza infatti non ha negato la riproposizione della domanda di risoluzione in grado d’appello, ma ha affermato che, essendosi implicitamente pronunciata su di essa il giudice di primo grado, non era sufficiente riproporre la domanda, ma doveva essere impugnato il rigetto della stessa. Il rigetto di tale motivo comporta anche l’assorbimento del 4 motivo (la violazione e falsa applicazione dell’art. 1385 c.c. nella parte in cui si ritenuta non ammissibile la domanda di risoluzione del contratto).

Il ricorso dev’essere dunque rigettato. Nulla per le spese non avendo l’intimata svolto difese.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso.

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Originally posted 2015-02-10 16:36:18.

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Due casi trattati

 

Nel 2007 mi trovai ad assistere una famiglia che aveva perso il padre in un incidente stradale. Le assicurazioni fanno smepre eccezioni, ovviamente non sono mai favorevoli a un pronto pagamento.

 

Trattandosi di incidente mortale, ho assistiti anche i congiunti nella fase penale quali parti lese  poi quali parti civili.

 

Nel frattempo aprivo la posizione nei confronti dell’assicurazione, per chieder eil risarcimento dei congiunti quale danno morale  e per il rimborso delle spese funerarie.

 

L’assicurazione incominciò a fare una serie di contestazioni infondate, e decisi insieme ai clienti di rivolgermi al tribunale ove l’assicurazione aveva sede, ed era il Tribunale di Milano.

Allora si procedeva con ricorso e chiesi che alla prima udienza fosse liquidata una provvisionale ai sensi art 5 legge 102/2006, e alla prima udienza a favore degli eredi il tribunale liquidò provvisionale di euro quattrocentomila per gli eredi.

 

In pochi giorni l’assicurazione fece una buona offerta per chiuder eil danno complessivo e la posizone fu chiusa con soddisfazione dei clienti.

 

Secondo caso

 

Un giovane era stato investito e aveva riportato lesioni superiori al 50%.

Tentai a lungo una transazione con l’assicurazione fino a che fui costretto a citare l’assicurazione spesso il Tribunale di Trieste che dpo due anni di causa liquidò il danno

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Originally posted 2015-01-21 10:25:17.

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la  Corte Costituzionale, nella richiamata sentenza, individuato quali sono i “trattamenti sanitari”, c.d. invasivi, consentiti, tra cui il prelievo ematico, le modalità previste dall’art. 186 C.d.S., comma 5, per l’accertamento del tasso alcoolemico trovano il loro fondamento nell’art. 32 della Carta Costituzionale, comma 2.

Ciò che può essere opposto – va ribadito- è il rifiuto al controllo; ma la stessa sanzione penale che accompagna tale condotta, sancendone il disvalore, risulta incompatibile con la pretesa di un esplicito consenso al prelievo dei campioni.

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IL FATTO

 

Il Tribunale Monocratico di Treviso, all’esito di giudizio dibattimentale di opposizione a decreto penale di condanna, dichiarava l’imputato responsabile del reato di guida in stato d’ebbrezza di cui alla lettera C dell’art. 186 C.d.S., (valori alcolemici, accertati mediante analisi dei liquidi biologici, di 2,61 g/l), aggravato dall’avere cagionato un incidente stradale e dall’ora notturna (art. 186 C.d.S., commi 2 bis e 2 sexies), commesso in (OMISSIS).

L’imputato veniva condannato in primo grado alla pena di mesi 8 di arresto ed Euro 2.000,00 di ammenda, con la concessione delle attenuanti generiche e conversione in 248 giorni di lavoro di pubblica utilità.

2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia, D.M.F., deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1:

a. VIOLAZIONE DELL’ART. 186 C.d.S. IN RELAZIONE ALL’ART. 606 C.P.P., LETT. B; CARENZA, CONTRADDITTORITA’ E, COMUNQUE, MANIFESTA ILLOGICITA’ DELLA MOTIVAZIONE (ART. 606 C.P.P., LETT. E).

Il ricorrente deduce che i prelievi ematici venivano effettuati su richiesta della P.G. e non, come affermato in sentenza, a fini terapeutici. Infatti, la P.G. inviava alle ore 2.24 del (OMISSIS), a mezzo fax, al Pronto Soccorso una richiesta di accertamenti urgenti sulla persona ex art. 353 c.p.p., prima che l’imputato vi giungesse alle ore 2,52. Il prelievo non sarebbe avvenuto, pertanto, nell’ambito di un protocollo medico attivato dalla struttura sanitaria, ma al solo scopo di accertare la configurabilità del reato di cui all’art. 186 C.d.S., contrariamente a quanto dichiarato dal teste Z..

La corte di appello – ci si duole- avrebbe valorizzato solo alcuni frammenti della deposizione dello Z., che rendeva una testimonianza sostanzialmente contraddittoria, in quanto lo stesso teste successivamente affermava che l’alcolemia era stata fatta su richiesta della Polizia Stradale.

Inoltre la sentenza impugnata avrebbe omesso di considerare come la richiesta di sottoposizione agli accertamenti era stata indirizzata esclusivamente alla Direzione Sanitaria e non fosse mai pervenuta all’imputato, che non ebbe, perciò, a rilasciare alcun consenso all’effettuazione del prelievo.

Inoltre dalla motivazione della sentenza impugnata non risulterebbe che le forze dell’ordine abbiano mai provveduto ad accertare l’identità di colui che era alla guida dell’autovettura, sulla quale permarrebbe una sostanziale incertezza.

b. VIOLAZIONE DEGLI ARTT. 178, 180, 182, 191, 354 E 356 c.p.p. E ART 114 DISP. ATT. C.P.P. (ART. 606 C.P.P., LETT. C); CARENZA, CONTRADDITTORIETA’ E, COMUNQUE, MANIFESTA ILLOGICITA’ DELLA MOTIVAZIONE (ART. 606 c.p.p., LETT. E).

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LA CASSAZIONE

 

Con riguardo alla ipotizzata violazione da parte della disposizione normativa in esame dei principi costituzionali a tutela della libertà personale del cittadino e del suo diritto di rifiuto a sottoporsi ad accertamenti invasivi anche se per finalità di accertamento di reati, possono essere evocati i principi affermati con la sentenza della Corte Costituzionale 238/1996, la quale ebbe a dichiarare l’illegittimità dell’art. 224 c.p.p., comma 2, nella parte in cui consente che il giudice, nell’ambito delle operazioni peritali, disponga misure che comunque incidano sulla libertà personale dell’indagato o dell’imputato o di terzi, al di fuori di quelle specificamente previste nei “casi” e nei “modi” dalla legge”. Principio a maggior ragione valido anche per gli atti di indagine.

Va osservato che i giudici delle leggi giunsero alla pronuncia di illegittimità per arginare l’utilizzo di provvedimenti coercitivi atipici, astrattamente riconducibili alla nozione di “provvedimenti.. necessari per l’esecuzione delle operazioni peritali”, senza che fosse prevista alcuna distinzione tra quelli incidenti e quelli non incidenti sulla libertà personale, così cumulandoli in una disciplina, connotata da assoluta genericità di formulazione e totale carenza di ogni specificazione dei casi e dei modi in presenza dei quali soltanto poteva ritenersi legittima l’esecuzione coattiva di accertamenti peritali mediante l’adozione, a discrezione del giudice, di misure restrittive della libertà personale. Carenza normativa a cui, peraltro, il legislatore ha posto riparo con l’introduzione dell’art. 224 bis c.p.p..

Invero, la stessa Corte, nella motivazione della sentenza sopra ricordata, nel momento in cui censurava la genericità della disciplina del rito penale, ebbe a segnalare come invece, “…. in un diverso contesto, che è quello del nuovo codice della strada (artt. 186 e 187), il legislatore – operando specificamente il bilanciamento tra l’esigenza probatoria di accertamento del reato e la garanzia costituzionale della libertà personale – abbia dettato una disciplina specifica (e settoriale) dell’accertamento (sulla persona del conducente in apparente stato di ebbrezza alcoolica o di assunzione di sostanze stupefacenti) della concentrazione di alcool nell’aria alveolare espirata e del prelievo di campioni di liquidi biologici, (prevedendo bensì in entrambi i casi la possibilità del rifiuto dell’accertamento, ma con la comminatoria di una sanzione penale per tale indisponibilità dei conducente ad offrirsi e cooperare all’acquisizione probatoria); disciplina – questa la cui illegittimità costituzionale è stata recentemente esclusa da questa Corte (sentenza n. 194 del 1996, citata) proprio denegando, tra l’altro, la denunziata violazione dell’art. 13 Cost., comma 2, atteso che la dettagliata normativa di tale accertamento non consente neppure di ipotizzare la violazione della riserva di legge”.

Ne consegue che la stessa Corte Costituzionale ha riconosciuto, nelle due pronunce sopra riportate, la legittimità della disciplina del codice della strada, anche laddove nell’indicare le modalità degli accertamenti tecnici per rilevare lo stato di ebbrezza, non prevede alcun preventivo consenso dell’interessato al prelievo dei campioni. E, dunque, avendo la stessa Corte Costituzionale, nella richiamata sentenza, individuato quali sono i “trattamenti sanitari”, c.d. invasivi, consentiti, tra cui il prelievo ematico, le modalità previste dall’art. 186 C.d.S., comma 5, per l’accertamento del tasso alcoolemico trovano il loro fondamento nell’art. 32 della Carta Costituzionale, comma 2.

Ciò che può essere opposto – va ribadito- è il rifiuto al controllo; ma la stessa sanzione penale che accompagna tale condotta, sancendone il disvalore, risulta incompatibile con la pretesa di un esplicito consenso al prelievo dei campioni.

Nel caso di specie, detto prelievo è stato effettuato nel rispetto delle norme vigenti all’epoca dei fatti (dopo la riforma introdotta dal D.L. n. 151 del 2003, conv. in L. n. 214 del 2003), ai sensi dell’art. 186 C.d.S., comma 5, legittimamente presso il presidio ospedaliero in cui era stato portato per controlli medici, ferito, il D.M..

Per quanto detto, le censure di inutilizzabilità degli accertamenti ospedalieri in relazione alla positività all’alcool dell’imputato sono manifestamente infondate.

8. In ultimo, va rilevato che non può porsi in questa sede la questione di una declaratoria della prescrizione maturata dopo la sentenza d’appello, in considerazione della manifesta infondatezza del ricorso.


 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

 

SEZIONE QUARTA PENALE

 

Sentenza 1 febbraio 2018, n. 4943

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PICCIALLI Patrizia – Presidente –

Dott. NARDIN Maura – Consigliere –

Dott. PEZZELLA Vincenzo – rel. Consigliere –

Dott. CENCI Daniele – Consigliere –

Dott. PICARDI Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA


sul ricorso proposto da:

D.M.F. nato il (OMISSIS);

avverso la sentenza del 12/12/2016 della CORTE DI APPELLO DI VENEZIA;

Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

Udita la relazione svolta da Consigliere Dott. PEZZELLA VINCENZO;

Udite le conclusioni del PG Dott.ssa MIGNOLO OLGA che ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.

Udito il Difensore avv. ALBERTO FENOS del Foro di Pordenone che ha insistito per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo

  1. La Corte di Appello di Venezia, pronunciando nei confronti dell’odierno ricorrente D.M.F., con sentenza del 12/12/2016, in parziale riforma della sentenza del Tribunale Monocratico di Treviso, emessa in data 17/10/2014, appellata dal P.G. e dall’imputato, rideterminava la pena inflitta in mesi 6 di arresto ed Euro 1.400,00 di ammenda, con revoca della conversione della pena in lavoro di p.u., con pena sospesa e non menzione.


Il Tribunale Monocratico di Treviso, all’esito di giudizio dibattimentale di opposizione a decreto penale di condanna, dichiarava l’imputato responsabile del reato di guida in stato d’ebbrezza di cui alla lettera C dell’art. 186 C.d.S., (valori alcolemici, accertati mediante analisi dei liquidi biologici, di 2,61 g/l), aggravato dall’avere cagionato un incidente stradale e dall’ora notturna (art. 186 C.d.S., commi 2 bis e 2 sexies), commesso in (OMISSIS).

L’imputato veniva condannato in primo grado alla pena di mesi 8 di arresto ed Euro 2.000,00 di ammenda, con la concessione delle attenuanti generiche e conversione in 248 giorni di lavoro di pubblica utilità.

2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia, D.M.F., deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1:

a. VIOLAZIONE DELL’ART. 186 C.d.S. IN RELAZIONE ALL’ART. 606 C.P.P., LETT. B; CARENZA, CONTRADDITTORITA’ E, COMUNQUE, MANIFESTA ILLOGICITA’ DELLA MOTIVAZIONE (ART. 606 C.P.P., LETT. E).

Il ricorrente deduce che i prelievi ematici venivano effettuati su richiesta della P.G. e non, come affermato in sentenza, a fini terapeutici. Infatti, la P.G. inviava alle ore 2.24 del (OMISSIS), a mezzo fax, al Pronto Soccorso una richiesta di accertamenti urgenti sulla persona ex art. 353 c.p.p., prima che l’imputato vi giungesse alle ore 2,52. Il prelievo non sarebbe avvenuto, pertanto, nell’ambito di un protocollo medico attivato dalla struttura sanitaria, ma al solo scopo di accertare la configurabilità del reato di cui all’art. 186 C.d.S., contrariamente a quanto dichiarato dal teste Z..

La corte di appello – ci si duole- avrebbe valorizzato solo alcuni frammenti della deposizione dello Z., che rendeva una testimonianza sostanzialmente contraddittoria, in quanto lo stesso teste successivamente affermava che l’alcolemia era stata fatta su richiesta della Polizia Stradale.

Inoltre la sentenza impugnata avrebbe omesso di considerare come la richiesta di sottoposizione agli accertamenti era stata indirizzata esclusivamente alla Direzione Sanitaria e non fosse mai pervenuta all’imputato, che non ebbe, perciò, a rilasciare alcun consenso all’effettuazione del prelievo.

Inoltre dalla motivazione della sentenza impugnata non risulterebbe che le forze dell’ordine abbiano mai provveduto ad accertare l’identità di colui che era alla guida dell’autovettura, sulla quale permarrebbe una sostanziale incertezza.

b. VIOLAZIONE DEGLI ARTT. 178, 180, 182, 191, 354 E 356 c.p.p. E ART 114 DISP. ATT. C.P.P. (ART. 606 C.P.P., LETT. C); CARENZA, CONTRADDITTORIETA’ E, COMUNQUE, MANIFESTA ILLOGICITA’ DELLA MOTIVAZIONE (ART. 606 c.p.p., LETT. E).

Il ricorrente definisce inammissibile la ricostruzione dei fatti operata dai giudici del merito, in quanto gli stessi non avrebbero reso alcuna motivazione sulle ragioni per cui la richiesta inoltrata dalla P.G. all’ospedale, prima che i sanitari procedessero ai prelievi, non costituisca atto di accertamento irripetibile.

Se la verifica del tasso alcolemico richiesta nei confronti di un soggetto ospedalizzato configura un atto investigativo di P.G. effettuato a fronte di un stato di alterazione o di elementi che lasciano intendere l’avvenuta commissione del reato di guida in stato di ebbrezza, il prelievo ematico fatto ai fini dell’accertamento della responsabilità penale non può essere privato delle ordinarie garanzie previste per tutti gli accertamenti urgenti sulla persona, conclude il ricorrente.

c. VIOLAZIONE DELL’ART. 192 C.P.P., ART. 530 C.P.P., COMMI 1 E 2, ARTT. 533 E 546 C.P.P. (ART. 606 C.P.P., LETT. C); CARENZA, CONTRADDITTORIETA’ E. COMUNQUE, MANIFESTA LOGICITA’ DELLA MOTIVAZIONE (ART. 606 C.P.P., LETT. E).

Con il terzo motivo, il ricorrente chiede di verificare se la ricostruzione dei fatti contenuta in sentenza, basata sulle sole dichiarazioni dei testi, poggi su concreti riscontri processuali o piuttosto sia l’esito di un giudizio affrettato, che conduca ad una conclusione meramente congetturale.

Ritiene il ricorrente che le acquisizioni processuali non consentano di superare il limite del ragionevole dubbio.

Nel caso di specie ci si duole che la Corte territoriale consideri attendibile la ricostruzione eseguita dal primo giudice, fondata sulla deposizione di un teste senza attribuire rilievo alle altre dichiarazioni rese dallo stesso teste nel corso del giudizio. Il Tribunale avrebbe ritenuto che il conducente veniva trasportato in ospedale prima dell’intervento della P.S. e successivamente identificato nell’imputato. Invece la deposizione dell’agente De. chiarisce di non aver avuto alcun contatto con l’imputato, di non averlo visto nell’abitacolo, nè di aver sentito alcuna persona informata sui fatti, sul luogo del sinistro.

Gli agenti avrebbero potuto identificare il conducente solo nel caso si fossero recati in ospedale.

Ma la corte di appello condivide la valutazione del primo giudice ritenendo che dalla circostanza che l’imputato fosse stato condotto presso il Pronto Soccorso e che lo stesso imputato non abbia mai contestato di essere stato alla guida del veicolo, si desumerebbe la sussistenza della penale responsabilità di aver guidato in stato di ebbrezza.

Non si capisce, però, argomenta il D.M., quale sia il fatto certo dal quale desumere l’esistenza del fatto da provare, ossia la condotta di trovarsi alla guida in stato di ebbrezza.

Il conducente non è mai stato visto nell’abitacolo, nè successivamente identificato, precisa il ricorrente. La sentenza impugnata invece di prendere atto dell’incongruenza degli elementi emersi nel giudizio, ne darebbe per scontata la sussistenza e la rilevanza senza valutare approfonditamente le dichiarazioni testimoniali, mentre avrebbe dovuto, preso atto della sussistenza di un ragionevole dubbio pronunciare il proscioglimento dell’imputato.

Chiede, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata con ogni conseguente statuizione di legge.

Motivi della decisione

  1. I motivi sopra illustrati appaiono manifestamente infondati e, pertanto, il proposto ricorso va dichiarato inammissibile.

  2. Il ricorrente, non senza evocare in larga misura censure in fatto non proponibili in questa sede, si è nella sostanza limitato a riprodurre le stesse questioni già devolute in appello e da quei giudici puntualmente esaminate e disattese con motivazione del tutto coerente e adeguata che il ricorrente non ha in alcun modo sottoposto ad autonoma e argomentata confutazione.

    E’ ormai pacifica acquisizione della giurisprudenza di questa Suprema Corte come debba essere ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che riproducono le medesime ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici. La mancanza di specificità del motivo, infatti, va valutata e ritenuta non solo per la sua genericità, intesa come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, dal momento che quest’ultima non può ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità che conduce, a norma dell’art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), alla inammissibilità della impugnazione (in tal senso sez. 2, n. 29108 del 15.7.2011, Cannavacciuolo non mass.; conf. sez. 5, n. 28011 del 15.2.2013, Sammarco, rv. 255568; sez. 4, n. 18826 del 9.2.2012, Pezzo, rv. 253849; sez. 2, n. 19951 del 15.5.2008, Lo Piccolo, rv. 240109; sez. 4, n. 34270 del 3.7.2007, Scicchitano, rv. 236945; sez. 1, n. 39598 del 30.9.2004, Burzotta, rv. 230634; sez. 4, n. 15497 del 22.2.2002, Palma, rv. 221693).

    Ancora di recente, questa Corte di legittimità ha ribadito come sia inammissibile il ricorso per cassazione fondato sugli stessi motivi proposti con l’appello e motivatamente respinti in secondo grado, sia per l’insindacabilità delle valutazioni di merito adeguatamente e logicamente motivate, sia per la genericità delle doglianze che, così prospettate, solo apparentemente denunciano un errore logico o giuridico determinato (sez. 3, n. 44882 del 18.7.2014, Cariolo e altri, rv. 260608).

    3. La Corte veneziana ha ritenuto che la prima sentenza meritasse integrale conferma, confutando le argomentazioni difensive proposte in quella sede con motivazione logica e congrua e pertanto immune dai denunciati vizi di legittimità.

    Preliminarmente, ha respinto il primo motivo di doglianza, con il quale si eccepiva la mancata identificazione dell’odierno imputato nel soggetto alla guida del veicolo al momento del sinistro, rilevando che la P.G. intervenuta sul posto accertava che il conducente del veicolo era stato trasportato presso il locale pronto soccorso, ove l’imputato risultava essere stato visitato alle 3,42 per le ferite riportate in un incidente stradale.

    Del resto, come correttamente si rileva nell’impugnata sentenza, la circostanza che il D.M. non abbia mai contestato, nel processo di primo grado, di essere stato alla guida del veicolo, rende del tutto inverosimile che lo stesso possa essere stato coinvolto nell’incidente ad altro titolo.

    La pronuncia impugnata, sul punto, non appare viziata nè sotto il denunciato profilo della violazione di legge e nemmeno sotto quello del vizio motivazionale.

    Quanto a quest’ultimo, va ricordato che il controllo del giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia la oggettiva tenuta sotto il profilo logico argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le varie, cfr. vedasi Sez. 3, n. 12110 del 19/3/2009 n. 12110 e n. 23528 del 6/6/2006). Ancora, la giurisprudenza ha affermato che l’illogicità della motivazione per essere apprezzabile come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purchè siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (sez. 3, n. 35397 del 20.6.2007; Sez. Unite n. 24 del 24.11.1999, Spina, rv. 214794).

    Più di recente è stato ribadito come ai sensi di quanto disposto dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), il controllo di legittimità sulla motivazione non attiene nè alla ricostruzione dei fatti nè all’apprezzamento del giudice di merito, ma è circoscritto alla verifica che il testo dell’atto impugnato risponda a due requisiti che lo rendono insindacabile: a) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; b) l’assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento (Sez. 2, n. 21644 del 13/2/2013, Badagliacca e altri, rv. 255542).

    Il sindacato demandato a questa Corte sulle ragioni giustificative della decisione ha dunque, per esplicita scelta legislativa, un orizzonte circoscritto.

    Non c’è, in altri termini, come richiesto nel presente ricorso, la possibilità di andare a verificare se la motivazione corrisponda alle acquisizioni processuali. E ciò anche alla luce del vigente testo dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), come modificato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46.

    Il giudice di legittimità non può procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti ovvero ad una rivalutazione del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva al giudice del merito.

    Il ricorrente non può, come nel caso che ci occupa limitarsi a fornire una versione alternativa del fatto (altri era alla guida), senza indicare specificamente quale sia il punto della motivazione che appare viziato dalla supposta manifesta illogicità e, in concreto, da cosa tale illogicità vada desunta.

    Com’è stato rilevato nella citata sentenza 21644/13 di questa Corte, la sentenza deve essere logica “rispetto a sè stessa”, cioè rispetto agli atti processuali citati. In tal senso la novellata previsione secondo cui il vizio della motivazione può risultare, oltre che dal testo del provvedimento impugnato, anche da “altri atti del processo”, purchè specificamente indicati nei motivi di gravame, non ha infatti trasformato il ruolo e i compiti di questa Corte, che rimane giudice della motivazione, senza essersi trasformato in un ennesimo giudice del fatto.

    Se questa, dunque, è la prospettiva ermeneutica cui è tenuta questa Suprema Corte, le censure che il ricorrente rivolge al provvedimento impugnato si palesano manifestamente infondate, non apprezzandosi nella motivazione della sentenza della Corte d’Appello di Venezia laddove individua il D.M. come il conducente dell’autoveicolo alcuna illogicità che ne vulneri la tenuta complessiva.

    Rispetto a tale motivata, logica e coerente pronuncia il ricorrente chiede una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l’adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione. Ma per quanto sin qui detto un siffatto modo di procedere è inammissibile perchè trasformerebbe questa Corte di legittimità nell’ennesimo giudice del fatto.

    4. I giudici del gravame del merito confutano, con motivazione logica e aderente ai principi di diritto più volte affermati da questa Corte di legittimità anche la doglianza oggi riproposta in ordine all’avvenuta esecuzione degli accertamenti ematici, senza previo avviso della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia e senza averne richiesto il preventivo consenso. Come si dirà più articolatamente nelle pagine che seguono, l’avviso non occorreva in quanto il prelievo è stato eseguito nell’ambito di un protocollo di cure di pronto soccorso e non occorreva neanche il consenso, potendo rilevare, semmai, un esplicito dissenso che non risulta esserci stato.

    Viene dato atto, in sentenza, che nel secondo grado di giudizio veniva svolta l’attività di rinnovazione dibattimentale volta all’acquisizione della cartella relativa al paziente D.M.F. e all’audizione del teste dottor Z.G.. Ebbene, proprio l’integrazione istruttoria consentiva di fugare ogni dubbio circa il fatto che l’imputato, ferito, ricoverato per ben tre giorni nella struttura ospedaliera e venne sottoposto ai prelievi ematici per ragioni terapeutiche, nell’ambito del protocollo medico di pronto soccorso attivato dalla struttura sanitaria.

    Non assume, perciò, alcun rilievo la circostanza che l’accertamento ematico fosse stato anche immediatamente richiesto ai medici dagli agenti della Polizia Stradale intervenuti a seguito del sinistro, dal momento che tale accertamento si è poi inserito nell’ambito del prelievo eseguito per le cure del caso.

    Diversamente da quanto si sostiene in ricorso non può definirsi contraddittoria la deposizione del teste Z. che, con estrema sincerità, ha confermato non solo l’avvenuta effettuazione del prelievo ematico nell’ambito del protocollo sanitario ma anche che l’accertamento dell’alcolemia era stato anche richiesto della Polizia Stradale. Del resto – va ancora una volta ribadito- è fuori di dubbio e mai contestato che l’imputato ebbe a riportare ferite che, come detto, ne determinarono il ricovero ospedaliero per tre giorni.

    Perciò, è assolutamente corretto il richiamo da parte dei giudicio del gravame del merito al dictum di questa Corte secondo cui per l’accertamento del reato contravvenzionale di guida in stato di ebbrezza, sono utilizzabili i risultati del prelievo ematico che sia stato effettuato, secondo i criteri e gli ordinali protocolli sanitari di pronto soccorso, durante il ricovero presso una struttura ospedaliera pubblica a seguito di incidente stradale, trattandosi, in tal caso, di elementi di prova acquisiti attraverso la documentazione medica, con conseguente irrilevanza, a questi fini, della eventuale mancanza di consenso (Sez. 4, n. 26108 del 16/5/2012, Pesaresi, Rv. 253596; conf. Sez. 4, n. 1827 del 04/11/2009 dep. il 2010, Rv. 245997; Sez. 4, n. 4118 del 9/12/2008 dep. il 2009, Rv. 242834; Sez. 4 n. 22599/2005, che ebbe ad esaminare una fattispecie in cui il tribunale aveva assolto l’imputato ritenendo non utilizzabili i risultati dell’esame ematico che era stato compiuto secondo i normali protocolli di pronto soccorso presso l’ospedale dove il soggetto era stato trasportato per le lesioni riportate dopo un incidente stradale e, in accoglimento del ricorso presentato dal P.M., in applicazione del principio di diritto così affermato, annullò la sentenza di assoluzione, con rinvio al tribunale per nuovo esame della vicenda).

    In proposito, va anche ribadito che è diritto del soggetto opporre il rifiuto al prelievo ematico laddove questo sia finalizzato chiaramente ed unicamente all’accertamento di eventuale presenza di sostanze alcoliche nel sangue, trattandosi di un esame invasivo, con violazione dei diritti della persona: nella concreta fattispecie, come già evidenziato, il prelievo ematico è stato effettuato, invece, presso una struttura ospedaliere nell’ambito del protocollo medico di pronto soccorso a seguito di incidente stradale; nè rileva, con riferimento a prelievo effettuato nell’ambito del protocollo di pronto soccorso a seguito di incidente, che possa esservi stata anche una richiesta della Polizia Giudiziaria (così il condivisibile dictum di Sez. 4, n. 6755 del 6/11/2012 dep. il 2013, Guardabascio, Rv. 254931, che il Collegio ritiene vada ribadito).

    Più nello specifico è stato precisato che i risultati del prelievo ematico effettuato per le terapie di pronto soccorso successive ad incidente stradale e non preordinato a fini di prova della responsabilità penale, sono utilizzabili per l’accertamento del reato di guida in stato di ebbrezza senza che rilevi la ” mancanza di un preventivo consenso” dell’interessato (Sez. F, n. 52877 del 25/8/2016, Ilardi, Rv. 268807 che, in applicazione di tale principio, ha precisato che, per il suo carattere invasivo, il conducente può, invece, opporre un “espresso dissenso” al prelievo ematico richiesto dalla polizia giudiziaria e finalizzato esclusivamente all’accertamento della presenza di alcol nel sangue, in presenza del quale l’eventuale accertamento effettuato dalla P.G. è illegittimo ed i suoi risultati saranno inutilizzabili; conf. Sez. 4, n. 26108 del 16/5/2012, Pesaresi, Rv. 253596).

    5. Questa Corte di legittimità -va ricordato- ha anche chiarito che, in tema di guida in stato di ebbrezza, il prelievo ematico compiuto autonomamente dai sanitari in esecuzione di ordinari protocolli di pronto soccorso, in assenza di indizi di reità a carico di un soggetto coinvolto in un incidente stradale e poi ricoverato, non rientra tra gli atti di polizia giudiziaria urgenti ed indifferibili ex art. 356 c.p.p., di talchè non sussiste alcun obbligo di avviso all’indagato della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia ai sensi dell’art. 114 disp. att. c.p.p. (Sez. 4, n. 38458 del 4/6/2013, Grazioli, Rv. 257573; coni. Sez. 4, n. 34145 del 21/12/2011 dep. il 2012, Invernizzi, Rv. 253746). Tale attività non è finalizzata alla ricerca delle prove dì un reato, ma alla cura della persona e nulla ha a che vedere con l’esercizio del diritto di difesa da parte del soggetto sottoposto a quel trattamento o a quelle cure, cosicchè non sussiste alcun obbligo di avviso all’indagato della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia ai sensi dell’art. 114 disp. att. c.p.p., (cfr. la recentissima Sez. 4 n. 51284 del 10/10/2017, Lirussi, non ancora mass. che richiama Sez. 4 n. 53293 del 27/09/2016; Rv. 268690; Sez. 6 n. 43894 del 13/09/2016, Rv. 268505). La successiva utilizzabilità dell’atto in sede processuale va, infatti, equiparata, come si diceva in precedenza, a quella di un documento e non può considerarsi atto di polizia giudiziaria, anche ove l’acquisizione sia avvenuta ad iniziativa di questa, ma dopo che l’accertamento sanitario fosse già stato avviato, esclusivamente nell’ambito di quel protocollo.

    Ove, invece, l’esecuzione del prelievo da parte di personale medico non avvenga nell’ambito degli ordinari protocolli sanitari, ma sia espressamente richiesta dalla polizia giudiziaria al fine di acquisire la prova del reato nei confronti di soggetto già indiziato, il personale richiesto finisce per agire come vera e propria longa manus della polizia giudiziaria e, anche rispetto a tale accertamento, scatteranno le garanzie difensive sottese all’avviso di cui all’art. 114 disp. att. cod. proc. pen. (così la già ricordata Sez. 4 n. 51284 del 10/10/2017, Lirussi, non ancora mass e, in termini, Sez. 4 n. 3340 del 22/12/2016 dep. il 2017, Tolazzi, Rv. 268885; Sez. 4 n. 53293 del 27/9/2016, Rv. 268690; Sez. F. n. 34886 del 6/8/2015, Rv. 264728).

    In tale ipotesi, cioè, la polizia giudiziaria non farebbe altro che avvalersi di una facoltà espressamente attribuita dalla legge, in quanto l’art. 348 c.p.p., comma 4, prevede, per l’appunto, che “La polizia giudiziaria, quando, di propria iniziativa o a seguito di delega del pubblico ministero, compie atti od operazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, può avvalersi di persone idonee le quali non possono rifiutare la propria opera”, precisandosi che il ricorso alla collaborazione di tali ausiliari non richiede che costoro siano individuati con l’osservanza delle forme e delle modalità previste per la nomina del consulente tecnico del pubblico ministero (cfr. Sez. 3 n. 16683 del 5/03/2009, Rv. 243462; n. 5818 dei 10/11/2015 dep. il 2016, Rv. 266267).

    In altri termini, la polizia giudiziaria, in caso di incidente stradale, allorchè la persona sulla quale si siano già addensati indizi di reità con riferimento alle condotte descritte dall’art. 186 C.d.S., sia trasferita in ospedale, ma non sottoposta ad autonomo intervento di soccorso e cura, può anche decidere, anche solo per ragioni di tipo organizzativo, di non procedere con l’esame spirometrico, ma di delegare l’accertamento del tasso alcolemico al personale sanitario che ha ricevuto il soggetto. L’avviso, obbligatorio in tal caso, potrà essere, dato anche dal personale sanitario richiesto, atteso che esso non necessita di formule sacramentali, ma deve essere idoneo a raggiungere lo scopo, che è quello di avvisare colui che non possiede conoscenze tecnico-processuali, del fatto che, tra i propri diritti, vi è la facoltà di nominare un difensore che lo assista durante l’atto (cfr. Sez. 4 n. 15189 del 18/1/2017, Rv. 269606; sez. 3 n. 23697 del 1/3/2016, Rv. 266825).

    6. Come rileva condivisibilmente la richiamata sentenza 755/2013, non può sostenersi che il difetto di consenso al prelievo del campione costituisca una causa di inutilizzabilità patologica dell’accertamento compiuto, facendo appello a principi di natura costituzionale, posto che la specifica disciplina dettata dall’art. 186 del nuovo codice della strada, nel dare attuazione alla riserva di legge stabilita dall’art. 13 Cost., comma 2, non prevede alcun preventivo consenso dell’interessato al prelievo dei campioni (cfr. Sez. 4 n. 1522 del 10/12/2013 dep. il 2014), Rv. 258490; Sez. 4 n. 10605 del 15/11/2012 dep. il 2013, Rv. 254933 in cui la S.C. ha, tuttavia, chiarito, come si dirà di qui a poco, che il prelievo non sarebbe effettuabile laddove il paziente rifiutasse espressamente di essere sottoposto a qualsiasi trattamento sanitario); Sez. 4 n. 15189 del 18/1/2017, Rv. 269606).

    Innanzitutto, va osservato, come già si ebbe occasione di fare in quella pronuncia, che le situazioni, in relazione all’accertamento del tasso alcoolemico, che in concreto possono prospettarsi, nel momento in cui il conducente, presumibilmente in stato di ebbrezza, abbia provocato un incidente stradale e venga condotto presso una struttura sanitaria, sono diverse, ma, ad ognuna di esse, è possibile dare una regolamentazione ricavabile dalla norma di riferimento, che è l’art. 186 C.d.S., comma 5, nella sua attuale formulazione già in vigore al momento del fatto di cui trattasi.

    La norma prevede che, per i conducenti coinvolti in incidenti stradali e sottoposti alle cure mediche, l’accertamento del tasso alcolemico su richiesta degli organi della Polizia Stradale viene effettuato da parte delle strutture sanitarie, che rilasciano ai predetti organi la relativa certificazione estesa alla prognosi delle lesioni accertate. Il successivo art. 186 C.d.S., comma 6, statuisce che, qualora da tale accertamento risulti un valore corrispondente ad un tasso alcoolemico superiore a 0,5 grammi per litro di sangue, l’interessato è considerato in stato di ebbrezza ai fini delle applicazioni delle sanzioni di cui al comma 2 dello stesso articolo.

    Ne discende che, in presenza dei presupposti di fatto indicati (coinvolgimento del conducente in un incidente stradale, sua sottoposizione a cure mediche da parte della struttura sanitaria) l’accertamento del tasso alcoolemico, richiesto ai sanitari da organi della Polizia Giudiziaria, è utilizzabile ai fini dell’affermazione di responsabilità dell’interessato, indipendentemente dal consenso che costui abbia o meno prestato all’effettuazione dell’accertamento stesso.

    Il primo presupposto di fatto, e cioè il coinvolgimento in un incidente stradale, è un dato oggettivo, non rilevando se esso abbia o meno coinvolto solo il veicolo dell’interessato o anche di altri, quel che importa, infatti, è il pericolo causato alla circolazione stradale; per la sussistenza del secondo presupposto è necessario che il prelievo ematico sia stato eseguito dal personale sanitario della struttura, presso cui è stato condotto l’interessato, nell’ambito di un protocollo medico di pronto soccorso; a tal fine, ovviamente, la valutazione se si debba o meno sottoporre il medesimo a cure mediche e procedere anche al prelievo ematico, onde predisporre adeguate cure farmacologiche, è rimessa agli stessi sanitari.

    Nell’ambito delle cure che vengono in tal modo prestate, con il prelievo ematico, gli organi di P.G. sono legittimati a richiedere l’accertamento del tasso alcoolemico, i cui risultati possono essere utilizzati ai fini penali, indipendentemente dal consenso prestato o meno in tal senso dal conducente.

    In tale caso -che, si ribadisce, è quello di un soggetto che necessita di cure di pronto soccorso nell’ambito delle quali comunque i medici l’avrebbero sottoposto a prelievo ematico- poichè l’acquisizione del risultato dell’accertamento ematico è previsto ex lege, non è affatto necessario, a tutela del diritto di difesa, che l’interessato venga avvertito della facoltà di nomina di un difensore.

    Come condivisibilmente rilevava già la citata sentenza 755/2013, il conducente potrebbe, però, opporsi ad essere sottoposto alle cure mediche e, quindi, al prelievo di sangue e, sostanzialmente all’accertamento del tasso alcoolemi-co, disposti dai sanitari nell’ambito di applicazione del protocollo di pronto soccorso cui si è fatto riferimento, ma, in tal caso, atteso il collegamento tra il settimo ed l’art. 186 C.d.S., comma 5, egli sarebbe punito con le pene previste dal comma 2, lett. c) dello stesso articolo, sempre, però, che fosse stato informato che, nell’ambito delle cure mediche, era stato richiesto da parte della P.G. ai sanitari il prelievo di sangue per l’accertamento del tasso alcoolemico. Diversamente, se i sanitari abbiano ritenuto di non sottoporre il conducente a cure mediche ed a prelievo ematico, la richiesta degli organi di P.G. di effettuare l’analisi del tasso alcoolemico, in presenza di un dissenso espresso dell’interessato, sarebbe illegittima e, quindi, l’eventuale accertamento, comunque effettuato a mezzo del prelievo ematico da parte dei sanitari, sarebbe inutilizzabile ai fini dell’affermazione di responsabilità per una delle ipotesi di reato previste dall’art. 186 C.d.S., comma 2, (cfr. sul punto anche Sez. 4, n. 26108 del 16/05/2012 Rv. 253596 secondo cui ” i risultati del prelievo ematico effettuato per le terapie di pronto soccorso successive ad incidente stradale e non preordinato a fini di prova della responsabilità penale sono utilizzabili per l’accertamento del reato di guida in stato di ebbrezza, senza che rilevi l’assenza di consenso dell’interessato, ove, in applicazione di tale principio, la Corte ha affermato che, per il suo carattere invasivo, il conducente può opporre un rifiuto al prelievo ematico se sia finalizzato esclusivamente all’accertamento della presenza di alcool nel sangue).

    7. Non a caso si è fatto riferimento al “dissenso espresso dell’interessato” e non al suo “mancato consenso”, in quanto l’utilizzazione dell’una o dell’altra locuzione ha risvolti applicativi di non poco conto. Ed, infatti, se basta “il dissenso espresso dell’interessato” gli organi di P.G. possono richiedere ai sanitari l’effettuazione del prelievo ematico e, quindi, dell’accertamento del tasso alcoolemico, ancorchè gli stessi non abbiano ritenuto necessario di sottoporre l’interessato a cure mediche, deducendo il consenso di quest’ultimo, ovviamente previa informazione al medesimo della finalità per cui è effettuato il prelievo ematico (trattasi pur sempre di un consenso informato) anche da un atteggiamento positivo, sebbene verbalmente non espresso; altrimenti, se si richiede “il consenso dell’interessato” è ovvio che esso debba essere espresso, cioè non ricavabile da suoi atteggiamenti.

    La scelta del Collegio di ritenere che, per l’utilizzabilità processuale dell’accertamento del tasso alcoolemico, acquisito con le modalità descritte, non ci debba essere “il dissenso espresso dell’interessato”, deriva dalla lettura del comma 7 dell’art. 186 CDS, laddove il legislatore ha specificamente utilizzato il termine “rifiuto” da parte del conducente, con riferimento all’accertamento del tasso alcoolemico (anche con riguardo al comma 5 dello stesso articolo).

    Il significato lessicale di tale sostantivo, laddove con rifiuto si intende l’opporsi espressamente (con qualsiasi modalità, verbale e non) ad una richiesta di fare o subire un qualche cosa (consenso informato) è incontrovertibile (vedasi infra sent. Corte Cost. 238/1996).

    Si ritiene di convenire con la più volte ricordata sentenza 755/2013 nel senso che è del tutto ovvio, alla luce di un’interpretazione sistematica della norma, che anche in questo caso l’espresso dissenso (rifiuto) del conducente all’effettuazione dell’accertamento alcoolemico, richiesto dagli organi di P.G. ai sanitari, al di fuori dei presupposti illustrati, di cui al comma 5, consenta l’applicazione della disposizione del richiamato comma 7.

    Con riguardo alla ipotizzata violazione da parte della disposizione normativa in esame dei principi costituzionali a tutela della libertà personale del cittadino e del suo diritto di rifiuto a sottoporsi ad accertamenti invasivi anche se per finalità di accertamento di reati, possono essere evocati i principi affermati con la sentenza della Corte Costituzionale 238/1996, la quale ebbe a dichiarare l’illegittimità dell’art. 224 c.p.p., comma 2, nella parte in cui consente che il giudice, nell’ambito delle operazioni peritali, disponga misure che comunque incidano sulla libertà personale dell’indagato o dell’imputato o di terzi, al di fuori di quelle specificamente previste nei “casi” e nei “modi” dalla legge”. Principio a maggior ragione valido anche per gli atti di indagine.

    Va osservato che i giudici delle leggi giunsero alla pronuncia di illegittimità per arginare l’utilizzo di provvedimenti coercitivi atipici, astrattamente riconducibili alla nozione di “provvedimenti.. necessari per l’esecuzione delle operazioni peritali”, senza che fosse prevista alcuna distinzione tra quelli incidenti e quelli non incidenti sulla libertà personale, così cumulandoli in una disciplina, connotata da assoluta genericità di formulazione e totale carenza di ogni specificazione dei casi e dei modi in presenza dei quali soltanto poteva ritenersi legittima l’esecuzione coattiva di accertamenti peritali mediante l’adozione, a discrezione del giudice, di misure restrittive della libertà personale. Carenza normativa a cui, peraltro, il legislatore ha posto riparo con l’introduzione dell’art. 224 bis c.p.p..

    Invero, la stessa Corte, nella motivazione della sentenza sopra ricordata, nel momento in cui censurava la genericità della disciplina del rito penale, ebbe a segnalare come invece, “…. in un diverso contesto, che è quello del nuovo codice della strada (artt. 186 e 187), il legislatore – operando specificamente il bilanciamento tra l’esigenza probatoria di accertamento del reato e la garanzia costituzionale della libertà personale – abbia dettato una disciplina specifica (e settoriale) dell’accertamento (sulla persona del conducente in apparente stato di ebbrezza alcoolica o di assunzione di sostanze stupefacenti) della concentrazione di alcool nell’aria alveolare espirata e del prelievo di campioni di liquidi biologici, (prevedendo bensì in entrambi i casi la possibilità del rifiuto dell’accertamento, ma con la comminatoria di una sanzione penale per tale indisponibilità dei conducente ad offrirsi e cooperare all’acquisizione probatoria); disciplina – questa la cui illegittimità costituzionale è stata recentemente esclusa da questa Corte (sentenza n. 194 del 1996, citata) proprio denegando, tra l’altro, la denunziata violazione dell’art. 13 Cost., comma 2, atteso che la dettagliata normativa di tale accertamento non consente neppure di ipotizzare la violazione della riserva di legge”.

    Ne consegue che la stessa Corte Costituzionale ha riconosciuto, nelle due pronunce sopra riportate, la legittimità della disciplina del codice della strada, anche laddove nell’indicare le modalità degli accertamenti tecnici per rilevare lo stato di ebbrezza, non prevede alcun preventivo consenso dell’interessato al prelievo dei campioni. E, dunque, avendo la stessa Corte Costituzionale, nella richiamata sentenza, individuato quali sono i “trattamenti sanitari”, c.d. invasivi, consentiti, tra cui il prelievo ematico, le modalità previste dall’art. 186 C.d.S., comma 5, per l’accertamento del tasso alcoolemico trovano il loro fondamento nell’art. 32 della Carta Costituzionale, comma 2.

    Ciò che può essere opposto – va ribadito- è il rifiuto al controllo; ma la stessa sanzione penale che accompagna tale condotta, sancendone il disvalore, risulta incompatibile con la pretesa di un esplicito consenso al prelievo dei campioni.

    Nel caso di specie, detto prelievo è stato effettuato nel rispetto delle norme vigenti all’epoca dei fatti (dopo la riforma introdotta dal D.L. n. 151 del 2003, conv. in L. n. 214 del 2003), ai sensi dell’art. 186 C.d.S., comma 5, legittimamente presso il presidio ospedaliero in cui era stato portato per controlli medici, ferito, il D.M..

    Per quanto detto, le censure di inutilizzabilità degli accertamenti ospedalieri in relazione alla positività all’alcool dell’imputato sono manifestamente infondate.

    8. In ultimo, va rilevato che non può porsi in questa sede la questione di una declaratoria della prescrizione maturata dopo la sentenza d’appello, in considerazione della manifesta infondatezza del ricorso.

    La giurisprudenza di questa Corte Suprema ha, infatti, più volte ribadito che l’inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 c.p.p. (così Sez. Un. n. 32 del 22/11/2000, De Luca, Rv. 217266 relativamente ad un caso in cui la prescrizione del reato era maturata successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso; conformi, Sez. Un., n. 23428 del 2/3/2005, Bracale, Rv. 231164, e Sez. Un. n. 19601 del 28/2/2008, Niccoli, Rv. 239400; in ultimo Sez. 2, n. 28848 del 8/5/2013, Ciaffoni, rv. 256463).

    9. Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell’art. 616 c.p.p., non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura indicata in dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2000,00 in favore della cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 10 gennaio 2018.

Depositato in Cancelleria il 1 febbraio 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Originally posted 2021-08-25 17:39:25.

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2)Secondo: un avvocato specializzato in malasanità opera una rigorosa disamina del caso, ricevendo in studio direttamente con il medico specialista nella materia d’interesse del cliente, a seconda che si tratti dell’ambito della ginecologiaostetricia, ortopedia, neurochirurgia, oncologia, cardiologia,oculistica  ecc.

3)Terzo: se vuoi giusti risultati  la professionalità è d’obbligo come d’obbligo è sottoporre preventivamente il caso a medici esperti che valutino la situazione e questo atteggiamento nei confronti di una materia così delicata fa si che si abbiano maggiori successi nell’ottenimento del risarcimento e si eviti, allo stesso tempo, che vengano intentate azioni prive di fondamento o comunque di risibile apprezzamento economico.

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si era allontanato subito dopo

l’esecuzione dell’intervento chirurgico, senza attendere il regolare risveglio del

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piccolo paziente, senza accertarsi delle sue condizioni, senza lasciar detto dove

andava e dove poteva essere rintracciato, lasciando il bimbo alla sola vigilanza

delle infermiere, nei fatti quindi rifiutando un atto del suo ufficio che doveva

essere compiuto senza ritardo per ragioni di sanità, rendendosi irreperibile ed

irraggiungibile per oltre quaranta minuti, pur nella consapevolezza di avere

lasciato senza la doverosa e cogente assistenza un piccolo paziente appena

operato, oltre quaranta minuti durante i quali -a seguito dell’insorgere di serie

complicanze respiratorie nel  paziente-  era stato insistentemente e

reiteratamente cercato dai medici e dal centralino dell’ospedale.

 

AVVOCATO DANNO DA INSIDIA STRADALE fosse dipeso da un'anomalia della strada o del marciapied

AVVOCATO DANNO DA INSIDIA STRADALE fosse dipeso da un’anomalia della strada o del marciapied

 

 

IL RAGIONAMENTO DELLA CASSAZIONE

La Corte d’Appello ha poi sottolineato che nel caso in esame il piccolo paziente

non era stato trattato con sedativi prima di essere sottoposto all’intervento de

quo, là dove tutta la letteratura internazionale era concorde sulla opportunità

di premedicare in questi casi i bambini proprio per determinare una amnesia su

quanto accaduto in sala operatoria ed evitare stati di agitazione postoperatori

(v. relazione M.). A fronte di ciò, la Corte di merito non ha potuto non rilevare

che l’imputato, dirigente medico della unità operativa anestesia e rianimazione

dell’ospedale di —- che in data —- svolgeva funzioni di anestesia di sala, si

era allontanato dal luogo in cui si trovava il minore C.S. subito dopo

l’esecuzione dell’intervento chirurgico, senza attendere il regolare risveglio del

piccolo paziente, senza accertarsi delle sue condizioni di salute, senza lasciare

recapiti, abbandonando il bambino alla sola vigilanza delle infermiere di sala.

Ne derivava che il F. aveva indebitamente rifiutato atti del suo ufficio,

allontanandosi subito dopo l’intervento chirurgico e omettendo, in violazione

dei suoi obblighi di anestesista, di continuare a monitorare il paziente (tanto

più che si trattava di un bambino che non era stato da lui premeditato) e di

intervenire tempestivamente alla vista dei sintomi di malessere manifestati dal

piccolo S. al risveglio dall’anestesia, somministrando il farmaco giusto che

evitasse di  cagionargli  la crisi  respiratoria verificatasi  a seguito della

somministrazione di midazolam ad opera degli anestesisti sopraggiunti in sua

sostituzione. Si  tratta con tutta evidenza di  argomentazioni  (non solo

pienamente rispondenti alla realtà processuale, ma anche perfettamente

logiche e aderenti alle regole del diritto) che dimostrano la superfluità della

richiesta perizia medica, posto che ai fini della affermazione della penale

responsabilità dell’imputato per il reato a lui ascritto non rileva in alcun modo il

fatto che la somministrazione di benzodiazepine, praticata dagli altri medici per

sedare l’agitazione del paziente dopo il risveglio, sia stata la causa unica della

crisi respiratoria del piccolo C., come ribadito nell’atto di ricorso.

3. Consegue al rigetto del ricorso la condanna del ricorrente al pagamento

delle spese processuali, nonchè alla rifusione delle spese sostenute dalla parte

civile, liquidate come da dispositivo.

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Cassazione Penale – Sentenza n. 38354/14

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Con sentenza in data 9-11-11 il Tribunale di Ascoli Piceno ha condannato

F.G. alla pena (condizionalmente sospesa) di anni uno di reclusione (con

interdizione per la stessa durata dai pubblici servizi e con risarcimento dei

danni in favore della parte civile) per il reato di cui all’art. 328 c.p., a lui

ascritto perchè, quale medico anestesista in servizio presso l’ospedale di ——

incaricato di  prestare la dovuta assistenza all’intervento chirurgico di

adenotonsillectomia sul piccolo C.S. di anni sei, si era allontanato subito dopo

l’esecuzione dell’intervento chirurgico, senza attendere il regolare risveglio del

piccolo paziente, senza accertarsi delle sue condizioni, senza lasciar detto dove

andava e dove poteva essere rintracciato, lasciando il bimbo alla sola vigilanza

delle infermiere, nei fatti quindi rifiutando un atto del suo ufficio che doveva

essere compiuto senza ritardo per ragioni di sanità, rendendosi irreperibile ed

irraggiungibile per oltre quaranta minuti, pur nella consapevolezza di avere

lasciato senza la doverosa e cogente assistenza un piccolo paziente appena

operato, oltre quaranta minuti durante i quali -a seguito dell’insorgere di serie

complicanze respiratorie nel  paziente-  era stato insistentemente e

reiteratamente cercato dai medici e dal centralino dell’ospedale.

Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte d’Appello di Ancona, in data 12-7-

12, ha confermato la sopra menzionata decisione, condannando altresì il F. alla

rifusione delle spese di parte civile, liquidate come da dispositivo.

2. F.G. ha proposto ricorso per cassazione avverso quest’ultima sentenza,

chiedendone l’annullamento.

Con il primo motivo di ricorso denuncia la violazione dell’art. 606 c.p.p., lett.

d), per la mancata assunzione di una prova decisiva perizia medica per

accertare le condizioni del piccolo C. S. al momento in cui esso F. si era

assentato dopo l’intervento chirurgico, in quanto la crisi respiratoria che lo

aveva colpito non sarebbe da imputare ad esso ricorrente ma altro non

sarebbe stata che la reazione avversa ad un farmaco (benzodiazopine)

somministrato dai sanitari sopraggiunti per fronteggiare lo stato di agitazione

del paziente.

Con il secondo motivo di ricorso deduce vizio di motivazione là dove i giudici di

merito non hanno ritenuto necessario l’espletamento della predetta perizia

medica.

In prossimità della odierna pubblica udienza la difesa del F. ha depositato una

memoria illustrativa, con la quale si insiste per l’accoglimento del ricorso. In

particolare, si sostiene:

che il F. si era allontanato dall’anti-sala nella quale si trovava il bambino in un

momento ampiamente successivo a quello in cui il piccolo paziente si era

correttamente risvegliato dalla anestesia, e, dunque, in un momento in cui per

il medesimo F. era terminato il dovere di assistere il bimbo operato;

che l’apnea insorta nel piccolo S. non era stata la conseguenza dell’operazione

chirurgica, ma era stata provocata unicamente dalla errata ed arbitraria

somministrazione al bambino del farmaco Ipnovel ad opera di altri sanitari

intervenuti per l’agitazione del bimbo dopo che esso F. si era allontanato.

3. Il ricorso è infondato.

La Corte di merito ha spiegato che i fatti specificati nel capo di imputazione

dovevano ritenersi accertati in base alla ampia istruttoria dibattimentale svolta

in primo grado.

In particolare, nella sentenza impugnata si è chiarito che, alla luce delle

risultanze dibattimentali,  la richiesta di  perizia medica,  rinnovata

dall’appellante, doveva ritenersi irrilevante ai fini della decisione, che verteva

sulla penale responsabilità del medico anestesista per omissione della doverosa

assistenza del piccolo paziente nella fase successiva all’intervento operatorio

effettuato.

Infatti il teste Fe. (direttore del dipartimento di emergenza e della struttura

complessa di anestesia e rianimazione presso l’ospedale —- aveva sintetizzato

le regole generali alle quali deve attenersi l’anestesista in caso di intervento

chirurgico, durante e dopo l’operazione di un bambino per tonsille ed adenoidi.

Segnatamente il  predetto testimone aveva spiegato che al  termine

dell’intervento l’anestesista deve garantire un buon risveglio, un atterraggio

migliore possibile fino alla completa ripresa di tutte le funzioni depresse

dall’anestesia, che l’obbligo di assistenza dell’anestesista cessa quando c’è un

recupero totale di tutte le funzioni, la coscienza, la mobilità, i riflessi, e che la

cessazione dei doveri dell’anestesista interviene solo dopo che i farmaci

somministrati siano stati eliminati. Il dott. Fe. ha anche specificato che

generalmente era buona norma tenere il bambino nell’antisala operatoria, nella

sala di risveglio, fino a che non si fosse tranquillizzato e non versasse più in

stati di agitazione.

La Corte d’Appello ha poi sottolineato che nel caso in esame il piccolo paziente

non era stato trattato con sedativi prima di essere sottoposto all’intervento de

quo, là dove tutta la letteratura internazionale era concorde sulla opportunità

di premedicare in questi casi i bambini proprio per determinare una amnesia su

quanto accaduto in sala operatoria ed evitare stati di agitazione postoperatori

(v. relazione M.). A fronte di ciò, la Corte di merito non ha potuto non rilevare

che l’imputato, dirigente medico della unità operativa anestesia e rianimazione

dell’ospedale di —- che in data —- svolgeva funzioni di anestesia di sala, si

era allontanato dal luogo in cui si trovava il minore C.S. subito dopo

l’esecuzione dell’intervento chirurgico, senza attendere il regolare risveglio del

piccolo paziente, senza accertarsi delle sue condizioni di salute, senza lasciare

recapiti, abbandonando il bambino alla sola vigilanza delle infermiere di sala.

Ne derivava che il F. aveva indebitamente rifiutato atti del suo ufficio,

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più che si trattava di un bambino che non era stato da lui premeditato) e di

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3. Consegue al rigetto del ricorso la condanna del ricorrente al pagamento

delle spese processuali, nonchè alla rifusione delle spese sostenute dalla parte

civile, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali

nonchè a rifondere le spese sostenute dalla parte civile, che liquida in

complessivi euro duemilacinquecento, oltre iva e cpa.

Così deciso in Roma, il 3 giugno 2014.

Depositat

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3)Terzo: se vuoi giusti risultati  la professionalità è d’obbligo come d’obbligo è sottoporre preventivamente il caso a medici esperti che valutino la situazione e questo atteggiamento nei confronti di una materia così delicata fa si che si abbiano maggiori successi nell’ottenimento del risarcimento e si eviti, allo stesso tempo, che vengano intentate azioni prive di fondamento o comunque di risibile apprezzamento economico.

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· Perdita del feto per amniocentesi o villocentesi.
· Prescrizione di terapie senza adeguati controlli.
· Ritardo nell’esecuzione di parto cesareo. · Ritardo nell, Danni alla madre durante il parto.
· Diagnosi errate per malattie ginecologiche.
· Distocia della spalla.
· Errate terapie per la cura della infertilità.
· Erronea diagnosi prenatale.
· Fratture della, DANNO – ALESSANDRIA SEI VITTIMA DI MALASANITA’ ?RISARCIMENTO DA DANNO MEDICO, DANNO – ASTI SEI VITTIMA DI MALASANITA’ ?RISARCIMENTO DA DANNO MEDICO, DANNO – BOLOGNA SEI VITTIMA DI MALASANITA’ ?RISARCIMENTO DA DANNO MEDICO, DANNO – CUNEO SEI VITTIMA DI MALASANITA’ ?RISARCIMENTO DA DANNO MEDICO, DANNO – FAENZA SEI VITTIMA DI MALASANITA’ ?RISARCIMENTO DA DANNO MEDICO, DANNO – LUGO SEI VITTIMA DI MALASANITA’ ?RISARCIMENTO DA DANNO MEDICO, DANNO – NOVARA SEI VITTIMA DI MALASANITA’ ?RISARCIMENTO DA DANNO MEDICO, DANNO – responsabilità medica civile responsabilità medica contrattuale responsabilità medica risarcimento danni responsabilità medica citazione responsabilità medica penale responsabilità medica ness, DANNO – TREVISO SEI VITTIMA DI MALASANITA’ ?RISARCIMENTO DA DANNO MEDICO, DANNO – VERCELLI SEI VITTIMA DI MALASANITA’ ?RISARCIMENTO DA DANNO MEDICO, DANNO – VICENZA SEI VITTIMA DI MALASANITA’ ?RISARCIMENTO DA DANNO MEDICO, di un caso di malasanità. Se vuoi ottenre un giusto risarcimento TU devi sapere quali siano i 3 passi fondamentali da seguire. 1)Primo: rivolgersi ad un avvocato specializzato in responsabilità medica, MEDICO CHE SBAGLIA, neurochirurgia, oculistica ecc. 3)Terzo: se vuoi giusti risultati la professionalità è d’obbligo come d’obbligo è sottoporre preventivamente il caso a medici esperti che valutino la situazione e questo atteggiamento , oncologia, ortopedia, ricevendo in studio direttamente con il medico specialista nella materia d’interesse del cliente, RISARCIMENTO PER DANNO PRONTO SOCCORSO, RISARCIMENTO PER ERRORE MEDICO, RISARICMENTO PER DANNO PRONTO SOCCORSO il 2 dicembre 2014 da Armarolio in Cancelleria il 18 settembre 2014

MALASANITA’ RESPONSABILITA’ MEDICA ERRORE DIAGNOSTICO O TERAPEUTICO DANNO PAZIENTE

  1. AFFERMA LA CASSAZIONE
  2. Nella elaborazione dei canoni di redazione del quesito di diritto la giurisprudenza di questa Suprema Corte si è chiaramente orientata a ritenere che ognuno dei quesiti formulati per ciascun motivo di ricorso deve consentire l’individuazione del principio di diritto che è alla base del provvedimento impugnato e, correlativamente, del diverso principio la cui auspicata applicazione ad opera della Corte di Cassazione possa condurre ad una decisione di segno diverso: ove tale articolazione logico – giuridica mancasse, il quesito si risolverebbe in un’ astratta petizione di principio, inidonea sia ad evidenziare il nesso tra la fattispecie ed il principio di diritto che si chiede venga affermato, sia ad agevolare la successiva enunciazione di tale principio ad opera della Corte, in funzione nomofilattica. Il quesito non può pertanto consistere in una mera richiesta di accoglimento del motivo o nell’interpello della Corte in ordine alla fondatezza della censura così come illustrata nello svolgimento dello stesso motivo, ma deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la medesima Corte in condizione di rispondere ad esso con l’enunciazione di una regula iuris che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata. Ciò vale a dire che la Corte di legittimità deve poter comprendere dalla lettura del solo quesito, inteso come sintesi logico giuridica della questione, l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare (Cass. S.U. n. 3519/2008 ). Nella fattispecie con il quesito suddetto il ricorrente si è limitato a richiedere se nella fattispecie la corte di merito avesse applicato il principio di diritto fissato dalle S.U. con sentenza n. 13533/2001.
  3. 2.Quanto alla doglianza relativa al vizio motivazionale, essa è inconferente poiché la sentenza impugnata non pone in dubbio che vi sia stato un errore istopatologico presso l’Istituto X. e, quindi sotto questo profilo non pone in dubbio l’inadempimento lamentato, ma ritiene che sia rimasto accertato che esso non ha prodotto il danno lamentato dagli appellanti. Non vi quindi questione in merito alla prova dell’inadempimento, poiché la domanda non è stata rigettata per l’esatto adempimento l’obbligazione sanitaria dovuta, ma perché, pur essendo essa esistente, essa era eziologicamente “indifferente” in relazione al danno subito.
  4. Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 360 n. 3 c.p.c., inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 40, 41 589 c.p.c., e dell’art. 2236 c.c., nonché ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c., degli artt. 132, 112, 116 c.p.c., nonché ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., il vizio di motivazione relativamente all’esclusione del rapporto causale tra la condotta dell’imputata B. e l’aggravamento della malattia a carico della G.
  5. Segnatamente il ricorrente lamenta che la sentenza impugnata erroneamente ed in contrasto con quanto affermato in sede scientifica ha ritenuto che nella fattispecie non vi fosse nesso causale tra l’errore nella diagnosi istopatologica della B. e l’evento dannoso; che se fosse stata diagnosticata tempestivamente tale patologia neoplastica ed a seguito dell’intervento non si fosse adottata la teoria attendista del follow-up, ma quella chemioterapia, ciò avrebbe comportato, se non un diverso exitus, quanto meno un allungamento della vita della sig.ra G. ed un miglioramento della stessa nella fase terminale; che tutto ciò va valutato alla luce del principio probatorio “del più probabile che non”; che il secondo intervento fu effettuato quando ormai la G. era completamente defedata; che, in presenza di dette cure chemioterapiche, la morte si sarebbe verificata in epoca significativamente posteriore; che l’omessa corretta diagnosi di neoplasia aveva comportato danno della perdita di chance di vivere alcune settimane o alcuni mesi in più rispetto a quelli poi effettivamente vissuti.
  1. Cassazione Civile – (errore o ritardo diagnostico: attenuazione della prova della perdita di chance)

Cassazione Civile – Sez. III – Sent. n. 12961 del 14.06.2011 Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 18 gennaio 2001 la sig.ra G.M. esponeva di essere stata sottoposta in data X., presso l’Istituto Clinico X. , ad un intervento chirurgico di lobectomia sinistra a seguito di alcuni accertamenti da cui era emersa una calcolosi della intraepatica di sinistra; che in data X. , presso la medesima struttura, era stato eseguito un esame istopatologico, il cui referto, a firma del prof. Ro.Ma., non indicava l’eventualità di una patologia tumorale ; che peraltro successivi accertamenti il X. avevano individuato la presenza di metastasi ed avevano portato a riconoscere nei medesimi reperti istologici un cistadenocarcinoma epatico e comunque la presenza di “atipie cellulari suggestive di malignità”. L’attrice lamentava che dal grave errore diagnostico compiuto presso l’Istituto X. era derivata la mancata identificazione della neoplasia e di conseguenza la mancata adozione di provvedimenti specifici terapeutici, con miglioramento della qualità e della durata della vita e rallentamento della malattia. La sig.ra G.M. conveniva in giudizio l’Istituto Clinico X. e il prof. Ma.Ro. per ottenerne la condanna in solido al risarcimento di tutti i danni (patrimoniali, morali e a carattere biologico) subiti in conseguenza, del dedotto errore diagnostico, oltre interessi e rivalutazione monetaria.

I convenuti si costituivano ed il prof. Ro. chiedeva inoltre, e otteneva, di chiamare in giudizio la Dott.ssa B.M.P., sul rilievo che era stata quest’ultima ad eseguire l’esame istologico.
Deceduta l’attrice, intervenivano nel giudizio il marito e i figli, R.G., D. e L., i quali, con memoria ex art 183 c.p.c., estendevano alla terza chiamata Dott.ssa B., che chiedeva anche il rigetto o l’inammissibilità della chiamata. Veniva disposta nel giudizio di appello una nuova c.t.u. collegiale, affidata, a specialisti in medicina legale e in anatomia patologica. Con sentenza del tribunale di Milano del 10.5.2005 il tribunale dichiarava l’estinzione del giudizio tra R.D. e L. , contro i convenuti per l’avvenuto trasferimento dell’azione in sede penale, e nel merito rigettava la domanda nei confronti di G..R. . Questi proponeva appello davanti alla corte territoriale di Milano.

Resisteva la L..B. , che proponeva anche appello incidentale. Con sentenza depositata il 27.11.2008, la corte di appello di Milano, rigettava gli appelli.
Riteneva la corte di merito, quanto all’appello principale, che esse andava rigettato, poiché all’esito della seconda consulenza tecnica collegiale, disposta in appello, ed in conformità della risultanze della prima consulenza e di quella resa in sede penale, era emerso che non sussisteva alcun nesso causale tra l’errore istopatologico effettuato dalla chiamata B. e l’evento dannoso, nel senso che, ove pure fosse stato tempestivamente nel gennaio 1998 effettuata una diagnosi di neoplasia o un sospetto diagnostico in questo senso, l’intervento chirurgico non sarebbe stato diverso (dovendosi sempre procedere. ad una lobectomia epatica sinistra radicale) né avrebbe dovuto avere, una maggiore capacità demolitoria; che allo stesso modo, non ne sarebbe seguita l’indicazione di alcun trattamento radio o chemioterapico, entrambi non indicati nel particolare tipo di neoplasia; che era certo, tuttavia, che la prognosi quoad vitam della paziente non sarebbe significativamente evoluta in melius e ciò a fronte della severità della patologia neoplastica (colangiocarcinoma) e della carenza di opportunità terapeutiche sicuramente efficaci, sia verso la malattia al momento della sua insorgenza (al di là della opzione chirurgica comunque adeguatamente utilizzata) che in caso di comparsa di recidiva metastatica. Ritiene la sentenza di appello, aderendo alle conclusioni della c.t.u., che la condotta dei sanitari, oggetto del presente giudizio, deve “essere ritenuta indifferente sotto il profilo del rapporto di causalità rispetto all’invalidità ed alla successiva morte di M.G.”.

Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione R.G..
Resiste con controricorso la dr.sa P.B., che ha proposto anche ricorso incidentale, al quale ha resistito il ricorrente con controricorso. La B. ed il R.G. hanno presentato memorie.

Motivi della decisione

  1. Con il primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., l’inosservanza e l’erronea applicazione degli artt. 1218, 1321, 1382, 1453, 1460 e 2697 c.c., nonché ai sensi dell’art. 360 n. 5, la mancanza e contraddittorietà di motivazione su punti decisivi della controversia, in ordine alle responsabilità di natura contrattuale dedotte con l’azione svolta attraverso l’allegazione dell’inadempimento ad esse correlate. Tale motivo si conclude con il seguente quesito, a norma dell’art. 366 bis c.p.c.: “dica la corte: se risulti applicato al caso di specie l’insegnamento di codesta S.C. a S.U., del quale alla sentenza n. 13533/2001, in tema di prova dell’inadempimento di una obbligazione, secondo cui il creditore che agisca per il risarcimento del danno deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento, talché il creditore non ha onere di dimostrazione che adempimento non vi sia stato, essendo sufficiente che egli si limiti a tale allegazione, in applicazione del principio della riferibilità o vicinanza della prova, talché essa resti caricata, in capo al soggetto nella cui sfera è prodotto l’inadempimento e che è quindi in possesso degli elementi utili per paralizzare la pretesa del creditore stesso, dimostrando eventualmente l’avvenuto adempimento: tanto anche in quanto dedotto l’inesatto adempimento, sia per mancata osservanza di doveri accessori o dell’obbligo di diligenza”. 2.1.Ritiene questa Corte che il suddetto motivo è inammissibile. Quanto alla censura proposta ex art. 360 n. 3 c.p.c., il motivo non presenta un quesito di diritto adeguato al disposto di cui all’art. 366 bis, applicabile ratione temporis al ricorso in esame.

Nella elaborazione dei canoni di redazione del quesito di diritto la giurisprudenza di questa Suprema Corte si è chiaramente orientata a ritenere che ognuno dei quesiti formulati per ciascun motivo di ricorso deve consentire l’individuazione del principio di diritto che è alla base del provvedimento impugnato e, correlativamente, del diverso principio la cui auspicata applicazione ad opera della Corte di Cassazione possa condurre ad una decisione di segno diverso: ove tale articolazione logico – giuridica mancasse, il quesito si risolverebbe in un’ astratta petizione di principio, inidonea sia ad evidenziare il nesso tra la fattispecie ed il principio di diritto che si chiede venga affermato, sia ad agevolare la successiva enunciazione di tale principio ad opera della Corte, in funzione nomofilattica. Il quesito non può pertanto consistere in una mera richiesta di accoglimento del motivo o nell’interpello della Corte in ordine alla fondatezza della censura così come illustrata nello svolgimento dello stesso motivo, ma deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la medesima Corte in condizione di rispondere ad esso con l’enunciazione di una regula iuris che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata. Ciò vale a dire che la Corte di legittimità deve poter comprendere dalla lettura del solo quesito, inteso come sintesi logico giuridica della questione, l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare (Cass. S.U. n. 3519/2008 ). Nella fattispecie con il quesito suddetto il ricorrente si è limitato a richiedere se nella fattispecie la corte di merito avesse applicato il principio di diritto fissato dalle S.U. con sentenza n. 13533/2001.

2.2.Quanto alla doglianza relativa al vizio motivazionale, essa è inconferente poiché la sentenza impugnata non pone in dubbio che vi sia stato un errore istopatologico presso l’Istituto X. e, quindi sotto questo profilo non pone in dubbio l’inadempimento lamentato, ma ritiene che sia rimasto accertato che esso non ha prodotto il danno lamentato dagli appellanti. Non vi quindi questione in merito alla prova dell’inadempimento, poiché la domanda non è stata rigettata per l’esatto adempimento l’obbligazione sanitaria dovuta, ma perché, pur essendo essa esistente, essa era eziologicamente “indifferente” in relazione al danno subito.

  1. Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 360 n. 3 c.p.c., inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 40, 41 589 c.p.c., e dell’art. 2236 c.c., nonché ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c., degli artt. 132, 112, 116 c.p.c., nonché ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., il vizio di motivazione relativamente all’esclusione del rapporto causale tra la condotta dell’imputata B. e l’aggravamento della malattia a carico della G.

Segnatamente il ricorrente lamenta che la sentenza impugnata erroneamente ed in contrasto con quanto affermato in sede scientifica ha ritenuto che nella fattispecie non vi fosse nesso causale tra l’errore nella diagnosi istopatologica della B. e l’evento dannoso; che se fosse stata diagnosticata tempestivamente tale patologia neoplastica ed a seguito dell’intervento non si fosse adottata la teoria attendista del follow-up, ma quella chemioterapia, ciò avrebbe comportato, se non un diverso exitus, quanto meno un allungamento della vita della sig.ra G. ed un miglioramento della stessa nella fase terminale; che tutto ciò va valutato alla luce del principio probatorio “del più probabile che non”; che il secondo intervento fu effettuato quando ormai la G. era completamente defedata; che, in presenza di dette cure chemioterapiche, la morte si sarebbe verificata in epoca significativamente posteriore; che l’omessa corretta diagnosi di neoplasia aveva comportato danno della perdita di chance di vivere alcune settimane o alcuni mesi in più rispetto a quelli poi effettivamente vissuti.

4.1. Il motivo è infondato.
Non risultano anzitutto violate le norme di diritto, a cui si riporta il ricorrente.
Va poi premesso che, anche in tema di risarcimento del danno patrimoniale da inadempimento, non è l’inadempimento in sé che è oggetto di risarcimento, ma il danno conseguente.
Ciò comporta che deve essere in concreto fornita la dimostrazione dell’esistenza del pregiudizio lamentato e il diretto nesso causale dall’inadempimento (Cass. 20/11/2007, n. 24140 Cass. 15/05/2007, n. 11189; Cass. 10/01/2007, n. 238; Cass. 04/07/2006, n. 15274).
4.2. Mentre sul creditore della prestazione non grava l’onere della prova dell’inadempimento, dovendo il debitore provare – a fronte dell’allegazione di inadempimento del creditore – che egli ha esattamente adempiuto, giusto quanto si ricava dalla struttura dell’art. 1453 c.c. (Cass. S.u. n. 13533/2001), invece la prova del danno lamentato e del nesso causale tra lo stesso e l’inadempimento, così allegato, grava sull’attore secondo i principi generali di cui all’art. 2697 c.c..
4.3. L’inadempimento del professionista (consistente anche nell’errore o omissione di diagnosi) :in relazione alla propria obbligazione, e la conseguente responsabilità dell’ente presso il quale egli presta la propria opera, deve essere valutato alla stregua del dovere di diligenza particolarmente qualificato inerente lo svolgimento della sua attività professionale; sicché è configurabile un nesso causale tra il suo comportamento, anche omissivo, ed il pregiudizio subito da un paziente qualora, attraverso un criterio necessariamente probabilistico, si ritenga che l’opera del professionista, se correttamente e prontamente svolta, avrebbe avuto serie ed apprezzabili possibilità di evitare il danno verificatosi (Cass. 23/09/2004, n. 19133).
Nella fattispecie la sentenza impugnata ha ritenuto che era accertato l’inadempimento dell’Istituto … costituito dall’errore istopatologico, e quindi della mancata diagnosi della neoplasia alle vie biliari, ma ha escluso che questo errore avesse determinato – sia pure in termini probabilistici – un danno alla paziente, nel senso che lo sviluppo neoplastico che ella subì ed il successivo exitus non furono influenzati, neppure nella durata della residua vita o nella qualità degradata della stessa, dalla mancata diagnosi precoce della malattia tumorale.

5.1. Per giungere a questa conclusione la corte di merito ha correttamente applicato i principi in tema di nesso causale da condotta omissiva, fissati da questa Corte.
Infatti l’inadempimento ascritto ai convenuti è di carattere omissivo, in quanto consiste nel non avere fornito alla paziente una diagnosi di neoplasia delle vie biliari (integrante appunto la diagnosi esatta).

Ai fini della causalità materiale la giurisprudenza (Cass. Sez. Unite, 11/01/2008, n. 581, 576 ed altre) e la dottrina prevalenti, in applicazione dei principi penalistici, di cui agli artt. 40 e 41 c.p., ritengono che un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non)., mentre ad un secondo momento va riferita la regola dell’art. 1223 c.c., per il quale il risarcimento deve comprendere le perdite “che siano conseguenza immediata e diretta” del fatto lesivo (c.d. causalità giuridica), per cui esattamente si è dubitato che la norma attenga al nesso causale e non piuttosto alla determinazione del quantum del risarcimento, selezionando le conseguenze dannose risarcibili.

Il rigore del principio dell’equivalenza delle cause, posto dall’art. 41 c.p., in base al quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale, trova il suo temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dall’art. 41 c.p., comma 2, in base al quale l’evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto (Cass. 19.12.2006, n. 27168; Cass. 8.9.2006, n. 19297; Cass. 10.3.2006, n. 5254; Cass. 15.1.1996, n. 268).

Nel contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all’interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l’evento causante non appaiano del tutto inverosimili, ma che si presentino come effetto non del tutto imprevedibile, secondo il principio della c.d. causalità adeguata o quella similare della c.d. regolarità causale (ex multis: Cass. 1.3.2007; n. 4791; Cass. 6.7.2006, n. 15384; Cass. 27.9.2006, n. 21020; Cass. 3.12.2002, n. 17152; Cass. 10.5.2000 n. 5962).

5.2.Nel danno da inadempimento omissivo il giudizio causale assume come termine iniziale la condotta omissiva del comportamento dovuto (Cass. n. 20328 del 2006; Cass. n. 21894 del 2004; Cass. n. 6516 del 2004; Cass. 22/10/2003, n. 15789).
La causalità è tuttavia accertabile attraverso un giudizio ipotetico: l’azione ipotizzata, ma omessa, avrebbe impedito l’evento? In altri termini non può riconoscersi la responsabilità per omissione quando il comportamento omesso, ove anche fosse stato tenuto, non avrebbe comunque impedito l’evento prospettato: la responsabilità non sorge non perché non vi sia stato un comportamento antigiuridico (l’omissione di un comportamento dovuto è di per sé un comportamento antigiuridico e nella responsabilità contrattuale l’inadempimento è comportamento antigiuridico), ma perché quell’omissione non è causa del danno lamentato.
5.3.11 Giudice pertanto è tenuto ad accertare se l’evento sia ricollegabile all’omissione (causalità omissiva) nel senso che esso non si sarebbe verificato se (causalità ipotetica) l’agente avesse posto in essere la condotta doverosa impostagli, con esclusione di fattori alternativi. L’accertamento del rapporto di causalità ipotetica passa attraverso l’enunciato “controfattuale” che pone al posto dell’omissione il comportamento alternativo dovuto, onde verificare se la condotta doverosa avrebbe evitato il danno lamentato dal danneggiato.
5.4.Essendo questi i principi che regolano il procedimento logico – giuridico ai fini della ricostruzione del nesso causale, ciò che muta sostanzialmente tra il processo penale e

quello civile è la regola probatoria, in quanto nel primo vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio” (cfr. Cass. Pen. S.U. 11 settembre 2002, n. 30328, Franzese), mentre nel secondo vige la regola della preponderanza dell’evidenza o “del più probabile che non”, stante la diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa, e l’equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti, come rilevato da attenta dottrina che ha esaminato l’identità di tali standars delle prove in tutti gli ordinamenti occidentali, con la predetta differenza tra processo civile e penale (in questo senso Cass. 16.10.2007, n. 21619; Cass. 18.4.2007, n. 9238; 11/05/2009, n. 10741; Cass. 22837 del 2010; Cass. 16123 del 2010).

Detto standard di “certezza probabilistica” in materia civile non può essere ancorato esclusivamente alla determinazione quantitativa – statistica delle frequenze di classi di eventi (c.d. probabilità quantitativa o pascaliana), che potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto (c.d. probabilità logica o baconiana). Nello schema generale della probabilità come relazione logica va determinata l’attendibilità dell’ipotesi sulla base dei relativi elementi di conferma (c.d. evidence and inference nei sistemi anglosassoni). Nella fattispecie la sentenza impugnata si è conformata a detti principi.

5.5.Sulla base di accertamenti fattuali (sulla correttezza della cui motivazione ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., si vedrà successivamente) ha ritenuto accertato in punto di fatto che l’inadempimento ascritto, (mancata diagnosi istologica di neoplasia, a seguito dell’intervento effettuato di lobectomia sinistra) non avrebbe né evitato l’exitus finale né avrebbe prolungato apprezzabilmente la vita della sig.ra G. né la stessa sarebbe significativamente evoluta in melius. Pertanto, avendo la corte ritenuto che un’eventuale prognosi più precoce non avrebbe favorito un approccio terapeutico più efficace né avrebbe migliorato la qualità e la durata della vita della paziente, con giudizio contro fattuale ha escluso anche in termini di prevalenza di probabilità che i danni lamentati dai ricorrenti fossero conseguenza della mancata tempestiva e corretta diagnosi tumorale da errore istologico e che essi si sarebbero in ogni caso verificati, trovando causa esclusiva nella malattia neoplastica.

6.1.Ciò comporta che vanno rigettate le censure di violazione di legge avanzate dal ricorrente.
Diverso problema è quello relativo all’esattezza, sotto il profilo motivazionale, di tale ricostruzione fattuale. Questo costituisce il nucleo centrale del ricorso del ricorrente principale il quale appunto lamenta che erroneamente i consulenti prima e la corte concludono che una diagnosi precoce della neoplasia, ed eventualmente una terapia chemioterapia, non avrebbe allungato e migliorato la vita della paziente, pur nell’inevitabilità dell’esito infausto.

6.2.Sennonché tanto integra una censura di vizio motivazionale della sentenza impugnata, pur fatta valere con il secondo motivo di ricorso.
Essa, tuttavia, può avere ingresso in questa sede di sindacato di legittimità negli stretti limiti di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c. Sotto questo profilo non vi sono elementi per ritenere che la motivazione della sentenza impugnata sia apparente (o mancante), insufficiente o contraddittoria.

Va, anzitutto, osservato che la sentenza impugnata è giunta alla conclusione di dover rigettare l’appello (e quindi confermare il rigetto della domanda) per mancanza di nesso causale tra la suddetta condotta omissiva ascrivibile ai convenuti e l’evento, sulla base della consulenza collegiale di secondo grado (uno dei consulenti svolgeva la sua attività presso l’Istituto nazionale dei Tumori di Milano e l’altro presso Istituto di Medicina legale di Milano), conforme sul punto a quella di primo grado ed alle conclusioni cui erano giunti i

consulenti del P.M. in sede penale nel procedimento per omicidio colposo a carico della appellata P..B.
I consulenti in sede civile avevano accertato che, ove pure fosse stata nel gennaio 1998 effettuata una diagnosi di neoplasia o un sospetto diagnostico in questo senso, l’intervento chirurgico non sarebbe stato diverso (dovendosi sempre procedere. ad una lobectomia epatica sinistra radicale) ne avrebbe dovuto avere una maggiore capacità demolitoria; allo stesso modo non ne sarebbe seguita l’indicazione di alcun trattamento radio o chemioterapico, entrambi non indicati nel particolare tipo di neoplasia. E, pur concedendosi dai consulenti che, in ipotesi di diagnosi tempestiva, la paziente sarebbe stata sottoposta ad uno stretto regime di follow-up, onde diagnosticare precocemente eventuali recidive, e pur non potendosi escludere la possibilità che la diagnosi di recidiva neoplastica venisse raggiunta con un certo anticipo (anche se gli stessi consulenti tecnici d’ufficio hanno fatto rilevare, in proposito, come ancora – nell’aprile 2000 – sia i marcatori tumorali che la TAC preoperatoria non fossero ancora affatto suggestivi in tal senso ed una diagnosi certa venisse conseguita solo in sede chirurgica), è certo, tuttavia, che la prognosi quoad vitam della paziente non sarebbe significativamente evoluta in melius e ciò a fronte della severità della patologia neoplastica (colangiocarcinoma) e della carenza di opportunità terapeutiche sicuramente efficaci, sia verso la malattia al momento della sua insorgenza (al di là della opzione chirurgica comunque adeguatamente utilizzata) che in caso di comparsa di recidiva metastatica.

6.3.Lei corte di merito ha condiviso le conclusioni dei c.t.u. in merito all’irrilevanza di eseguire un trattamento chemioterapico post-chirurgico in luogo di quella di follow-up, osservando anche che: a)Presso l’Istituto Nazionale dei Tumori la chemioterapia viene prescritta nei pazienti operati radicalmente “soltanto se essi vengono giudicati ad alto rischio di recidiva, cioè quando presentano fattori prognostici oggettivi, che però, nel caso in discussione, la paziente non possedeva posto che in sede di intervento i linfonodi locoregionali venivano descritti come normali; che in nessuna delle varie revisioni istologiche veniva rilevata invasione vascolare o linfatica; che i marcatori tumorali non presentavano valori elevati.

  1. b) Non può ammettersi che “una eventuale diagnosi più precoce avrebbe favorito un approccio terapeutico più efficace” e, soprattutto, non può ammettersi, che quest’ultimo avrebbe migliorato la qualità e la durata della vita della paziente”. c) La condotta dei sanitari, oggetto del presente giudizio, doveva “essere ritenuta indifferente sotto il profilo del rapporto di causalità rispetto all’invalidità ed alla successiva morte di M..G. “.

Ne consegue che nella fattispecie non presenta i lamentati vizi di motivazione l’impugnata sentenza che ha aderito alle conclusioni dei C.T.U. di secondo grado, che hanno ribadito quanto accertato dai consulenti di primo grado e del p.m. in sede penale. A tal fine, ed in relazione alle critiche riformulate dal ricorrente nel ricorso al percorso argomentativo dei consulenti prima e della sentenza poi, va ribadito il principio secondo cui il giudice del merito, quando aderisce alle conclusioni del consulente tecnico che nella relazione abbia tenuto conto, replicandovi, dei rilievi dei consulenti di parte, esaurisce l’obbligo della motivazione con l’indicazione delle fonti del suo convincimento; non è quindi necessario che egli si soffermi sulle contrarie deduzioni dei consulenti di fiducia che, anche se non espressamente confutate, restano implicitamente disattese perché incompatibili con le argomentazioni accolte. Le critiche di parte, che tendano al riesame degli elementi di giudizio già valutati dal consulente tecnico, si risolvono in tal caso in mere allegazioni difensive, che non possono configurare il vizio di motivazione previsto dall’art. 360 n. 5 c.p.c. (Cass. 03/04/2007, n. 8355). Nella fattispecie la seconda consulenza è stata disposta in sede di appello proprio perché tenesse conto delle varie critiche alla consulenza di primo grado svolte dai c.t. di parte e dallo stesso appellante.

7.1. Infondata è anche la censura con cui il ricorrente lamenta che non sia stata valutato il danno sotto il profilo di perdita di chance, come possibilità che la vita fosse allungata e migliorata in presenza della chemioterapia.
Va condiviso il principio già affermato da questa corte, secondo cui in tema di danno alla persona, conseguente a responsabilità medica, integra l’esistenza di un danno risarcibile alla persona l’omissione della diagnosi di un processo morboso terminale, allorché abbia determinato la tardiva esecuzione di un intervento chirurgico, che normalmente sia da praticare per evitare che l’esito definitivo del processo morboso si verifichi anzitempo, prima del suo normale decorso, e risulti inoltre che, per effetto del ritardo, sia andata perduta dal paziente la “chance” di conservare, durante quel decorso, una migliore qualità della vita nonché la “chance” di vivere alcune settimane od alcuni mesi in più, rispetto a quelli poi effettivamente vissuti (Cass. 18/09/2008, n. 23846).

Ciò comporta che, quando sia stata fornita la dimostrazione, anche in via presuntiva e di calcolo probabilistico, dell’esistenza di una chance di consecuzione di un vantaggio in relazione ad una determinata situazione giuridica, la perdita di tale chance è risarcibile come danno alla situazione giuridica di cui trattasi indipendentemente dalla dimostrazione che la concreta utilizzazione della chance avrebbe presuntivamente o probabilmente determinato la consecuzione del vantaggio, essendo sufficiente anche la sola possibilità di tale consecuzione. La idoneità della chance a determinare presuntivamente o probabilmente ovvero solo possibilmente la detta consecuzione è, viceversa, rilevante, soltanto ai fini della concreta individuazione e quantificazione del danno, da effettuarsi eventualmente in via equitativa, posto che nel primo caso il valore della chance è certamente maggiore che nel secondo e, quindi, lo è il danno per la sua perdita, che, del resto, in presenza di una possibilità potrà anche essere escluso, all’esito di una valutazione in concreto della prossimità della chance rispetto alla consecuzione del risultato e della sua idoneità ad assicurarla.

7.2. Nella fattispecie la questione in termini di perdita di chance, inteso come risultato utile possibile, va ritenuta non affetta da inammissibilità, conseguente alla novità della stessa in questa sede di legittimità.
Infatti può superarsi la tesi secondo cui esito positivo probabile e possibilità di tale esito costituiscano oggetto di pretese risarcitorie diverse ed accedere ad un risultato per cui probabilità di esito favorevole dell’intervento medico e la sua sola possibilità non siano che gradazioni di una stessa affermazione di pregiudizio, risentito a causa dell’omissione colposa del comportamento dovuto.

Ciò comporta optare, nelle situazioni caratterizzate dal più probabile che non, ma anche da una non eliminabile porzione di incertezza, per una applicazione generalizzata degli esiti della tecnica risarcitoria della chance e quindi nel senso di distribuire il peso del danno tra le parti in misura proporzionale all’apporto causale della colpa e dei fattori di rischio presenti nel paziente (cfr. Cass. 16.1.2009, n. 975).

Ritenuta la richiesta del risarcimento del danno da perdita di chance come riduzione dell’originaria domanda di risarcimento dell’intero pregiudizio assunto, da una parte essa non determina una mutatio libelli e dall’altra tale riduzione può essere effettuata direttamente anche dal giudice, pur in difetto di esplicita richiesta della parte in tal senso riduttiva (cfr. Cass. 21/02/2007, n. 4003).

7.2.Sennonché nella fattispecie la corte ha escluso sulla base delle conclusioni dei vari consulenti tecnici, che la tempestiva diagnosi tumorale abbia comportato con l’apprestamento di una terapia diversa da quella del follow-up e segnatamente quella chemioterapica, la possibilità per la sig.ra G. di avere un qualche miglioramento apprezzabile di durata o qualità della vita. Con ciò è esclusa in fatto l’avvenuta perdita di chance.

  1. Con il terzo motivo di ricorso il ricorrente lamenta ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., la violazione degli artt. 112, 113, 115, 116 c.p.c., per omessa motivazione sul punto relativo all’esclusione della colpa nella condotta del medico.
  2. Il motivo è inammissibile.
    Infatti la domanda (e quindi l’appello) è stato rigettato per mancanza di nesso causale tra la condotta omissiva e l’evento e non per difetto dell’elemento psicologico colposo dalla dr. B.P. , nell’esecuzione dell’esame e diagnosi istologica. La consolidata giurisprudenza di questa Corte ha, infatti, statuito che la proposizione, con il ricorso per cassazione, di censure prive di specifiche attinenze al “decisum” della sentenza impugnata è assimilabile alla mancata enunciazione dei motivi richiesti dall’art. 366 c.p.c., n. 4, con conseguente inammissibilità del ricorso, rilevabile anche d’ufficio (ex multis, Cass. 07/11/2005, n. 21490; Cass. 24/02/2004, n. 3612; Cass. 23/05/2001, n. 7C46). L’inconferenza del motivo comporta che l’eventuale accoglimento della censura risulta comunque privo di rilevanza nella fattispecie, in quanto inidoneo a risolvere la questione decisa con la sentenza impugnata (Cass. Sez. Unite, 12/05/2008, n.11650).
    10. Con il ricorso incidentale la ricorrente P..B. lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 116, 106, 167, 269 c.p.c. e la tardività ed inammissibilità dell’estensione del contraddittorio da parte degli eredi dell’attrice nei confronti della chiamata dr. B.
    Secondo la ricorrente incidentale nel caso in cui il convenuto chiami in causa un terzo (come nella fattispecie è avvenuto nei suoi riguardi), senza domandare direttamente la condanna di questi nei confronti dell’attore, tale domanda può essere qualificata di garanzia impropria, per cui l’estensione del contraddittorio che l’attore faccia per provocare la condanna del terzo direttamente nei suoi confronti nella memoria ex art. 183 c.p.c., va considerata tardiva.
  3. Il motivo è infondato.
    Allorquando — come nella specie — il convenuto chiami in causa un terzo, assumendo che questi, e non lui, è il soggetto tenuto a rispondere della pretesa dell’attore, la domanda di quest’ultimo, amene in mancanza di espressa istanza, si intende automaticamente estesa al terzo in quanto si tratta di individuare il vero responsabile, nel quadro di un rapporto oggettivamente unico; con l’effetto del determinarsi di un ampliamento della controversia originaria, sia in senso oggettivo – perché la nuova obbligazione dedotta dal convenuto viene ad inserirsi nel tema della controversia, in via alternativa con quella che l’attore ha assunto a caricò del convenuto — sia in senso soggettivo, perché il terzo chiamato in causa diventa un’altra parte di quella controversia e viene a trovarsi con il convenuto in una situazione tipica di litisconsorzio alternativo (cfr. ex plurimis, Cass. 14.3.2008, n. 6883; 21.3. 2003, n. 4145).
  4. I ricorsi vanno pertanto rigettati. Stante la reciproca soccombenza va disposta la compensazione delle spese processuali di entrambe le difese.
    P .Q.M.
    Riunisce i ricorsi e li rigetta. Compensa le spese del giudizio di cassazione

Per quanto concerne la responsabilità della struttura sanitaria nei confronti del paziente è irrilevante che si tratti di una casa di cura privata o di un ospedale pubblico in quanto sostanzialmente equivalenti sono a livello normativo gli obblighi dei due tipi di strutture verso il fruitore dei servizi, ed anche nella giurisprudenza si riscontra una equiparazione completa della struttura privata a quella pubblica quanto al regime della responsabilità civile anche in considerazione del fatto che si tratta di violazioni che incidono sul bene della salute, tutelato quale diritto fondamentale dalla Costituzione, senza possibilità di limitazioni di responsabilità o differenze risarcitorie a seconda della diversa natura, pubblica o privata, della struttura sanitaria (Cass. 25.2.2005, n. 4058).

Questa Corte ha costantemente inquadrato la responsabilità della struttura sanitaria nella responsabilità contrattuale, sul rilievo che l’accettazione del paziente in ospedale, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto (Cass. n. 1698 del 2006; Cass. n. 9085 del 2006; Cass. 28.5.2004, n. 10297; Cass. 11 marzo 2002, n. 3492; 14 luglio 2003, n. 11001; Cass. 21 luglio 2003, n. 11316).

A sua volta anche l’obbligazione del medico dipendente dalla struttura sanitaria nei confronti del paziente, ancorché non fondata sul contratto, ma sul “contatto sociale”, ha natura contrattuale (Cass. 22 dicembre 1999, n. 589; Cass. 29.9.2004, n. 19564; Cass. 21.6.2004, n. 11488; Cass. n. 9085 del 2006).

 

 

 

  1. In tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell’onere probatorio, l’attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare il contratto (o il contatto sociale) e l’aggravamento della patologia o l’insorgenza di un’affezione ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato.
  1. Competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante.

 

 

 

  1. B) I verbali della Commissione medico-ospedaliera di cui all’art. 4 della L n. 210/1992 fanno prova, ex art. 2700 c.c., dei fatti che la commissione attesta essere avvenuti in sua presenza, o essere stati dalla stessa compiuti, mentre le valutazioni, le diagnosi o comunque le manifestazioni di scienza o di opinione in essi contenute costituiscono materiale indiziario soggetto al libero apprezzamento del giudice, il quale può valutarne l’importanza ai fini della prova, ma non può mai attribuire a loro il valore di vero e proprio accertamento.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Sentenza 11 gennaio 2008, n. 577

(Pres. Carbone – est. Segreto)

Motivi della decisione

  1. La causa è stata rimessa alle Sezioni Unite, presentando questioni di massima di particolare importanza relative: alla responsabilità della struttura sanitaria nei confronti del paziente; alla ripartizione dell’onere probatorio in materia di responsabilità medica.

Con l’unico motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cc., la violazione degli artt. 113 e 115 c.p.c. ed il vizio di motivazione, a norma degli art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.

Assume il ricorrente che erratamente la corte di appello non ha preso in esame la documentazione prodotta in appello e relativa agli accertamenti sanitari effettuati nel maggio N., da cui risultava che non era affetto da epatite.

Lamenta poi il ricorrente che erratamente la sentenza impugnata ha ritenuto che fosse onere di esso attore provare il nesso causale tra emotrasfusione e l’epatite C di cui soffriva, nonché provare che esso attore non fosse già portatore di tale malattia al momento del ricovero. 2.11 motivo va accolto nei termini che seguono.

E’ infondata la censura secondo cui erratamente il giudice di appello non ha tenuto conto della documentazione sanitaria esibita in grado di appello e relativa al suo stato di salute precedentemente al ricovero, trattandosi di prove precostituite.

Come queste S.U. hanno già statuito, nel rito ordinario, con riguardo alla produzione di nuovi documenti in grado di appello, l’art. 345 c.p.c, terzo comma, va interpretato nel senso che esso fissa sul piano generale il principio della inammissibilità di mezzi di prova “nuovi” – la cui ammissione, cioè, non sia stata richiesta in precedenza – e, quindi, anche delle produzioni documentali, indicando nello stesso tempo i limiti di tale regola, con il porre in via alternativa i requisiti che tali documenti, al pari degli altri mezzi di prova, devono presentare per poter trovare ingresso in sede di gravame (sempre che essi siano prodotti, a pena di decadenza, mediante specifica indicazione degli stessi nell’atto introduttivo del giudizio di secondo grado, a meno che la loro formazione non sia successiva e la loro produzione non sia stata resa necessaria in ragione dello sviluppo assunto dal processo): requisiti consistenti nella dimostrazione che le parti non abbiano potuto proporli prima per cause a esse non imputabili, ovvero nel convincimento del giudice della indispensabilità degli stessi per la decisione. Peraltro, nel rito ordinario, risultando il ruolo del giudice nell’impulso del processo meno incisivo che nel rito del lavoro, l’ammissione di nuovi mezzi di prova ritenuti indispensabili non può comunque prescindere dalla richiesta delle parti (Cass. Sez. Unite, 20/04/2005, n. 8203).

3.1. Sono invece fondate le altre censure sollevate nel motivo di ricorso.

Per quanto concerne la responsabilità della struttura sanitaria nei confronti del paziente è irrilevante che si tratti di una casa di cura privata o di un ospedale pubblico in quanto sostanzialmente equivalenti sono a livello normativo gli obblighi dei due tipi di strutture verso il fruitore dei servizi, ed anche nella giurisprudenza si riscontra una equiparazione completa della struttura privata a quella pubblica quanto al regime della responsabilità civile anche in considerazione del fatto che si tratta di violazioni che incidono sul bene della salute, tutelato quale diritto fondamentale dalla Costituzione, senza possibilità di limitazioni di responsabilità o differenze risarcitorie a seconda della diversa natura, pubblica o privata, della struttura sanitaria (Cass. 25.2.2005, n. 4058).

Questa Corte ha costantemente inquadrato la responsabilità della struttura sanitaria nella responsabilità contrattuale, sul rilievo che l’accettazione del paziente in ospedale, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto (Cass. n. 1698 del 2006; Cass. n. 9085 del 2006; Cass. 28.5.2004, n. 10297; Cass. 11 marzo 2002, n. 3492; 14 luglio 2003, n. 11001; Cass. 21 luglio 2003, n. 11316).

A sua volta anche l’obbligazione del medico dipendente dalla struttura sanitaria nei confronti del paziente, ancorché non fondata sul contratto, ma sul “contatto sociale”, ha natura contrattuale (Cass. 22 dicembre 1999, n. 589; Cass. 29.9.2004, n. 19564; Cass. 21.6.2004, n. 11488; Cass. n. 9085 del 2006).

3.2. Per diverso tempo tale legame contrattuale è stato interpretato e disciplinato sulla base dell’applicazione analogica al rapporto paziente-struttura delle norme in materia di contratto di prestazione d’opera intellettuale vigenti nel rapporto medico-paziente, con il conseguente e riduttivo appiattimento della responsabilità della struttura su quella del medico. Da ciò derivava che il presupposto per l’affermazione della responsabilità contrattuale della struttura fosse l’accertamento di un comportamento colposo del medico operante presso la stessa.

Più recentemente, invece, dalla giurisprudenza il suddetto rapporto è stato riconsiderato in termini autonomi dal rapporto paziente-medico, e riqualificato come un autonomo ed atipico contratto a prestazioni corrispettive (da taluni definito contratto di spedalità, da altri contratto di assistenza sanitaria) al quale si applicano le regole ordinarie sull’inadempimento fissate dall’art. 1218 c.c..

Da ciò consegue l’apertura a forme di responsabilità autonome dell’ente, che prescindono dall’accertamento di una condotta negligente dei singoli operatori, e trovano invece la propria fonte nell’inadempimento delle obbligazioni direttamente riferibili all’ente. Questo percorso interpretativo, anticipato dalla giurisprudenza di merito, ha trovato conferma in una sentenza di queste Sezioni Unite (1.7.2002, n. 9556, seguita poi da altre delle sezioni semplici, Cass. n. 571 del 2005; Cass. n. 1698 del 2006) che si è espressa in favore di una lettura del rapporto tra paziente e struttura (anche in quel caso, privata) che valorizzi la complessità e l’atipicità del legame che si instaura, che va ben oltre la fornitura di prestazioni alberghiere, comprendendo anche la messa a disposizione di personale medico ausiliario, paramedico, l’apprestamento di medicinali e di tutte le attrezzature necessarie anche per eventuali complicazioni. In virtù del contratto, la struttura deve quindi fornire al paziente una prestazione assai articolata, definita genericamente di “assistenza sanitaria”, che ingloba al suo interno, oltre alla prestazione principale medica, anche una serie di obblighi cd. di protezione ed accessori.

3.3. Così ricondotta la responsabilità della struttura ad un autonomo contratto (di spedalità), la sua responsabilità per inadempimento si muove sulle linee tracciate dall’art. 1218 c.c., e, per quanto concerne le obbligazioni mediche che essa svolge per il tramite dei medici propri ausiliari, l’individuazione del fondamento di responsabilità dell’ente nell’inadempimento di obblighi propri della struttura consente quindi di abbandonare il richiamo, alquanto artificioso, alla disciplina del contratto d’opera professionale e di fondare semmai la responsabilità dell’ente per fatto del dipendente sulla base dell’art. 1228 c.c..

3.4. Questa ricostruzione del rapporto struttura – paziente va condivisa e confermata.

Ciò comporta che si può avere una responsabilità contrattuale della struttura verso il paziente danneggiato non solo per il fatto del personale medico dipendente, ma anche del personale ausiliario, nonché della struttura stessa (insufficiente o inidonea organizzazione).

Dalla ricostruzione in termini autonomi del rapporto struttura-paziente rispetto al rapporto paziente-medico, discendono importanti conseguenze sul piano della affermazione di responsabilità in primo luogo, ed anche sul piano della ripartizione e del contenuto degli oneri probatori. Infatti, sul piano della responsabilità, ove si ritenga sussistente un contratto di spedalità tra clinica e paziente, la responsabilità della clinica prescinde dalla responsabilità o dall’eventuale mancanza di responsabilità del medico in ordine all’esito infausto di un intervento o al sorgere di un danno che, come nel caso di specie, non ha connessione diretta con l’esito dell’intervento chirurgico.

Non assume, in particolare, più rilevanza, ai fini della individuazione della natura della responsabilità della struttura sanitaria se il paziente si sia rivolto direttamente ad una struttura sanitaria del SSN, o convenzionata, oppure ad una struttura privata o se, invece, si sia rivolto ad un medico di fiducia che ha effettuato l’intervento presso una struttura privata. In tutti i predetti casi è ipotizzabile la responsabilità contrattuale dell’Ente.

4.1. Inquadrata nell’ambito contrattuale la responsabilità della struttura sanitaria e del medico, nel rapporto con il paziente, il problema del riparto dell’onere probatorio deve seguire i criteri fissati in materia contrattuale, alla luce del principio enunciato in termini generali dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza 30 ottobre 2001, n. 13533, in tema di onere della prova dell’inadempimento e dell’inesatto adempimento.

Le Sezioni Unite, nel risolvere un contrasto di giurisprudenza tra le sezioni semplici, hanno enunciato il principio – condiviso da questo Collegio – secondo cui il creditore che agisce per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo, costituito dall’avvenuto adempimento.

Analogo principio è stato enunciato con riguardo all’inesatto adempimento, rilevando che al creditore istante è sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell’obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto, esatto adempimento.

4.2. La giurisprudenza delle sezioni semplici di questa Corte, applicando questo principio all’onere della prova nelle cause di responsabilità professionale del medico ha ritenuto che gravasse sull’attore (paziente danneggiato che agisce in giudizio deducendo l’inesatto adempimento della prestazione sanitaria) oltre alla prova del contratto, anche quella dell’aggravamento della situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie nonché la prova del nesso di causalità tra l’azione o l’omissione del debitore e tale evento dannoso, allegando il solo inadempimento del sanitario. Resta a carico del debitore l’onere di provare l’esatto adempimento, cioè di aver tenuto un comportamento diligente (Cass. n. 12362 del 2006; Cass. 11.11.2005, n. 22894; Cass. 28.5.2004, n. 10297; Cass. 3.8.2004, n. 14812).

4.3. Il punto relativo alla prova del nesso di causalità non può essere condiviso, nei termini in cui è stato enunciato, poiché esso risente implicitamente della distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato, che se può avere una funzione descrittiva, è dogmaticamente superata, quanto meno in tema di riparto dell’onere probatorio dalla predetta sentenza delle S.U. n. 13533/2001 (vedasi anche S.U. 28.7.2005, n. 15781).

5.1. La dottrina ha assunto posizioni critiche sull’utilizzo della distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato, la quale, ancorché operante soltanto all’interno della categoria delle obbligazioni di fare (a differenza che in Francia dove rappresenta una summa divisio valida per tutte le obbligazioni), ha originato contrasti sia in ordine all’oggetto o contenuto dell’obbligazione, sia in relazione all’onere della prova e, quindi, in definitiva, allo stesso fondamento della responsabilità del professionista.

Come insegna la definizione tradizionale, nelle obbligazioni di mezzi la prestazione dovuta prescinde da un particolare esito positivo dell’attività del debitore, che adempie esattamente ove svolga l’attività richiesta nel modo dovuto.

In tali obbligazioni è il comportamento del debitore ad essere in obbligazione, nel senso che la diligenza è tendenzialmente considerata quale criterio determinativo del contenuto del vincolo, con l’ulteriore corollario che il risultato è caratterizzato dall’aleatorietà, perché dipende, oltre che dal comportamento del debitore, da altri fattori esterni oggettivi o soggettivi.

Nelle obbligazioni di risultato, invece, ciò che importa è il conseguimento del risultato stesso, essendo indifferente il mezzo utilizzato per raggiungerlo. La diligenza opera solo come parametro, ovvero come criterio di controllo e valutazione del comportamento del debitore: in altri termini, è il risultato cui mira il creditore, e non il comportamento, ad essere direttamente in obbligazione.

5.2. Tale impostazione non è immune da profili problematici, specialmente se applicata proprio alle ipotesi di prestazione d’opera intellettuale, in considerazione della struttura stessa del rapporto obbligatorio e tenendo conto, altresì, che un risultato è dovuto in tutte le obbligazioni.

In realtà, in ogni obbligazione si richiede la compresenza sia del comportamento del debitore che del risultato, anche se in proporzione variabile, sicché molti Autori criticano la distinzione poiché in ciascuna obbligazione assumono rilievo così il risultato pratico da raggiungere attraverso il vincolo, come l’impegno che il debitore deve porre per ottenerlo.

5.3. Dalla casistica giurisprudenziale emergono spunti interessanti in ordine alla dicotomia tra obbligazione di mezzi e di risultato, spesso utilizzata al fine di risolvere problemi di ordine pratico, quali la distribuzione dell’onere della prova e l’individuazione del contenuto dell’obbligo, ai fini del giudizio di responsabilità, operandosi non di rado, per ampliare la responsabilità contrattuale del professionista, una sorta di metamorfosi dell’obbligazione di mezzi in quella di risultato, attraverso l’individuazione di doveri di informazione e di avviso (cfr. segnatamente, per quanto riguarda la responsabilità professionale del medico: Cass. 19.5.2004, n. 9471), definiti accessori ma integrativi rispetto all’obbligo primario della prestazione, ed ancorati a principi di buona fede, quali obblighi di protezione, indispensabili per il corretto adempimento della prestazione professionale in senso proprio.

5.4. Sotto il profilo dell’onere della prova, la distinzione (talvolta costruita con prevalente attenzione alla responsabilità dei professionisti intellettuali e dei medici in particolare) veniva utilizzata per sostenere che mentre nelle obbligazioni di mezzi, essendo aleatorio il risultato, sul creditore incombesse l’onere della prova che il mancato risultato era dipeso da scarsa diligenza, nelle obbligazioni di risultato, invece, sul debitore incombeva l’onere della prova che il mancato risultato era dipeso da causa a lui non imputabile.

5.5. Ma anche sotto tale profilo la distinzione è stata sottoposta a revisione sia da parte della giurisprudenza che della dottrina.

Infatti, come detto, questa Corte (sent. n. 13533/2001) ha affermato che il meccanismo di ripartizione dell’onere della prova ai sensi dell’art. 2697 c.c. in materia di responsabilità contrattuale (in conformità a criteri di ragionevolezza per identità di situazioni probatorie, di riferibilità in concreto dell’onere probatorio alla sfera di azione dei singoli soggetti e di distinzione strutturale tra responsabilità contrattuale e da fatto illecito) è identico, sia che il creditore agisca per l’adempimento dell’obbligazione, ex art. 1453 cc., sia che domandi il risarcimento per l’inadempimento contrattuale, ex art. 1218 cc., senza richiamarsi in alcun modo alla distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato.

  • 6.1. Prestata piena adesione al principio espresso dalla pronunzia suddetta, ritengono queste S.U. che l’inadempimento rilevante nell’ambito dell’azione di responsabilità per risarcimento del danno nelle obbligazioni così dette di comportamento non è qualunque inadempimento, ma solo quello che costituisce causa (o concausa) efficiente del danno.
  • Ciò comporta che l’allegazione del creditore non può attenere ad un inadempimento, qualunque esso sia, ma ad un inadempimento, per così dire, qualificato, e cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno.
  • Competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è proprio stato ovvero che, pur esistendo, non è stato nella fattispecie causa del danno.
  • 6.2. Nella fattispecie, quindi, avendo l’attore provato il contratto relativo alla prestazione sanitaria (ed il punto non è in contestazione) ed il danno assunto (epatite), allegando che i convenuti erano inadempienti avendolo sottoposto ad emotrasfusione con sangue infetto, competeva ai convenuti fornire la prova che tale inadempimento non vi era stato, poiché non era stata effettuata una trasfusione con sangue infetto, oppure che, pur esistendo l’inadempimento, esso non era eziologicamente rilevante nell’azione risarcitoria proposta, per una qualunque ragione, tra cui quella addotta dell’affezione patologica già in atto al momento del ricovero.
  • 7.1. Per quanto concerne, in particolare, l’ipotesi del contagio da emotrasfusione eseguita all’interno della struttura sanitaria, gli obblighi a carico della struttura ai fini della declaratoria della sua responsabilità, vanno posti in relazione sia agli obblighi normativi esistenti al tempo dell’intervento e relativi alle trasfusioni di sangue, quali quelli relativi alla identificabilità del donatore e del centro trasfusionale di provenienza (cd. tracciabilità del sangue) che agli obblighi più generali di cui all’art. 1176 cc. nell’esecuzione delle prestazioni che il medico o la struttura possono aver violato nella singola fattispecie.
  • 7.2. Ne consegue che la sentenza impugnata, la quale ha posto a carico del paziente (creditore) la prova che al momento del ricovero esso non fosse già affetto da epatite, ha violato i principi in tema di riparto dell’onere probatorio, fissati in tema di azione per il risarcimento del danno da inadempimento contrattuale.
  • 8.1. Tale dato relativo alle patologie in corso, peraltro, doveva già emergere dai dati anamnestici prossimi e dagli accertamenti ematici di laboratorio, cui il paziente doveva essere sottoposto prima dell’intervento chirurgico e della trasfusione; dati che dovevano essere riportati sulla cartella clinica.
  • A tal fine va condiviso l’orientamento giurisprudenziale (Cass. 21.7.2003, n. 11316; Cass. 23.9.2004, n. 19133), secondo cui la difettosa tenuta della cartella clinica naturalmente non vale ad escludere la sussistenza del nesso eziologico tra la colposa condotta dei medici e la patologia accertata, ove risulti provata la idoneità di tale condotta a provocarla, ma consente anzi il ricorso alle presunzioni, come avviene in ogni caso in cui la prova non possa essere data per un comportamento ascrivibile alla stessa parte contro la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato, nel quadro dei principi in ordine alla distribuzione dell’onere della prova ed al rilievo che assume a tal fine la “vicinanza alla prova”, e cioè la effettiva possibilità per l’una o per l’altra parte di offrirla.
  • 8.2. Quanto al valore probatorio del verbale della Commissione medico-ospedaliera di Chieti, va osservato che trattasi della Commissione di cui all’art. 4 della legge n. 210 del 1992, composta da ufficiali medici ed istituita presso ospedali militari, ai fini dell’indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazione di emoderivati.

L’art. 4 statuisce che: “1. Il giudizio sanitario sul nesso causale tra la vaccinazione, la trasfusione, la somministrazione di emoderivati, il contatto con il sangue e derivati in occasione di attività di servizio e la menomazione dell’integrità psico-fisica o la morte è espresso dalla commissione medico-ospedaliera di cui all’art 165 del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092.

  1. La commissione medico-ospedaliera redige un verbale degli accertamenti eseguiti e formula il giudizio diagnostico sulle infermità e sulle lesioni riscontrate.
  2. La commissione medico-ospedaliera esprime il proprio parere sul nesso causale tra le infermità o le lesioni e la vaccinazione, la trasfusione, la somministrazione di emoderivati, il contatto con il sangue e derivati in occasione di attività di servizio”.

8.3. Al di fuori del procedimento amministrativo per la concessione dell’indennizzo di cui alla legge, tali verbali hanno lo stesso valore di qualunque altro verbale redatto da un pubblico ufficiale fuori dal giudizio civile ed in questo prodotto. Pertanto essi fanno prova, ex art. 2700 c.c., dei fatti che la commissione attesta essere avvenuti in sua presenza, o essere stati dalla stessa compiuti, mentre le valutazioni, le diagnosi o comunque le manifestazioni di scienza o di opinione in essi contenute costituiscono materiale indiziario soggetto al libero apprezzamento del giudice, il quale può valutarne l’importanza ai fini della prova, ma non può mai attribuire a loro il valore di vero e proprio accertamento (Cass. 20/07/2004, n. 13449; Cass. 25/06/2003, n. 10128; Cass. 25/06/2003, n. 10128; Cass. 12/05/2003, n. 7201).

9.1. Infondata è l’eccezione di carenza di legittimazione passiva avanzata dai resistenti eredi T., sotto il profilo che il de cuius dr. G.T. non poteva essere tenuto ad un controllo sulla qualità dei campioni di sangue trasfuso.

L’istituto della legittimazione ad agire o a contraddire il giudizio (legittimazione attiva o passiva) si ricollega al principio dettato dall’art. 81 c.p.c., secondo cui nessuno può far valere nel processo un diritto altrui in nome proprio fuori dei casi espressamente previsti dalla legge e comporta – trattandosi di materia attinente al contraddittorio e mirandosi a prevenire una sentenza “inutiliter data” – la verifica, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del processo (salvo che sulla questione sia intervenuto il giudicato interno) e in via preliminare al merito (con eventuale pronuncia di inammissibilità della domanda), circa la coincidenza dell’attore e del convenuto con i soggetti che, secondo la legge che regola il rapporto dedotto in giudizio, sono destinatati degli effetti della pronuncia richiesta. Dalla questione relativa alla legittimazione si distingue quella relativa alla effettiva titolarità del rapporto giuridico dedotto in causa, che non può essere rilevata d’ufficio dal giudice dell’impugnazione in difetto di specifico gravame. (cfr. Cass. 17.7.2002, n. 10388; Cass. 27/10/1995, n. 11190).

Nella fattispecie l’eccezione, così come prospettata, attiene non alla legittimazione passiva ma alla titolarità passiva del rapporto dedotto in giudizio. Ciò comporta che la questione non possa essere rilevata d’ufficio da questo Collegio.

9.2. Ove sul punto si fosse pronunziato il giudice di appello, affermando tale titolarità passiva, pur rigettando poi l’appello per altre ragioni, la questione poteva essere proposta con ricorso incidentale condizionato.

Non essendosi il giudice pronunziato, e quindi non essendoci sul punto una soccombenza per quanto virtuale, la questione non avrebbe potuto essere proposta a questa Corte con impugnazione incidentale, ma l’accoglimento del ricorso principale comporta la possibilità di riesame nel giudizio di rinvio di detta eccezione (Cass. 20/08/2003, n. 12219).

10 In definitiva va accolto il ricorso nei termini suddetti; va cassata,in relazione, l’impugnata sentenza e la causa va rinviata, anche per le spese del giudizio di cassazione, ad altra sezione della corte di appello di Roma, che si uniformerà ai seguenti principi di diritto:

  1. A) In tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell’onere probatorio, l’attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare il contratto (o il contatto sociale) e l’aggravamento della patologia o l’insorgenza di un’affezione ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato.

Competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante.

  1. B) I verbali della Commissione medico-ospedaliera di cui all’art. 4 della L n. 210/1992 fanno prova, ex art. 2700 c.c., dei fatti che la commissione attesta essere avvenuti in sua presenza, o essere stati dalla stessa compiuti, mentre le valutazioni, le diagnosi o comunque le manifestazioni di scienza o di opinione in essi contenute costituiscono materiale indiziario soggetto al libero apprezzamento del giudice, il quale può valutarne l’importanza ai fini della prova, ma non può mai attribuire a loro il valore di vero e proprio accertamento.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione. Cassa l’impugnata sentenza e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di cassazione, ad altra sezione della Corte di appello di Roma.

  • E’ il caso di aggiungere, per puro spirito di completezza, che la giurisprudenza di questa Corte, alla quale il collegio intende dare continuita’, pacificamente ritiene che, in via di principio, pur quando manchi un rapporto di subordinazione o di collaborazione tra clinica e sanitario, sussiste comunque un collegamento tra i due contratti stipulati, l’uno tra il medico ed il paziente, e l’altro, tra il paziente e la Casa di cura, contratti aventi ad oggetto, il primo, prestazioni di natura professionale medica, comportanti l’obbligo di abile e diligente espletamento dell’attivita’ professionale (e, a volte, anche di raggiungimento di un determinato risultato) e, il secondo, prestazione di servizi accessori di natura alberghiera, di natura infermieristica ovvero aventi ad oggetto la concessione in godimento di macchinari sanitari, di attrezzi e di strutture edilizie specificamente destinate allo svolgimento di attivita’ terapeutiche e/o chirurgiche.
  • Trattasi di collegamento, per cosi’ ontologico, che dal piano fattuale assume inevitabilmente rilevanza su quello giuridico, posto che di norma, l’individuazione della Casa di cura dove il medico eseguira’ la prestazione promessa costituisce parte fondamentale del contenuto del contratto stipulato tra il paziente e il professionista, nel senso che ciascun medico opera esclusivamente presso determinate cliniche e che, a sua volta, ciascuna Casa di cura accetta solo i pazienti curati da determinati medici (confr. Cass. civ. 14 giugno 2007, n. 13953).
  • Ne deriva che deve ritenersi consustanziale al dovere di diligente espletamento della prestazione l’obbligo del medico di accertarsi preventivamente che la Casa di cura dove si appresta a operare sia pienamente idonea, sotto ogni profilo, ad offrire tutto cio’ che serve per il sicuro e ottimale espletamento della propria attivita’; cosi’ come, reciprocamente la Casa di cura e’ obbligata a vigilare che chi si avvale della sua organizzazione sia abilitato all’esercizio della professione medica in generale e, in particolare, al compimento della specifica prestazione di volta in volta richiesta nel caso concreto. E tanto in applicazione del principio generale di cui all’articolo 1228 c.c., il quale comporta che il medico, come ogni debitore, e’ responsabile dell’operato dei terzi della cui attivita’ si avvale, cosi’ come la struttura risponde non solo dell’inadempimento delle obbligazioni su di essa tout court incombenti, ma anche dell’inadempimento della prestazione svolta dal sanitario, quale ausiliario necessario dell’organizzazione aziendale (confr. Cass. civ. 26 giugno 2012, n. 10616; Cass. civ. 6 giugno 2014, n. 12833; Cass. civ. 14 giugno 2007, n. 13953).
  • Ne consegue che correttamente il convenuto e’ stato condannato a rifondere tutti i danni subiti dagli attori.

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 13 gennaio 2015, n. 280

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETTI Giovanni B. – Presidente

Dott. AMENDOLA Adelaide – rel. Consigliere

Dott. AMBROSIO Annamaria – Consigliere

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 8955/2013 proposto da:

(OMISSIS) (OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentato e difeso dall’avvocato (OMISSIS) giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

(OMISSIS) e (OMISSIS) in proprio e nella qualita’ di esercenti la potesta’ e tutori del figlio (OMISSIS), elettivamente domiciliati in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentati e difesi dall’avvocato (OMISSIS) giusta procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 232/2012 della CORTE D’APPELLO di SALERNO, depositata il 28/02/2012, R.G.N. 1305/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/10/2014 dal Consigliere Dott. ADELAIDE AMENDOLA;

udito l’Avvocato (OMISSIS);

udito l’Avvocato (OMISSIS) per delega;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. VELARDI Maurizio, che ha concluso per l’inammissibilita’ in subordine per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

In data (OMISSIS), giunta al termine della gravidanza, (OMISSIS) venne ricoverata, su indicazione del Dott. (OMISSIS), che l’aveva seguita durante la gestazione, presso la Casa di Cura (OMISSIS). All’esito del travaglio, risultati vani i numerosi tentativi di espulsione naturale del feto, non essendo piu’ praticabile il taglio cesareo, il ginecologo, alle ore 19.30 del (OMISSIS), provvide a estrarre il bambino facendo uso del forcipe.

Il neonato, manifestando sintomi di sofferenza perinatale, venne trasferito la sera stessa della nascita all’ospedale di (OMISSIS), dove fu formulata diagnosi di emorragia endocranica da parto distocico.

Deducendo che il figlio, a causa dell’imperizia del sanitario, era affetto da tetraparesi spastica, microcefalia e ritardo motorio, (OMISSIS) e (OMISSIS), in proprio e quali esercenti la potesta’ genitoriale sul minore, convennero (OMISSIS) innanzi al Tribunale di Salerno, chiedendo il risarcimento dei danni subiti.

Resistette il convenuto.

Con sentenza del 1 luglio 2005 il giudice adito dichiaro’ il (OMISSIS) responsabile nella misura di un terzo dei pregiudizi lamentati dagli attori, per l’effetto condannandolo al pagamento in loro favore della somma di euro 375.000,00, oltre interessi e spese.

Proposto gravame principale dal (OMISSIS) e incidentale dalla (OMISSIS) e dal (OMISSIS), la Corte d’appello di Salerno, in data 26 febbraio 2012, in riforma della impugnata sentenza, ha condannato (OMISSIS) al pagamento, in favore di (OMISSIS) e di (OMISSIS), nella qualita’ di legali rappresentanti del figlio (OMISSIS), della somma di euro 434.000,00, nonche’ in favore degli stessi in proprio, della somma di euro 83.000,00 ciascuno, oltre accessori.

Per la cassazione di detta decisione ricorre a questa Corte (OMISSIS), formulando due motivi, illustrati anche da memoria.

Resistono con controricorso (OMISSIS) e (OMISSIS).

MOTIVI DELLA DECISIONE

1 Va preliminarmente dichiarata l’inammissibilita’ del controricorso per tardivita’.

E invero, a norma dell’articolo 370 c.p.c., la parte contro la quale il ricorso e’ diretto, se intende contraddire, deve farlo mediante controricorso da notificarsi al ricorrente nel domicilio eletto entro venti giorni dalla scadenza del termine stabilito per il deposito del ricorso. In mancanza di tale notificazione, essa non puo’ presentare memorie, ma soltanto partecipare alla discussione orale.

Orbene, nella fattispecie, a fronte di una notifica del ricorso intervenuta in data 29 marzo 2013, il controricorso e’ stato presentato per la notifica il 19 giugno successivo, ben oltre, dunque, il limite temporale massimo stabilito dalla norma processuale richiamata.

Cio’ nondimeno il difensore ha validamente partecipato alla discussione orale, posto che, in tema di giudizio di legittimita’, la procura speciale conferita dalla parte intimata con un controricorso inammissibile resta valida come atto di costituzione, consentendo al difensore della stessa di partecipare attivamente alla pubblica udienza (confr. Cass. civ. 28 maggio 2013, n. 13183).

2 Con il primo motivo l’impugnante denuncia violazione degli articoli 40 e 41 c.p., articoli 1176, 1218, 1223, 1226 e 1227 c.c., articoli 115 e 116 c.p.c., nonche’ mancanza, insufficienza e contraddittorieta’ della motivazione, ex articolo 360 c.p.c., nn. 3 e 5.

Oggetto delle critiche e’ l’affermazione del giudice di merito secondo cui la valutazione di una situazione di concorso tra cause naturali non imputabili e cause umane imputabili puo’ sfociare, alternativamente, o in un giudizio di responsabilita’ totale per l’autore della causa umana, o in un giudizio di totale assolvimento da ogni responsabilita’, con esclusione, dunque, di ogni possibilita’ di graduare percentualmente la responsabilita’ dell’autore della causa imputabile.

Tali argomentazioni – sostiene l’esponente – farebbero malgoverno della distinzione, ormai assurta a diritto vivente, tra causalita’ materiale e causalita’ giuridica: la prima, regolata dagli articoli 40 e 41 c.p., volta a imputare al responsabile l’evento lesivo; la seconda, regolata dall’articolo 1223 c.c., volta a stabilire l’entita’ delle conseguenze pregiudizievoli del fatto di cui deve rispondere l’autore.

3 Le critiche non hanno pregio.

Nel motivare il suo convincimento la Corte d’appello ha evidenziato come, sulla base degli argomentati rilievi degli ausiliari, l’errato impiego del forcipe dovesse ritenersi fattore causale essenziale nella eziologia della patologie che affliggevano il piccolo (OMISSIS), determinandone l’invalidita’ nella misura del 100%. Del resto – ha aggiunto – una volta allegata la responsabilita’ del ginecologo per il mancato espletamento del parto cesareo, malgrado la manifestatasi sofferenza fetale, sarebbe stato onere del convenuto dimostrare o che nessun rimprovero, di scarsa diligenza o imperizia, poteva essergli mosso, oppure che, pur essendovi stato inesatto adempimento, questo non aveva avuto alcuna incidenza nella produzione del danno, laddove tale prova non era stata fornita dal (OMISSIS). Quanto poi alla dedotta esistenza di un danno cerebrale prenatale, dello stesso, ad avviso della Corte, mancava ogni certezza, tenuto conto che il convenuto aveva fatto riferimento in maniera affatto generica a una non meglio specificata situazione congenita.

In ogni caso – ha concluso il decidente – anche a voler ritenere la sussistenza, nella sequela causale che aveva dato origine alla grave patologia da cui era affetto (OMISSIS), di un fattore prenatale, valeva pur sempre il principio per cui la valutazione del concorso tra cause naturali non imputabili e cause umane imputabili poteva sfociare, alternativamente, o in un giudizio di responsabilita’ totale per l’agente, o in un giudizio di totale assolvimento da ogni responsabilita’, a seconda che il giudice ritenesse o meno, la perdurante operativita’ del nesso di causalita’ tra la predetta causa umana e l’evento, essendo esclusa ogni possibilita’ di graduare percentualmente la responsabilita’ dell’autore del comportamento.

4 A fronte di tale corredo motivazionale, l’adesione del collegio all’affermazione secondo cui, in tema di responsabilita’ civile, qualora la produzione di un evento dannoso, quale una gravissima patologia, possa apparire riconducibile, sotto il profilo eziologico, alla concomitanza della condotta del sanitario e del fattore naturale rappresentato dalla pregressa situazione del danneggiato, il giudice deve accertare, sul piano della causalita’ materiale l’efficienza della condotta rispetto all’evento, in applicazione della regola di cui all’articolo 41 c.p., cosi’ da ascrivere il fatto dannoso interamente all’autore della stessa, per poi procedere, eventualmente anche con criteri equitativi, alla valutazione della diversa incidenza delle varie concause sul piano della causalita’ giuridica (confr. Cass. civ., 21 luglio 2011, n. 15991), non giova all’esponente in quanto, al postutto, il decidente ha escluso l’enucleabilita’ nella fattispecie di un danno cerebrale neonatale, in motivata adesione all’opinione espressa dai nominati esperti, i quali avevano precisato che l’origine delle affezioni di (OMISSIS) era da ascriversi al momento del travaglio.

Cio’ vuoi dire che la mancanza di ogni riferimento, nella sentenza impugnata, alla selezione delle conseguenze dannose ascrivibili al sanitario secondo i criteri della causalita’ giuridica, non concreta ne’ un errar in iudicando ne’ un vizio motivazionale, posto che l’omissione, quand’anche imputabile all’insufficiente approccio del giudice di merito con i principi che governano la materia, non ha influito sulla scelta decisoria adottata, avendo il decidente tout court escluso la sussistenza di un concorso tra fattori naturali e condotta del medico.

Peraltro l’impugnante, lungi dal censurare gli esiti dell’apprezzamento del giudice di merito in punto di riconducibilita’, in via esclusiva, alla condotta del sanitario, delle patologie di cui e’ portatore (OMISSIS), ha articolato le sue doglianze dando per scontato un presupposto che tale non era, e cioe’ l’incidenza di fattori naturali nell’eziologia delle stesse, il che connota le critiche in termini di aspecificita’.

5 Con il secondo mezzo il ricorrente lamenta violazione degli articoli 40 e 41 c.p., articoli 1218, 1223, 1226, 1228, 1292, 1294, 1314 e 1316 c.c., articoli 112, 115 e 116 c.p.c., nonche’ mancanza, insufficienza e contraddittorieta’ della motivazione, ex articolo 360 c.p.c., nn. 3 e 5.

Evidenzia che gli attori non avevano convenuto in giudizio la Casa di cura (OMISSIS), ritenendo il (OMISSIS) unico ed esclusivo responsabile di quanto accaduto. Sennonche’ tutti i periti nominati sia dal Tribunale che dalla Corte d’appello avevano affermato la corresponsabilita’ della Clinica per inadeguatezze strutturali e organizzative, rilevando che le stesse, secondo un giudizio necessariamente probabilistico, potevano avere compromesso, sia nella fase preparatoria del parto che in quella successiva, la salute del neonato. In tale contesto, secondo l’impugnante, erroneamente la Corte d’appello, non potendo pronunciarsi (anche) nei confronti della Casa di cura, in quanto non convenuta, aveva condannato il solo medico al risarcimento integrale dei danni subiti dagli istanti, in nome di un inesistente vincolo di solidarieta’ tra la sua obbligazione e quella della Clinica e in violazione del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

La statuizione ignorerebbe peraltro, sul piano sistematico, che l’articolo 2055 c.c., e’ norma dettata in tema di responsabilita’ extracontrattuale e non si estende a quella contrattuale.

Secondo l’esponente, in definitiva, la parziarieta’ dell’obbligazione risarcitoria incombente sul medico e sulla Clinica in conseguenza dell’inadempimento di due distinti contratti da essi rispettivamente conclusi con la (OMISSIS), doveva imporre che il risarcimento a carico del (OMISSIS) venisse diminuito della percentuale di responsabilita’ addebitabile alla Casa di cura.

6 Anche tali critiche non hanno fondamento.

Nel riformare la sentenza di prime cure che aveva quantificato nella misura di un terzo il livello di contribuzione della condotta del ginecologo nella produzione dell’evento lesivo, la Corte ha escluso che le inadeguatezze strutturali e organizzative del punto nascita potessero legittimare una graduazione di responsabilita’ di (OMISSIS). Ha ricordato in proposito che, per giurisprudenza consolidata, quando un medesimo danno e’ provocato da piu’ soggetti, per inadempimenti di contratti diversi, intercorsi rispettivamente tra ciascuno di essi e il danneggiato, tali soggetti debbono essere considerati corresponsabili in solido, non tanto sulla base dell’estensione alla responsabilita’ contrattuale del disposto dell’articolo 2055 c.c., quanto perche’, sia in tema di responsabilita’ contrattuale che di responsabilita’ extracontrattuale, se un unico evento dannoso e’ imputabile a piu’ persone, al fine di ritenere la responsabilita’ di tutte nell’obbligo risarcitorio, e’ sufficiente, in base ai principi che regolano il nesso di causalita’ e il concorso di piu’ cause nella produzione dell’evento, che le azioni od omissioni di ciascuno abbiano concorso in modo efficiente a produrlo. Conseguentemente – ha concluso – la persona danneggiata in conseguenza di un fatto dannoso imputabile a piu’ persone legate da un vincolo di solidarieta’, puo’ pretendere l’intero da una sola di esse, mentre la diversa gravita’ delle rispettive colpe e l’eventuale, diseguale efficienza causale delle loro condotte poteva avere rilevanza solo ai fini della ripartizione interna dell’obbligazione passiva di risarcimento dei corresponsabili.

Esaminando, nell’ambito di tale ricostruzione dogmatica, l’appello incidentale degli attori nella parte in cui era volto a contestare la graduazione di responsabilita’ del (OMISSIS) nei limiti di un terzo, la Corte lo ha ritenuto meritevole di accoglimento, evidenziando che le valutazioni in ordine alla pretesa inidoneita’ della struttura sanitaria erano state prospettate dagli esperti nominati dal Tribunale in via meramente ipotetica ed erano pertanto prive dei necessari requisiti di specificita’, mentre i consulenti nominati nel giudizio di gravame avevano individuato quali concause della patologia da cui era affetto (OMISSIS) solo l’ipossia e la cattiva utilizzazione del forcipe, escludendo il concorso di cause successive al parto.

7 Cio’ vuoi dire che, ferma l’operativita’ della presente decisione nei confronti delle sole parti in causa, la condanna del convenuto al pagamento dell’intero danno subito dagli attori e’ sorretta da due rationes decidendi, basate, l’una, sul carattere solidale dell’obbligazione risarcitoria in tesi gravante e sul medico e sulla clinica, l’altra sulla insussistenza, in concreto, di profili di responsabilita’ di quest’ultima.

Ora, il ricorrente ha del tutto ignorato i rilievi in ordine alla mancanza di presupposti per ravvisare nella pretesa inidoneita’ della struttura una concausa del danno, concentrandosi esclusivamente sulla natura parziaria della sua obbligazione.

In tale contesto le critiche non sfuggono alla sanzione dell’inammissibilita’, in applicazione del principio per cui, qualora la decisione di merito si fondi su di una pluralita’ di ragioni, tra loro distinte e autonome, singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, la ritenuta infondatezza delle censure mosse ad una di esse rende inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse, le censure relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime non potrebbero comunque condurre, stante l’intervenuta definitivita’ delle altre, alla cassazione della decisione stessa (confr. Cass. civ. sez. un. 29 marzo 2013, n. 7931; Cass. civ. 14 febbraio 2012, n. 2108).

8 E’ il caso di aggiungere, per puro spirito di completezza, che la giurisprudenza di questa Corte, alla quale il collegio intende dare continuita’, pacificamente ritiene che, in via di principio, pur quando manchi un rapporto di subordinazione o di collaborazione tra clinica e sanitario, sussiste comunque un collegamento tra i due contratti stipulati, l’uno tra il medico ed il paziente, e l’altro, tra il paziente e la Casa di cura, contratti aventi ad oggetto, il primo, prestazioni di natura professionale medica, comportanti l’obbligo di abile e diligente espletamento dell’attivita’ professionale (e, a volte, anche di raggiungimento di un determinato risultato) e, il secondo, prestazione di servizi accessori di natura alberghiera, di natura infermieristica ovvero aventi ad oggetto la concessione in godimento di macchinari sanitari, di attrezzi e di strutture edilizie specificamente destinate allo svolgimento di attivita’ terapeutiche e/o chirurgiche.

Trattasi di collegamento, per cosi’ ontologico, che dal piano fattuale assume inevitabilmente rilevanza su quello giuridico, posto che di norma, l’individuazione della Casa di cura dove il medico eseguira’ la prestazione promessa costituisce parte fondamentale del contenuto del contratto stipulato tra il paziente e il professionista, nel senso che ciascun medico opera esclusivamente presso determinate cliniche e che, a sua volta, ciascuna Casa di cura accetta solo i pazienti curati da determinati medici (confr. Cass. civ. 14 giugno 2007, n. 13953). Ne deriva che deve ritenersi consustanziale al dovere di diligente espletamento della prestazione l’obbligo del medico di accertarsi preventivamente che la Casa di cura dove si appresta a operare sia pienamente idonea, sotto ogni profilo, ad offrire tutto cio’ che serve per il sicuro e ottimale espletamento della propria attivita’; cosi’ come, reciprocamente la Casa di cura e’ obbligata a vigilare che chi si avvale della sua organizzazione sia abilitato all’esercizio della professione medica in generale e, in particolare, al compimento della specifica prestazione di volta in volta richiesta nel caso concreto. E tanto in applicazione del principio generale di cui all’articolo 1228 c.c., il quale comporta che il medico, come ogni debitore, e’ responsabile dell’operato dei terzi della cui attivita’ si avvale, cosi’ come la struttura risponde non solo dell’inadempimento delle obbligazioni su di essa tout court incombenti, ma anche dell’inadempimento della prestazione svolta dal sanitario, quale ausiliario necessario dell’organizzazione aziendale (confr. Cass. civ. 26 giugno 2012, n. 10616; Cass. civ. 6 giugno 2014, n. 12833; Cass. civ. 14 giugno 2007, n. 13953).

Ne consegue che correttamente il convenuto e’ stato condannato a rifondere tutti i danni subiti dagli attori.

9 In definitiva il ricorso deve essere integralmente rigettato. Segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.

La circostanza che il ricorso per cassazione e’ stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilita’ del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla Legge 24 dicembre 2012, n. 228, articolo 1, comma 17. Invero, in base al tenore letterale della disposizione, il rilevamento della sussistenza o meno dei presupposti per l’applicazione dell’ulteriore contributo unificato costituisce un atto dovuto, poiche’ l’obbligo di tale pagamento aggiuntivo non e’ collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo – ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione – del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, dell’impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell’ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio, liquidate in complessivi euro 8.000,00 (di cui euro 200,00 per esborsi), oltre accessori e spese generali, come per legge.

Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1-quater, da’ atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis

responsabilita\’ medica responsabilita medica e sanitaria
responsabilita medica diritto civile
responsabilita medica diagnosi errata

responsabilita medica e sanitaria responsabilita medica e sanitaria mediazione

responsabilita medica e sanitaria mediazione 3
responsabilita medica diritto civile 2
responsabilita medica diagnosi errata responsabilita medica per errata diagnosi

responsabilita medica per errata diagnosi

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ERRATA DIAGNOSI DEL MEEDICO ERRORE

 

 

 

La valutazione della colpa medica deve essere compiuta con speciale cautela nei casi in cui si richiedano interventi particolarmente delicati e complessi e che coinvolgano l’aspetto più squisitamente scientifico dell’arte medica. In particolare, un’attenta e prudente analisi della realtà di ciascun caso può consentire di distinguere i casi nei quali vi è una particolare difficoltà della diagnosi sovente accresciuta dall’urgenza, da quelle situazioni in cui, invece, il medico è malaccorto, non si adopera per fronteggiare adeguatamente l’urgenza o tiene comportamenti semplicemente omissivi, tanto più quando la sua specializzazione gli impone di agire tempestivamente proprio in urgenza”.

Art. 43. Elemento psicologico del reato

Il delitto: è doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione;

è preterintenzionale, o oltre l’intenzione, quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente;

è colposo, o contro l’intenzione quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.

La distinzione tra reato doloso e reato colposo, stabilita da questo articolo per i delitti, si applica altresì alle contravvenzioni, ogni qualvolta per queste la legge penale faccia dipendere da tale distinzione un qualsiasi effetto giuridico”.

Art. 589. Omicidio colposo

Chiunque cagiona per colpa la morte di una persona è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni.

Se il fatto è commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale o di quelle per la prevenzione degli infortuni sul lavoro la pena è della reclusione da due a sette anni.Si applica la pena della reclusione da tre a dieci anni se il fatto è commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale da:

1) soggetto in stato di ebbrezza alcolica ai sensi dell’articolo 186, comma 2, lettera c), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e successive modificazioni;

2) soggetto sotto l’effetto di sostanze stupefacenti o psicotrope.

Nel caso di morte di più persone, ovvero di morte di una o più persone e di lesioni di una o più persone, si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse aumentata fino al triplo, ma la pena non può superare gli anni quindici”.

 

Nel giudizio di liquidazione del danno da perdita della chance verranno ad assumere rilievo sia l’aspetto della prossimità della situazione fattuale al conseguimento del risultato sperato, sia il profilo della maggiore o minore idoneità a garantire questo risultato. Sotto il primo aspetto, il valore della perdita dipenderà dalla sufficienza del comportamento tenuto o mancato, da parte del responsabile, a determinare il risultato sperato (ovvero dalla necessità, al contrario, dell’intervento di ulteriori evenienze, da valutarsi caso per caso quanto alla probabilità o solamente alla possibilità del loro accadimento); sotto il secondo aspetto, rileverà l’idoneità in concreto della situazione a determinare il risultato sperato, cioè la probabilità o la mera possibilità del conseguimento del risultato, anche in termini percentuali.

 

Alla fine dell’anno 2000 la Suprema Corte in due occasioni (Sez. 4, 28 settembre 2000, Musto, e Sez. 4, 29 novembre 2000, Baltrocchi) ha poi sostanzialmente rivisto ex novo la tematica in questione procedendo ad ulteriori puntualizzazioni. In tali occasioni è stato invero rilevato che ‘il problema del significato da attribuire alla espressione “con alto grado di probabilità”….non può essere risolto se non attribuendo all’espressione il valore, il significato, appunto, che le attribuisce la scienza e, prima ancora, la logica cui la scienza si ispira, e che non può non attribuirgli il diritto’; ed è stato quindi affermato che ‘per la scienza’ non v’è alcun dubbio che dire “alto grado di probabilità”, – coltissima percentuale, “numero sufficientemente alto di casi”, voglia dire che, in tanto il giudice può affermare che una azione o omissione sono state causa di un evento, in quanto possa effettuare il giudizio controfattuale avvalendosi di una legge o proposizione scientifica che “enuncia una connessione tra eventi in una percentuale vicina a cento”…., questa in sostanza realizzando quella ‘probabilità vicina alla certezza’. Successivamente (Sez. 4, 23/1/2002, dep. 10/6/2002, Orlando) è stata sottolineata la distinzione tra la probabilità statistica e la probabilità logica, ed è stato evidenziato come una percentuale statistica pur alta possa non avere alcun valore eziologico effettivo quando risulti che, in realtà, un certo evento è stato cagionato da una diversa condizione; e come, al contrario, una percentuale statistica medio-bassa potrebbe invece risultare positivamente suffragata in concreto dalla verifica della insussistenza di altre possibili cause esclusive dell’evento, di cui si sia potuto escludere l’interferenza.

È stato dunque richiesto l’intervento delle Sezioni Unite in presenza del radicale contrasto che nel tempo si era determinato all’interno della giurisprudenza di legittimità tra due contrapposti indirizzi interpretativi in ordine alla ricostruzione del nesso causale tra condotta omissiva ed evento, con particolare riguardo alla materia della responsabilità professionale del medico-chirurgo: secondo talune decisioni (che avevano dato vita all’orientamento delineatosi più recentemente) sarebbe necessaria la prova che un diverso comportamento dell’agente avrebbe impedito l’evento con un elevato grado di probabilità ‘prossimo alla certezza’, e cioè in una percentuale di casi ‘quasi prossima a cento’; secondo altre decisioni sarebbero invece sufficienti ‘serie ed apprezzabili probabilità di successo’ per l’impedimento dell’evento.

Le Sezioni Unite si sono quindi pronunciate con la sentenza n. 30328 del 10/07/2002 Ud. (dep. 11/09/2002 – imp. Franzese), con la quale sono stati individuati i criteri da seguire perché possa dirsi sussistente il nesso causale tra la condotta omissiva e l’evento, e sono stati enunciati taluni principi che appare opportuno qui sinteticamente ricordare: 1) il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica – universale o statistica – si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa impeditiva dell’evento ‘hic et nunc’, questo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva; 2) non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, così che, all’esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso l’interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con ‘alto o elevato grado di credibilità razionale’ o ‘probabilità logica’; 3) l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio; 4) alla Corte di Cassazione, quale giudice di legittimità, è assegnato il compito di controllare retrospettivamente la razionalità delle argomentazioni giustificative – la c.d. giustificazione esterna – della decisione, inerenti ai dati empirici assunti dal giudice di merito come elementi di prova, alle inferenze formulate in base ad essi ed ai criteri che sostengono le conclusioni: non la decisione, dunque, bensì il contesto giustificativo di essa, come esplicitato dal giudice di merito nel ragionamento probatorio che fonda il giudizio di conferma dell’ipotesi sullo specifico fatto da provare.

Può dunque affermarsi che le Sezioni Unite hanno ripudiato qualsiasi interpretazione che faccia leva, ai fini della individuazione del nesso causale quale elemento costitutivo del reato, esclusivamente o prevalentemente su dati statistici ovvero su criteri valutativi a struttura probabilistica, in tal modo mostrando di propendere, tra i due contrapposti indirizzi interpretativi sopra ricordati, maggiormente verso quello delineatosi in tempi più recenti. L’articolato percorso motivazionale seguito nella sentenza Franzese, induce a ritenere che le Sezioni Unite, nel sottolineare la necessità dell’individuazione del nesso di causalità (quale ‘condicio sine qua non’ di cui agli artt. 40 e 41 del codice penale) in termini di certezza, abbiano inteso riferirsi non alla certezza oggettiva (storica e scientifica), risultante da elementi probatori di per sé altrettanto inconfutabili sul piano della oggettività, bensì alla ‘certezza processuale’ che, in quanto tale, non può essere individuata se non con l’utilizzo degli strumenti di cui il giudice dispone per le sue valutazioni probatorie: ‘certezza’, che deve essere pertanto raggiunta dal giudice valorizzando tutte le circostanze del caso concreto sottoposto al suo esame, secondo un procedimento logico – praticamente analogo a quello seguito allorquando si tratta di valutare la prova indiziaria, la cui disciplina è dettata dal secondo comma dell’art. 192 del codice di procedura penale – che consenta di poter ricollegare un evento ad una condotta omissiva ‘al di là di ogni ragionevole dubbio’ (vale a dire, con alto o elevato grado di credibilità razionale o probabilità logica). Invero, non pare che possa diversamente intendersi il pensiero che le Sezioni Unite hanno voluto esprimere allorquando hanno testualmente affermato che deve risultare “giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con alto o elevato grado di credibilità ragionale o ‘probabilità logica”.

 

D’altronde, la rilevanza dell’elemento tempo quale componente essenziale del bene della vita, con la conseguente rilevanza di ogni fatto imputabile che ne determini l’anticipata cessazione, è già presente nella giurisprudenza di questa Corte, intervenuta, – oltre che nel caso su ricordato, del tutto affine al presente (Cass. n. 23846/08)-in ipotesi speculari, ma comunque significative (di comportamento commissivo che anticipi un decesso comunque inevitabile, piuttosto che – come nel caso di specie – di omissione di comportamento che ne avrebbe ritardato la sopravvenienza: cfr. Cass. n. 5962/00 e n. 20996/12). Questa stessa giurisprudenza ha pure chiarito che, proprio perché il fatto illecito non è stato causa della morte in sé, ma solo della morte in quella data e non successivamente, il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale in favore degli aventi diritto, non potrà che investire detta anticipazione della morte, ed avere quindi come termine di riferimento il lasso di tempo intercorrente tra la data in cui l’evento si è effettivamente verificato e quello in cui si sarebbe presumibilmente verificato se il fatto illecito acceleratore dei fattori patogenetici preesistenti non vi fosse stato (cfr., in motivazione, Cass. n. 5962/00 cit.).

Il principio va adattato al caso in cui il danno sia consistito in una perdita di chance, dovendosi contemperare con il criterio di quantificazione del risarcimento in ragione della maggiore o minore idoneità, anche percentuale, della chance a produrre il risultato sperato.

In conclusione va affermato che, in tema di responsabilità medica, dà luogo a danno risarcibile l’errata esecuzione di un intervento chirurgico praticabile per rallentare l’esito certamente infausto di una malattia, che abbia comportato la perdita per il paziente della chance di vivere per un periodo di tempo più lungo rispetto a quello poi effettivamente vissuto. In tale eventualità, le possibilità di sopravvivenza, misurate in astratto secondo criteri percentuali, rilevano ai fini della liquidazione equitativa del danno, che dovrà altresì tenere conto dello scarto temporale tra la durata della sopravvivenza effettiva e quella della sopravvivenza possibile in caso di intervento chirurgico corretto.

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D’altronde, la rilevanza dell’elemento tempo quale componente essenziale del bene della vita, con la conseguente rilevanza di ogni fatto imputabile che ne determini l’anticipata cessazione, è già presente nella giurisprudenza di questa Corte, intervenuta, – oltre che nel caso su ricordato, del tutto affine al presente (Cass. n. 23846/08)-in ipotesi speculari, ma comunque significative (di comportamento commissivo che anticipi un decesso comunque inevitabile, piuttosto che – come nel caso di specie – di omissione di comportamento che ne avrebbe ritardato la sopravvenienza: cfr. Cass. n. 5962/00 e n. 20996/12). Questa stessa giurisprudenza ha pure chiarito che, proprio perché il fatto illecito non è stato causa della morte in sé, ma solo della morte in quella data e non successivamente, il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale in favore degli aventi diritto, non potrà che investire detta anticipazione della morte, ed avere quindi come termine di riferimento il lasso di tempo intercorrente tra la data in cui l’evento si è effettivamente verificato e quello in cui si sarebbe presumibilmente verificato se il fatto illecito acceleratore dei fattori patogenetici preesistenti non vi fosse stato (cfr., in motivazione, Cass. n. 5962/00 cit.).

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Originally posted 2021-05-13 17:44:00.

SEPARAZIONE TRADIMENTO 2021 BOLOGNA : WHATSAPP

SE SI VALUTA LA REALTA’  E LA NORMALITA’MOLTI TRADIMENTI SI SCOPRONO E CORRONO IN VIA TELEMATICA

Famiglia – Coniugi – Separazione – Addebito – Messaggi inviati per via telematica 

I messaggi inviati per via telematica all’amante POSSON O4SSERE PROVA SUFFICENTE  PER ADDEBITO SEPARAZIONE?

 

SI costituiscono una prova sufficiente per addebitare la separazione ponendola legittimamente a carico del coniuge che abbia intrattenuto la relazione adulterina comprovata dai predetti messaggi.

 

 Sulla efficacia probatoria delle riproduzioni informatiche rileva che per procedere al disconoscimento e per rendere il disconoscimento idoneo ad escludere la prova, occorre che esso sia chiaro, circostanziato ed esplicito per attestare che la riproduzione informatica non sia congrua alla verità fattuale.

 

In tema di efficacia probatoria delle riproduzioni informatiche di cui all’art. 2712 c.c. il disconoscimento idoneo a farne perdere la qualità di prova, degradandole a presunzioni semplici, deve essere chiaro, circostanziato ed esplicito, dovendosi concretizzare nell’allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta (Cass. 2 settembre 2016, n. 17526; Cass. 17 febbraio 2015, n. 3122). In tal senso, non possono quindi ritenersi espressive del dedotto disconoscimento le deduzioni, richiamate dal ricorrente (pag. 9 del ricorso), secondo cui lo stesso «non aveva mai dato inizio ad alcuna relazione affettiva in costanza di matrimonio» o in cui si è assunto «l’infondatezza delle affermazioni della Mariani circa la supposta esistenza di una relazione extraconiugale del sig. Nativi».

AFFIDO-FIGLI-A-BOLOGNA-NELLA-SEPARAZIONE-AVVOCATO-DIVORZISTA

AFFIDO FIGLI AFFIDO CONDIVISO AVVOCATO DIVORZISTA BOLOGNA

D’altro canto, il rilievo per cui l’odierno istante, a fronte della produzione in giudizio delle evidenze telematiche, avrebbe smentito che quanto rappresentato nella documentazione corrispondesse alla realtà dei fatti in essa descritta (sempre pag. 9 del ricorso) appare del tutto generico e carente di autosufficienza: infatti, sono inammissibili, per violazione dell’art. 366, n. 6, c.p.c., le censure fondate su atti e documenti del giudizio di merito qualora il ricorrente si limiti a richiamare tali atti e documenti, senza riprodurli nel ricorso ovvero, laddove riprodotti, senza fornire puntuali indicazioni necessarie alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame, ovvero ancora senza precisarne la collocazione nel fascicolo di ufficio o in quello di parte e la loro acquisizione o produzione in sede di giudizio di legittimità (Cass. Sez. U. 27 dicembre 2019, n. 34469). Analoghe considerazioni andrebbero svolte con riferimento al richiamo, operato dallo stesso ricorrente, alle deduzioni da lui svolte 4 Corte di Cassazione – copia non ufficiale nella memoria ex art. 190 c.p.c. (ove si sarebbe fatta menzione della possibile artificiosa realizzazione del messaggio: pagg. 9 s. del ricorso): ma sul punto è assorbente l’osservazione per cui il disconoscimento soggiace a precise preclusioni processuali (Cass. 19 gennaio 2018, n. 1250, che menziona, in proposito, quelle desumibili dagli artt. 167 e 183 c.p.c.), onde non può essere certamente svolto con gli scritti conclusionali.

 

 

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D’altro canto, il rilievo per cui l’odierno istante, a fronte della produzione in giudizio delle evidenze telematiche, avrebbe smentito che quanto rappresentato nella documentazione corrispondesse alla realtà dei fatti in essa descritta (sempre pag. 9 del ricorso) appare del tutto generico e carente di autosufficienza: infatti, sono inammissibili, per violazione dell’art. 366, n. 6, c.p.c.,

 

. il disconoscimento idoneo a farne perdere la qualità di prova, degradandole a presunzioni semplici, deve essere chiaro, circostanziato ed esplicito, dovendosi concretizzare nell’allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta (Cass. 2 settembre 2016, n. 17526; Cass. 17 febbraio 2015, n. 3122). In tal senso, non possono quindi ritenersi espressive del dedotto disconoscimento le deduzioni, richiamate dal ricorrente (pag. 9 del ricorso), secondo cui lo stesso «non aveva mai dato inizio ad alcuna relazione affettiva in costanza di matrimonio» o in cui si è assunto «l’infondatezza delle affermazioni della Mariani circa la supposta esistenza di una relazione extraconiugale del sig. Nativi». D’altro canto, il rilievo per cui l’odierno istante, a fronte della produzione in giudizio delle evidenze telematiche, avrebbe smentito che quanto rappresentato nella documentazione corrispondesse alla realtà dei fatti in essa descritta (sempre pag. 9 del ricorso) appare del tutto generico e carente di autosufficienza: infatti, sono inammissibili, per violazione dell’art. 366, n. 6, c.p.c., le censure fondate su atti e documenti del giudizio di merito qualora il ricorrente si limiti a richiamare tali atti e documenti, senza riprodurli nel ricorso ovvero, laddove riprodotti, senza fornire puntuali indicazioni necessarie alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame, ovvero ancora senza precisarne la collocazione nel fascicolo di ufficio o in quello di parte e la loro acquisizione o produzione in sede di giudizio di legittimità (Cass. Sez. U. 27 dicembre 2019, n. 34469). Analoghe considerazioni andrebb

 

 

 

 

 

Da ultimo, la Corte di merito precisava che il prelievo di denaro da parte di Evelyn Mariani e l’abbandono della casa coniugale nel corso dell’anno 2014 non assumevano rilievo, ai fini del giudizio di addebito della separazione «atteso il loro logico collegamento con la condotta fedifraga del marito e il difetto di prova in ordine alla già avvenuta compromissione dell’unità matrimoniale all’epoca del tradimento, che i testi affermano ammesso 2 Corte di Cassazione – copia non ufficiale nel febbraio 2013 per i fatti di fine anno 2012». 2. — Simone Nativi ha impugnato la pronuncia d’appello con un ricorso per cassazione articolato in due motivi. Resiste con controricorso Evelyn Mariani. Il ricorrente ha depositato memoria. 3. — Il Collegio ha autorizzato la redazione della presente ordinanza in forma semplificata. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. — Con il primo motivo il ricorrente oppone la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., in punto di valutazione della prova rappresentata dalla corrispondenza telematica prodotta in giudizio e dalle prove orali dei testi indotti dalla controparte, in combinato disposto con gli artt. 2727 e 2729 c.c., oltre che la violazione dell’art. 2712 c.c.. Viene dedotto che, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice del gravame, il ricorrente aveva in più occasioni smentito di essere l’autore dei messaggi inoltrati per via telematica i quali attesterebbero l’esistenza della relazione extraconiugale. L’istante lamenta, inoltre, che la Corte territoriale, confermando l’operato del giudice di primo grado, abbia ritenuto che dalle comunicazioni telematiche fosse possibile risalire, attraverso un procedimento induttivo al fatto ignoto, costituito dalla relazione extraconiugale. Viene osservato, al riguardo, che l’esame degli indizi emersi nel corso del procedimento non avevano i connotati della gravità della precisione e della concordanza, tenuto conto anche del rapporto di parentela intercorrente tra i testi escussi ed Evelyn Mariani. Il ricorrente contesta, infine, il rilievo che potrebbe assumere, nel quadro dell’indagine circa la prova della detta relazione, il percorso di mediazione coniugale avviato dai coniugi. Il motivo, che prospetta plurime censure, è nel complesso infondato. 3 Corte di Cassazione – copia non ufficiale In tema di efficacia probatoria delle riproduzioni informatiche di cui all’art. 2712 c.c. il disconoscimento idoneo a farne perdere la qualità di prova, degradandole a presunzioni semplici, deve essere chiaro, circostanziato ed esplicito, dovendosi concretizzare nell’allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta (Cass. 2 settembre 2016, n. 17526; Cass. 17 febbraio 2015, n. 3122). In tal senso, non possono quindi ritenersi espressive del dedotto disconoscimento le deduzioni, richiamate dal ricorrente (pag. 9 del ricorso), secondo cui lo stesso «non aveva mai dato inizio ad alcuna relazione affettiva in costanza di matrimonio» o in cui si è assunto «l’infondatezza delle affermazioni della Mariani circa la supposta esistenza di una relazione extraconiugale del sig. Nativi». D’altro canto, il rilievo per cui l’odierno istante, a fronte della produzione in giudizio delle evidenze telematiche, avrebbe smentito che quanto rappresentato nella documentazione corrispondesse alla realtà dei fatti in essa descritta (sempre pag. 9 del ricorso) appare del tutto generico e carente di autosufficienza: infatti, sono inammissibili, per violazione dell’art. 366, n. 6, c.p.c., le censure fondate su atti e documenti del giudizio di merito qualora il ricorrente si limiti a richiamare tali atti e documenti, senza riprodurli nel ricorso ovvero, laddove riprodotti, senza fornire puntuali indicazioni necessarie alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame, ovvero ancora senza precisarne la collocazione nel fascicolo di ufficio o in quello di parte e la loro acquisizione o produzione in sede di giudizio di legittimità (Cass. Sez. U. 27 dicembre 2019, n. 34469). Analoghe considerazioni 

 

 

Originally posted 2021-07-19 19:54:45.

ART 572 TRIBUNALE COLLEGIALE AVVOCATO DIFENDE BOLOGNA

 

 

Cassazione penaleSez. VIsentenza n. 37628 del 11 settembre 2019

E’ configurabile il reato di maltrattamenti in situazione di condivisa genitorialità, anche in assenza di convivenza, a condizione che la filiazione non sia stata un evento meramente occasionale ma si sia quantomeno instaurata una relazione sentimentale, ancorché non più attuale, tale da ingenerare l’aspettativa di un vincolo di solidarietà personale, autonomo rispetto ai doveri connessi alla filiazione.

 

ANCHE NELLA MERA CONVIVENZA SI PUO’ AVERE L REATO DI CUI ALL’ART 572 CP

 

IL FATTO

La Corte di appello di Roma, con sentenza del 19 giugno 2018, ha confermato la condanna di G.D. per i delitti di maltrattamenti e lesioni personali dolose aggravati, commessi in danno di L.V.N., pronunciata dal Tribunale di Roma con sentenza del 10 luglio 2017.

2. Impugna la sentenza d’appello l’imputato, per il tramite del suo difensore, chiedendone l’annullamento, sulla base dei seguenti motivi.

2.1. Difetto di motivazione – ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), – in relazione alla inattendibilità delle dichiarazioni della persona offesa, peraltro non supportate da alcun riscontro.

La Corte di appello, nonostante la specifica deduzione nei motivi di gravame, avrebbe omesso di soffermarsi su aspetti decisivi ai fini della svalutazione di tali dichiarazioni, ovvero: a) sulle affermazioni della zia di costei, M.F., dalle quali emergerebbe che il comportamento della ragazza fosse peggiorato già prima di conoscere l’imputato; b) sulle aggressioni fisiche compiute dalla persona offesa ai danni dell’imputato; c) sul fatto che ella indossasse sempre i medesimi vestiti non per volontà di quest’ultimo, bensì perchè la propria madre le aveva impedito di accedere all’abitazione familiare; d) sul protrarsi della convivenza soprattutto per volontà di lei, avendo G. più volte tentato di allontanarla da casa; e) sulla circostanza per cui, in occasione di una delle aggressioni riferite, ella, anzichè chiamare le forze dell’ordine od i familiari, si sia limitata a postare l’immagine del proprio dito insanguinato su “Facebook”.

AVVOCATO ESPERTO DIVORZI SEPARAZIONI EREDITA' PROCESSI BOLOGNA

AVVOCATO ESPERTO DIVORZI SEPARAZIONI EREDITA’ PROCESSI BOLOGNA


2.2. Erronea applicazione della legge penale e vizio di motivazione – ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), – con riferimento all’art. 572 c.p..

La Corte avrebbe errato, e comunque non ha compiutamente assolto al proprio onere di motivazione, laddove è giunta a ritenere sussistente tale reato, nonostante: a) non vi fosse un rapporto di supremazia dell’imputato sulla querelante e le aggressioni fossero reciproche; b) non vi fosse, tra costoro, un rapporto di tipo familiare, mancando un comune progetto di vita.

3. Nel termine assegnato dall’art. 525 c.p.p., comma 4, ha depistato in cancelleria memoria scritta la difesa della parte civile, rappresentando la completezza e la coerenza logica dell’impugnata sentenza, e perciò chiedendo il rigetto del ricorso

 

 

LA MOTIVAZONE DELLA SUPREMA CORTE

In tema di maltrattamenti in famiglia, l’art. 572 c.p., è applicabile non solo ai nuclei familiari fondati sul matrimonio, ma a qualunque relazione sentimentale che, per la consuetudine dei rapporti creati, implichi l’insorgenza di vincoli affettivi e aspettative di assistenza assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale (Sez. 6, n. 31121 del 18/03/2014, Rv. 261472). Ragione per cui il delitto è configurabile anche quando manchi una stabile convivenza e sussista, con la vittima degli abusi, un rapporto familiare di mero fatto, caratterizzato dalla messa in atto di un progetto di vita basato sulla reciproca solidarietà ed assistenza (Sez. 6, n. 22915 del 07/05/2013, Rv. 255628.).

Con riferimento alla vicenda in esame, è sufficiente allora evidenziare che come emerge pacificamente dall’impugnata sentenza, incontroversa per questa parte – l’imputato e la parte civile, oltre ad avere intrattenuto una relazione sentimentale, hanno convissuto nella stessa abitazione per circa dieci mesi.

3.2. Quanto, poi, al diverso profilo dell’asserita reciprocità delle condotte aggressive, va anzitutto osservato che – stando alla narrativa della sentenza impugnata – esso non risulta essere stato dedotto in appello: sicchè, già solo per questo, il relativo motivo, per questa parte, si esporrebbe a censure di inammissibilità.

In ogni caso, tale doglianza non ha giuridico fondamento, in quanto, in tema di maltrattamenti in famiglia, lo stato di inferiorità psicologica della vittima non deve necessariamente tradursi in una situazione di suo completo abbattimento, potendo consistere anche in un avvilimento generale conseguente alle vessazioni patite, senza che sporadiche reazioni vitali ed aggressive da parte della stessa possano escluderne lo stato di soggezione, a fronte di soprusi abituali (Sez. 3, n. 46043 del 20/03/2018, Rv. 274519).

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LA SENTENZA PER ESTESO

Cassazione penaleSez. VIsentenza n. 37628 del 11 settembre 2019

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

 

SEZIONE SESTA PENALE

 

Sentenza 7 febbraio – 9 maggio 2019, n. 19922

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETRUZZELLIS Anna – Presidente –

Dott. CALVANESE Ersilia – Consigliere –

Dott. APRILE Ercole – Consigliere –

Dott. DE AMICIS Gaetano – Consigliere –

Dott. ROSATI Martino – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

 

SENTENZA


sul ricorso proposto da:

G.D., nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza emessa il 19/06/2018 dalla Corte di appello di Roma;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Martino Rosati;

udito il Pubblico Ministero, nella persona del Sostituto Procuratore Generale, Dott. Tampieri Luca, che ha concluso chiedendo di dichiarare inammissibile il ricorso;

udito il difensore della parte civile L.V.N., avv. Antonella Faieta, che ha depositato conclusioni scritte e nota spese, chiedendo di dichiarare inammissibile il ricorso;

udito il difensore dell’imputato, avv. Carla Giordano, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.


Svolgimento del processo


  1. La Corte di appello di Roma, con sentenza del 19 giugno 2018, ha confermato la condanna di G.D. per i delitti di maltrattamenti e lesioni personali dolose aggravati, commessi in danno di L.V.N., pronunciata dal Tribunale di Roma con sentenza del 10 luglio 2017.

    2. Impugna la sentenza d’appello l’imputato, per il tramite del suo difensore, chiedendone l’annullamento, sulla base dei seguenti motivi.

    2.1. Difetto di motivazione – ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), – in relazione alla inattendibilità delle dichiarazioni della persona offesa, peraltro non supportate da alcun riscontro.

    La Corte di appello, nonostante la specifica deduzione nei motivi di gravame, avrebbe omesso di soffermarsi su aspetti decisivi ai fini della svalutazione di tali dichiarazioni, ovvero: a) sulle affermazioni della zia di costei, M.F., dalle quali emergerebbe che il comportamento della ragazza fosse peggiorato già prima di conoscere l’imputato; b) sulle aggressioni fisiche compiute dalla persona offesa ai danni dell’imputato; c) sul fatto che ella indossasse sempre i medesimi vestiti non per volontà di quest’ultimo, bensì perchè la propria madre le aveva impedito di accedere all’abitazione familiare; d) sul protrarsi della convivenza soprattutto per volontà di lei, avendo G. più volte tentato di allontanarla da casa; e) sulla circostanza per cui, in occasione di una delle aggressioni riferite, ella, anzichè chiamare le forze dell’ordine od i familiari, si sia limitata a postare l’immagine del proprio dito insanguinato su “Facebook”.

    2.2. Erronea applicazione della legge penale e vizio di motivazione – ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), – con riferimento all’art. 572 c.p..

    La Corte avrebbe errato, e comunque non ha compiutamente assolto al proprio onere di motivazione, laddove è giunta a ritenere sussistente tale reato, nonostante: a) non vi fosse un rapporto di supremazia dell’imputato sulla querelante e le aggressioni fossero reciproche; b) non vi fosse, tra costoro, un rapporto di tipo familiare, mancando un comune progetto di vita.

    3. Nel termine assegnato dall’art. 525 c.p.p., comma 4, ha depistato in cancelleria memoria scritta la difesa della parte civile, rappresentando la completezza e la coerenza logica dell’impugnata sentenza, e perciò chiedendo il rigetto del ricorso.

Motivi della decisione


  1. Entrambi i motivi di ricorso sono manifestamente destituiti di fondamento.

    2. Con il primo, si chiede alla Corte sostanzialmente una rivalutazione in fatto delle emergenze istruttorie.

    2.1. In tema di sindacato del vizio della motivazione, però, il compito del giudice di legittimità non è quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito in ordine all’affidabilità delle fonti di prova, bensì di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (Sez. U, n. 930 del 13/12/1995, Clarke, Rv. 203428). Ne consegue che non sono sindacabili in sede di legittimità, se non entro gli appena esposti limiti, la valutazione del giudice di merito circa eventuali contrasti testimoniali o la sua scelta tra divergenti versioni e interpretazioni dei fatti (Sez. 5, n. 51604 del 19/09/2017, Rv. 271623).

    Peraltro, l’illogicità della motivazione, censurabile a norma dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), è soltanto quella evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, senza possibilità, per la Corte di cassazione, di verificare la rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali (Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003, Petrella, Rv. 226074).

    Da tanto consegue, in particolare, che minime incongruenze argomentative o l’omessa esposizione di elementi di valutazione, che il ricorrente ritenga tali da determinare una diversa decisione, ma che non siano inequivocabilmente munite di un chiaro carattere di decisività, non possono dar luogo all’annullamento della sentenza, posto che non costituisce vizio della motivazione qualunque omissione valutativa che riguardi singoli dati estrapolati dal contesto (Sez. 2, n. 9242 del 08/02/2013, Rv. 254988). Soltanto l’esame del complesso probatorio, dunque, entro il quale ogni elemento sia contestualizzato, consente di verificare la consistenza e la decisività degli elementi medesimi oppure la loro ininfluenza ai fini della compattezza logica dell’impianto argomentativo della motivazione, sì da poter condurre all’annullamento della sentenza solo quando, per effetto di tale verifica, risulti disarticolato uno degli essenziali nuclei di fatto che sorreggono l’impianto della decisione. (Sez. 1, n. 46566 del 21/02/2017, Rv. 271227).

    2.2. Tanto premesso, non possono residuare dubbi sulla tenuta logica dell’impugnata sentenza.

    Le circostanze evidenziate dalla difesa ricorrente rappresentano mere spigolature, tranquillamente conciliabili con i comportamenti maltrattanti dell’imputato, messi in luce dalle conformi sentenze di condanna, e, perciò, non idonee ad incidere sulla solidità logica dell’impianto motivazionale.

    Il quale – giova ricordarlo – poggia non solamente sulle dichiarazioni della persona offesa, ma anche su quelle di suoi parenti e di terzi estranei al nucleo familiare ( S., G., C.), nonchè su certificati medici, fotografie, messaggi “Facebook” e relazioni di servizio, redatte dagli operatori di polizia in occasione di vari interventi. Ond’è che completamente infondata si rivela la doglianza relativa all’inattendibilità della persona offesa ed alla mancanza di riscontri alle sue accuse.

    3. Anche il secondo motivo, come s’è anticipato, è del tutto infondato.

    3.1. In tema di maltrattamenti in famiglia, l’art. 572 c.p., è applicabile non solo ai nuclei familiari fondati sul matrimonio, ma a qualunque relazione sentimentale che, per la consuetudine dei rapporti creati, implichi l’insorgenza di vincoli affettivi e aspettative di assistenza assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale (Sez. 6, n. 31121 del 18/03/2014, Rv. 261472). Ragione per cui il delitto è configurabile anche quando manchi una stabile convivenza e sussista, con la vittima degli abusi, un rapporto familiare di mero fatto, caratterizzato dalla messa in atto di un progetto di vita basato sulla reciproca solidarietà ed assistenza (Sez. 6, n. 22915 del 07/05/2013, Rv. 255628.).

    Con riferimento alla vicenda in esame, è sufficiente allora evidenziare che come emerge pacificamente dall’impugnata sentenza, incontroversa per questa parte – l’imputato e la parte civile, oltre ad avere intrattenuto una relazione sentimentale, hanno convissuto nella stessa abitazione per circa dieci mesi.

    3.2. Quanto, poi, al diverso profilo dell’asserita reciprocità delle condotte aggressive, va anzitutto osservato che – stando alla narrativa della sentenza impugnata – esso non risulta essere stato dedotto in appello: sicchè, già solo per questo, il relativo motivo, per questa parte, si esporrebbe a censure di inammissibilità.

    In ogni caso, tale doglianza non ha giuridico fondamento, in quanto, in tema di maltrattamenti in famiglia, lo stato di inferiorità psicologica della vittima non deve necessariamente tradursi in una situazione di suo completo abbattimento, potendo consistere anche in un avvilimento generale conseguente alle vessazioni patite, senza che sporadiche reazioni vitali ed aggressive da parte della stessa possano escluderne lo stato di soggezione, a fronte di soprusi abituali (Sez. 3, n. 46043 del 20/03/2018, Rv. 274519).

    4. Sulla scorta di tali considerazioni, il ricorso va dichiarato inammissibile.

    Da tanto consegue – ai sensi dell’art. 616, c.p.p. – la condanna del proponente alle spese del procedimento ed al pagamento di una somma in favore della Cassa delle Ammende, non ravvisandosi una sua assenza di colpa nella determinazione della causa d’inammissibilità (vds. Corte Cost., sent. n. 186 del 13 giugno 2000). Detta somma, considerando la manifesta assenza di pregio degli argomenti addotti, va fissata in duemila Euro.

    5. A norma dell’art. 592 c.p.p., il ricorrente, in quanto integralmente soccombente, va altresì condannato alla rifusione delle spese di giudizio sostenute dalla costituita parte civile, le quali, essendo quest’ultima ammessa al patrocinio per i non abbienti, saranno liquidate dal giudice di merito che ha pronunciato la sentenza (D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 83, comma 2) e debbono essere pagate in favore dello Stato anticipatario (art. 110, comma 3, D.P.R. cit.).

P.Q.M.


Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle ammende.

Condanna, inoltre, l’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà separatamente liquidata dal giudice di merito, disponendo il pagamento di tali spese in favore dello Stato.


Così deciso in Roma, il 7 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 9 maggio 2019.

 

Originally posted 2021-06-23 17:56:20.

DIFFAMAZIONE SU FACEBOOK DANNI RISARCIMENTO TRIB BOLOGNA

 

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IMPORTANTE SENTENZA TRIBUNALE DI BOLOGNA DIFFAMAZIONE FACEBOOK

 

 

 

la Cassazione ha espressamente riconosciuto la possibilità che il reato di diffamazione possa essere commesso a mezzo internet, configurando la propagazione tramite Facebook un’ipotesi che integra quale aggravante quella di cui al terzo comma del menzionato articolo.

La diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca Facebook integra l’ipotesi aggravata menzionata trattandosi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di soggetti. Un’aggravante che trova la sua ratio nella idoneità del mezzo utilizzato che determina una rapida pubblicizzazione e diffusione (Cassazione penale, sez. I, 28/04/2015, n. 24431; Cassazione penale, sez. V., 13/07/2015, n. 8328). Questo si traduce, sul piano penale e per espressa previsione del legislatore, in un aumento della pena.

Sul piano civile, ciò andrà verosimilmente a potenziare l’ingiustizia del danno, posto che l’utilizzo del mezzo internet comporta una diffusione della notizia diffamatoria ben più ampia e potenzialmente idonea a raggiungere un numero indeterminato di individui.

Vero è che la tutela della reputazione personale e dell’onore, bene giuridico presidiato dal perseguimento delle condotte diffamatorie, deve molto spesso trovare un adeguato bilanciamento con un altro diritto fondamentale, ossia quello di manifestazione del libero pensiero, in tutte le sue specifiche declinazioni, quali il diritto di critica e il diritto di cronaca, che trovano un preciso addentellato costituzionale nell’art. 21 Cost. L’impossibile coesistenza di entrambe le tutele, in alcune occasioni, impone all’ordinamento, all’esito di un bilanciamento tra i valori in gioco, di decidere quale dei due diritti deve considerarsi prevalente, sacrificando l’altro. Ciò avviene attraverso l’operatività di vere e proprie esimenti che, in una data situazione, elidono l’antigiuridicità di una condotta altrimenti rilevante.

 

 

 

 

 

Al riguardo, preme evidenziare che non possa essere condiviso l’assunto per cui il danno non patrimoniale da lesione dell’immagine e della reputazione sia un danno ” in re ipsa”, ciò contrastando con l’attuale, e ormai consolidatosi (a partire dalle pronunce delle Sezioni Unite del 2008: si vada segnatamente, Cass., Il novembre 2008, n. 26972, sino alla recente Cass., sez. un., 22 luglio 2015, n. 15350), orientamento che esclude, in ogni caso, la sussistenza di un danno non patrimoniale ” in re ipsa”, sia che esso derivi da reato (Cass., 12 aprile 2011, n. 8421), sia che sia contemplato come ristoro tipizzato dal legislatore (in tema di tutela della privacy: Cass., 26 settembre 2013, n. 22100; Cass., 15 luglio 2014, n. 16133; in tema di equa riparazione per durata irragionevole del processo: Cass., 26 maggio 2009, n. 12242), sia, infine, che derivi dalla lesione di diritti costituzionalmente garantiti, e, tra questi, il diritto all’immagine (anche di enti collettivi: Cass., 13 ottobre 2016, n. 20643) e, segnatamente, il diritto all’onore ed alla reputazione della persona fisica (Cass., 18 novembre 2014, n. 24474). Le conclusioni che precedono traggono alimento dal superamento della teorica del c.d. “danno evento”, elaborata compiutamente, come è noto, dalla sentenza n. 184 del 1986 della Corte costituzionale in tema di danno biologico e oggetto di revirement da parte della stessa Corte Costituzionale con la sentenza n. 372 del 1994. Orbene, il danno risarcibile, nella sua attuale ontologia giuridica, segnata dalla norma dell’art. 2043 c.c., cui è da ricondurre la struttura stessa dell’illecito aquiliano, non si identifica con la lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento, ma con le conseguenze di tale lesione (Cass. n. 16133 del 2014). Detta ricostruzione muove anzitutto dal riconoscimento che l’art. 2059 c.c. non disciplina una autonoma fattispecie di illecito, distinta da quella di cui all’art. 2043 c.c., ma si limita a disciplinare i limiti e le condizioni di risarcibilità dei pregiudizi non patrimoniali, sul presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito richiesti dal citato art. 2043, senza differenziazioni in termini di prova (cfr. Cass., sez. un. n. 26972 del 2008, cit.). Ne consegue che la sussistenza del danno non patrimoniale, quale conseguenza pregiudizievole (ossia, una perdita ai sensi dell’art. 1223 cod. civ., quale norma richiamata dall’art. 2056 c.c.) di una lesione suscettibile di essere risarcita, deve essere oggetto di allegazione e di prova, sebbene, a tale ultimo fine, possano ben utilizzarsi anche le presunzioni semplici, là dove, proprio in materia di danno causato da diffamazione, idonei parametri di riferimento possono rinvenirsi, tra gli altri, dalla diffusione dello scritto, dalla rilevanza dell’offesa e dalla posizione sociale della vittima (si veda, in tema di diffamazione a mezzo stampa Cass. n. 13153 del 2017). Ciò posto, dunque, la oggettiva difficoltà di tradurre in termini monetari una entità (ossia il danno non patrimoniale) che non può essere stimata sulla base di criteri economici specifici, consente al giudice di applicare una valutazione necessariamente equitativa e ciò sulla base della espressa previsione codicistica, di cui all’art. 1226 c.c.. Pertanto, alla luce di tutte le circostanze del caso concreto debitamente considerate a tale fine nella specie, quali la diffusione dello scritto attraverso il social network Facebook idoneo a diffondere il messaggio pubblicato, l’intrinseca rilevanza dell’offesa all’immagine dell’azienda e alla reputazione professionale degli attori, il numero di destinatari qualificati raggiunti, la qualità di concorrente sul mercato del soggetto diffamante, si ritiene equo riconoscere la somma complessiva pari a euro 15.000,00 a titolo di risarcimento del danno all’immagine patito da parte attrice (5.000,00 per ciascuno degli attori). Dal momento della sentenza e sino all’effettivo soddisfo dovranno essere corrisposti, sul totale sopra liquidato all’attualità, gli ulteriori interessi al tasso legale.

 

 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE ORDINARIO DI BOLOGNA
TERZA SEZIONE CIVILE

Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Cinzia Gamberini ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 13362/2017 promossa da:

F.T.S.R.L., con il patrocinio dell’avv. P. M., elettivamente domiciliato in XX 4 40123 BOLOGNA presso il difensore avv. P. M.
G. G., con il patrocinio dell’avv. P. M., elettivamente domiciliato in XX 4 40123 BOLOGNA presso il difensore avv. P. M. F. G., con il patrocinio dell’avv. P. M., elettivamente domiciliato in XX 4 40123 BOLOGNA presso il difensore avv. P. M.

ATTORI

Contro

  1. B., con il patrocinio dell’avv. M. S., elettivamente domiciliato in VIA X N. 43 40100 BOLOGNA presso il difensore avv. M. S.

CONVENUTO

CONCLUSIONI

Le parti hanno concluso come segue

Per F. T. S.R.L., per G. G., per F. G.: “Voglia l’Ill. mo Giudice adito, ogni contraria istanza ed eccezione disattesa: – accertare la condotta diffamatoria posta in essere dal sig. M. B. nei confronti degli attori per le ragioni esposte in narrativa e per effetto della pubblicazione su Facebook del post prodotto come doc. 10; – condannare il convenuto a risarcire, a F. T. s.r.l. e ai sig. ri G. e F. G., tutti i danni patiti, patrimoniali e non, nessuno escluso; – per l’effetto, condannare il sig. M. B. a pagare l’importo di 8.000,00 (ottomila) cadauno ai sigg. F. e G. G. ed 10.000,00 (diecimila) a F. T. s.r.l., ovvero la diversa somma che sarà ritenuta dovuta, anche in via equitativa, all’esito del giudizio, oltre rivalutazione monetaria ed interessi ex art. 1284, comma IV, c.c. dalla domanda al saldo; – disporre la pubblicazione dell’emananda sentenza di condanna, anche ex art. 2058 c.c. e 120 c.p.c., a cura degli attori ed a spese del convenuto, per una volta e per estratto di “Il Resto del Carlino”, edizione domenicale di Bologna con caratteri doppi rispetto a quelli normali di stampa; – condannare il sig. M. B. a rifondere, agli attori, le spese del presente giudizio nonché del procedimento di mediazione”.

  1. M. B. “L’Ill. mo Tribunale adito voglia, in via principale, respingere le domande attoree e le richieste per i motivi suesposti in quanto infondate in fatto e/o in diritto e/o non provate e/o sprovviste di nesso di causalità. In ogni caso, con vittoria di spese, diritti, onorari, Iva e CPA come per legge”.

Concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione

Con atto di citazione notificato in data 04.08.2017, la F. T. S.r.l. – già W. s.r.l., società nata nel 2007 all’interno del gruppo T. di Bologna con l’obiettivo di sviluppare il mercato della bicicletta elettrica – ed i signori G. F. e G. G. in proprio, convenivano il signor B. M. innanzi il Tribunale di Bologna per sentir accertare la condotta diffamatoria da questi posta in essere ed ottenere la condanna del convenuto al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, conseguenti alla lesione del loro diritto alla reputazione e all’immagine, quantificati in € 8.000,00 (ciascuno) per i signori F. G. e G. G. e in € 10.000,00 per la F. T. s.r.l., ovvero nella diversa somma ritenuta di giustizia, anche in via equitativa, oltre rivalutazione monetaria ed interessi ex art. 1284 comma IV, c.c. dalla domanda al saldo. Chiedevano, inoltre, disporre la pubblicazione dell’emananda sentenza di condanna, a cura degli attori ed a spese del convenuto, per una volta e per estratto su “Il Resto del Carlino”, edizione domenicale di Bologna, con caratteri doppi rispetto a quelli normali di stampa.

Si costituiva nel presente giudizio il signor M. B. il quale confutava e contestava quanto dedotto e prodotto ed insisteva nella reiezione delle domande avversarie.

Assegnati i termini di cui all’art. 183, comma VI, c.p.c., all’udienza in data 08.05.2018, il Giudice rigettava le istanze istruttorie formulate dalle parti e rinviava all’udienza in data 07.03.2019 ove tratteneva la causa in decisione, assegnando i termini di cui all’art. 190 c.p.c.. *** Le pretese di parte attrice sono fondate e devono essere accolte, seppure solo parzialmente in relazione al quantum di danno lamentato, per le ragioni che seguono.

In genere: cenni sulla disciplina in materia di diffamazione.

Ai fini di un migliore inquadramento della vicenda oggetto di causa, si ritiene utile ripercorrere sinteticamente la regolamentazione delle fattispecie di diffamazione, cui l’ordinamento nel suo complesso attribuisce un evidente disvalore, sia sul piano penale, con la previsione di una specifica ipotesi di reato, ex art. 595 c.p., sia sul piano civile quale condotta evidentemente integrativa di fatto illecito, ai sensi dell’art. 2043. 5 o Comune a entrambi i piani è il significato di condotta diffamatoria, esplicitato invero solo nel codice penale, laddove si punisce la condotta di chi, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione. Se la comunicazione avviene a mezzo stampa o, come nel caso di specie, a mezzo internet, l’offesa si ritiene ancora più pregnante.

Infatti, la Cassazione ha espressamente riconosciuto la possibilità che il reato di diffamazione possa essere commesso a mezzo internet, configurando la propagazione tramite Facebook un’ipotesi che integra quale aggravante quella di cui al terzo comma del menzionato articolo.

La diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca Facebook integra l’ipotesi aggravata menzionata trattandosi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di soggetti. Un’aggravante che trova la sua ratio nella idoneità del mezzo utilizzato che determina una rapida pubblicizzazione e diffusione (Cassazione penale, sez. I, 28/04/2015, n. 24431; Cassazione penale, sez. V., 13/07/2015, n. 8328). Questo si traduce, sul piano penale e per espressa previsione del legislatore, in un aumento della pena.

Sul piano civile, ciò andrà verosimilmente a potenziare l’ingiustizia del danno, posto che l’utilizzo del mezzo internet comporta una diffusione della notizia diffamatoria ben più ampia e potenzialmente idonea a raggiungere un numero indeterminato di individui.

Vero è che la tutela della reputazione personale e dell’onore, bene giuridico presidiato dal perseguimento delle condotte diffamatorie, deve molto spesso trovare un adeguato bilanciamento con un altro diritto fondamentale, ossia quello di manifestazione del libero pensiero, in tutte le sue specifiche declinazioni, quali il diritto di critica e il diritto di cronaca, che trovano un preciso addentellato costituzionale nell’art. 21 Cost. L’impossibile coesistenza di entrambe le tutele, in alcune occasioni, impone all’ordinamento, all’esito di un bilanciamento tra i valori in gioco, di decidere quale dei due diritti deve considerarsi prevalente, sacrificando l’altro. Ciò avviene attraverso l’operatività di vere e proprie esimenti che, in una data situazione, elidono l’antigiuridicità di una condotta altrimenti rilevante.

In questo senso il diritto di critica e di cronaca, se esercitati con le modalità e nei limiti previsti, sono idonei a conferire legittimità a una condotta che, in astratto, potrebbe integrare un illecito, ad esempio perché lesiva della reputazione altrui.

Come accennato, tuttavia, l’operatività di tali esimenti non è illimitata.

Il diritto di critica e di cronaca deve essere esercitato nel rispetto dei principi di verità, di pertinenza e di continenza. Non solo. A questi stessi limiti si assegna una accezione in parte diversa, più o meno restrittiva, a seconda che si parli specificamente di diritto di critica o di diritto di cronaca.

In particolare, nel diritto di critica, il principio di verità assume un rilievo più limitato e affievolito rispetto al diritto di cronaca, in quanto la critica, per sua natura, sottende espressioni meramente soggettive, relative non tanto alla narrazione di un fatto storico quanto piuttosto alle opinioni che l’individuo ha di questo, senza che possa pretendersi una valutazione rigorosamente obiettiva.

  1. diverso è invece il diritto di cronaca, inteso quale diritto a informare e ad essere informati, che trova soprattutto nel “principio di verità”un presupposto ma anche un limite del suo esercizio. Ed infatti la finalità propria della cronaca è quella di riferire non mere opinioni personali ma notizie di accadimenti, che debbono in ogni caso rivestire un pubblico interesse.

Si deve poi rammentare che, qualora si ritenga integrata una condotta diffamatoria, le pretese risarcitorie avanzate dal danneggiato a ristoro del danno all’immagine che si ritiene subito, devono sempre essere sostenute da prove adeguate sulla effettiva verificazione di un apprezzabile pregiudizio.

 Non è pertanto ammissibile una presunzione assoluta iuris et de iure per il solo fatto dell’accertamento di una condotta diffamatoria.

Nondimeno, la prova del danno non patrimoniale all’immagine può essere data anche per presunzioni, sulla base però di una complessiva valutazione di precisi elementi di fatto dedotti in causa (ex plurimis, Cassazione civile, n. 28457/2008), potendosi in questo modo giungere a una valutazione anche in via equitativa dell’ammontare del risarcimento, stante l’obiettiva difficoltà in questi casi di una determinazione specifica.

2.Il caso di specie.

L’an.

Il fatto che ha dato origine alla presente controversia consiste nella pubblicazione, in data 26.09.2015, da parte del signor M. B. sulla pagina Facebook della W. s.r.l. (oggi F. T. s.r.l.) -che, all’epoca, riportava un annuncio promozionale relativo alla bicicletta elettrica modello “Trilogia” rappresentando agli utenti la possibilità di usufruire fino a 300,00 di sconto – di un “post”del seguente contenuto: “Ma perché la W. invece che ostinarsi a chiudere bilanci in passivo da circa 6 anni e offrire incentivi con denaro pubblico non regala qualche bicicletta alla nuova velostazione di Bologna, e da un contributo e un sostegno alla mobilità pubblica invece che succhiare denaro ? …Dai F. meno mi piace …Al buon giatti!” Ad avviso di questo giudicante non può revocarsi in dubbio che il post scritto dal convenuto sulla pagina Facebook della W., – il cui contenuto essenziale si è integralmente riportato – assuma una portata lesiva dell’immagine della W. stessa e della reputazione dei suoi titolari, G. G. e F. G., fornendo al pubblico interessato dall’annuncio promozionale dell’azienda una rappresentazione della W. come una società in perdita da anni, che “succhia” denaro pubblico e che inganna i suoi clienti spacciando incentivi del Comune come propri sconti.

Tali affermazioni risultano denigratorie di per sé stesse e, ancor più, ove non corrispondenti al vero, come nel caso di specie.

Parte attrice ha, infatti, documentato la falsità della circostanza stigmatizzata dal signor M. B. con il “post” di cui si discute, ossi che la W. offrisse gli incentivi riferiti nell’annuncio promozionale commentato da B. utilizzando denaro pubblico, atteso che: “- il Comune di Bologna aveva previsto un contributo a favore degli utilizzatori finali per l’acquisto di qualsiasi bicicletta a pedalata assistita” (Doc. 18); – W. aveva, autonomamente, disposto un proprio distinto sconto ad hoc (Doc. 19), pubblicizzato sulla pagina F., che andava ad aggiungersi e cumularsi al contributo del Comune.

Le azioni attribuite dal signor B. a W. (“offrire incentivi con denaro pubblico” E “succhiare denaro pubblico”) sono quindi non veritiere e lesive dell’immagine dell’azienda.

Inoltre, il post risulta denigratorio anche nella parte in cui il signor B. domanda, in maniera canzonatoria, perché la W. si ostini a chiudere bilanci in passivo da circa 6 anni”. “Per sostenere la veridicità di tale affermazione il convenuto ha riferito in atti che la W. si trovava già da anni in stato di decozione e che, a fine 2015, è stata incorporata per fusione e quindi cancellata.. per effetto della gestione fallimentare (cfr. memoria B. ex art. 183, comma VI, n. 2 c.p.c.). Anche tali affermazioni non appaiono veritiere – alla luce della documentazione e delle considerazioni svolte da parte attrice, che ha spiegato come le perdite di esercizio, per una start-up in un settore altamente innovativo siano del tutto normali nel periodo iniziale, richiedendosi rilevanti investimenti e dovendosi attendere risultati positivi nel medio, lungo periodo -, ed esposte in violazione del limite della continenza.

Peraltro, a smentita della gestione fallimentare riferita dal convenuto, parte attrice ha prodotto il n. del catalogo 2018 W., da cui si evince che la società attrice è in sviluppo e continuità e lanciare nuovi e più evoluti modelli di e-bike (Doc. 25), Quanto immediatamente precede conduce questo giudice a ritenere che il descritto “post” leda l’immagine e la reputazione degli attori, integrando l’elemento materiale della fattispecie diffamatoria.

In relazione, poi, alla sussistenza dell’elemento soggettivo, come noto è necessario e sufficiente che ricorra il dolo generico, anche nelle forme del dolo eventuale, cioè la consapevolezza di offendere l’immagine e la reputazione altrui, la quale, nel caso di specie, si può desumere dalla intrinseca consistenza diffamatoria delle espressioni usate.

In ordine al riconoscimento dell’esimente del diritto di critica, si osserva che il contenuto del commento appare esorbitante rispetto ai limiti di una opinione genuina, continente e costruttiva.

Sul punto si è osservato che “il diritto di critica si concretizza in un giudizio valutativo che postula l’esistenza del fatto assunto ad oggetto o spunto del discorso critico ed una forma espositiva non ingiustificatamente sovrabbondante rispetto al concetto da esprimere, e, conseguentemente, esclude la punibilità di coloriture ed iperboli, toni aspri o polemici, linguaggio figurato o gergale, purché tali modalità espressive siano proporzionate e funzionali all’opinione o alla protesta, in considerazione degli interessi e dei valori che si ritengono compromessi” (Cass., sez. 1, n. 36045 del 13/06/2014 – dep. 20/08/2014, P.M. in proc. Surano, Rv. 261122). Invero, l’ambito di operatività di tale diritto nei delitti contro l’onore è stato oggetto di molteplici statuizioni della giurisprudenza. Si è così stabilito che, pur assumendo il requisito della verità del fatto un rilievo affievolito rispetto alla diversa incidenza che esso svolge sul versante del diritto di cronaca (Sez. 5, n. 4938/11 del 28/10/2010, S., Rv. 249239), è tuttavia indispensabile che sia rispettato un nucleo di veridicità (Sez. 5, n. 43403 del 18/06/2009, R., Rv. 245098), posto che nessuna interpretazione soggettiva, che sia fonte di discredito per la persona che ne è investita, può ritenersi rapportabile al lecito esercizio del diritto di critica quando tragga le sue premesse da una prospettazione dei fatti opposta alla verità (Sez. 5, n. 7419/10 del 03/12/2009, C., Rv. 246096). Tali principi hanno trovato applicazione anche nel caso di specie, tanto è vero che, in data 14.03.2016, il Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale di Bologna ha emesso decreto penale di condanna n. 892/2016 nei confronti del sig. B. per il reato di diffamazione aggravata (Doc. 16 fasc. att.). 3. Il quantum Tanto puntualizzato in ordine all’integrazione degli elementi costitutivi della fattispecie diffamatoria, occorre accertare la consistenza dei pregiudizi patiti dagli attori in conseguenza della pubblicazione lesiva.

Al riguardo, preme evidenziare che non possa essere condiviso l’assunto per cui il danno non patrimoniale da lesione dell’immagine e della reputazione sia un danno ” in re ipsa”, ciò contrastando con l’attuale, e ormai consolidatosi (a partire dalle pronunce delle Sezioni Unite del 2008: si vada segnatamente, Cass., Il novembre 2008, n. 26972, sino alla recente Cass., sez. un., 22 luglio 2015, n. 15350), orientamento che esclude, in ogni caso, la sussistenza di un danno non patrimoniale ” in re ipsa”, sia che esso derivi da reato (Cass., 12 aprile 2011, n. 8421), sia che sia contemplato come ristoro tipizzato dal legislatore (in tema di tutela della privacy: Cass., 26 settembre 2013, n. 22100; Cass., 15 luglio 2014, n. 16133; in tema di equa riparazione per durata irragionevole del processo: Cass., 26 maggio 2009, n. 12242), sia, infine, che derivi dalla lesione di diritti costituzionalmente garantiti, e, tra questi, il diritto all’immagine (anche di enti collettivi: Cass., 13 ottobre 2016, n. 20643) e, segnatamente, il diritto all’onore ed alla reputazione della persona fisica (Cass., 18 novembre 2014, n. 24474). Le conclusioni che precedono traggono alimento dal superamento della teorica del c.d. “danno evento”, elaborata compiutamente, come è noto, dalla sentenza n. 184 del 1986 della Corte costituzionale in tema di danno biologico e oggetto di revirement da parte della stessa Corte Costituzionale con la sentenza n. 372 del 1994. Orbene, il danno risarcibile, nella sua attuale ontologia giuridica, segnata dalla norma dell’art. 2043 c.c., cui è da ricondurre la struttura stessa dell’illecito aquiliano, non si identifica con la lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento, ma con le conseguenze di tale lesione (Cass. n. 16133 del 2014). Detta ricostruzione muove anzitutto dal riconoscimento che l’art. 2059 c.c. non disciplina una autonoma fattispecie di illecito, distinta da quella di cui all’art. 2043 c.c., ma si limita a disciplinare i limiti e le condizioni di risarcibilità dei pregiudizi non patrimoniali, sul presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito richiesti dal citato art. 2043, senza differenziazioni in termini di prova (cfr. Cass., sez. un. n. 26972 del 2008, cit.). Ne consegue che la sussistenza del danno non patrimoniale, quale conseguenza pregiudizievole (ossia, una perdita ai sensi dell’art. 1223 cod. civ., quale norma richiamata dall’art. 2056 c.c.) di una lesione suscettibile di essere risarcita, deve essere oggetto di allegazione e di prova, sebbene, a tale ultimo fine, possano ben utilizzarsi anche le presunzioni semplici, là dove, proprio in materia di danno causato da diffamazione, idonei parametri di riferimento possono rinvenirsi, tra gli altri, dalla diffusione dello scritto, dalla rilevanza dell’offesa e dalla posizione sociale della vittima (si veda, in tema di diffamazione a mezzo stampa Cass. n. 13153 del 2017). Ciò posto, dunque, la oggettiva difficoltà di tradurre in termini monetari una entità (ossia il danno non patrimoniale) che non può essere stimata sulla base di criteri economici specifici, consente al giudice di applicare una valutazione necessariamente equitativa e ciò sulla base della espressa previsione codicistica, di cui all’art. 1226 c.c.. Pertanto, alla luce di tutte le circostanze del caso concreto debitamente considerate a tale fine nella specie, quali la diffusione dello scritto attraverso il social network Facebook idoneo a diffondere il messaggio pubblicato, l’intrinseca rilevanza dell’offesa all’immagine dell’azienda e alla reputazione professionale degli attori, il numero di destinatari qualificati raggiunti, la qualità di concorrente sul mercato del soggetto diffamante, si ritiene equo riconoscere la somma complessiva pari a euro 15.000,00 a titolo di risarcimento del danno all’immagine patito da parte attrice (5.000,00 per ciascuno degli attori). Dal momento della sentenza e sino all’effettivo soddisfo dovranno essere corrisposti, sul totale sopra liquidato all’attualità, gli ulteriori interessi al tasso legale.

A diverse conclusioni si deve giungere con riferimento al danno patrimoniale lamentato e dipendente, in tesi attorea, dalla disincentivazione all’acquisto da parte degli utenti Facebook raggiunti dal “post” pubblicato dal convenuto. Con riferimento a tale danno, nessuna prova concreta è stata offerta dagli attori, neppure in termini di calo di fatturato a seguito della pubblicazione del “post” diffamatorio. Ne consegue il mancato riconoscimento del danno patrimoniale.

Quanto, infine, alla richiesta di pubblicazione della sentenza su quotidiano locale, ritiene il giudicante che della pubblicità, soprattutto in considerazione del tempo trascorso dai fatti di causa, non possa, nel caso di specie, in alcun modo contribuire a riparare il danno subito. La domanda deve, pertanto, essere rigettata.

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e vanno, dunque, poste a carico di parte convenuta, liquidate in 341,77 per spese, 5.255,00 per compensi professionali, oltre rimborso forfetario spese generali ex art. 2 D.MN. 55/2014, I.V.A. e C.P.A. come per legge.

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni diversa istabza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone: 1) Dichiara tenuto e condanna il signor M. B., per i titoli di cui in motivazione, al pagamento in favore di F. T. s.r.l., G. G. e F. G., della somma di euro 15.000,00 (5.000,00 ciascuno), oltre interessi legali dalla data della presente sentenza al saldo definitivo.

2) Rigetta ogni altra domanda.

3 ) Condanna il convenuto al pagamento, in favore degli attori in solido tra loro, delle spese del presente procedimento, liquidate in 341, 77 per spese, 5.255,00 per compenso professionale, oltre rimborso forfetario spese generali ex art. 2 D.M. 55/2014, I.V.A. e C.P.A. come per legge.

Bologna, 05/07/2019

Il Giudice
dott. Cinzia Gamberini

 

 

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Originally posted 2019-12-06 11:22:20.

 

Proprieta’ – Limitazioni legali della proprieta’ – Rapporti di vicinato – Distanze legali (nozione) – Azione giudiziaria per il rispetto delle – Poteri del giudice – Risarcimento del danno – In genere liquidazione del danno in caso di demolizione dell’opera – Riferimento al pregiudizio transitorio e non al diminuito valore di mercato – Necessità – Fondamento. Proprietà – Limitazioni legali della proprietà – Rapporti di vicinato – Aperture (finestre) – Veduta – Servitù di veduta – In genere – Muro divisorio – Idoneità all’esercizio di una servitù di veduta – Esclusione – Fondamento. Proprietà – Limitazioni legali della proprietà – Rapporti di vicinato – Distanze legali – Nelle costruzioni – In genere – Volume tecnico – Nozione – Piano urbanistico del comprensorio della vallagarina – Silos – Configurabilità come volumi tecnici – Esclusione.

Avvocato Bologna civilista per ogni vicenda condominiale che possa aver causato dissidi e liti coi tuoi vicini, condomini o confinanti; ad esempio rumori esagerati e molesti in giorni o ore inopportune, infiltrazioni ed allagamenti da soffitti e pareti che deturpano le tua proprietà,

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Oppure un uso improprio degli spazi comuni per parcheggi di veicoli o spazzatura, piante invadenti su spazi privati, animali domestici che minacciano o disturbano la tua serenità

In tema di distanze legali tra fabbricati, integra la nozione di “volume tecnico”, non computabile nella volumetria della costruzione, solo l’opera edilizia priva di alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinata a contenere impianti serventi – quali quelli connessi alla condotta idrica, termica o all’ascensore – di una costruzione principale per esigenze tecnico funzionali dell’abitazione e che non possono essere ubicati nella stessa. Pertanto, nella nozione di “volumi tecnici” di cui all’art. 10, comma 10, del piano urbanistico del comprensorio della Vallagarina, che stabilisce le distanze dai confini e dalle costruzioni limitatamente ai fabbricati, con riferimento a strutture destinate a funzioni complementari e integrative di tipo tecnico, non rientrano i silos, che costituiscono autonome costruzioni tecnologicamente predisposte alla conservazione e allo stoccaggio di prodotti alimentari o minerali.

Proprieta’ – Limitazioni legali della proprieta’ – Rapporti di vicinato – Immissioni – Azione contro le immissioni illecite – Poteri del giudice – In genere accertamento – Fatti sopravvenuti nelle more del giudizio – Adozione di accorgimenti tecnici – Cessazione parziale dell’attività – Obbligo del giudice di tenerne conto – Conseguenze.

In tema di azione diretta alla cessazione delle immissioni, i fatti sopravvenuti nel corso del processo, incidendo sul livello di tollerabilità delle stesse e quindi su una condizione dell’azione, devono essere presi in considerazione dal giudice al momento della decisione e, qualora la consulenza tecnica di ufficio espletata non ne abbia tenuto conto, il giudice, a fronte di specifiche e circostanziate critiche mosse alla stessa, deve disporre una nuova consulenza, anche al fine di valutare l’idoneità dell’adozione di misure meno afflittive di quelle interdittive già disposte. (Nel caso di specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza della corte d’appello che, pur avendo disposto un supplemento di consulenza tecnica d’ufficio, aveva omesso di prendere in considerazione la cessazione di una parte delle attività produttive generatrici di immissioni rumorose, anche alla luce dei lavori eseguiti per la loro eliminazione o riduzione).

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Il muro divisorio non può dar luogo all’esercizio di una servitù di veduta, sia perché ha solo la funzione di demarcazione del confine e tutela del fondo, sia perché, anche quando consente di “inspicere” e “prospicere” sul fondo altrui, è inidoneo ad assoggettare un fondo all’altro, a causa della reciproca possibilità di affaccio da entrambi i fondi confinanti.

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Proprietà – Limitazioni legali della proprietà – Rapporti di vicinato – Distanze legali – Nelle costruzioni – Criterio della prevenzione (costruzione sul confine o con distacco) – In genere – Costruzione di un edificio con sporgenze e rientranze rispetto al confine – Liceità – Diritti del vicino – Costruzione in aderenza – Ammissibilità – Condizioni.

In tema di distanze legali, gli artt. 873, 875, 877 cod. civ. non vietano di costruire con sporgenze e rientranze rispetto alla linea di confine, potendo, in tal caso, il proprietario del fondo finitimo costruire in aderenza alla fabbrica preesistente sia per la parte posta sul confine, sia per quella corrispondente alle rientranze, pagando in quest’ultimo caso la metà del valore del muro del vicino, che diventa comune, nonché il valore del suolo occupato per effetto dell’avanzamento della costruzione.

 

In tema di violazione delle distanze legali, ove sia disposta la demolizione dell’opera illecita, il risarcimento del danno va computato tenendo conto della temporaneità della lesione del bene protetto dalle norme non rispettate e non del valore di mercato dell’immobile, diminuito per effetto della detta violazione, poiché tale pregiudizio è suscettibile di eliminazione.

Affinché sussista una veduta ex art. 900 c.c., è necessario, oltre al requisito della “inspectio”, anche quello della “prospectio” sul fondo del vicino, dovendo detta apertura consentire non solo di vedere e guardare frontalmente, ma anche di affacciarsi, garantendo una visione frontale, obliqua e laterale, sì da assoggettare il fondo alieno ad una visione mobile e globale, secondo un giudizio di fatto incensurabile in sede di legittimità, se non per vizi di motivazione. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto congruamente motivata la sentenza di merito, che aveva escluso la natura di veduta relativamente ad una finestra posta a mt. 1,56 dal piano di calpestio e munita di sbarre orizzontali infisse in un muro alto mt. 1,80 e spesso cm. 30, non potendo la stessa costituire un comodo affaccio). Il richiamo alla nozione di edifici di nuova costruzione ovvero di fabbricati, in assenza di una puntuale e specifica disciplina dettata per gli edifici aventi carattere cd. accessorio, come riconosciuto da parte degli stessi ricorrenti, non consente di optare per un’interpretazione che ne limiti l’applicazione ai soli edifici aventi carattere principale, posto che anche i manufatti di piu’ contenute dimensioni, quali quelli per i quali si vorrebbe escludere la valutazione ai fini del rispetto delle distanze, appaiono evidentemente riconducibili alla nozione di costruzione di cui all’articolo 873 c.c., trattandosi di manufatti stabilmente infissi al suolo che, per solidita’, struttura e sporgenza dal terreno, possono creare quelle intercapedini dannose che la legge, stabilendo la distanza minima tra le costruzioni, intende evitare, rispondendo alla tradizionale nozione di costruzione quale recepita dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 5753/2014).

D’altronde proprio la carenza di una specifica disciplina, impone di ritenere come gia’ affermato in passato che (cfr. da ultimo Cass. n. 144/2016) la nozione di costruzione, agli effetti dell’articolo 873 c.c., e’ unica e non puo’ subire deroghe da parte delle norme secondarie, sia pure al limitato fine del computo delle distanze legali, in quanto il rinvio ivi contenuto ai regolamenti locali e’ circoscritto alla sola facolta’ di stabilire una “distanza maggiore”.

Ne discende che, una volta ricondotti gli edifici accessori al novero delle costruzioni in senso civilistico e nell’accezione propria della disciplina in materia di distanze, le previsioni regolamentari che prevedono un distacco tra costruzioni risultano evidentemente applicabili anche a tali manufatti, e che, anche laddove lo strumento urbanistico locale avesse dettato una disciplina difforme, tale deroga dovrebbe reputarsi illegittima, non rientrando nel potere degli enti locali quello di dettare deroghe alla disciplina codicistica in materia di distanze, eccezione fatta per la previsione sopra richiamata, di porre delle distanze maggiori rispetto a quelle di legge.

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Originally posted 2019-01-09 17:45:10.

La Divisione dei Conti Correnti di un Defunto: Procedura e Considerazioni Legali

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La perdita di un essere caro è un momento difficile, reso ancora più complesso dalle questioni finanziarie e legali che spesso seguono. Tra queste, la divisione dei conti correnti di un defunto è un aspetto cruciale ma delicato che richiede attenzione, competenza legale e un approccio scrupoloso. In questo post, esploreremo la procedura e le considerazioni legali associate alla divisione dei conti correnti di un defunto.

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  1. Identificazione dei Conti Correnti: Il primo passo è identificare tutti i conti correnti che il defunto possedeva. Questo può includere conti bancari personali, conti congiunti con il coniuge o altri titolari congiunti, conti aziendali se il defunto era imprenditore, e potenzialmente altri conti finanziari come investimenti o conti di risparmio.
  2. Notifica alle Banche e alle Istituzioni Finanziarie: Una volta identificati i conti correnti, è necessario notificare le banche e le istituzioni finanziarie della morte del titolare dell’account. Questo solitamente richiede la presentazione di una copia del certificato di morte del defunto e potrebbe comportare la chiusura temporanea dei conti.
  3. Nomina di un Esecutore Testamentario o Apertura di un’Azione Successoria: Per gestire la divisione dei conti correnti e degli altri beni del defunto, è importante nominare un esecutore testamentario o aprire un’azione successoria con il tribunale locale. L’esecutore o il curatore avrà l’autorità legale per agire nell’interesse del defunto e distribuire i suoi beni secondo le sue volontà testamentarie o le leggi sulla successione dello stato.
  4. Valutazione dei Conti e degli Asset Finanziari: Prima di procedere con la divisione dei conti correnti, è necessario valutare l’intero patrimonio finanziario del defunto. Questo include non solo i saldi dei conti correnti, ma anche altri asset finanziari come investimenti, polizze assicurative, fondi pensione e altro ancora. Una valutazione accurata aiuterà a garantire una divisione equa e conforme alle volontà del defunto o alle leggi sulla successione.
  5. 5. Pagamento di Debiti e Tasse: Prima di distribuire gli asset finanziari ai beneficiari designati, è importante soddisfare qualsiasi debito o obbligazione finanziaria del defunto. Questo potrebbe includere il pagamento di mutui ipotecari, prestiti, carte di credito e tasse fiscali. La priorità dovrebbe essere data ai debiti garantiti da beni specifici, come l’ipoteca su una casa.
  6. Distribuzione dei Fondi: Una volta soddisfatte le obbligazioni finanziarie, è possibile procedere con la distribuzione dei fondi dai conti correnti e dagli altri asset finanziari ai beneficiari designati. Questo può essere fatto in conformità con le disposizioni testamentarie del defunto o le leggi sulla successione, a seconda delle circostanze specifiche.

Considerazioni Legali e Consulenza Professionale: La divisione dei conti correnti di un defunto è un processo che richiede attenzione ai dettagli e comprensione delle leggi e delle procedure locali. È fortemente consigliabile consultare un avvocato specializzato in diritto successorio per guidare attraverso questo processo e assicurarsi che tutto sia eseguito correttamente e legalmente. Un professionista esperto può fornire consulenza personalizzata e aiutare a risolvere eventuali controversie o complessità che possono sorgere durante la divisione degli asset finanziari di un defunto.

In conclusione, la divisione dei conti correnti di un defunto è un processo importante che richiede tempo, attenzione e competenza legale. Seguendo una procedura accurata e ottenendo la consulenza professionale necessaria, è possibile garantire una divisione equa e conforme alle volontà del defunto o alle leggi sulla successione.

Divisione delle Somme del Defunto tra gli Eredi: Una Guida Completa

La divisione delle somme del defunto tra gli eredi è un argomento complesso che richiede una combinazione di comprensione legale, sensibilità familiare e comunicazione efficace. Quando una persona muore e lascia dei beni, è essenziale seguire un processo accurato per garantire una distribuzione equa e senza conflitti tra i beneficiari designati. Questo articolo si propone di esaminare dettagliatamente i vari aspetti della divisione delle somme tra gli eredi, fornendo una guida completa per affrontare questa delicata situazione.

1. Comprendere la Volontà del Defunto

Il primo passo cruciale nella divisione delle somme del defunto è comprendere la volontà del defunto, espressa attraverso un testamento o un trust. Se il defunto ha redatto un testamento, questo documento specifica chi sono i beneficiari designati e quali beni sono destinati a ciascuno. È essenziale che tutti gli eredi e i beneficiari leggano attentamente il testamento per comprendere appieno le intenzioni del defunto.

2. Valutare gli Attivi e i Passivi dell’Eredità

Prima di procedere con la divisione delle somme, è necessario valutare gli attivi e i passivi dell’eredità. Gli attivi possono includere proprietà immobiliari, conti bancari, investimenti, veicoli e altre proprietà di valore, mentre i passivi possono includere debiti, mutui, tasse e spese funerarie. È importante ottenere una valutazione accurata di tutti gli attivi e i passivi per determinare il valore netto dell’eredità.

3. Risolvere i Debiti e gli Obblighi Finanziari

Prima di distribuire le somme tra gli eredi, è essenziale risolvere i debiti e gli obblighi finanziari del defunto. Questo potrebbe includere il pagamento di mutui residui, carte di credito, tasse e altre spese pendenti. Risolvere i debiti prima di distribuire l’eredità può aiutare a evitare controversie future e garantire una divisione equa delle somme disponibili.

4. Identificare e Comunicare con gli Eredi

Una volta comprese le volontà del defunto e valutati gli attivi e i passivi dell’eredità, è necessario identificare e comunicare con tutti gli eredi e i beneficiari designati. Questo può essere un processo complesso, specialmente se ci sono molteplici eredi o se alcuni eredi sono difficili da localizzare. È importante stabilire una comunicazione aperta e trasparente con tutti gli interessati per garantire una divisione delle somme senza intoppi.

5. Considerare le Necessità e le Aspettative degli Eredi

Durante il processo di divisione delle somme, è importante prendere in considerazione le necessità e le aspettative degli eredi. Alcuni potrebbero avere bisogno di liquidità immediata per affrontare spese urgenti, mentre altri potrebbero preferire mantenere determinati attivi per motivi emotivi o finanziari. È essenziale ascoltare attentamente le preoccupazioni e le preferenze di ciascun erede e cercare di trovare soluzioni che soddisfino le loro esigenze individuali.

6. Distribuire le Somme in Modo Equo e Trasparente

Una volta risolti i debiti e identificati gli eredi, è possibile procedere con la distribuzione delle somme. È importante farlo in modo equo e trasparente, seguendo scrupolosamente le disposizioni del testamento o del trust. Se il testamento non fornisce istruzioni specifiche sulla divisione delle somme, è necessario prendere in considerazione i desideri del defunto e le circostanze individuali degli eredi per garantire una distribuzione equa.

7. Documentare le Transazioni e Ottenere Consulenza Legale

Durante il processo di divisione delle somme, è fondamentale documentare accuratamente tutte le transazioni e le decisioni prese. Questo può includere la preparazione di ricevute, registrazioni contabili e dichiarazioni scritte da parte degli eredi confermando di aver ricevuto la loro parte dell’eredità. Inoltre, è consigliabile ottenere consulenza legale per assicurarsi che tutte le azioni siano conformi alle leggi locali e che non ci siano rischi di contestazioni legali da parte degli eredi o di altri interessati.

8. Affrontare Controversie e Disaccordi in Modo Costruttivo

Nonostante tutti gli sforzi per garantire una divisione equa e trasparente delle somme, potrebbero sorgere controversie e disaccordi tra gli eredi. In questi casi, è importante affrontare le questioni in modo costruttivo e cercare soluzioni che possano soddisfare tutte le parti coinvolte. La mediazione familiare o l’intervento di un avvocato specializzato in successioni possono essere utili per risolvere le dispute in modo rapido ed efficace.

9. Promuovere la Comunicazione e l’Armonia Familiare

Infine, è essenziale promuovere la comunicazione e l’armonia familiare durante l’intero processo di divisione delle somme del defunto. Una comunicazione aperta, rispettosa e trasparente può contribuire a prevenire conflitti e risentimenti tra gli eredi, garantendo che l’eredità venga distribuita in modo pacifico e conforme alle volontà del defunto.

In conclusione, la divisione delle somme del defunto tra gli eredi è un processo complesso che richiede attenzione ai dettagli, comprensione legale e sensibilità familiare. Seguendo i passaggi descritti sopra e adottando un approccio rispettoso e collaborativo, è possibile garantire una distribuzione equa e senza conflitti dell’eredità, preservando al contempo l’armonia familiare e il rispetto per le volontà del defunto.

LEGGE SUL DIVORZIO, DIVORZIO BREVE, AVVOCATO DIVORZISTA BOLOGNA

 DIVORZIO BOLOGNA, CONIUGI COME DIVORZIARE BOLOGNA, AVVOCATI DIVORZISTI BOLOGNA 

 

GUARDIAMO LE NORME E LA LEGGE SUL DIVORZIO E SUL DIVORZIO BREVE

 

 

LA NUOVA LEGGE SUL DIVORZIO BREVE

Testo della legge sul divorzio breve

LEGGE 6 maggio 2015, n. 55

Disposizioni in materia di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio nonche’ di comunione tra i coniugi.

Art. 1

  1. Al secondo capoverso della lettera b), del numero 2), dell’articolo 3 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, e successive modificazioni, le parole: « tre anni a far tempo dalla avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale anche quando il giudizio contenzioso si sia trasformato in consensuale» sono sostituite dalle seguenti: «dodici mesi dall’avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale e da sei mesi nel caso di separazione consensuale, anche quando il giudizio contenzioso si sia trasformato in consensuale».

Art. 2

  1. All’articolo 191 del codice civile, dopo il primo comma e’ inserito il seguente:

«Nel caso di separazione personale, la comunione tra i coniugi si scioglie nel momento in cui il presidente del tribunale autorizza i coniugi a vivere separati, ovvero alla data di sottoscrizione del processo verbale di separazione consensuale dei coniugi dinanzi al presidente, purche’ omologato. L’ordinanza con la quale i coniugi sono autorizzati a vivere separati e’ comunicata all’ufficiale dello stato civile ai fini dell’annotazione dello scioglimento della comunione».

LA LEGGE SUL DIVORZIO:

Articolo 1.

  1. Il giudice pronuncia lo scioglimento del matrimonio contratto a norma del codice civile, quando, esperito inutilmente il tentativo di conciliazione di cui al successivo art. 4, accerta che la comunione spirituale e materiale tra i coniugi non può essere mantenuta o ricostituita per l’esistenza di una delle cause previste dall’art. 3.

Articolo 2.

  1. Nei casi in cui il matrimonio sia stato celebrato con rito religioso e regolarmente trascritto, il giudice, quando, esperito inutilmente il tentativo di conciliazione di cui al successivo art. 4, accerta che la comunione spirituale e materiale tra i coniugi non può essere mantenuta o ricostituita per l’esistenza di una delle cause previste dall’art. 3, pronuncia la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio.

Articolo 3. PREVEDE I CASI IN CUI PUO’ ESSERE DOMANDATO IL DIVORZIO Testo della legge sul divorzio breve

LEGGE 6 maggio 2015, n. 55

Disposizioni in materia di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio nonche’ di comunione tra i coniugi.

Art. 1

  1. Al secondo capoverso della lettera b), del numero 2), dell’articolo 3 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, e successive modificazioni, le parole: « tre anni a far tempo dalla avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale anche quando il giudizio contenzioso si sia trasformato in consensuale» sono sostituite dalle seguenti: «dodici mesi dall’avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale e da sei mesi nel caso di separazione consensuale, anche quando il giudizio contenzioso si sia trasformato in consensuale».

Art. 2

  1. All’articolo 191 del codice civile, dopo il primo comma e’ inserito il seguente:

«Nel caso di separazione personale, la comunione tra i coniugi si scioglie nel momento in cui il presidente del tribunale autorizza i coniugi a vivere separati, ovvero alla data di sottoscrizione del processo verbale di separazione consensuale dei coniugi dinanzi al presidente, purche’ omologato. L’ordinanza con la quale i coniugi sono autorizzati a vivere separati e’ comunicata all’ufficiale dello stato civile ai fini dell’annotazione dello scioglimento della comunione».

 

  1. Lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio può essere domandato da uno dei coniugi:

1) quando, dopo la celebrazione del matrimonio, l’altro coniuge è stato condannato, con sentenza passata in giudicato, anche per fatti commessi in precedenza:

  1. a) all’ergastolo ovvero ad una pena superiore ad anni quindici, anche con più sentenze, per uno o più delitti non colposi, esclusi i reati politici e quelli commessi per motivi di particolare valore morale e sociale;
  2. b) a qualsiasi pena detentiva per il delitto di cui all’art. 564 del codice penale e per uno dei delitti di cui agli articoli 519, 521, 523 e 524 del codice penale, ovvero per induzione, costrizione, sfruttamento o favoreggiamento della prostituzione ;
  3. c) a qualsiasi pena per omicidio volontario di un figlio ovvero per tentato omicidio a danno del coniuge o di un figlio ;
  4. d) a qualsiasi pena detentiva, con due o più condanne, per i delitti di cui all’art. 582, quando ricorra la circostanza aggravante di cui al secondo comma dell’art. 583, e agli articoli 570, 572 e 643 del codice penale, in danno del coniuge o di un figlio .

Nelle ipotesi previste alla lettera d) il giudice competente a pronunciare lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio accerta, anche in considerazione del comportamento successivo del convenuto, la di lui inidoneità a mantenere o ricostituire la convivenza familiare.

Per tutte le ipotesi previste nel n. 1) del presente articolo la domanda non è proponibile dal coniuge che sia stato condannato per concorso nel reato ovvero quando la convivenza coniugale è ripresa;

2) nei casi in cui:

  1. a) l’altro coniuge è stato assolto per vizio totale di mente da uno dei delitti previsti nelle lettere b) e c) del numero 1) del presente articolo, quando il giudice competente a pronunciare lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio accerta l’inidoneità del convenuto a mantenere o ricostituire la convivenza familiare;
  2. b) è stata pronunciata con sentenza passata in giudicato la separazione giudiziale fra i coniugi, ovvero è stata omologata la separazione consensuale ovvero è intervenuta separazione di fatto quando la separazione di fatto stessa è iniziata almeno due anni prima del 18 dicembre 1970 .

In tutti i predetti casi, per la proposizione della domanda di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, le separazioni devono essersi protratte ininterrottamente da almeno dodici mesi dall’avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale e da sei mesi nel caso di separazione consensuale, anche quando il giudizio contenzioso si sia trasformato in consensuale, ovvero dalla data certificata nell’accordo di separazione raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione assistita da un avvocato ovvero dalla data dell’atto contenente l’accordo di separazione concluso innanzi all’ufficiale dello stato civile. L’eventuale interruzione della separazione deve essere eccepita dalla parte convenuta ;

  1. c) il procedimento penale promosso per i delitti previsti dalle lettere b) e c) del n. 1) del presente articolo si è concluso con sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato, quando il giudice competente a pronunciare lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio ritiene che nei fatti commessi sussistano gli elementi costitutivi e le condizioni di punibilità dei delitti stessi;
  2. d) il procedimento penale per incesto si è concluso con sentenza di proscioglimento o di assoluzione che dichiari non punibile il fatto per mancanza di pubblico scandalo;
  3. e) l’altro coniuge, cittadino straniero, ha ottenuto all’estero l’annullamento o lo scioglimento del matrimonio o ha contratto all’estero nuovo matrimonio;
  4. f) il matrimonio non è stato consumato;
  5. g) è passata in giudicato sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso a norma della legge 14 aprile 1982, n. 164 .a info sep bella

Articolo 4 .  La domanda per ottenere lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio DOVE VA PROPOSTA LA DOMANDA DI DIVORZIO ?

  1. La domanda per ottenere lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio si propone al tribunale del luogo dell’ultima residenza comune dei coniugi ovvero, in mancanza, del luogo in cui il coniuge convenuto ha residenza o domicilio. Qualora il coniuge convenuto sia residente all’estero o risulti irreperibile, la domanda si propone al tribunale del luogo di residenza o di domicilio del ricorrente e, se anche questi e’ residente all’estero, a qualunque tribunale della Repubblica. La domanda congiunta puo’ essere proposta al tribunale del luogo di residenza o di domicilio dell’uno o dell’altro coniuge .
  2. La domanda si propone con ricorso, che deve contenere l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali la domanda di scioglimento del matrimonio o di cessazione degli effetti civili dello stesso e’ fondata.
  3. Del ricorso il cancelliere da’ comunicazione all’ufficiale dello stato civile del luogo dove il matrimonio fu trascritto per l’annotazione in calce all’atto.
  4. Nel ricorso deve essere indicata l’esistenza di figli di entrambi i coniugi .
  5. Il presidente del tribunale, nei cinque giorni successivi al deposito in cancelleria, fissa con decreto la data di comparizione dei coniugi davanti a se’, che deve avvenire entro novanta giorni dal deposito del ricorso, il termine per la notificazione del ricorso e del decreto ed il termine entro cui il coniuge convenuto puo’ depositare memoria difensiva e documenti. Il presidente nomina un curatore speciale quando il convenuto e’ malato di mente o legalmente incapace.
  6. Al ricorso e alla prima memoria difensiva sono allegate le ultime dichiarazioni dei redditi rispettivamente presentate.
  7. I coniugi devono comparire davanti al presidente del tribunale personalmente, salvo gravi e comprovati motivi, e con l’assistenza di un difensore. Se il ricorrente non si presenta o rinuncia, la domanda non ha effetto. Se non si presenta il coniuge convenuto, il presidente puo’ fissare un nuovo giorno per la comparizione, ordinando che la notificazione del ricorso e del decreto gli sia rinnovata. All’udienza di comparizione, il presidente deve sentire i coniugi prima separatamente poi congiuntamente, tentando di conciliarli. Se i coniugi si conciliano, il presidente fa redigere processo verbale della conciliazione.
  8. Se la conciliazione non riesce, il presidente, sentiti i coniugi e i rispettivi difensori nonche’, disposto l’ascolto del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di eta’ inferiore ove capace di discernimento, da’, anche d’ufficio, con ordinanza i provvedimenti temporanei e urgenti che reputa opportuni nell’interesse dei coniugi e della prole, nomina il giudice istruttore e fissa l’udienza di comparizione e trattazione dinanzi a questo. Nello stesso modo il presidente provvede, se il coniuge convenuto non compare, sentito il ricorrente e il suo difensore. L’ordinanza del presidente puo’ essere revocata o modificata dal giudice istruttore. Si applica l’articolo 189 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile .
  9. Tra la data dell’ordinanza, ovvero tra la data entro cui la stessa deve essere notificata al convenuto non comparso, e quella dell’udienza di comparizione e trattazione devono intercorrere i termini di cui all’articolo 163-bis del codice di procedura civile ridotti a meta’.
  10. Con l’ordinanza di cui al comma 8, il presidente assegna altresi’ termine al ricorrente per il deposito in cancelleria di memoria integrativa, che deve avere il contenuto di cui all’articolo 163, terzo comma, numeri 2), 3), 4), 5) e 6), del codice di procedura civile e termine al convenuto per la costituzione in giudizio ai sensi degli articoli 166 e 167, primo e secondo comma, dello stesso codice nonche’ per la proposizione delle eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio. L’ordinanza deve contenere l’avvertimento al convenuto che la costituzione oltre il suddetto termine implica le decadenze di cui all’articolo 167 del codice di procedura civile e che oltre il termine stesso non potranno piu’ essere proposte le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio.
  11. All’udienza davanti al giudice istruttore si applicano le disposizioni di cui agli articoli 180 e 183, commi primo, secondo, quarto, quinto, sesto e settimo, del codice di procedura civile. Si applica altresi’ l’articolo 184 del medesimo codice.
  12. Nel caso in cui il processo debba continuare per la determinazione dell’assegno, il tribunale emette sentenza non definitiva relativa allo scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio. Avverso tale sentenza e’ ammesso solo appello immediato. Appena formatosi il giudicato, si applica la previsione di cui all’articolo 10.
  13. Quando vi sia stata la sentenza non definitiva, il tribunale, emettendo la sentenza che dispone l’obbligo della somministrazione dell’assegno, puo’ disporre che tale obbligo produca effetti fin dal momento della domanda.
  14. Per la parte relativa ai provvedimenti di natura economica la sentenza di primo grado e’ provvisoriamente esecutiva.
  15. L’appello e’ deciso in camera di consiglio.
  16. La domanda congiunta dei coniugi di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio che indichi anche compiutamente le condizioni inerenti alla prole e ai rapporti economici, e’ proposta con ricorso al tribunale in camera di consiglio. Il tribunale, sentiti i coniugi, verificata l’esistenza dei presupposti di legge e valutata la rispondenza delle condizioni all’interesse dei figli, decide con sentenza. Qualora il tribunale ravvisi che le condizioni relative ai figli sono in contrasto con gli interessi degli stessi, si applica la procedura di cui al comma 8 .

(NB) La Corte Costituzionale, con sentenza n. 169/2008 ha dichiarato l’illegittimita’ costituzionale del presente comma, nel testo sostituito dall’articolo 2, comma 3-bis, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, limitatamente alle parole «del luogo dell’ultima residenza comune dei coniugi ovvero, in mancanza,».avvocato divorzista sergio armaroli

Articolo 5.

  1. Il tribunale adito, in contraddittorio delle parti e con l’intervento obbligatorio del pubblico ministero, accertata la sussistenza di uno dei casi di cui all’art. 3, pronuncia con sentenza lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio ed ordina all’ufficiale dello stato civile del luogo ove venne trascritto il matrimonio di procedere alla annotazione della sentenza.
  2. La donna perde il cognome che aveva aggiunto al proprio a seguito del matrimonio .
  3. Il tribunale, con la sentenza con cui pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, può autorizzare la donna che ne faccia richiesta a conservare il cognome del marito aggiunto al proprio quando sussista un interesse suo o dei figli meritevole di tutela .
  4. La decisione di cui al comma precedente può essere modificata con successiva sentenza, per motivi di particolare gravità, su istanza di una delle parti .
  5. La sentenza è impugnabile da ciascuna delle parti. Il pubblico ministero può ai sensi dell’art. 72 del codice di procedura civile, proporre impugnazione limitatamente agli interessi patrimoniali dei figli minori o legalmente incapaci.
  6. Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive .
  7. La sentenza deve stabilire anche un criterio di adeguamento automatico dell’assegno, almeno con riferimento agli indici di svalutazione monetaria. Il tribunale può, in caso di palese iniquità, escludere la previsione con motivata decisione .
  8. Su accordo delle parti la corresponsione può avvenire in unica soluzione ove questa sia ritenuta equa dal tribunale. In tal caso non può essere proposta alcuna successiva domanda di contenuto economico .
  9. I coniugi devono presentare all’udienza di comparizione avanti al presidente del tribunale la dichiarazione personale dei redditi e ogni documentazione relativa ai loro redditi e al loro patrimonio personale e comune. In caso di contestazioni il tribunale dispone indagini sui redditi, sui patrimoni e sull’effettivo tenore di vita, valendosi, se del caso, anche della polizia tributaria .
  10. L’obbligo di corresponsione dell’assegno cessa se il coniuge, al quale deve essere corrisposto, passa a nuove nozze.
  11. Il coniuge, al quale non spetti l’assistenza sanitaria per nessun altro titolo, conserva il diritto nei confronti dell’ente mutualistico da cui sia assistito l’altro coniuge. Il diritto si estingue se egli passa a nuove nozze .

Articolo 6. OBBLIGHO DI MANTENIMENTO CON IL DIVORZIO

L’obbligo, ai sensi degli articoli 315-bis e 316-bis del codice civile, di mantenere, educare ed istruire i figli nati o adottati durante il matrimonio di cui sia stato pronunciato lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili, permane anche nel caso di passaggio a nuove nozze di uno o di entrambi i genitori

  1. L’obbligo, ai sensi degli articoli 315-bis e 316-bis del codice civile, di mantenere, educare ed istruire i figli nati o adottati durante il matrimonio di cui sia stato pronunciato lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili, permane anche nel caso di passaggio a nuove nozze di uno o di entrambi i genitori .
  2. Il Tribunale che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio applica, riguardo ai figli, le disposizioni contenute nel capo II, del titolo IX, del libro primo, del codice civile .

 

A CHI SPETTA LA CASA CONIUGALE CON IL DIVORZIO ?

  1. L’abitazione nella casa familiare spetta di preferenza al genitore cui vengono affidati i figli o con il quale i figli convivono oltre la maggiore età. In ogni caso ai fini dell’assegnazione il giudice dovrà valutare le condizioni economiche dei coniugi e le ragioni della decisione e favorire il coniuge più debole. L’assegnazione, in quanto trascritta, è opponibile al terzo acquirente ai sensi dell’art. 1599 del codice civile.
  2. Il tribunale dà inoltre disposizioni circa l’amministrazione dei beni dei figli e, nell’ipotesi in cui l’esercizio della responsabilita’ genitoriale sia affidato ad entrambi i genitori, circa il concorso degli stessi al godimento dell’usufrutto legale .

Articolo 7.

Il secondo comma dell’art. 252 del codice civile è così modificato:

“I figli nati fuori del matrimonio possono essere riconosciuti anche dal genitore che, al tempo del concepimento, era unito in matrimonio, qualora il matrimonio sia sciolto per effetto della morte dell’altro coniuge ovvero per pronuncia di scioglimento o di cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio celebrato con rito religioso” .

Articolo 8.

  1. Il tribunale che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio può imporre all’obbligato di prestare idonea garanzia reale o personale se esiste il pericolo che egli possa sottrarsi all’adempimento degli obblighi di cui agli articoli 5 e 6.
  2. La sentenza costituisce titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale ai sensi dell’art. 2818 del codice civile.
  3. Il coniuge cui spetta la corresponsione periodica dell’assegno, dopo la costituzione in mora a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento del coniuge obbligato e inadempiente per un periodo di almeno trenta giorni, può notificare il provvedimento in cui è stabilita la misura dell’assegno ai terzi tenuti a corrispondere periodicamente somme di denaro al coniuge obbligato con l’invito a versargli direttamente le somme dovute, dandone comunicazione al coniuge inadempiente .
  4. Ove il terzo cui sia stato notificato il provvedimento non adempia, il coniuge creditore ha azione diretta esecutiva nei suoi confronti per il pagamento delle somme dovutegli quale assegno di mantenimento ai sensi degli articoli 5 e 6 .
  5. Qualora il credito del coniuge obbligato nei confronti dei suddetti terzi sia stato già pignorato al momento della notificazione, all’assegnazione e alla ripartizione delle somme fra il coniuge cui spetta la corresponsione periodica dell’assegno, il creditore procedente e i creditori intervenuti nell’esecuzione, provvede il giudice dell’esecuzione .
  6. Lo Stato e gli altri enti indicati nell’art. 1 del testo unico delle leggi concernenti il sequestro, il pignoramento e la cessione degli stipendi, salari e pensioni dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1950, n. 180, nonché gli altri enti datori di lavoro cui sia stato notificato il provvedimento in cui è stabilita la misura dell’assegno e l’invito a pagare direttamente al coniuge cui spetta la corresponsione periodica, non possono versare a quest’ultimo oltre la metà delle somme dovute al coniuge obbligato, comprensive anche degli assegni e degli emolumenti accessori .
  7. Per assicurare che siano soddisfatte o conservate le ragioni del creditore in ordine all’adempimento degli obblighi di cui agli articoli 5 e 6, su richiesta dell’avente diritto, il giudice può disporre il sequestro dei beni del coniuge obbligato a somministrare l’assegno. Le somme spettanti al coniuge obbligato alla corresponsione dell’assegno di cui al precedente comma sono soggette a sequestro e pignoramento fino alla concorrenza della metà per il soddisfacimento dell’assegno periodico di cui agli articoli 5 e 6 .

Articolo 9.

  1. Qualora sopravvengano giustificati motivi dopo la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, in camera di consiglio e, per i provvedimenti relativi ai figli, con la partecipazione del pubblico ministero, può, su istanza di parte, disporre la revisione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli e di quelle relative alla misura e alle modalità dei contributi da corrispondere ai sensi degli articoli 5 e 6.
  2. In caso di morte dell’ex coniuge e in assenza di un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità, il coniuge rispetto al quale è stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e sempre che sia titolare di assegno ai sensi dell’art. 5, alla pensione di reversibilità, sempre che il rapporto da cui trae origine il trattamento pensionistico sia anteriore alla sentenza .
  3. Qualora esista un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità, una quota della pensione e degli altri assegni a questi spettanti è attribuita dal tribunale, tenendo conto della durata del rapporto, al coniuge rispetto al quale è stata pronunciata la sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio e che sia titolare dell’assegno di cui all’art. 5. Se in tale condizione si trovano più persone, il tribunale provvede a ripartire fra tutti la pensione e gli altri assegni, nonché a ripartire tra i restanti le quote attribuite a chi sia successivamente morto o passato a nuove nozze .
  4. Restano fermi, nei limiti stabiliti dalla legislazione vigente, i diritti spettanti a figli, genitori o collaterali in merito al trattamento di reversibilità.
  5. Alle domande giudiziali dirette al conseguimento della pensione di reversibilità o di parte di essa deve essere allegato un atto notorio, ai sensi della legge 4 gennaio 1968, n. 15, dal quale risultino tutti gli aventi diritto. In ogni caso, la sentenza che accoglie la domanda non pregiudica la tutela, nei confronti dei beneficiari, degli aventi diritto pretermessi, salva comunque l’applicabilità delle sanzioni penali per le dichiarazioni mendaci .

Articolo 9-bis.

  1. A colui al quale è stato riconosciuto il diritto alla corresponsione periodica di somme di denaro a norma dell’art. 5, qualora versi in stato di bisogno, il tribunale, dopo il decesso dell’obbligato, può attribuire un assegno periodico a carico dell’eredità tenendo conto dell’importo di quelle somme, della entità del bisogno, dell’eventuale pensione di reversibilità, delle sostanze ereditarie, del numero e della qualità degli eredi e delle loro condizioni economiche. L’assegno non spetta se gli obblighi patrimoniali previsti dall’art. 5 sono stati soddisfatti in unica soluzione.
  2. Su accordo delle parti la corresponsione dell’assegno può avvenire in unica soluzione. Il diritto all’assegno si estingue se il beneficiario passa a nuove nozze o viene meno il suo stato di bisogno. Qualora risorga lo stato di bisogno l’assegno può essere nuovamente attribuito .

Articolo 10.

  1. La sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, quando sia passata in giudicato, deve essere trasmessa in copia autentica, a cura del cancelliere del tribunale o della Corte che l’ha emessa, all’ufficiale dello stato civile del comune in cui il matrimonio fu trascritto, per le annotazioni e le ulteriori incombenze di cui al regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238.
  2. Lo scioglimento e la cessazione degli effetti civili del matrimonio, pronunciati nei casi rispettivamente previsti dagli articoli 1 e 2 della presente legge, hanno efficacia, a tutti gli effetti civili, dal giorno dell’annotazione della sentenza.

Articolo 11.

Articolo 12.

  1. Le disposizioni del codice civile in tema di riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio si applicano, per quanto di ragione, anche nel caso di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio .

Articolo 12-bis.

  1. Il coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e in quanto sia titolare di assegno ai sensi dell’art. 5, ad una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro anche se l’indennità viene a maturare dopo la sentenza.
  2. Tale percentuale è pari al quaranta per cento dell’indennità totale riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio .

Articolo 12-ter.

  1. In caso di genitori rispetto ai quali sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, la pensione di reversibilità spettante ad essi per la morte di un figlio deceduto per fatti di servizio è attribuita automaticamente dall’ente erogante in parti eguali a ciascun genitore.
  2. Alla morte di uno dei genitori, la quota parte di pensione si consolida automaticamente in favore dell’altro.
  3. Analogamente si provvede, in presenza della predetta sentenza, per la pensione di reversibilità spettante al genitore del dante causa secondo le disposizioni di cui agli articoli 83 e 87 del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092 .

Articolo 12-quater.

  1. Per le cause relative ai diritti di obbligazione di cui alla presente legge è competente anche il giudice del luogo in cui deve essere eseguita l’obbligazione dedotta in giudizio .

Articolo 12-quinquies.

  1. Allo straniero, coniuge di cittadina italiana, la legge nazionale del quale non disciplina lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, si applicano le disposizioni di cui alla presente legge .

Articolo 12-sexies.

  1. Al coniuge che si sottrae all’obbligo di corresponsione dell’assegno dovuto a norma degli articoli 5 e 6 della presente legge si applicano le pene previste dall’art. 570 del codice penale .
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Originally posted 2018-04-08 12:01:37.

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BOLOGNA TREVISO VENEZIA VICENZA RAVENNA FORLI CESENA SUCCESSIONI TESTAMENTI 

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  1. CERTIFICATO DI MORTE  ‘ 
  1. FOTOCOPIA CARTA DI IDENTITA’ NON SCADUTA DI TUTTI GLI EREDI

 

  1. FOTOCOPIA TESSERINO CODICE FISCALE O TESSERA SANITARIA DEL DECEDUTO E DI TUTTI GLI EREDI

 

  1. ROGITI E ATTI DI PROVENIENZA DI TUTTE LE PROPRIETA’ IMMOBILIARI (TERRENI, FABBRICATI, AREE EDIFICABILI) INTESTATE AL DECEDUTO O COINTESTATE CON ALTRI

  

  1. 2 COPIE AUTENTICHE PUBBLICAZIONE EVENTUALE TESTAMENTO
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  1. COPIA AUTENTICA DEL VERBALE DI EVENTUALE RINUNCIA ALL’EREDITA’..

 

  1. INDIRIZZO DI POSTA ELETTRONICA DI UN EREDE

 

  1. FATTURA DELL’AVVENUTO PAGAMENTO DELLE SPESE FUNEBRI, SPESE MEDICHE E DICHIARAZIONE DELLA BANCA IN CASO DI MUTUI IPOTECARI (soltanto se gli eredi sono in linea collaterale: fratelli, sorelle, nipoti figli di fratelli o sorelle, altri parenti ed estranei)

 

  1. DICHIARAZIONE IN ORIGINALE SU CARTA INTESTATA SOTTOSCRITTA DELLA BANCA, POSTE ITALIANE, COOPERATIVE ,

 

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CAUSE BOLOGNA IN MATERIA DI SUCCESIONI AVVOCATO ESPERTO

Il diritto delle successioni rappresenta una delle materie più complesse del nostro
ordinamento giuridico.

La materia dell’eredità, successioni e testamenti è
estremamente delicata poichè si occupa della trasmissione di patrimoni tra
familiari o comunque in favore di persone care, con inevitabile ripercussione sugli
equilibri familiari, specie quando la posta in gioco è molto alta.

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Di conseguenza,
anche qualora sussista un testamento, è bene valutarne la validità con l’aiuto di
un esperto.

 

L’intervento di un avvocato esperto in materia successoria assicura
un trattamento equo degli eredi.

 

azione di reintegrazione quota di legittima; azione di riduzione donazione; azione di riduzione quota disponibile; domanda di divisione giudiziale della comunione ereditaria; azione di fissazione del termine per l’accettazione dell’eredità; ricorso per l’apposizione dei sigilli; ecc.
Eredità e Su Successione ereditaria

La successione ereditaria è quella pratica che si apre a seguito del decesso di una persona:

 

DI COSA SI OCCUPA L’AVVOCATO SERGIO ARMAROLI IN MATERIA DI SUCCESSIONI A BOLOGNA?

 

si occupa in particolare di assistenza legale e consulenza nella redazione di testamenti, in questioni ereditarie, in tutte quelle pratiche che hanno come materia le successioni.

Per successioni, per controversie legate a questioni ereditarie, per difficoltà burocratiche,Apertura successioni , come fare  la divisione, denuncia di successione, 

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Assistenza legale giudiziale e stragiudiziale 
Eredità e Successioni Bologna

Assistenza legale giudiziale e stragiudiziale in materia di Diritto Successorio. Ci occupiamo di impugnazione di testamento, tutela dell’erede, divisione ereditaria.


Tra le materie trattate dall’avvocato civilista Bologna Sergio Armaroli
vi sono anche le molteplici problematiche legate all’eredità ed alle successioni mortis causa.

La materia delle successioni è generalmente complessa, oltre che molto delicata perché si occupa della trasmissione di patrimoni tra familiari o comunque in favore di persone care, con inevitabile ripercussione sugli equilibri familiari, specie quando la posta in gioco è molto alta.

L’avvocato Sergio Armaroli di Bologna esperto successioni offre la propria consulenza sia per la fase stragiudiziale che per quella dell’eventuale contenzioso, assistendo il cliente in ogni ambito: dall’accettazione dell’eredità (con o senza beneficio d’inventario), alla dichiarazione di successione (mediante l’assistenza di un esperto commercialista), nell’eventuale redazione dell’inventario, nella fase vendita dei beni ereditari, nonché nell’azione di divisione ereditaria (sia dinanzi gli organi di mediazione e conciliazione

Bologna

Assistenza giudiziale in materia di Diritto Successorio. Ci occupiamo di impugnazione di testamento, tutela dell’erede, divisione ereditaria.

 

1)Impugnazione testamenti; azione di petizione dell’eredità;

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persone fisiche: assenza, morte presunta, interdizione, inabilitazione, amministratore di sostegno; successioni e donazioni.

Per quel che riguarda le eredità, prestando assistenza per problematiche di interpretazione testamentaria e per le cause di divisione ereditaria; lesione alla quota di legittima, impugnazione di testamenti, divisioni tra coeredi, accettazione o rinunzia di eredità e accettazione di eredità con beneficio di inventario (procedura che esonera dal pagare i debiti ereditari con il proprio patrimonio).

  1. Consulenza in tema di diritto delle successioni e dell’eredità.
  2. Redazione di testamenti.
  3. Consulenza su lesione quota di legittima e conseguenti azioni di riduzione e restituzione.
  4. Aspetti fiscali dell’eredità.
  5. Divisione di beni caduti in successione.
  6. Dichiarazione di successione.
  7. Petizione d’eredità.
  8. Consulenza su validità testamenti e legati e conseguenti azioni di impugnativa.
  9. Accettazioni espresse e con beneficio d’inventario dell’eredità.
  10. Rinunce all’eredità.
  11. Distribuzione del patrimonio e pianificazione patrimoniale.

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Consulenza per addivenire ad una soluzione consensuale e assistenza in sede giudiziale.

 

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LA MATERIA DELLE SUCCESSINI :

oltre che molto delicata perché si occupa della trasmissione di patrimoni tra familiari o comunque in favore di persone care, con inevitabile ripercussione sugli equilibri familiari, specie quando la posta in gioco è molto alta.

 

 

Spesso, infatti, a causa di un testamento e/o di donazioni fatte in vita dal de cuius, si verificano delle vere e proprie faide tra gli eredi che culminano in complessi giudizi, che talvolta possono essere anche molto lunghi e costosi. Per tale motivo, l’assistenza di un buon avvocato diventa indispensabile per la tutela dei propri interessi.

L’esperto avvocato Sergio Armaroli di Bologna offre la propria consulenza sia per la fase stragiudiziale che per quella dell’eventuale contenzioso,

 

 

L’esperto avvocato Sergio Armaroli di Bologna assiste il cliente in ogni ambito: dall’accettazione dell’eredità (con o senza beneficio d’inventario), alla dichiarazione di successione (mediante l’assistenza di un esperto commercialista), nell’eventuale redazione dell’inventario, nella fase vendita dei beni ereditari,

 

L’esperto avvocato Sergio Armaroli di Bologna assiste il cliente nell’azione di divisione ereditaria (sia dinanzi gli organi di mediazione e conciliazione, che dinanzi il Tribunale competente), nei casi di impugnazione del testamento, di petizione di eredità, di nomina del curatore dell’eredità giacente, di esonero dell’esecutore testamentario, e più in generale, in ogni altra azione che si rendesse necessaria per la tutela del proprio assistito.

 

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come fare  la divisione

Con il termine successione il codice civile indica, in generale, il fenomeno per cui un soggetto subentra ad un altro nella titolarità di uno o più diritti. La successione per causa di morte è una delle ipotesi più importanti perché l’ordinamento si preoccupa di tutelare il patrimonio e garantire che non resti privo di titolare.

Con il termine eredità (o successione a titolo universale) si indica proprio il complesso dei rapporti patrimoniali trasmissibili, sia attivi che passivi. Essa si differenzia dal legato (o successione a titolo particolare), che indica non il complesso dei rapporti patrimoniali, ma solamente uno specifico lascito.

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Perché? impugnare un testamento olografo e pubblico e per quali motivi

Prendiamo in primo luogo in considerazione i tre diversi tipi di azioni giudiziarie esercitabili da parte di chi abbia interesse ad impugnare un testamento. Le volontà testamentarie infatti:

  1. Possono essere annullate consentenza costitutiva di annullamento.
  2. Possono essere dichiarate nulle attraverso un’azione volta alladichiarazione di nullità.
  • Possono essere ridotte attraverso il vittorioso esperimento dell’azione di riduzione.

L’azione di riduzione

E’ possibile che dopo la morte del de cuius si scopra che una o più donazioni, sia nei confronti di altri legittimari che di terzi, abbiano eroso la quota di legittima che spetta all’erede riservatario.

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A questo punto colui che ha diritto alla riserva di legge ha la possibilità di ottenere la ricostituzione della quota a lui necessariamente spettante mediante una apposita azione giudiziaria, l’azione di riduzione.

L’azione di riduzione va proposta dopo la morte del donante ed entro 10 anni dalla morte e contro il donatario. Se questi ha ceduto a terzi l’immobile che aveva ricevuto in donazione, il legittimario (solo se ed in quanto il donatario non abbia altri beni sui quali soddisfare le proprie ragioni) può chiedere ai successivi proprietari la restituzione del bene (azione di restituzione).

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Gli eredi legittimari: testamento e azione di riduzione

Tra i soggetti legittimati ad impugnare il testamento rientrano gli eredi legittimari, ossia il coniuge, i figli e gli ascendenti del defunto. A questi, si aggiungono i loro eredi o aventi causa, nonché il legittimario pretermesso dal testatore, colui che pur avendo diritto ad una porzione dell’eredità, è stato escluso dalla distribuzione ereditaria.

I soggetti sopra elencati, possono impugnare il testamento quando il testatore abbia leso la quota di legittima ad essi spettante e non derogabile nelle disposizioni testamentarie, ovvero tramite donazioni, che eccedono la quota disponibile su cui il testatore poteva liberamente disporre.

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“una accertata incapacità di intendere e volere trova conferma dall’analisi tecnica di redazione del testamento da cui emerge che la tecnica di redazione appariva incompatibile con lo stato psicofisico emergente dalla documentazione medica, così come la sapiente selezione di una corretta terminologia giuridica appariva incompatibile con le capacità grafiche e soprattutto ortografiche della de cuius.”

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  2. impugnazione testamento amministratore di sostegno
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  4. impugnare testamento olografo accordi
  5. impugnazione testamento legittimazione attiva
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  7. impugnazione testamento e accettazione eredità
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  9. impugnazione testamento olografo apocrifo
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  16. impugnazione testamento decadenza
  17. impugnazione testamento donazione
  18. impugnazione testamento dopo acquiescenza
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  20. E ciò perché il testamento olografo non è solo un documento che fonda, o contribuisce a fondare, sul piano probatorio, le ragioni della parte in causa, ma costituisce esso stesso il titolo in forza del quale il soggetto ivi menzionato diviene titolare di diritti soggettivi, e in ragione del quale si realizza la successione in locum et ius defuncti.
  21. Ricostruendo funditus i termini del contrasto, emerge come parte della giurisprudenza di questa Corte, nel riconoscere al testamento olografo natura giuridica di scrittura privata, ammetta che la contestazione della autenticità della sua sottoscrizione possa legittimamente compiersi attraverso il semplice disconoscimento (i.e. il non riconoscimento) della scheda testamentaria.
  22. 1. La tesi trova un suo risalente precedente nella pronuncia di cui a Cass. n. 3371 del 16 ottobre 1975, secondo cui la parte che intenda contestare l’autenticità di una scrittura privata non riconosciuta non deve proporre querela di falso, occorrendo invece impugnare, in via di eccezione, la sottoscrizione mediante il disconoscimento, con la conseguenza che graverebbe sulla controparte l’onere di chiedere la verificazione e di dimostrare l’autenticità della scheda testamentaria. A fondamento di tale decisione la Corte pose la considerazione secondo cui lo strumento della querela di falso si rende indispensabile solo quando la scrittura abbia acquistato l’efficacia di piena prova ai sensi dell’art. 2702 cod. civ. per riconoscimento tacito o presunto, ovvero all’esito del procedimento di verificazione (e ciò anche nell’ipotesi in cui, contro l’erede istituito con un precedente testamento, sia prodotto un successivo testamento istitutivo di altro erede).
  23. 2. La giurisprudenza favorevole allo strumento processuale della verificazione ex art. 214 c.p.c., peraltro, non esclude tout court il ricorso alla querela di falso, riconosciuta come strumento alternativo rispetto al semplice disconoscimento (così, tra le altre, Cass. n. 3883 del 22 aprile 1994), ma mette a sua volta in rilievo – sulla premessa per cui l’onere probatorio ricade sulla parte che del testamento voglia servirsene e che a tal fine propone l’istanza di verificazione (salvo la diversa scelta della controparte di promuovere azione di querela di falso) – la non incidenza sull’onere probatorio della posizione processuale assunta dalle parti stesse (e cioè se l’azione sia esperita dall’erede legittimo che adduca in via principale la falsità del documento, ovvero dall’erede testamentario che voglia far valere i propri diritti ereditari e si trovi di fronte alla contestazione dell’autenticità del documento da parte dell’erede legittimo: Cass. n. 7475 del 12 aprile 2005 e n. 26943 dell’11 novembre 2008).
  24. 3. Tracce dell’orientamento in parola si rinvengono anche in epoca successiva al ricordato obiter di queste sezioni unite.
  25. 3.1. Secondo Cass. n. 28637 del 23 dicembre 2011, difatti – riaffermatosi in premessa che querela di falso e disconoscimento sono istituti preordinati a finalità diverse e del tutto indipendenti tra loro -, il testamento olografo non perderebbe la sua natura di scrittura privata per il fatto di dover rispondere ai requisiti di forma imposti dalla legge (ex art. 602 c.c.), volta che esso deriva la sua efficacia dal riconoscimento, espresso o tacito, che ne compia il soggetto contro il quale la scrittura è prodotta: quest’ultimo, per impedire tale riconoscimento e contestare tout court l’intera scheda testamentaria, deve dunque proporre l’azione di disconoscimento, che pone a carico della controparte l’onere di dimostrare, in contrario, che la scrittura non è stata contraffatta e proviene, invece, effettivamente dal suo autore apparente.
  26. A questo indirizzo si contrappone l’orientamento che, pur non attribuendo valore di atto pubblico al testamento olografo, postula, per la contestazione della sua autenticità, la proposizione della querela di falso.
  27. 1 Anche tale filone interpretativo ha origini assai risalenti: si legge in Cass. n. 2793 del 3 agosto 1968 che la contestazione dell’erede legittimo si risolve in una eccezione di falso, da sollevarsi esclusivamente nelle forme di cui agli artt. 221 cod. proc. civ. e segg., atteso che il disconoscimento può provenire soltanto da chi sia autore dello scritto o da un suo erede – in tal senso, e prima ancora, Cass. n. 766 del 18 marzo 1966, secondo la quale il principio sostanziale dell’art. 2702 cod. civ. volto a disciplinare l’efficacia in giudizio della scrittura privata riconosciuta effettivamente o presupposta tale, e la procedura di disconoscimento e di verificazione regolata dagli artt. 214 e ss. c.p.c., sono istituti applicabili solo alle scritture provenienti dai soggetti del processo e alla ipotesi di negazione della propria scrittura o della propria firma da parte di quel soggetto contro il quale sia stato prodotto lo scritto. Quando invece l’atto non sia attribuibile alla parte contro cui viene prodotto, la contestazione della sua autenticità, risolvendosi in una eccezione di falso, necessita della relativa querela.
  28. 2. Sarà proprio questo risalente insegnamento a costituire a lungo una delle più solide basi su cui si fonda l’indirizzo giurisprudenziale favorevole al ricorso allo strumento disciplinato dagli artt. 221 e segg. cit.. Gli eredi legittimi che contestano l’autenticità della scheda olografa, secondo questa interpretazione (fatta propria anche da una parte della dottrina), devono, difatti, ritenersi soggetti estranei alla scrittura testamentaria, onde la loro esclusione anche dallo schema dell’art. 214, secondo comma, c.p.c..
  29. 3. Conferma indiretta della ratio di tale ricostruzione si trova nella pronuncia di cui a Cass. n. 1599 del 28 maggio 1971, la quale, pur concludendo nella specie per la legittimità del solo disconoscimento, a ciò perviene solo in ragione della qualifica di erede attribuita alla parte che in concreto ed in quel giudizio contestava un testamento olografo. Si legge, difatti, in sentenza che l’erede istituito col primo testamento, agendo con la petitio heraeditatis in quanto investito di un valido titolo di legittimazione fino al momento in cui non ne sia dichiarata giudizialmente la caducazione, conserva pur sempre la veste di erede anche nei confronti di altro soggetto che pretenda avere diritto alla eredità in base a successiva disposizione testamentaria, così che egli non può qualificarsi terzo fino al momento del definitivo accertamento della validità del secondo testamento, ed è legittimato a contestare l’efficacia del testamento posteriore mediante il mero disconoscimento, senza necessità di proporre querela, incombendo sull’altra parte che abbia proposto domanda riconvenzionale – tendente a far dichiarare la validità del secondo testamento e la conseguente caducazione delle disposizioni contenute nel primo – l’onere di provare tale domanda chiedendo la verificazione dell’olografo successivo di cui intende avvalersi.
  30. 4. L’indirizzo favorevole alla querela di falso, che tiene conto della provenienza della scrittura, risulta espresso in seguito da Cass. n. 16362 del 30 ottobre 2003, secondo cui la procedura di disconoscimento e di verificazione di scrittura privata riguarda unicamente le scritture provenienti da soggetti del processo e presuppone che sia negata la propria firma o la propria scrittura dal soggetto contro il quale il documento è prodotto, mentre, per le scritture provenienti da terzi estranei, come nel caso del testamento olografo, la contestazione non può essere sollevata secondo la disciplina dettata dalle predette norme, bensì nelle forme dell’art. 221 e segg. c.p.c., perché si risolve in una eccezione di falso.
  31. 5. Le argomentazioni a favore dello strumento della querela, principalmente incentrate sull’assunto della terzietà del soggetto rispetto al testamento olografo contro di lui prodotto, trovano una peculiare evoluzione interpretativa nella già ricordata sentenza di queste ss.uu. n. 15169 del 2010 (supra, 7.4).
  32. Intervenendo sul contrasto relativo ai modi di contestazione delle scritture private provenienti da terzi estranei alla lite, la pronuncia ne ricostruisce l’efficacia probatoria inquadrandole tra le prove atipiche dal valore meramente indiziario, e, tenendo conto di tale valore probatorio, afferma che esse possono essere liberamente contestate dalle parti; ma, circoscrivendone l’analisi con particolare riguardo al testamento olografo, nega poi che un simile documento possa annoverarsi tra le prove atipiche per l’incidenza sostanziale e processuale intrinsecamente elevata riconosciutagli, ritenendo (senza che l’affermazione costituisca ratio decidendi della pronuncia) che la sua contestazione necessiti della querela di falso. 9.5.1. L’intero plesso argomentativo della sentenza rende peraltro tale obiter del tutto peculiare, poiché le stesse scritture provenienti da terzi finiscono per distinguersi in due sottocategorie – la prima, contenente la generalità delle scritture, a valenza probatoria ‘debole’, la seconda, comprensiva di atti di particolare incisività perché essi stessi titolo immediatamente esecutivo del diritto fatto valere, a valenza sostanziale e processuale ‘particolarmente pregnante’ -, per la contestazione di ciascuna delle quali si indica uno distinto strumento processuale.
  33. 6. L’orizzonte della giurisprudenza di legittimità si sposta così, alla luce della soluzione adottata, dal rapporto tra scrittura e soggetto (terzo) contro cui è prodotta al valore intrinseco del documento, in una nuova e più attenta consonanza con la relativa elaborazione dottrinaria.
  34. 6.1. L’indirizzo favorevole alla tesi della necessità della querela trova, infine, recente conferma nella pronuncia di cui a Cass. n. 8272 del 24 maggio 2012, predicativa della correttezza del rimedio processuale disciplinato dagli artt. 221 e segg. c.p.c. essendo il testamento un documento proveniente da terzi, e riaffermativa, nel solco delle Sezioni Unite, dell’incidenza sostanziale e processuale particolarmente elevata della scheda olografa, che giustifica il ricorso alla querela di falso per contestarne l’autenticità.
  35. Il panorama giurisprudenziale si completa con l’antico enunciato di cui a Cass. n. 1545 del 15 giugno 1951, che, premessa la legittimità della proposizione di un’azione di accertamento negativo in ordine alla provenienza delle scritture private e del testamento olografo, afferma che l’onere della prova spetta all’attore che chieda di accertare la non provenienza del documento da chi apparentemente ne risulta l’autore, in consonanza con l’opinione dottrinaria secondo cui la contestazione della genuinità del testamento olografo si traduce in una domanda di accertamento negativo della validità del documento stesso.
  36. 1. La pronuncia (senza assumere tuttavia posizione esplicita sulla forma di tale accertamento negativo, se, cioè, dovesse o meno seguire le forme della querela di falso), fu oggetto di autorevoli consensi e di penetranti critiche in dottrina (in estrema sintesi, alla tesi secondo cui l’impugnazione per falsità del testamento olografo si risolve in una quaestio nullitatis, con conseguente applicabilità alla fattispecie della norma di cui all’art. 606 cod. civ. dettata in tema di nullità del testamento olografo per mancanza dei requisiti si replicò che l’olografo impugnato per falsità non è nullo per difetto di forma ma inesistente), non trovò ulteriore seguito in giurisprudenza, che vide così contrapporsi, come finora ricordato, la tesi della verificazione a quella della querela, con opposte conseguenze in ordine all’onere della prova, ripartito sul presupposto delle diverse finalità e dell’indipendenza dei due istituti.
  37. La questione del riparto degli oneri probatori, in particolare, fu oggetto di approfondita disamina nella sentenza di questa Corte n. 3880 del 18 giugno 1980, ove si legge che la querela postula l’esistenza di una scrittura riconosciuta, mentre il disconoscimento, investendo la provenienza stessa del documento, mira a impedire che la scrittura medesima acquisti efficacia probatoria, con la conseguenza che chi contesti l’autenticità della sottoscrizione della scrittura onde impedire che ali ‘apparente sottoscrittore di essa venga imputata la dichiarazione sottoscritta nella sua totalità, deve disconoscere la sottoscrizione e non già proporre la querela di falso, mentre invece, allorché sia accertata l’autenticità della sottoscrizione, chi voglia contestare la provenienza delle dichiarazioni contenute nella scrittura di colui che, ormai incontrovertibilmente, l’ha sottoscritta, ha l’onere di proporre la querela di falso.
  38. In una dimensione del tutto speculare rispetto alle posizioni della giurisprudenza, la dottrina specialistica si è a sua volta divisa tra i due citati e dominanti orientamenti, con argomentazioni che fanno di volta in volta riferimento:
  39. – al rapporto tra provenienza della scrittura e parte in causa contro cui è prodotta;
  40. – alla valutazione del documento per la riconosciuta incidenza sostanziale e processuale intrinsecamente elevata;
  41. – all’esigenza di tener separato il piano del contenuto del testamento (concreto thema probandum) da quello dello strumento mediante il quale esso possa acquisire rilevanza agli effetti processuali.
  42. Su di un piano più generale, ciascuna delle tesi proposte non appare poi insensibile al problema dell’efficacia delle scritture private e dei relativi strumenti di impugnazione.
  43. La tesi favorevole all’indirizzo che reputa sufficiente il ricorso al disconoscimento colloca tout court il testamento olografo tra le scritture private.
  44. 1. Tale ricostruzione della scheda testamentaria è sostanzialmente univoca, salva l’attribuzione ad essa di quel ‘valore intrinsecamente elevato’ evidenziato da questa stesse sezioni unite nel 2010. Distinzione peraltro criticata da chi ne contesta il fondamento normativo, denunciando l’irragionevolezza dell’attribuzione ad alcuni documenti provenienti da terzi di un regime giuridico ‘rafforzato’ rispetto a quanto assicurato alle scritture private provenienti dalle parti – regime del quale si lamenta l’assenza di un efficace riferimento normativo che sostenga l’intrinseco grado di attendibilità del testamento olografo a giustificazione della necessaria proposizione della querela di falso, e la conseguente confusione concettuale tra il piano processuale e quello sostanziale (confondendosi cioè l’aspetto morfologico del documento e del suo contenuto con lo strumento processuale funzionale al suo riconoscimento sul piano della prova in giudizio).
  45. Tale sovrapposizione concettuale conduceva, difatti, secondo tale orientamento, all’errore in cui incorrevano i sostenitori della necessità di ricorrere alla querela di falso, così criticandosi l’assunto secondo cui incombeva su colui che contestava il testamento olografo la prova del suo accertamento negativo, e ritenendosi invece sufficiente, al pari di ogni scrittura privata, il mero disconoscimento del documento.
  46. 2. L’indirizzo favorevole al semplice disconoscimento della scheda testamentaria apparve, peraltro, illieo et immediate destinato a confrontarsi con due delicate questioni.
  47. 2.1. La prima questione aveva ad oggetto il rapporto tra autore del testamento e parti in causa, poiché il testamento proviene pur sempre da un terzo rispetto alle parti del processo, perciò solo esulando, secondo i sostenitori della tesi della querela di falso, dalla fattispecie normativa di cui all’art. 214 c.p.c. – a tanto replicandosi che la scheda olografa, pur materialmente proveniente da chi non può assumere la qualità di parte in senso processuale o sostanziale, acquistando efficacia solo con la morte del suo autore, è pur tuttavia caratterizzata da una sua così specifica peculiarità che la posizione di ‘parte’ del destinatario della attribuzione deriva unicamente dalla devoluzione ereditaria, evidenziandosi poi l’esistenza di casi in cui il documento, pur non provenendo da alcuna delle parti in causa, non può essere considerato alla stregua di una scrittura di terzo estraneo alla lite.
  48. 2.2. Si è ancora opinato, avvertendo l’utilità di circoscrivere la qualità di terzo rispetto alla scrittura privata prodotta in giudizio (e dunque all’olografo), che, dall’esame esegetico degli artt. 2702, 2704 cod. civ., 214 c.p.c., e in una più ampia dimensione di teoria generale del diritto, il concetto di terzo ha natura relazionale, per tale intendendosi chi è estraneo a un qualsiasi rapporto o atto giuridico, così individuandosi tre diverse dimensioni in cui si colloca il concetto di terzo (e, specularmente, quello di parte), e cioè quella proprio della formazione della scrittura (che, considerando la convenzione come fatto storico puntuale, definisce ‘parte’ colui che abbia sottoscritto o vergato di suo pugno la scrittura, e correlativamente terzo chi non abbia né sottoscritto né vergato a mano la medesima), quella negoziale (afferente alla situazione giuridica di diritto sostanziale disciplinata dal contenuto della scrittura privata prodotta in giudizio, in tale prospettiva essendo parte la persona fisica/soggetto autore della dichiarazione), e infine quella processuale (quella, cioè del giudizio in cui la scrittura privata è prodotta, in questa accezione essendo ‘terzo’ la persona fisica che non in giudizio nel processo pendente).
  49. L’espressione ‘eredi o aventi causa’ utilizzata dal secondo comma dell’art. 214 cod. proc. civ. andrebbe, pertanto, intesa in senso ampio, e comprensiva di tutti coloro che si trovino in una ‘generica posizione di dipendenza’.
  50. 2.3. La critica alla preclusione del disconoscimento imposta all’erede legittimo (formalmente terzo sino alla declaratoria di non autenticità o di falsità dell’olografo), si appunta ancora sull’erronea valorizzazione del nesso processuale tra il documento ed il soggetto, mentre anche il successibile ex lege, in ragione della propria posizione sostanziale, non sarebbe ‘terzo’ bensì soggetto contro il quale l’olografo è prodotto.
  51. 2.4. La posizione del successibile ex lege (se parte o terzo rispetto al testamento olografo che istituisca erede altro soggetto), dissolta in parte qua la differenza tra erede legittimo e quello testamentario ai fini del mezzo cui ricorrere per contestare una scheda olografa, diviene così oggetto di un accertamento giudiziale circoscritto alla fattispecie successoria (legale o testamentaria) invocata in proprio favore, onde il riparto dell’onere della prova andrebbe riferito unicamente all’effetto giuridico di tale fattispecie: costituendo proprio il negozio testamentario il tema della prova, dell’attore o del convenuto, il relativo onere graverebbe ipso facto su colui che vuoi far valere quel documento, con l’effetto che la parte nei cui confronti l’atto testamentario è prodotto può limitarsi al disconoscimento.
    Apertura successioni , come fare  la divisione, denuncia di successione,

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  52. 2.5. La seconda questione, a sua volta influente sull’elaborazione teorica che ha riguardo all’onere della prova, esplora il rapporto tra successione legittima e successione testamentaria, e la supposta preminenza della seconda sulla prima. Si afferma, così, che il tenore dell’art. 457, secondo comma, c.c. (a mente del quale ‘non si fa luogo alla successione legittima se non quando manca, in tutto o in parte, quella testamentaria’) attribuirebbe alle norme sul testamento valenza dispositiva, a fronte della valenza suppletiva della legittima. Per i fautori della querela di falso, questa preminenza inciderebbe in modo determinante sulla ripartizione dell’onere probatorio, perché la contestazione del testamento olografo si traduce in una azione di accertamento negativo volta che, a fronte della ‘posizione consolidata’ attribuita dal testamento all’erede vocato, chi voglia impugnarlo avrebbe l’onere di dimostrare la falsità della provenienza o la insussistenza dei requisiti di validità, in osservanza dei principi generali di ripartizione dell’onere probatorio prescritti dall’art. 2697 cod. civ.. La preminenza della successione testamentaria è stata, peraltro, autorevolmente contestata, sino ad invertirne il rapporto con quella legittima, attribuendo a quest’ultima funzione primaria (e conseguentemente carattere dispositivo alla sua disciplina), residuando alla vocazione testamentaria un carattere soltanto suppletivo: di qui, la legittimità del (solo) disconoscimento della scheda testamentaria.
  53. La tesi favorevole all’indirizzo che reputa necessaria la querela di falso muove dalla premessa secondo cui il testamento olografo, costituendo una autentica prova legale, può essere ‘distrutto’, e oggetto di verifica, soltanto attraverso lo strumento processuale di cui agli artt. 221 ss. c.p.c..
  54. 1. Le posizioni dottrinarie contrarie al disconoscimento, meno numerose, non appaiono tuttavia meno autorevoli per la dovizia delle argomentazioni addotte, volte ad indagare funditus sugli aspetti, sostanziali e processuali, riconducibili alle peculiarità del testamento olografo.
  55. 2. Pur non dubitandosi della estraneità del testamento dalla categoria degli atti pubblici, ne viene pur tuttavia evidenziato il carattere sui generis sul piano sostanziale, reso manifesto innanzitutto dalla circostanza che la falsificazione della scheda olografa, nel diritto penale, è equiparata, quoad poenam, al medesimo reato avente ad oggetto gli atti pubblici, secondo quanto previsto dall’art. 491 c.p., mentre la stessa condotta criminosa, a differenza che per le scritture private, è perseguibile d’ufficio ai sensi del successivo art. 493 bis.
  56. 3. Non si omette poi di considerare che l’olografo produce immediatamente e direttamente effetti nella sfera giuridica del terzo, e costituisce, una volta pubblicato, titolo immediato di acquisto per l’erede e per il legatario, come prescritto dall’art. 620 quinto comma c.c., trattandosi di scrittura la cui efficacia non necessita dell’accertamento della autenticità, e comunque distinta da tutte le altre scritture private, per loro natura inidonee a costituire titolo immediatamente costitutivo di diritti verso i beneficiati.
  57. 4. AI riconoscimento del suo intrinseco valore sul piano sostanziale contribuisce, secondo tale orientamento, la stessa disciplina delle norme sulla pubblicità degli atti (in particolare, gli artt. 2648 e 2660 cod. civ.), che consentono la trascrizione dell’acquisto a causa di morte per effetto della sola presentazione del testamento e dell’atto di accettazione della eredità, restando così implicitamente confermata la non necessità di verificare l’autenticità della scheda, in evidente contrapposizione con il trattamento riservato alle altre scritture private, che possono trascriversi solo se autenticate o giudizialmente accertate, secondo il disposto dell’art. 2657 cod. civ..
  58. 5. Si è poi contestato che il procedimento di verificazione sia adeguato al disconoscimento del testamento, trovandosi il documento in deposito presso un notaio per la pubblicazione art. 620 cod. civ.): e se per la querela di falso l’art. 224 prevede il sequestro del documento quale misura più elevata per la sua custodia quando è tenuto presso un depositario, nessuna disposizione così rigorosa è prevista nel procedimento di verificazione.
  59. 6. Sul piano più squisitamente processuale, si poi affermato che la contestazione della autenticità del testamento andrebbe esercitata servendosi del più rigoroso strumento della querela non tanto per la efficacia probatoria del documento, quanto perché, in materia di contraffazione, l’azione di verificazione si risolverebbe in una iniziativa processuale identica nel contenuto alla querela, ma inammissibilmente libera dalle formalità essenziali che la legge prevede invece nella disciplina dettata dagli artt. 221 e segg. c.p.c.. E si è ancora posto l’accento sulla natura dell’accertamento – per i suoi riflessi sull’onere della prova — e sulla posizione di terzietà del successibile ex lege rispetto al testamento.
  60. 6.1. La soluzione della querela, difatti, conduce, secondo i suoi sostenitori, ad un più corretto riparto dell’onere della prova, che verrebbe a gravare su chi contesta il testamento olografo, in ossequio al disposto dell’art. 2697 e dell’art. 457, secondo comma, c.c., il quale ultimo prevede la successione ex lege solo in mancanza di vocazione testamentaria – risolvendosi la contestazione del documento olografo, come si è detto, in una domanda di accertamento negativo (così aderendosi alla tesi della preminenza della vocazione testamentaria rispetto alla legale). Quanto poi al rapporto tra erede ab intestato e testamento, si afferma che il disconoscimento di una scrittura non può provenire da terzi, poiché tale strumento è riservato alle parti contro cui il documento è rivolto, e agli eredi o aventi causa, che possono limitarsi a non riconoscere la scrittura o la sottoscrizione del suo autore. La fattispecie normativa si riferisce, difatti, ad una scrittura del de cuius prodotta contro gli eredi a fondamento di una pretesa eccepita nei loro riguardi, mentre, prodotto il testamento, deve escludersi che chi lo contesti possa qualificarsi, sic et simpliciter, erede, poiché detta qualifica in capo ai parenti che lo impugnano richiede proprio la dimostrazione della falsità del testamento: per il successibile ex lege non residuerebbe, dunque, che lo strumento della querela di falso per contestare l’autenticità del testamento olografo.
  61. Gli arresti giurisprudenziali e il perdurante contrasto che li caratterizza, al pari delle divergenti conclusioni cui è pervenuta la stessa dottrina, sono lo specchio del complessità della questione posta al collegio, la cui soluzione sul piano teorico è destinata ad assumere un determinante rilievo nelle controversie per lesione di legittima ove assai di frequente si sollevano, in via di domanda o di eccezione, doglianze in ordine alla autenticità del testamento.
  62. La peculiarità e la singolarità della questione sta poi nel fatto che tanto gli argomenti che sorreggono quanto le critiche che contestano ciascuna delle possibili soluzioni non mancano di autorevolezza e di forza persuasiva.
  63. A sostegno della sufficienza del disconoscimento gli argomenti maggiormente convincenti appaiono quelli predicativi:
  64. – della natura di scrittura privata del testamento olografo;
  65. – della attribuzione al successibile ex lege della qualità di erede dell'(apparente) autore della scheda olografa;
  66. – della netta distinzione tra il piano sostanziale, che riguarda più propriamente il thema probandum, e il piano processuale, che riguarda le modalità con le quali in un processo può trovare ingresso, con dignità di prova, il documento di delazione testamentaria.
  67. L’indirizzo a sostegno della necessità della querela di falso trova invece fondamento:
  68. – nella incidenza sostanziale e processuale intrinsecamente elevata che è riconosciuta al testamento, testimoniata da un plesso di norme la cui lettura depone (deporrebbe) in tal senso;
  69. – nella esclusione in capo al successibile ex lege della qualità di erede (almeno sino a quando tale qualità non sia stata processualmente accertata), con conseguente inapplicabilità della fattispecie contemplata nell’art. 214, secondo comma, c.p.c..
  70. Non vanno per altro verso trascurate le riflessioni critiche specularmente mosse alle argomentazioni favorevoli all’una e all’altra delle tesi che si propongono oggi come soluzione (senza apparente alternativa) della questione oggetto di giudizio.
  71. 1. Quanto al rapporto tra successore ex lege e scheda olografa, ed alla posizione dell’erede ab intestato, il vasto dibattito giurisprudenziale e dottrinale che, in seno alla teoria generale del processo, si agita in ordine alla stessa categoria concettuale di ‘terzo’, non sembra del tutto funzionale all’adozione di una soddisfacente soluzione del caso concreto. Non sembra, difatti, seriamente revocabile in dubbio che alcuni successibili, quali i legittimari, difficilmente possano essere qualificati ‘terzi’ ai fini della non riconoscibilità della sottoscrizione del de cuius. Mentre la stessa impugnazione del testamento olografo, la contestazione della sua provenienza e/o autenticità, è spesso proposta proprio da chi, pur beneficiario di una quota inferiore a quella spettantegli, è comunque (anche) un erede testamentario, sicché nei suoi confronti non potrebbe porsi alcuna questione di accertamento della sua qualità di erede.
  72. 1.1. Di conseguenza, non appare utile prospettare alternative che, a seconda della posizione assunta da chi contesta il testamento (escluso totalmente dalla eredità, erede legittimo compreso nelle categorie dei legittimari, erede testamentario sia pur per quota che non lo soddisfi), postulino poi l’adozione di soluzioni differenziate caso per caso.
  73. 1.2. Né appare senza significato considerare che una formale disamina del concetto di terzo conduce inevitabilmente a ritenere che quella posizione, ai fini dell’art. 214 cod. proc. civ., non andrebbe esaminata non dal punto di vista del soggetto parte della lite ma dell’autore del documento che si vuoi disconoscere – e sotto tale profilo il de cuius non è mai parte nel giudizio di impugnazione del proprio testamento -, e che l’erede in disconoscimento della scrittura o della sottoscrizione del suo autore sarebbe colui che subentra al de cuius nei suoi rapporti – e ciò presuppone che quel medesimo scritto si sarebbe potuto produrre nei confronti del testatore se ancora in vita.
  74. E tuttavia risulta assai poco agevole affermare che, tra i documenti (siano essi negoziali oppure dichiarazioni di scienza) possa annoverarsi, sic et simpliciter, il testamento, formato dal medesimo de cuius, ma destinato a produrre effetti nella sfera giuridica dei suoi destinatari e non in quella dell’autore, acquistando efficacia dal momento del suo decesso e non prima. La ratio della distinzione tra scritture private, fatta propria dalle sezioni unite di questa Corte nel 2010, secondo cui ad alcune di esse andrebbe attribuito un valore intrinsecamente maggiore, trova proprio in tali considerazioni il suo fondamento, pur senza trascurare la legittimità delle critiche di chi contesta l’irragionevolezza dell’attribuzione ad alcune di esse di un regime giuridico ‘rafforzato’ rispetto a quanto assicurato a quelle provenienti dalle parti, anche alla luce della difficoltà di individuare un criterio da adoperare per la relativa classificazione.
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  1. impugnazione del testamento olografo per falsitŕ
  2. impugnazione di testamento
  3. impugnazione del testamento pubblico
  4. impugnazione del testamento pubblico termini
  5. impugnazione del testamento prescrizione
  6. impugnazione di testamento olografo falso
  7. impugnazione del testamento termini
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impugnazione del testamento per captazione Cass. civ. n. 24637/2010

Il motivo del testamento consiste nella ragione determinante di esso, come quella che domina la volontà del testatore nel momento in cui detta o redige le disposizioni di ultima volontà, cosicché, per potersi parlare di motivo erroneo, tale da rendere inefficace la disposizione, è necessaria la certezza, desumibile dallo stesso testamento, che la volontà del testatore sia stata dominata dalla rappresentazione di un fatto non vero, in modo da doversene dedurre che, se il fatto fosse stato percepito o conosciuto nella sua verità obiettiva, quella disposizione testamentaria non sarebbe stata dettata o redatta. L’apprezzamento del giudice di merito circa l’esistenza o meno del motivo erroneo, dedotto quale causa di annullamento del testamento, è incensurabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione adeguata e immune da vizi logici ed errori di diritto.

(Cassazione civile, Sez. II, sentenza n. 24637 del 3 dicembre 2010)

Cass. civ. n. 2122/1991

Per affermare l’esistenza della captazione, la quale deve essere configurata come il dolus malus causam dans trasferito dal campo contrattuale a quello testamentario, non basta una qualsiasi influenza esercitata sul testatore per mezzo di sollecitazioni, consigli, blandizie e promesse, ma è necessario il concorso di mezzi fraudolenti, che siano da ritenersi idonei ad ingannare il testatore e ad indurlo a disporre in modo difforme da come avrebbe deciso se il suo libero orientamento non fosse stato artificialmente e subdolamente deviato.

(Cassazione civile, Sez. II, sentenza n. 2122 del 27 febbraio 1991)

Cass. civ. n. 254/1985

In tema di errore ex art. 624 c.c. è necessaria la dimostrazione che la volontà del testatore sia stata influenzata in maniera decisiva dalla percezione, come reali, di fatti diversi dal vero. Analogamente, in tema di dolo o violenza, sempre ex art. 624 c.c., occorre la prova che i fatti di induzione in errore o di violenza abbiano indirizzato la volontà del testatore in modo diverso da come essa avrebbe potuto normalmente determinarsi. Più in particolare, quanto al dolo, ad integrare la captazione non basta una qualsiasi influenza esercitata sul testatore attraverso blandizie, richieste, suggerimenti, sollecitazioni e simili, sia pure interessati, ma è necessario l’impiego di altri mezzi fraudolenti che, avuto riguardo all’età, allo stato di salute e alle condizioni psichiche del de cuius, siano idonei a trarlo in inganno, suscitando in lui false rappresentazioni ed orientando la sua volontà in un senso verso il quale non si sarebbe spontaneamente indirizzata.

(Cassazione civile, Sez. II, sentenza n. 254 del 22 gennaio 1985)

Cass. civ. n. 1117/1975

È viziata la motivazione della sentenza che, nel rigettare la domanda di annullamento del testamento per violenza morale, ometta di tener conto dell’età, del sesso e della condizione del testatore.

(Cassazione civile, Sez. II, sentenza n. 1117 del 24 marzo 1975)

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impugnare testamento falso

A riguardo, si osserva l’idoneità del testamento olografo a devolvere l’eredità quale effetto immediato conseguente alla pubblicazione, ai sensi dell’art. 620, c. 6, c.c., nonché l’equiparazione che, a certi fini, la legge penale fa del testamento agli atti pubblici. In particolare, il notaio procede alla pubblicazione del testamento in presenza di due testimoni, redigendo nella forma degli atti pubblici un verbale nel quale descrive lo stato del testamento, ne riproduce il contenuto e fa menzione della sua apertura, se è stato presentato chiuso con sigilli. Il verbale, inoltre, è sottoscritto dalla persona che presenta il testamento, dai testimoni e dal notaio. Soltanto dal momento della pubblicazione l’erede può agire giudizialmente per l’esecuzione delle disposizioni testamentarie, sebbene il testamento risulti efficace fin dall’apertura della successione.

 

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che il testamento redatto dal de cuius può essere impugnato se si dimostra che al momento della sua redazione, quest’ultimo era affetto da una infermità psichica di natura permanente, tale da determinare la sua incapacità di intendere e di volere (Cass. civ., Sez. II, 11/07/2011, n. 15187). Tuttavia, l’annullamento di un testamento per incapacità naturale del testatore postula l’esistenza non già di una semplice anomalia o alterazione delle facoltà psichiche ed intellettive del de cuius, bensì la prova che, a cagione di una infermità transitoria o permanente, ovvero di altra causa perturbatrice, il soggetto sia privo in modo assoluto, al momento della redazione dell’atto di ultima volontà, della coscienza dei propri atti ovvero della capacità di autodeterminarsi; con la conseguenza che è onere di chi quello stato di incapacità assume, di provare che il testamento fu redatto in un momento di incapacità di intendere e di volere (ex plurimis Cass. civ., Sez. II, 12/08/2010, n. 18540; Cass. civ., Sez. II, 15/04/2010, n. 9081; Cass. civ., Sez. II, 27/10/2008, n. 25845; Cass. civ., Sez. II, 11/04/2007, n. 8728; Cass. civ., Sez. II, 06/05/2005, n. 9508; Cass. civ., Sez. II, 30/01/2003, n. 1444; Cass. civ., Sez. II, 06/12/2001, n. 15480).

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Il testamento pubblico è quello redatto dal notaio e da questi conservato.

 Per sua natura è un testamento che è immune da falsità o alterazioni, proprio perché la presenza del pubblico ufficiale serve a certificare l’autenticità del documento. incapacità, nel termine di 5 anni;

  • lesione di legittima, nel termine di 10 anni.
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Il testamento può essere impugnato per nullità senza limiti di tempo, ma non può essere fatta valere dalle persone che conoscevano la causa della nullità e ciò nonostante hanno confermato la disposizione o dato ad essa volontaria esecuzione.

Il testamento, è invece annullabile quando si dimostra che il testatore era incapace d’intendere e di volere al momento della stesura, oppure se presenta dei difetti di forma, non così gravi da renderlo nullo, ma annullabile (per esempio se manca la data è annullabile).

L’azione di annullamento va fatta entro cinque anni dal momento in cui il notaio rende pubblico il testamento davanti ai chiamati.

 

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L’atto di divisione ereditaria è uno strumento giuridico mediante il quale avviene la cessazione dello stato di comunione esistente tra più soggetti in relazione a un determinato bene immobile. Con essa, infatti, si stabilisce l’attribuzione a ciascuno dei soggetti della proprietà esclusiva di parte del bene comune.

Al contempo, si stabilisce l’attribuzione a ciascuno dei soggetti della proprietà esclusiva di una parte del bene comune, corrispondente per valore alla quota spettante di diritto.

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rinuncia eredita’

Con la rinuncia all’eredità non si perde il diritto alla pensione di reversibilità: la rinuncia, all’eredita’ non impedisce il godimento della prestazione ma la rinuncia all’eredita’ .

 Purtroppo a volte i debiti del defunto sono superiori ai suoi beni, con la rinuncia all’eredità l’erede fa cessare gli effetti che derivano dall’apertura della successione evitando che i creditori possano rivolgersi a lui per il pagamento dei debiti. In questo caso, però, l’erede non potrà rifarsi sui crediti ereditati poichè la rinuncia all’eredità è totale.

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SEPARAZIONE VELOCE BOLOGNA
Studio Legale Bologna Studio Legale Bologna dell’avvocato Sergio Armaroli 

Agugliaro

Albettone

Alonte

Altavilla Vicentina

Altissimo

Arcugnano

Arsiero

Arzignano

Asiago

Asigliano Veneto

Barbarano Mossano

Bassano del Grappa

Bolzano Vicentino

Breganze

Brendola

Bressanvido

Brogliano

Caldogno

Caltrano

Calvene

Camisano Vicentino

Campiglia dei Berici

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Cartigliano

Cassola

Castegnero

Castelgomberto

Chiampo

Chiuppano

Cogollo del Cengio

Colceresa

Cornedo Vicentino

Costabissara

Creazzo

Crespadoro

Dueville

Enego

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Isola Vicentina

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Lastebasse

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Marostica

Monte di Malo

Montebello Vicentino

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Montecchio Precalcino

Montegalda

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Monticello Conte Otto

Montorso Vicentino

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Originally posted 2018-04-08 09:18:30.

PERUGIA 1 RISARCIMENTO TRIB PERUGIA 2 FIGLI MOGLIE INCIDENTE MORTALE : VELOCITA’ ECCESSIVA ART 2054 C

RISARCIMENTO 3 AVVOCATO ESPERTO BOLOGNA

CHIAMA UN AVVOCATO MOLTO ESPERTO CHE OTTIENE IL GIUSTO DANNO PER TE 

CHIAMA UN AVVOCATO MOLTO ESPERTO CHE OTTIENE IL GIUSTO DANNO PER TE 

CHIAMA UN AVVOCATO MOLTO ESPERTO CHE OTTIENE IL GIUSTO DANNO PER TE 

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PERUGIA 1 RISARCIMENTO TRIB PERUGIA 2 FIGLI MOGLIE INCIDENTE MORTALE

PERUGIA 1 RISARCIMENTO TRIB PERUGIA 2 FIGLI MOGLIE INCIDENTE MORTALE

Se dunque la convenuta poteva avvistare agevolmente l’auto antagonista che stava per immettersi sulla strada dalla stessa percorsa, perdono di rilevanza le altre questioni, su cui le parti dibattono e legate alla “natura” della strada da cui proveniva il S., volte a considerare la manovra di quest’ultimo imprevedibile. Imprevedibilità che non può essere sostenuta in considerazione del fatto che la convenuta aveva ampia possibilità di apprezzare la manovra che il S. stava ponendo in essere, proprio perché vedeva l’autovettura dallo stesso condotta. Peraltro, dal verbale di ispezione del veicolo coinvolto emerge come nell’auto del S. fosse inserita la prima marcia, circostanza che induce a ritenere che questi si sia immesso sulla strada partendo da fermo e ad escludere una manovra imprevedibile e repentina, residuando quali addebiti alla sua condotta la mancata concessione della precedenza e la violazione delle norme sopra indicate.

L’eccezione sub c) è ugualmente infondata.

FATTO

Con atto di citazione ritualmente notificato C.I., S.F. e S.A. evocavano in giudizio V.A. Spa e F.M.R. chiedendo che il Tribunale adito condannasse i convenuti, in solido tra loro, a risarcire loro i danni, patrimoniali e non, patiti in conseguenza del sinistro mortale occorso al loro congiunto S.F..

A fondamento della loro domanda esponevano:

– che gli odierni attori sono rispettivamente moglie, figlio e fratello e quindi eredi ed aventi diritto del de cuius S.F., il quale decedeva in data 28 maggio 2013 a seguito di un sinistro stradale;

– che nello specifico S.F., alla guida del proprio veicolo Fiat Panda tg. (…), provenendo da un accesso laterale sito in Loc. C., nell’immettersi sulla strada Regionale n. 3 F. km 183,850, entrava in collisione con il veicolo Renault Twingo tg. (…)di proprietà e condotta da F.M.R.;

– che nel luogo teatro del sinistro intervenivano la Polizia Municipale, i Vigili del Fuoco e il personale del 118;

– che in conseguenza del sinistro S.F. moriva;

– che il sinistro era ascrivibile a responsabilità della convenuta atteso che la velocità tenuta dalla vettura dalla stessa condotta era pari a 70 km/h mentre, nel tratto di strada interessato, il limite di velocità imposto era di 50 km/h. Alla luce di ciò, ove la F. avesse proceduto alla velocità richiesta e indicata dalla segnaletica stradale il sinistro non si sarebbe verificato in quanto la vettura si sarebbe arrestata prima di venire a collisione con il veicolo del S.;

– che era evidente la responsabilità della convenuta nella causazione del sinistro, alla quale veniva contestata la violazione dell’art. 141 commi 2 e 11 C.d.s.;

1.2. M.R.F. rimaneva contumace.

1.3. Costituitasi in giudizio, V.A. Spa chiedeva il rigetto della domanda attorea eccependo:

– che il sinistro si era verificato pe responsabilità esclusiva del S.;

– che, infatti, S.F. proveniva da un fondo agricolo privato per il quale non era previsto alcun accesso sulla strada Flaminia. Infatti, lungo tale strada non era presente alcuna segnaletica volta a preavvisare immissioni laterali, tanto che il S. veniva sanzionato per la violazione di cui all’art. 145 commi 6 e 10 C.d.s.;

MOTIVAZIONE

Quelle sub a) e b) per l’omogeneità del tema possono essere affrontate unitariamente.

Come visto la strada Flaminia interessata dal sinistro si presenta come rettilinea e senza avvallamenti. Le condizioni ambientali e climatiche al momento del sinistro non creavano ostacolo alcuno. Unica nota che i verbalizzanti hanno evidenziato è la presenza di vegetazione spontanea alta 1 metro sul lato destro della carreggiata percorsa dalla convenuta, che andava scemando in prossimità del punto ove è avvenuto l’impatto. Tale stato dei luoghi – anche considerando le dimensioni in altezza delle autovetture – non costituiva ostacolo all’avvistamento da parte della convenuta dell’auto condotta dal S.. Tale giudizio è stato espresso anche dal CTU a pag. 9 del proprio elaborato, dove si legge che “in ragione dell’ampia visuale libera presente in loco, data dal tratto rettilineo della sezione stradale interessata, pur considerata la presenza di folta erba sul margine della carreggiata (vedi rilievi Autorità), i conducenti potevano avvistarsi reciprocamente (…)”.

Se dunque la convenuta poteva avvistare agevolmente l’auto antagonista che stava per immettersi sulla strada dalla stessa percorsa, perdono di rilevanza le altre questioni, su cui le parti dibattono e legate alla “natura” della strada da cui proveniva il S., volte a considerare la manovra di quest’ultimo imprevedibile. Imprevedibilità che non può essere sostenuta in considerazione del fatto che la convenuta aveva ampia possibilità di apprezzare la manovra che il S. stava ponendo in essere, proprio perché vedeva l’autovettura dallo stesso condotta. Peraltro, dal verbale di ispezione del veicolo coinvolto emerge come nell’auto del S. fosse inserita la prima marcia, circostanza che induce a ritenere che questi si sia immesso sulla strada partendo da fermo e ad escludere una manovra imprevedibile e repentina, residuando quali addebiti alla sua condotta la mancata concessione della precedenza e la violazione delle norme sopra indicate.

L’eccezione sub c) è ugualmente infondata.

Il Tribunale ritiene sicuramente esaustiva, coerente e priva di vizi logici la consulenza formatasi nel presente giudizio nel contraddittorio delle parti.

Quanto all’asserita “assorbenza” della violazione commessa dal S. rispetto all’infrazione della convenuta il Tribunale non condivide l’opinione espressa dall’Assicurazione, fondata anche su una lettura ugualmente non condivisibile della giurisprudenza citata. Sul punto è sufficiente riportare l’insegnamento della Corte di Cassazione (sent. 484 del 2003) secondo cui “in virtù del principio di regolarità causale, tutti gli antecedenti in mancanza dei quali un determinato evento dannoso non si sarebbe verificato debbono ritenersi causa del medesimo, salvo che non si accerti, ai sensi dell’art. 41, secondo comma, cod. pen., applicabile anche nel giudizio civile, che lacausa prossima sia stata da sola idonea a produrla; accertato il concorso delle cause nella produzione dell’evento, la graduazione delle responsabilità ai fini del risarcimento dei danni deve essere effettuata avendo esclusivamente riguardo al loro grado di incidenza eziologia ed alla gravità della colpa di ciascuno dei concorrenti”. Nel caso di specie è indubbio che nessuna della due condotte ha escluso l’altra nel dinamismo causale che ha condotto al sinistro, discostandosi entrambe in maniera significativa dalla condotta che doveva essere tenuta.

Non può poi essere accolto l’assunto per cui in ipotesi di mancata concessione del diritto di precedenza la condotta del mezzo antagonista che non rispetta il limite di velocità concorre nella causazione del sinistro solamente quando tale limite è violato in maniera “abnorme”; anche una violazione del limite di velocità non “abnorme” può porsi in concreto come concausa del sinistro, se osservando tale condotta il sinistro si sarebbe evitato. La giurisprudenza di legittimità ha preso in considerazione proprio l’ipotesi contraria a quella sostenuta dalla società convenuta affermando in termini logico-giuridici sicuramente condivisibili che (ord. 15504 del 2013) “in tema di responsabilità civile derivante da scontro di veicoli ex art. 2054, secondocomma, cod. civ., in caso di concorso tra condotte, di cui l’una integri la violazione dell’obbligo di precedenza e l’altra la violazione dell’obbligo di limitare la velocità, la seconda di tali condotte non è idonea, di norma, ad interrompere il nesso di causalità tra il comportamento di guida del conducente sfavorito e l’incidente. Nondimeno, allorché risulti che l’altro conducente teneva una velocità doppia di quella ammessa in un centro abitato, ponendosi – oltretutto nella stessa area di incrocio – in illecito sorpasso di alcune vetture che marciavano regolarmente incolonnate, procedendo completamente contromano per ultimare tale manovra, così da non poter essere avvistato dall’automobilista impegnato nell’attraversamento dell’incrocio in prossimità dello “stop”, siffatto contegno può essere valutato come causa esclusiva del sinistro, con conseguente superamento della presunzione di concorrente responsabilità sancita dalla predetta disposizione del codice civile”.

Infine, anche l’eccezione sub d) non è fondata, atteso che le evidenze portate all’attenzione del Tribunale non depongono – neanche in termini presuntivi – per l’accertamento del fatto che il S. non avesse allacciate le cinture di sicurezza. Peraltro, dall’esame necrospopico è emerso che il S. è deceduto per insufficienza cardio – respiratoria secondaria a trauma cervicale, quest’ultimo evento non collegabile necessariamente all’assenza di cinture di sicurezza.

3.4.2. Infine, la società convenuta si lamenta dell’accertamento della velocità del mezzo effettuato dal CTU sulla base di tecnica e valutazioni non condivisibili. Il Tribunale ritiene adeguato l’accertamento compiuto dal consulente, che ha preso posizione sulle osservazioni avanzate dai tecnici di parte. Peraltro, tale accertamento non è di molto distante da quello compiuto da altro esperto in ambito penale, che (come si legge dalla richiesta di archiviazione del PM) ha misurato la velocità dell’auto condotta dalla F. in 65Km/h. Inoltre, anche laddove (per pura ipotesi) si volesse accedere alla tesi di parte convenuta del difetto di prova dell’eccesso di velocità (in realtà come visto provata alla luce di due consulenze “terze” – quella dell’odierno CTU e quella del consulente del PM), tale incertezza (in difetto di prova contraria non data) non gioverebbe a parte convenuta, perché non sarebbe comunque superato il principio della presunzione di pari responsabilità di cui all’art. 2054 c.c.

  1. In punto di quantificazione del danno, con riferimento a quello non patrimoniale da perdita del congiunto – da ritenersi sussistente in ragione dello stretto rapporto parentale esistente tra gli attori e la vittima del sinistro, dal quale è lecito presumere la rilevante sofferenza dagli stessi patita per effetto dell’improvvisa scomparsa del congiunto – il Tribunale ritiene opportuno fare riferimento alle tabelle di Roma in quanto maggiormente idonea a soddisfare i criteri per la liquidazione di tale pregiudizio indicati dalle più recenti pronunce di legittimità (Cass. sent. n. 26.300 del 2021 e n. 10579 del 2021).

Tribunale Perugia, Sez. II, Sent., 10/03/2022, n. 355

IntestazioneSvolgimento del processo – Motivi della decisioneP.Q.M.Conclusione

Intestazione

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE di PERUGIA

Seconda Sezione Civile

Il Tribunale di Perugia, in composizione monocratica, in persona del Giudice dott. Andrea Ausili, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa iscritta al n. 836 del Ruolo generale degli affari contenziosi civili dell’anno 2015 e promossa

da

C.I., S.F. e S.A., rappresentati e difesi dall’Avv. Stefano Sborzacchi ed elettivamente domiciliati presso il suo studio sito in Gualdo Tadino, via Flaminia km 189;

attori

contro

V.A. Spa, in persona del rappresentante legale p.t., rappresentata e difesa dall’Avv. Corrado Zaganelli ed elettivamente domiciliata presso il suo studio sito in Perugia, Via Bontempi n.1;

convenuta

e contro

F.M.R.

convenuta contumace

OGGETTO: MORTE

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

  1. Con atto di citazione ritualmente notificato C.I., S.F. e S.A. evocavano in giudizio V.A. Spa e F.M.R. chiedendo che il Tribunale adito condannasse i convenuti, in solido tra loro, a risarcire loro i danni, patrimoniali e non, patiti in conseguenza del sinistro mortale occorso al loro congiunto S.F..

A fondamento della loro domanda esponevano:

– che gli odierni attori sono rispettivamente moglie, figlio e fratello e quindi eredi ed aventi diritto del de cuius S.F., il quale decedeva in data 28 maggio 2013 a seguito di un sinistro stradale;

– che nello specifico S.F., alla guida del proprio veicolo Fiat Panda tg. (…), provenendo da un accesso laterale sito in Loc. C., nell’immettersi sulla strada Regionale n. 3 F. km 183,850, entrava in collisione con il veicolo Renault Twingo tg. (…)di proprietà e condotta da F.M.R.;

– che nel luogo teatro del sinistro intervenivano la Polizia Municipale, i Vigili del Fuoco e il personale del 118;

– che in conseguenza del sinistro S.F. moriva;

– che il sinistro era ascrivibile a responsabilità della convenuta atteso che la velocità tenuta dalla vettura dalla stessa condotta era pari a 70 km/h mentre, nel tratto di strada interessato, il limite di velocità imposto era di 50 km/h. Alla luce di ciò, ove la F. avesse proceduto alla velocità richiesta e indicata dalla segnaletica stradale il sinistro non si sarebbe verificato in quanto la vettura si sarebbe arrestata prima di venire a collisione con il veicolo del S.;

– che era evidente la responsabilità della convenuta nella causazione del sinistro, alla quale veniva contestata la violazione dell’art. 141 commi 2 e 11 C.d.s.;

1.2. M.R.F. rimaneva contumace.

1.3. Costituitasi in giudizio, V.A. Spa chiedeva il rigetto della domanda attorea eccependo:

– che il sinistro si era verificato pe responsabilità esclusiva del S.;

– che, infatti, S.F. proveniva da un fondo agricolo privato per il quale non era previsto alcun accesso sulla strada Flaminia. Infatti, lungo tale strada non era presente alcuna segnaletica volta a preavvisare immissioni laterali, tanto che il S. veniva sanzionato per la violazione di cui all’art. 145 commi 6 e 10 C.d.s.;

– come la F. procedeva a velocità regolare e moderata, trovandosi davanti a sé il veicolo del S.;

– che il PM chiedeva l’archiviazione del processo a carico della F. in ragione dell’assenza di qualsiasi elemento di responsabilità dell’odierna convenuta;

– come fossero sproporzionate e incongrue le somme richieste a titolo di danno patrimoniale per la riparazione dell’auto e le spese funerarie e quelle a titolo di danno morale subito dalla moglie, dal figlio e dal fratello.

1.4. La causa era istruita mediante consulenza tecnica d’ufficio.

In data 10.11.2021 il presente fascicolo era assegnato all’odierno giudicante.

Le parti precisavano le conclusioni all’udienza del 16.12.2021. Tutte le parti costituite depositavano le comparse conclusionali e le memorie di replica ex art. 190 c.p.c..

  1. Preliminarmente va dichiarata la contumacia di M.R.F., in quanto non risulta ancora esservi provveduto, pur in presenza di regolare notifica dell’atto introduttivo del giudizio.
  2. La domanda attorea è fondata e va accolta per quanto di ragione.

3.1 All’esito dell’istruttoria è possibile ricostruire il sinistro nei seguenti termini: in data 28.5.2013 alle ore 12.40 circa il veicolo Fiat Panda tg. (…)condotto da S.F., provenendo da un fondo agricolo, si immetteva sulla S.R. 3 Flaminia all’altezza del km 183,850. Nel compiere tale manovra entrava in collisione con il veicolo Renault Twingo tg. (…), di proprietà e condotto da F.M.R.. L’impatto interessava il lato sinistro dell’auto dal S. (all’altezza del posto del conducente) e la parte anteriore del veicolo guidato dalla F..

Come accertato dalle Autorità intervenute sul luogo del sinistro, il S. proveniva da luogo non soggetto a pubblico passaggio (cfr: altresì infrazione ipotizzata dal Comando di Polizia Municipale nel rapporto di incidente stradale).

3.2. Nel compiere la manovra di immissione sulla strada Flaminia lo stesso violava l’art. 145 c. VI del CdS, secondo cui “negli sbocchi su strada da luoghi non soggetti a pubblico passaggio i conducenti hanno l’obbligo di arrestarsi e dare la precedenza a chi circola sulla strada”, nonché le (connesse) norme del CdS di cui agli artt. 145 c. VII, 154 c. I lett. a) e 140 c. I. Nel caso di specie è evidente come il S. non abbia concesso la precedenza al veicolo antagonista.

3.2.1 Anche la condotta di guida della F. non è esente da censura. Come emerso all’esito di CTU disposta dal Tribunale, il veicolo Renault Twingo percorreva la strada Flaminia alla velocità di 70km/h, laddove il limite di velocità era fissato in 50km/h. A causa di tale elevata velocità la convenuta non riusciva ad evitare l’impatto con l’auto antagonista, nonostante la brusca frenata effettuata pochi istanti prima dell’urto, comprovata dagli inequivoci segni lasciati sull’asfalto.

3.3. Entrambe le condotte illecite sopra descritte si pongono in rapporto causale con il sinistro occorso. Dagli atti di causa emerge evidente (la circostanza è peraltro confermata dal CTU) che le condizioni della strada e quelle ambientali erano tali da consentire ad entrambi i conducenti una reciproca, agevole individuazione dei rispettivi veicoli in avvicinamento. È allora evidente come le violazioni delle suddette norme di comportamento di guida si pongano – in termini equivalenti dal punto di vista dell’incidenza causale – come le cause del sinistro, che dunque va ascritto alla responsabilità di entrambi i conducenti dei mezzi coinvolti nella misura del 50% (essendo ugualmente paritetico il grado della colpa, discostandosi entrambe le condotte in maniera significativa dalla condotta che doveva essere tenuta). Ove, infatti, il S. avesse concesso la precedenza al veicolo antagonista, l’impatto non si sarebbe verificato; ove la F. avesse condotto il proprio mezzo ad una velocità aderente ai limiti, “percependo l’immissione del veicolo Fiat Panda del deceduto e ponendo in atto una azione di rallentamento e frenata da pari intensità ed efficacia, come quella rilevata, avrebbe potuto arrestare il veicolo entro uno spazio di 27 m. circa e pertanto non si sarebbe verificata la collisione” (cfr: CTU p. 10).

3.4. Sul punto – al fine di escludere e/o contenere la responsabilità della convenuta – la compagnia di assicurazioni ha posto in evidenza:

  1. a) come provenendo il S. da luogo non soggetto a pubblico passaggio, dunque da area non qualificabile quale accesso, esclusiva o prevalente sarebbe la sua responsabilità, in ragione dell’assenza di segnali che potessero preannunciare la manovra di immissione del S., manovra che anche per tale ragione non poteva essere preveduta dalla F.;
  2. b) la presenza di vegetazione sui lati della strada che impediva la visuale alla convenuta;
  3. c) il decreto di archiviazione in sede penale adottato dal GIP di Perugia nei confronti della convenuta e fondato su altro accertamento peritale che escludeva la responsabilità della convenuta medesima per la condotta di guida imprevedibile del S., sicché anche laddove la stessa avesse marciato ad una velocità di 50Km/h il contatto sarebbe comunque avvenuto in quanto l’autovettura Fiat Panda al momento dell’urto aveva occupato l’intera corsia di destra;
  4. d) la circostanza che il S. non indossasse cinture di sicurezza, evincibile dalla tipologia di lesioni subite al cranio.

3.4.1. Tali eccezioni non sono fondate.

Quelle sub a) e b) per l’omogeneità del tema possono essere affrontate unitariamente.

Come visto la strada Flaminia interessata dal sinistro si presenta come rettilinea e senza avvallamenti. Le condizioni ambientali e climatiche al momento del sinistro non creavano ostacolo alcuno. Unica nota che i verbalizzanti hanno evidenziato è la presenza di vegetazione spontanea alta 1 metro sul lato destro della carreggiata percorsa dalla convenuta, che andava scemando in prossimità del punto ove è avvenuto l’impatto. Tale stato dei luoghi – anche considerando le dimensioni in altezza delle autovetture – non costituiva ostacolo all’avvistamento da parte della convenuta dell’auto condotta dal S.. Tale giudizio è stato espresso anche dal CTU a pag. 9 del proprio elaborato, dove si legge che “in ragione dell’ampia visuale libera presente in loco, data dal tratto rettilineo della sezione stradale interessata, pur considerata la presenza di folta erba sul margine della carreggiata (vedi rilievi Autorità), i conducenti potevano avvistarsi reciprocamente (…)”.

Se dunque la convenuta poteva avvistare agevolmente l’auto antagonista che stava per immettersi sulla strada dalla stessa percorsa, perdono di rilevanza le altre questioni, su cui le parti dibattono e legate alla “natura” della strada da cui proveniva il S., volte a considerare la manovra di quest’ultimo imprevedibile. Imprevedibilità che non può essere sostenuta in considerazione del fatto che la convenuta aveva ampia possibilità di apprezzare la manovra che il S. stava ponendo in essere, proprio perché vedeva l’autovettura dallo stesso condotta. Peraltro, dal verbale di ispezione del veicolo coinvolto emerge come nell’auto del S. fosse inserita la prima marcia, circostanza che induce a ritenere che questi si sia immesso sulla strada partendo da fermo e ad escludere una manovra imprevedibile e repentina, residuando quali addebiti alla sua condotta la mancata concessione della precedenza e la violazione delle norme sopra indicate.

L’eccezione sub c) è ugualmente infondata.

Il Tribunale ritiene sicuramente esaustiva, coerente e priva di vizi logici la consulenza formatasi nel presente giudizio nel contraddittorio delle parti.

Quanto all’asserita “assorbenza” della violazione commessa dal S. rispetto all’infrazione della convenuta il Tribunale non condivide l’opinione espressa dall’Assicurazione, fondata anche su una lettura ugualmente non condivisibile della giurisprudenza citata. Sul punto è sufficiente riportare l’insegnamento della Corte di Cassazione (sent. 484 del 2003) secondo cui “in virtù del principio di regolarità causale, tutti gli antecedenti in mancanza dei quali un determinato evento dannoso non si sarebbe verificato debbono ritenersi causa del medesimo, salvo che non si accerti, ai sensi dell’art. 41, secondo comma, cod. pen., applicabile anche nel giudizio civile, che lacausa prossima sia stata da sola idonea a produrla; accertato il concorso delle cause nella produzione dell’evento, la graduazione delle responsabilità ai fini del risarcimento dei danni deve essere effettuata avendo esclusivamente riguardo al loro grado di incidenza eziologia ed alla gravità della colpa di ciascuno dei concorrenti”. Nel caso di specie è indubbio che nessuna della due condotte ha escluso l’altra nel dinamismo causale che ha condotto al sinistro, discostandosi entrambe in maniera significativa dalla condotta che doveva essere tenuta.

Non può poi essere accolto l’assunto per cui in ipotesi di mancata concessione del diritto di precedenza la condotta del mezzo antagonista che non rispetta il limite di velocità concorre nella causazione del sinistro solamente quando tale limite è violato in maniera “abnorme”; anche una violazione del limite di velocità non “abnorme” può porsi in concreto come concausa del sinistro, se osservando tale condotta il sinistro si sarebbe evitato. La giurisprudenza di legittimità ha preso in considerazione proprio l’ipotesi contraria a quella sostenuta dalla società convenuta affermando in termini logico-giuridici sicuramente condivisibili che (ord. 15504 del 2013) “in tema di responsabilità civile derivante da scontro di veicoli ex art. 2054, secondocomma, cod. civ., in caso di concorso tra condotte, di cui l’una integri la violazione dell’obbligo di precedenza e l’altra la violazione dell’obbligo di limitare la velocità, la seconda di tali condotte non è idonea, di norma, ad interrompere il nesso di causalità tra il comportamento di guida del conducente sfavorito e l’incidente. Nondimeno, allorché risulti che l’altro conducente teneva una velocità doppia di quella ammessa in un centro abitato, ponendosi – oltretutto nella stessa area di incrocio – in illecito sorpasso di alcune vetture che marciavano regolarmente incolonnate, procedendo completamente contromano per ultimare tale manovra, così da non poter essere avvistato dall’automobilista impegnato nell’attraversamento dell’incrocio in prossimità dello “stop”, siffatto contegno può essere valutato come causa esclusiva del sinistro, con conseguente superamento della presunzione di concorrente responsabilità sancita dalla predetta disposizione del codice civile”.

Infine, anche l’eccezione sub d) non è fondata, atteso che le evidenze portate all’attenzione del Tribunale non depongono – neanche in termini presuntivi – per l’accertamento del fatto che il S. non avesse allacciate le cinture di sicurezza. Peraltro, dall’esame necrospopico è emerso che il S. è deceduto per insufficienza cardio – respiratoria secondaria a trauma cervicale, quest’ultimo evento non collegabile necessariamente all’assenza di cinture di sicurezza.

3.4.2. Infine, la società convenuta si lamenta dell’accertamento della velocità del mezzo effettuato dal CTU sulla base di tecnica e valutazioni non condivisibili. Il Tribunale ritiene adeguato l’accertamento compiuto dal consulente, che ha preso posizione sulle osservazioni avanzate dai tecnici di parte. Peraltro, tale accertamento non è di molto distante da quello compiuto da altro esperto in ambito penale, che (come si legge dalla richiesta di archiviazione del PM) ha misurato la velocità dell’auto condotta dalla F. in 65Km/h. Inoltre, anche laddove (per pura ipotesi) si volesse accedere alla tesi di parte convenuta del difetto di prova dell’eccesso di velocità (in realtà come visto provata alla luce di due consulenze “terze” – quella dell’odierno CTU e quella del consulente del PM), tale incertezza (in difetto di prova contraria non data) non gioverebbe a parte convenuta, perché non sarebbe comunque superato il principio della presunzione di pari responsabilità di cui all’art. 2054 c.c.

  1. In punto di quantificazione del danno, con riferimento a quello non patrimoniale da perdita del congiunto – da ritenersi sussistente in ragione dello stretto rapporto parentale esistente tra gli attori e la vittima del sinistro, dal quale è lecito presumere la rilevante sofferenza dagli stessi patita per effetto dell’improvvisa scomparsa del congiunto – il Tribunale ritiene opportuno fare riferimento alle tabelle di Roma in quanto maggiormente idonea a soddisfare i criteri per la liquidazione di tale pregiudizio indicati dalle più recenti pronunce di legittimità (Cass. sent. n. 26.300 del 2021 e n. 10579 del 2021).

4.1 Quanto all’attrice C.I. vengono in rilievo:

1) la qualità di coniuge;

2) l’età di anni 80 dell’attrice al momento del decesso del marito;

3) l’età di 82 anni del marito al momento del suo decesso;

4) la convivenza con il marito;

5) la presenza del figlio, quale altro familiare stretto da cui ricevere assistenza materiale e morale;

alla luce dei parametri della tabella il coefficiente da assegnare all’attrice è di 30; a tale coefficente va moltiplicato il valore punto di euro 9.806,70, così per un danno complessivo di euro 295.800,00, da risarcire nella misura del 50%, pari ad euro 147.900,00.

Quanto all’attore S.F. vanno considerati:

1) la qualità di figlio;

2) l’età di 51 anni al momento della morte del padre;

3) l’età di 82 anni del padre al momento della sua morte;

4) la non convivenza con il padre;

5)le circostanze che alla morte del padre l’attore ha mantenuto il rapporto con la madre ed è dotato di autonomo nucleo familiare composto dalla moglie e dal figlio;

alla luce dei parametri della tabella il coefficiente da assegnare all’attore è di 22; a tale coefficiente va moltiplicato il valore punto di euro 9.806,70, così per un danno complessivo di euro 215.747,4, da risarcire nella misura del 50%, pari ad euro 107.873,7.

Quanto all’attore A.S. vengono in rilievo:

1) la qualità di fratello della vittima;

2) l’età di 81 anni dell’attore al momento del fratello;

3) l’età di 82 anni del fratello al momento della sua morte;

4) dell’assenza di ulteriori informazioni offerte in relazione al rapporto con il fratello;

alla luce dei parametri della tabella il coefficiente da assegnare all’attore è di 9; a tale coefficiente va moltiplicato il valore punto di euro 9.806,70, così per un danno complessivo di euro 88.260,3, da risarcire nella misura del 50%, pari ad euro 44.130,13.

4.2. Quanto al danno patrimoniale a S.F. che ha sostenuto la relativa spesa, vanno risarcite le spese del funerale, documentate in euro 6.501,81. Sicché allo stesso va corrisposta la somma di euro 3.251,00, somma rivalutata ad euro 3.493,75.

Alcun pregiudizio patrimoniale può essere ristorato con riferimento al danno auto, avendo gli attori richiesto somma necessaria per la riparazione del mezzo, in difetto di prova che l’auto sia stata effettivamente riparata, non essendo sufficiente a tale fine il mero preventivo di spesa.

4.3. Alla luce delle superiori considerazioni, i convenuti vanno condannati a corrispondere a:

C.I. la somma di euro 147.900,00;

S.F. la somma di euro 111.367,5

S.A. la somma di euro 44.130,13,

per tutti oltre interessi legali dalla pronuncia al saldo. Non vanno riconosciuti interessi compensativi agli attori, i quali non hanno allegato né provato, così com’era loro onere, il danno e cioè che la somma rivalutata che viene liquidata è inferiore a quella di cui avrebbero disposto alla stessa data della sentenza, se il pagamento della somma originariamente dovuta fosse stato tempestivo (cfr: Cass., sent. 22347 del 2007 e ord. 18654 del 2018).

In ragione del principio di soccombenza i convenuti vanno altresì condannati a rifondere le spese di lite sostenuti dagli attori, liquidate tenendo conto – ai fini dell’individuazione dello scaglione – del credito accertato. Analogo criterio giustifica il fatto che i convenuti sopportino per intero le spese di CTU.

P.Q.M.

Il Tribunale di Perugia, definitivamente pronunciando nel giudizio R.G. 836 del 2015 sulla domanda proposta da C.I., S.F. e S.A. contro V.A. S.p.a. e F.M.R., in persona del rappresentante legale p.t. così provvede:

1) Condanna V.A. S.p.a. e M.R.F., in solido tra loro, a corrispondere a C.I. la somma di euro 147.900,00, a S.F. la somma di euro 111.367,5 a S.A. la somma di euro 44.130,13, per tutti oltre interessi legali dalla pronuncia al saldo.

2) condanna i convenuti, in solido tra loro, a corrispondere agli attori, a titolo di rimborso delle spese di lite, la somma complessiva di euro 25.000,00 per compenso professionale, euro 1.731,00 per anticipazioni, oltre rimborso forfettario al 15%, IVA e CPA come per legge.

3) pone le spese di CTU definitivamente a carico dei convenuti.

Conclusione

Così deciso in Perugia il 9 marzo 2022.

Depositata in Cancelleria il 10 marzo 2022.

Originally posted 2022-06-01 09:04:00.

VICENZA SUCCESSIONI TRIBUNALE TESTAMENTO LESIVO QUOTA LEGITTIMA RIGETTO

EREDE RISOLVI ADESSO SUCCESSIONE LITE EREDITARIA BOLOGNA PADOVA RAVENNA VICENZA SEI PREOCCUPATO DI COME STANNO0 ANDANDO LE COSE PER LA TUA EREDITA’ E HAI PAURA CHE NON TI VENGA RICNOSCIUTA LA TUA QUOTA? BOLOGNA ,VICENZA,RAVENNA, IMOLA ,FORLI, CESENA, PADOVA,  ROVIGO EREDE RISOLVI ADESSO SUCCESSIONE LITE EREDITARIA BOLOGNA PADOVA RAVENNA VICENZA AVVOCATO SERGIO ARMAROLI 051 6447838

EREDE RISOLVI ADESSO SUCCESSIONE LITE EREDITARIA BOLOGNA PADOVA RAVENNA VICENZA
SEI PREOCCUPATO DI COME STANNO0 ANDANDO LE COSE PER LA TUA EREDITA’ E HAI PAURA CHE NON TI VENGA RICNOSCIUTA LA TUA QUOTA?
BOLOGNA ,VICENZA,RAVENNA, IMOLA ,FORLI, CESENA, PADOVA,  ROVIGO
EREDE RISOLVI ADESSO SUCCESSIONE LITE EREDITARIA BOLOGNA PADOVA RAVENNA VICENZA AVVOCATO SERGIO ARMAROLI 051 6447838

Ciò nondimeno in sede di precisazione delle conclusioni la ### continua ad insistere per l’asserita lesione della propria quota di riserva, chiedendo di dividere i beni immobili appartenuti al de cuius in guisa da assegnare alla stessa la quota di un ottavo dell’asse ereditario.  ### peraltro del tutto superate (o comunque mutate) con lo scritto difensivo conclusivo, ove argomenta (cfr. pagg. 3-4) che la stessa “…era ben consapevole che la quantità delle obbligazioni assunte in vita dal figlio defunto avrebbero potuto rivelarsi tante e tali da rendere incapiente il patrimonio relitto. Tale circostanza era per lei irrilevante. L’interesse ad agire dell’odierna deducente, infatti, non andava individuato nell’interesse a partecipare alla distribuzione tra gli eredi di un ipotetico attivo ereditario; l’interesse di ### consisteva invece nella volontà di partecipare alla formazione di un piano di riparto dell’attivo ereditario in favore dei creditori della massa.

a info erede oggi bella

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Tale interesse coincide con la volontà di svolgere una funzione di verifica e di controllo da parte dell’erede pretermesso…”.

Nessuna di questi argomenti (a prescindere dalla possibile novità, che renderebbe le allegazioni assertive inammissibili: l’attrice non l’aveva in precedenza mai dedotto e parte convenuta, dal canto suo, dichiara immediatamente in conclusionale di replica di non accettare il contraddittorio) avrebbe potuto validamente sorreggere un’azione giudiziaria così come promossa.

Perché, come condivisibilmente obietta parte convenuta, la Suprema Corte ha più volte ribadito che il legittimario totalmente pretermesso (quale appunto l’attrice) acquista la qualità di erede solo con l’utile esperimento dell’azione di riduzione (cosa che nel caso di specie non potrebbe per ovvi motivi verificarsi).

E perché la procedura di liquidazione dei beni in ambito di accettazione beneficiata è rigidamente codificata e garantita da una serie di “tutele, controlli e pubblicità” (pag. 3 conclusionale di replica convenuta) – si pensi alle garanzie per i creditori; alle autorizzazioni giudiziali per le vendite; alla liquidazione concorsuale con assistenza notarile (art. 492, 493, 499 c.c.) – che rendono egualmente infondata la deduzione attorea.

Su tali premesse non può che pervenirsi all’integrale reiezione delle domande attoree, meritevoli anzi di sanzione risarcitoria ex art. 93 c.p.c., dal momento che l’attrice ha agito in giudizio con colpa grave, tanto più perseverando nella sua condotta processuale (che ha reso necessaria una CTU estimativa al fine di fugare ogni possibile dubbio) pur a fronte delle già eloquenti produzioni documentali della controparte, che acclaravano il carattere di damnosa hereditas della successione.

Pare equa al riguardo una sanzione commisurata al 25% delle spese di lite (competenze: cfr.  liquidazione infra), dell’importo quindi di ### (arrotondati) in moneta attuale.

TRIBUNALE DI VICENZA

Sentenza n. 753/2022 del 02-05-2022

TRIBUNALE ORDINARIO DI VICENZA REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE DI VICENZA, ### in composizione collegiale, riunito in ### di ### e composto dai ### dott. ### – Presidente rel.  dott.ssa ### – Giudice dott. ### – Giudice ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta a ruolo il 30.04.2018 al n. 3038/2018 R.G. e promossa con atto di citazione notificato in data 24.04.2018, n. 4514 Cron. Ufficiale Giudiziario addetto all’### presso il Tribunale di Vicenza da ### nata a ### (VI) il  ###, residente a ### (VI) in ###  ###/a, c.f. ###, rappresentata e difesa dall’Avv. ### del ### di ### con domicilio eletto presso lo studio dello stesso, in ### (VI) – ###, come da procura in calce all’atto di citazione.   attrice contro ### nata a ### (VI) il  ###, residente a ### (VI) in ###, c.f. ###, rappresentata e difesa dall’Avv. ### del ### di ### con domicilio eletto presso lo studio dello stesso, in ### (VI) – ### n. 15, come da mandato depositato nel fascicolo telematico.  convenuta e contro ### nata in ### il  ###, c.f. ###, residente a ### (VI) in ###.  convenuta contumace In punto: riduzione per lesione di legittima.

All’udienza innanzi al Giudice Istruttore del 29.06.2021 la causa veniva rimessa al Collegio per la decisione sulle seguenti conclusioni precisate dai procuratori delle parti costituite: ### 1) Accertare e dichiarare che il testamento del signor ### pubblicato in data 12.09.2017 a rogito 632 del notaio ### registrato a ### il 13.09.2017, al n. 7731 serie 1T, ha determinato la lesione della quota dell’erede legittimario spettante a ### alla quale va riconosciuta la quota di un ottavo dell’asse ereditario, ai sensi e per gli effetti di quanto dispone l’articolo 544 del codice civile.  2) Visto l’articolo 554 c.c., disporre la riduzione della disposizione testamentaria eccedente la quota di cui il defunto poteva legittimamente disporre, in modo da potersi imputare all’odierna attrice la quota di un ottavo dell’asse ereditario, con tutti i conseguenti provvedimenti.  3) Conseguentemente, dichiarare che la signora ### è titolare della quota di un ottavo delle porzioni immobiliari relitte da ### che di seguito si trascrivono: In Comune di ### ### – Foglio 5, particella ### sub. 6, categoria A/2, classe 5, vani 6, RC ### ### p. T/2, per la piena proprietà.  – Foglio 5, particella ### sub. 7, categoria C/6, classe 2, RC ### ### p.

T/2, per la proprietà di due sesti (i 4/6 appartengono a ### nata in ### il  ###).  – Foglio 15, particella ### sub 1, categoria A/7, ### 1, vani 8, RC 661,06, ###, T, 1, per la quota di un mezzo.  – Foglio 15, particella ### sub 2, categoria C/6, ### 1, mq 47, RC 57,17, ###, per la quota di un mezzo.  4) Dividere i beni immobili indicati in premessa in guisa di assegnare all’odierna attrice la quota di un ottavo dell’asse ereditario.

In Via Istruttoria: Ammettersi c.t.u. al fine di ricostruire l’intero patrimonio del “de cuius”, stabilirne la divisibilità o meno in quote, e, all’esito della determinazione delle quote, previa riduzione delle disposizioni lesive, pervenire alla quota da assegnare a ### ### – ogni contraria istanza, deduzione ed eccezione disattesa; 1. IN RITO, ### Dichiararsi improcedibile la domanda giudiziale attorea ex art. 5, D.Lgs. ### , n. 28, per i motivi esposti in corso di causa; 2. NEL MERITO 2.1. IN VIA PRINCIPALE.

Rigettarsi integralmente tutte le domande svolte dall’attrice, ivi incluse quelle formulate in via istruttoria, in quanto infondate in fatto ed in diritto per tutti i motivi esposti in corso di causa; 2.2. IN VIA SUBORDINATA RISPETTO ALLA DOMANDA APPENA PROPOSTA IN VIA PRINCIPALE.

Nella denegata e non creduta ipotesi di mancato accoglimento della domanda appena svolta nel merito in via principale, previa ricostruzione e stima dell’asse ereditario di ### (eventualmente anche mediante la documentazione proveniente dalla procedura di liquidazione concorsuale dell’eredità beneficiata di cui in narrativa), nonché previa determinazione delle quote spettanti alle parti in causa quali eredi testamentarie e/o legittimarie del de cuius e del relativo valore, nell’eventualità limitare la riduzione della disposizione testamentaria effettuata in favore della convenuta e contenuta nel testamento olografo pubblicato il 12/09/2017 a rogito rep. n. 632 del notaio ### al solo valore che risulterà eccedente la quota disponibile di cui poteva liberamente disporre il de cuius, in ogni caso con assegnazione alla stessa convenuta delle porzioni immobiliari relitte, oltre a quanto risulterà ancora di sua spettanza a seguito della predetta procedura concorsuale, e con condanna dell’attrice a rifondere alla medesima convenuta pro quota le spese ed i costi tutti sopportati da quest’ultima per l’eredità de quo; 2.3. IN OGNI CASO Ordinarsi la cancellazione della trascrizione della domanda giudiziale eseguita a favore dell’attrice ### contro la convenuta ### presso ### delle ### ### provinciale di ### – territorio, registro generale 13270 registro particolare 8726 presentazione n. 24 del 13/06/2019 (nota di trascrizione che si dimette quale all. 18) a cura e spese dell’attrice e con condanna della stessa attrice a rifondere alla convenuta le spese e i costi della cancellazione qualora Vi provveda quest’ultima.

Il tutto con esonero di responsabilità in capo al ### dei ### 3. IN VIA ISTRUTTORIA Previa revoca dell’ordinanza del 21.5.2019 che ha deciso sulle istanze istruttorie, ammettersi la prova per testi indicata dalla convenuta nella memoria 183-6 n. 2 CPC con il teste notaio ### con studio in ### e sui capitoli ivi indicati.  4. IN OGNI CASO.

Spese (anche generali) e compensi di lite con oneri accessori di legge integralmente rifusi; ALLEGATI: all. 18) nota di trascrizione eseguita presso ### delle ### ### provinciale di ### – territorio, registro generale 13270 registro particolare 8726 presentazione n. 24 del 13/06/2019.

Concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione Con atto di citazione, notificato in data 24.04.2018, la sig.ra ### conveniva in giudizio avanti questo ### e ### proponendo domanda di riduzione per lesione di legittima nei sensi di cui infra.

Esponeva invero l’attrice che: – in data 28.08.2017 si apriva la successione del sig. ### nato a Montecchio Maggiore (VI) il 20.12.1970, coniugato in vita con la sig.ra ### privo di discendenti; – in data 12.09.2017 veniva pubblicato il testamento olografo di ### col quale il coniuge ### veniva istituita erede universale del defunto; – la sig.ra ### accettava l’eredità del de cuius con beneficio di inventario, inventario che veniva redatto con rogito del notaio ### in data 16.10.2017; – la disposizione testamentaria era lesiva dellla quota di legittima dell’attrice, madre del defunto, alla quale andava riconosciuta la quota di un ottavo dell’asse ereditario ai sensi dell’art. 544 c.c. (oltre al coniuge ed all’attrice, vi era il padre del de cuius, sig. ###; – il defunto era proprietario dei seguenti beni immobili: in Comune di ### ### – Foglio 5, particella ### sub. 6, categoria A/2, classe 5, vani 6, RC ### ### p. T/2, per la piena proprietà.  – Foglio 5, particella ### sub. 7, categoria C/6, classe 2, RC ### ### p.

T/2, per la proprietà di due sesti (i 4/6 appartengono a ### nata in ### il  ###).  – Foglio 15, particella ### sub 1, categoria A/7, ### 1, vani 8, RC 661,06, ###, T, 1, per la quota di un mezzo.  – Foglio 15, particella ### sub 2, categoria C/6, ### 1, mq 47, RC 57,17, ###, per la quota di un mezzo; – il valore della quota dell’attrice era pari ad ### Su tali premesse, convenendo in giudizio le sigg.re ### e ### l’attrice chiedeva venisse accertato che il testamento aveva determinato la lesione della quota dell’erede legittimario ad essa spettante e che pertanto ne venisse disposta la riduzione, dichiarandosi l’attrice titolare della quota di un ottavo delle porzioni immobiliari relitte dal de cuius, procedendosi alla divisione di detti immobili in modo da assegnare all’attrice la quota di un ottavo dell’asse ereditario.

Contumace la convenuta ### si costituiva ### contrastando la domanda, che chiedeva venisse dichiarata improcedibile ai sensi dell’art. 5 D. Lgs. n. 28/2010, o comunque rigettata nel merito in quanto infondata.

In sintesi: – eccepiva l’improcedibilità per mancato esperimento del procedimento di mediazione ai sensi dell’art.  5 D. Lgs. n. 28/2010, trattandosi di domande afferenti controversia in materia di divisione e successione ereditaria; – assumeva l’infondatezza della domanda di riduzione non ricorrendo alcuna lesione di legittima in danno dell’attrice.

A tal ultimo riguardo rilevava che a carico dell’eredità sussistevano gravi e pesanti passività per una forte situazione di indebitamento, di cui essa convenuta oltretutto era ignara e che aveva appreso solo a seguito del decesso e della successiva accettazione beneficiata: tra l’altro sussistevano un mutuo fondiario contratto con ### ed ### di ### ed un finanziamento ### con debiti residui rispettivamente di ### ed ### ; sui beni immobili di cui il de cuius era proprietario o comproprietario risultavano iscritte ben quattro ipoteche (due volontarie e due giudiziali, conseguenti ad altrettanti decreti ingiuntivi); nella procedura di liquidazione concorsuale del ### erano pervenute attestazioni di credito per complessivi ### ; per adempiere agli oneri derivanti dall’accettazione beneficiata essa convenuta, nella sua qualità di erede testamentaria, aveva dovuto sopportare ingenti spese, che allo stato ammontavano ad ### ; non si era fino ad allora potuto dar corso ad alcuna ripartizione dei beni appartenenti al defunto, ricompresi tutti nella procedura di liquidazione concorsuale dell’eredità beneficiata; l’attrice non si era fatta in alcun modo carico delle complicate pratiche successorie e dei conseguenti esborsi economici; aveva formulato la domanda di asserita lesione e riduzione in modo del tutto generico ed apodittico, senza indicare gli elementi sui quali fondava la relativa quantificazione.

Così nei suoi termini essenziali impostato il contraddittorio, alla prima udienza del ### veniva assegnato termine per l’esperimento del procedimento di mediazione.

Venivano successivamente assegnati alle parti, che avevano dato atto dell’esito negativo della mediazione, i richiesti termini per memorie ex art. 183 comma VI c.p.c..

Veniva quindi disposta C.T.U., affidata all’ing. ### ricostruttiva ed estimativa del patrimonio e dell’asse ereditario del de cuius, volta altresì ad accertare: – le quote spettanti alle parti quali eredi testamentarie e/o legittimarie del de cuius – l’entità delle passività gravanti sull’asse – l’eventuale lesione di legittima in danno dell’attrice per effetto della disposizione testamentaria a favore della convenuta, detratte le passività gravanti sull’asse – le modalità di riduzione delle disposizioni lesive, accertando la quota eventualmente da assegnare all’attrice (detratte le predette passività).

Depositata la relazione peritale, all’udienza del ### la causa veniva rimessa alla decisione del Collegio sulle conclusioni precisate dai procuratori delle parti, in epigrafe trascritte, con assegnazione dei termini ex art. 190 c.p.c. per il deposito degli scritti conclusionali.  ***************

La presente controversia è devoluta alla cognizione del ### in composizione collegiale, ai sensi dell’art. 50 bis, comma 1°, n. 6, c.p.c., avendo ad oggetto domanda di riduzione per lesione di legittima.

Domanda che deve essere rigettata.

Ai sensi dell’art. 556, primo comma, c.c., per determinare l’ammontare della quota di cui il defunto poteva disporre si forma una massa di tutti i beni che appartenevano al defunto al tempo della morte, detraendone i debiti.

Prescindendo nel caso di specie da eventuali donazioni, che prosegue il suddetto articolo 556 c.c., andrebbero fittiziamente riunite alla massa relitta per la determinazione della quota di legittima (non risultano né sono stati dedotti atti a titolo di donazione da parte del defunto), sull’asse così determinato (relictum meno debiti) va calcolata la quota di cui il defunto poteva disporre.

Ora, nel caso a giudizio la CTU espletata dall’ing. ### ha accertato (ma un tale quadro contabile in realtà emergeva già dai documenti dell’accettazione beneficiata prodotti dalla convenuta, vedova del de cuius, all’atto della costituzione) il carattere integralmente passivo dell’eredità.

Invero, a fronte di una teorica quota di legittima spettante all’attrice ### per l’importo complessivo di ### il totale delle passività sulla stessa incombenti ascenderebbe ad ### superando quindi di oltre 24 mila ### la quota di legittima genericamente reclamata (cfr.  conclusioni elaborato peritale).

Il CTU ha invero concluso che “dal momento che le passività superano il valore della quota di legittima spettante alla parte ricorrente, non vi è motivo di prevedere la suddetta riduzione” (cfr. pag. 17 elaborato peritale).

Come rileva parte convenuta, l’attrice, astrattamente interessata all’eventuale contestazione delle risultanze della ### non le ha mai contestate con l’allegazione di osservazioni o censure a metodi e conclusioni del consulente in corso di lavori peritali (né, aggiunge incidentalmente il Collegio, in comparsa conclusionale).

Ciò nondimeno in sede di precisazione delle conclusioni la ### continua ad insistere per l’asserita lesione della propria quota di riserva, chiedendo di dividere i beni immobili appartenuti al de cuius in guisa da assegnare alla stessa la quota di un ottavo dell’asse ereditario.  ### peraltro del tutto superate (o comunque mutate) con lo scritto difensivo conclusivo, ove argomenta (cfr. pagg. 3-4) che la stessa “…era ben consapevole che la quantità delle obbligazioni assunte in vita dal figlio defunto avrebbero potuto rivelarsi tante e tali da rendere incapiente il patrimonio relitto. Tale circostanza era per lei irrilevante. L’interesse ad agire dell’odierna deducente, infatti, non andava individuato nell’interesse a partecipare alla distribuzione tra gli eredi di un ipotetico attivo ereditario; l’interesse di ### consisteva invece nella volontà di partecipare alla formazione di un piano di riparto dell’attivo ereditario in favore dei creditori della massa.

Tale interesse coincide con la volontà di svolgere una funzione di verifica e di controllo da parte dell’erede pretermesso…”.

Nessuna di questi argomenti (a prescindere dalla possibile novità, che renderebbe le allegazioni assertive inammissibili: l’attrice non l’aveva in precedenza mai dedotto e parte convenuta, dal canto suo, dichiara immediatamente in conclusionale di replica di non accettare il contraddittorio) avrebbe potuto validamente sorreggere un’azione giudiziaria così come promossa.

Perché, come condivisibilmente obietta parte convenuta, la Suprema Corte ha più volte ribadito che il legittimario totalmente pretermesso (quale appunto l’attrice) acquista la qualità di erede solo con l’utile esperimento dell’azione di riduzione (cosa che nel caso di specie non potrebbe per ovvi motivi verificarsi).

E perché la procedura di liquidazione dei beni in ambito di accettazione beneficiata è rigidamente codificata e garantita da una serie di “tutele, controlli e pubblicità” (pag. 3 conclusionale di replica convenuta) – si pensi alle garanzie per i creditori; alle autorizzazioni giudiziali per le vendite; alla liquidazione concorsuale con assistenza notarile (art. 492, 493, 499 c.c.) – che rendono egualmente infondata la deduzione attorea.

Su tali premesse non può che pervenirsi all’integrale reiezione delle domande attoree, meritevoli anzi di sanzione risarcitoria ex art. 93 c.p.c., dal momento che l’attrice ha agito in giudizio con colpa grave, tanto più perseverando nella sua condotta processuale (che ha reso necessaria una CTU estimativa al fine di fugare ogni possibile dubbio) pur a fronte delle già eloquenti produzioni documentali della controparte, che acclaravano il carattere di damnosa hereditas della successione.

Pare equa al riguardo una sanzione commisurata al 25% delle spese di lite (competenze: cfr.  liquidazione infra), dell’importo quindi di ### (arrotondati) in moneta attuale.

Le spese del giudizio – come liquidate in dispositivo ex D.M. 10.03.2014 n. 55 (scaglione di valore da ### sino ad ### importi tariffari medi) – seguono il principio della soccombenza e vanno così poste a carico dell’attrice, la quale inoltre sopporterà, in via definitiva e per l’intero, le spese di ### Nulla per le spese di lite va invece disposto verso la contumace.

Da ultimo va ordinata, ad intervenuto passaggio in giudicato della pronunzia, la cancellazione della trascrizione della domanda giudiziale eseguita a favore dell’attrice contro la convenuta presso ### delle ### ### provinciale di ### – territorio, a cura e spese dell’attrice, con obbligo della stessa attrice a rifondere alla convenuta le spese e i costi della cancellazione qualora vi provveda quest’ultima.  P.Q.M.  ### definitivamente pronunziando nella causa di cui in epigrafe, ogni diversa istanza deduzione o eccezione disattesa o comunque assorbita, così decide: I) rigetta le domande dell’attrice; II) pone le spese di CTU in via definitiva e per l’intero a carico dell’attrice; III) condanna l’attrice a rifondere alla convenuta ### le spese processuali, liquidate in ### per compensi professionali, oltre a spese generali 15%, CPA ed IVA come per legge; IV) nulla per le spese di lite verso la convenuta contumace; V) condanna l’attrice al risarcimento del danno a favore della convenuta ### ai sensi dell’art. 93 c.p.c., liquidato in ### (milleottocento/00 euro) in moneta attuale; VI) ordina, ad intervenuto passaggio in giudicato della presente pronunzia, la cancellazione della trascrizione della domanda giudiziale eseguita a favore dell’attrice ### contro la convenuta ### presso ### delle ### ### provinciale di ### – territorio, registro generale 13270 registro particolare 8726 presentazione n. 24 del 13/06/2019 a cura e spese dell’attrice, con obbligo della stessa attrice a rifondere alla convenuta le spese e i costi della cancellazione qualora vi provveda quest’ultima.

Così deciso in ### nella ### di ### della ### del ### il ### IL PRESIDENTE EST.  (dott. ###

Originally posted 2023-07-27 16:02:39.

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cosa vuol dire essere erede legittimo senza testamento ?

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vuol dire rientrare nella categoria prevista dal codice civile quale ered elegittimo ,senza che chi è morto cioè il de cuius abbia nominato altro erede con testamento.

 

 

Chi sono gli eredi legittimi?

 

Ai sensi dell’art. 565 c.c., sono eredi legittimi il coniuge, i discendenti, gli ascendenti, i collaterali, gli altri parenti e lo Stato.

il coniuge, i discendenti, gli ascendenti, i collaterali, gli altri parenti e lo Stato vengono detti legittimi in quanto designati direttamente dalla legge, in base ad un principio di gradualità per cui ciascun ordine esclude il successivo .

 

Sono preferiti dalla legge a tutti gli altri possibili successori di eredità, oltre al coniuge o alla persona civilmente unita al defunto (che gode di tutti i diritti successori riconosciuti al coniuge), secondo una vera e propria graduatoria:

 

 

  • figli legittimi e naturali, ovvero i discendenti;

  • fratelli e sorelle, ovvero i collaterali, quali parenti stretti;

  • i genitori, ovvero gli ascendenti;

  • parenti entro il sesto grado; 

  • i beni passano allo Stato (Articolo 565, Codice Civile), in mancanza di eredi legittimi.

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Ecco come il codice civile attribuisce l’eredita’ in assenza di testamento :

 

  • solo Coniuge 
    Tutto
  • solo Coniuge più un figlio 
    Metà al coniuge; metà al figlio 
  • solo Coniuge e due o più figli 
    Un terzo al coniuge; due terzi da dividersi in parti uguali tra i figli
  • Coniuge più fratelli e/o sorelle 
    Due terzi al coniuge, un terzo da dividersi in parti uguali tra le sorelle e i fratelli germani (entrambi i genitori in comune). In caso di fratelli sia germani, sia unilaterali (un solo genitore in comune), a quelli unilaterali spetta la metà della quota che spetta a ciascuno dei germani
  • Coniuge più un nipote (figlio di un fratello o di una sorella defunti) 
    Due terzi al coniuge; un terzo al nipote
  • Coniuge più entrambi i genitori 
    Due terzi al coniuge; un sesto al padre, un sesto alla madre
  • Coniuge più un solo genitore 
    Due terzi al coniuge; un terzo al genitore
  • Coniuge più genitori o altri ascendenti più fratelli e/o sorelle 
    Due terzi al coniuge; un dodicesimo ai fratelli o alle sorelle (da dividersi in parti uguali tra tutti); tre dodicesimi ai genitori o agli altri discendenti

 

QUANTO SOPRA CAMBIA IN PRESENZA DI VALIDO TESTAMENTO

 

Originally posted 2018-03-31 11:03:15.

ABBANDONO TETTO CONIUGALE BOLOGNA GUAI! PROBLEMI O NO?

COSA VUOL DIRE? COSA SI RISCHIA ?

Il fatto che l’attuale controricorrente fosse vittoriosa in primo grado con riguardo alla domanda di addebito della separazione esclude, all’evidenza, che la medesima fosse tenuta a proporre appello incidentale per far accertare che la ragione dell’addebito al marito fosse diversa rispetto a quella individuata dal giudice di prime cure. In termini generali, la parte vittoriosa in primo grado non ha l’onere di proporre appello incidentale per far valere le domande e le eccezioni non accolte e, per sottrarsi alla presunzione di rinuncia ex art. 346 c.p.c., può limitarsi a riproporle, mentre è la parte rimasta parzialmente soccombente in relazione ad una domanda od eccezione, di cui intende ottenere l’accoglimento, che ha l’onere di proporre appello incidentale, pena il formarsi del giudicato sul rigetto della stessa (Cass. Sez. U. 24 maggio 2007, n. 12067Cass. 13 maggio 2016, n. 9889Cass. 14 marzo 2013, n. 6550). In conseguenza, la parte vittoriosa in primo grado, che abbia però visto respingere taluna delle sue tesi od eccezioni, ovvero taluni dei suoi sistemi difensivi, ha l’onere di manifestare in maniera esplicita e precisa la propria volontà di riproporre la domanda o le eccezioni rigettate, onde superare la presunzione di rinuncia, e quindi la decadenza, di cui all’art. 346 c.p.c. (Cass. 29 gennaio 2018, n. 2091Cass. 17 dicembre 1999, n. 14267, la quale richiama pure il principio affermato da Cass. 16 novembre 1985 n. 5626, secondo cui ove la parte vittoriosa in primo grado intenda che la sentenza a lei favorevole sia confermata con ulteriore motivazione, essa ha l’onere non di spiegare appello incidentale, bensì di riproporre la motivazione non accolta). E infatti, chi, vittorioso nel merito, chieda la conferma della decisione impugnata, eventualmente anche in base ad una diversa soluzione delle questioni proposte nel precedente grado di giudizio, manca dell’interesse alla proposizione dell’impugnazione incidentale (per tutte: Cass. Sez. U. 27 gennaio 1993, n. 1005).

  1. – Il secondo mezzo denuncia la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112c.p.c. e art. 132c.p.c., n. 4, e per violazione o falsa applicazione dell’art. 143 c.c., comma 2, art. 146 c.c., artt. 151 e 2697 c.c. e art. 115 c.p.c., oltre che per l’omesso esame di un fatto decisivo. La censura investe l’affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, per cui la causa della rottura matrimoniale era da addebitare al marito per via della relazione extraconiugale dello stesso. Viene dedotto che, come correttamente accertato dal giudice di prima istanza, il punto non era suffragato da riscontri probatori; si aggiunge che non era comunque emerso che la relazione extraconiugale avesse impresso una “svolta decisiva” alla crisi matrimoniale. Il ricorrente critica la pronuncia impugnata per aver essa valorizzato, a tale riguardo, la deposizione testimoniale resa da C.E.: deposizione definita “incerta e confusa”. La Corte di appello, inoltre, secondo l’istante, non avrebbe considerato ulteriori elementi, come le dichiarazioni rese in sede di interrogatorio formale da Ch.Ri. (la quale avrebbe affermato che già nel (OMISSIS) aveva depositato un primo ricorso per separazione) e le ulteriori risultanze desumibili dalle deposizioni di alcuni testimoni. Sostiene, inoltre, che la pronuncia della Corte di L’Aquila risulterebbe affetta da un’anomalia motivazionale tradottasi in violazione di legge costituzionalmente rilevante e che lo stesso giudice del gravame avrebbe omesso l’esame di fatti decisivi, mancando di soffermarsi “sulla anteriorità della crisi alla pretesa relazione extraconiugale e sull’idoneità causale della stessa”, quale causa efficiente della cessazione della convivenza tra i coniugi.abusi-edilizi-avvocato-penalista-esperto

Il motivo è inammissibile.

La censura ex art. 360 c.p.c., n. 3 non può avere ingresso: l’onere di specificità dei motivi, sancito dall’art. 366 c.p.c., n. 4), impone al ricorrente che denunci il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3), a pena d’inammissibilità della censura, di indicare le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare – con una ricerca esplorativa ufficiosa, che trascende le sue funzioni – la norma violata o i punti della sentenza che si pongono in contrasto con essa (Cass. Sez. U. 28 ottobre 2020, n. 23745). Il motivo di ricorso in esame non contiene indicazioni nel senso indicato.

Il ricorrente non può, poi, denunciare l’anomalia motivazionale della sentenza facendo riferimento alle risultanze istruttorie. Infatti, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè: e il vizio deve risultare dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8053Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8054). Non vale quindi opporre che la figlia dell’istante avrebbe reso una deposizione inattendibile o sottoporre alla Corte interi brani delle testimonianze assunte nel corso del giudizio di merito. E’ noto, del resto, che la prospettazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta mediante le risultanze di causa inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito (Cass. 13 ottobre 2017, n. 24155Cass. 11 gennaio 2016, n. 195). In termini generali, infatti, la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involge apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (Cass. 4 luglio 2017, n. 16467) e dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass. 31 luglio 2017, n. 19011Cass. 2 agosto 2016, n. 16056). Col ricorso per cassazione, dunque, la parte non può rimettere in discussione, proponendo una propria diversa interpretazione, la valutazione delle risultanze processuali e la ricostruzione della fattispecie operate dai giudici del merito (Cass. 7 dicembre 2017, n. 29404Cass. 7 aprile 2017, n. 9097).preliminare-immobiliare-il-contratto-preliminare-avvocato-esperto-

Pure inammissibile è la censura di omesso esame di fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., n. 5. La deduzione di tale vizio impone a chi ricorre per cassazione di indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, nn. 8053 e 8054 citt.). Ora, l’istante ha richiamato le deposizioni rese da alcuni testimoni (pagg. 15-18 del ricorso) senza chiarire quale sarebbe il fatto storico, nel senso sopra indicato, che la Corte avrebbe mancato di considerare (fatto che, come appena detto, non potrebbe comunque consistere nell’una o nell’altra delle risultanze istruttorie). Nè tale fatto può identificarsi nella “anteriorità della crisi alla pretesa relazione extraconiugale” e nell'”identità causale della stessa, nel senso che sia stata la causa efficiente della cessazione della tollerabilità della convivenza” (pag. 19 del ricorso): gli elementi indicati, infatti, non sono accadimenti ma dati di giudizio (peraltro sconfessati dalla Corte di merito, la quale ha ritenuto che fu proprio la detta relazione a determinare l’irreversibile deterioramento della comunione familiare).

  1. – Col terzo motivo viene lamentata la nullità della sentenza per violazione degli artt. 112132, n. 4 c.p.c. e dell’art. 111Cost.. Il ricorrente si duole di ciò: la Corte di appello avrebbe mancato di ammettere i mezzi istruttori circa l’addebito della crisi coniugale alla moglie ritenendo inammissibili le censure articolate contro la decisione del Tribunale quanto alla limitazione dei testi e alla mancata ammissione di tutti i capitoli di prova per assenza di specificità. Viene affermato che il giudice distrettuale, nel giudicare “assertive” le deduzioni svolte nell’atto di impugnazione, avrebbe reso una motivazione meramente apparente. E’ rilevato, inoltre, che i capitoli ammessi erano undici, sicchè la limitazione dei testi a cinque avrebbe concretato, ad avviso dell’istante, un vulnus al diritto di difesa. Deduce il ricorrente che il Tribunale avrebbe mancato di motivare circa la superfluità dell’ulteriore assunzione della prova e che il giudice di secondo grado avrebbe totalmente omesso di esaminare i capitoli di prova e la lista dei testimoni nonostante gli uni e gli altri fossero stati ritualmente indicati.

 

Cass. civ., Sez. I, Ordinanza, 05/05/2021, n. 11792

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Il volontario abbandono del domicilio familiare da parte di uno dei coniugi, costituendo violazione del dovere di convivenza, è di per sé sufficiente a giustificare l’addebito della separazione personale, a meno che non risulti provato che esso è stato determinato dal comportamento dell’altro coniuge o sia intervenuto in un momento in cui la prosecuzione della convivenza era già divenuta intollerabile ed in conseguenza di tale fatto.

 


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco A. – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – rel. Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6070/2018 proposto da:

D.R.N.A., domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato Paulicelli Francesco, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

M.L.E., elettivamente domiciliata in Roma, Viale Giuseppe Mazzini n. 4, presso lo studio dell’avvocato Restignoli Armando, che la rappresenta e difende unitamente all’avv. Ceschini Roberta, giusta procura speciale per Notaio J. G. dello Stato della (OMISSIS);

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2659/2017 della CORTE D’APPELLO di TORINO, pubblicata il 14/12/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21/09/2021 dal cons. Dott. TRICOMI LAURA;

lette le conclusioni scritte del P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARDINO ALBERTO, che ha chiesto il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

CHE:

Nel giudizio di separazione personale tra D.R.A.N. e M.L.E., la Corte di appello di Torino, con la sentenza depositata il 14/12/2017, ha parzialmente riformato la decisione emessa dal Tribunale di Torino, riconoscendo l’addebito di responsabilità della separazione personale a carico del marito ed apportando modifiche alla distribuzione degli oneri per il mantenimento e per i trasferimenti (in e dall’Italia) della minore, collocata in via principale presso la madre autorizzata a risiedere negli (OMISSIS), confermando le altre statuizioni di primo grado.

D.R. ha proposto ricorso per cassazione con due mezzi, articolati sotto plurimi profili e corredati da memoria; M. ha replicato con controricorso e memoria.

Il PG ha depositato conclusioni scritte, chiedendo il rigetto del ricorso.

Motivi della decisione

CHE:

1.1. Il primo motivo, che concerne la pronuncia di addebito della separazione a carico del D.R., è sviluppato in tre punti:

– con il primo si denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. in relazione all’art. 151 c.c., con riferimento al principio di libero convincimento del giudice nella valutazione delle prove. In proposito il ricorrente sostiene che, a differenza di quanto ritenuto dal giudice del gravame, il Tribunale aveva tenuto conto della produzione documentale consistita nella registrazione su supporto CD, non ritenendone rilevante e decisivo il contenuto, e ne deduce che la Corte di appello ha errato nella premessa posta a fondamento dell’esame del contenuto del CD e nell’attribuire a tale documento valore primario ed assorbente, fondando su ciò solo la sua decisione ed attribuendogli valore di prova “quasi legale” (fol. 16 del ricorso) senza metterne a confronto il contenuto con le altre prove, documentali e non, in violazione del principio di libero convincimento del giudice;

– con il secondo si denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. in relazione all’art. 151 c.c., con riferimento al c.d. principio dispositivo ed al principio della non contestazione dei fatti dedotti dalla controparte. Il ricorrente sostiene di avere tempestivamente contestato l’allegazione documentale del CD operata dalla moglie (all. 8), sia in primo che in secondo grado, e di avere sempre diffusamente negato le violenze in danno della moglie, di guisa che la Corte di appello erroneamente avrebbe dato applicazione al principio di non contestazione per ritenere provata la ragione dell’addebito;

– con il terzo si denuncia la violazione o falsa applicazione degli artt. 151 e 2697 c.c. in merito alla pronuncia di addebito nei confronti di chi sia stato ritenuto responsabile della violazione dei doveri coniugali, all’onere della prova gravante sul marito ed al relativo assolvimento. In particolare, il ricorrente si duole che la Corte di appello abbia rimproverato al D.R. di non avere dimostrato la preesistenza della crisi matrimoniale o l’esistenza di eventi che potessero dimostrare l’impossibilità della prosecuzione della convivenza. Rammenta, di contro, di avere egli chiesto la declaratoria di addebito della separazione in capo alla moglie per abbandono del tetto coniugale e di avere sempre negato le violenze nei confronti di quest’ultima.

1.2. Il motivo è complessivamente inammissibile perchè non coglie la ratio decidendi ed i plurimi profili di censura non risultano pertinentemente svolti.

1.3. Risulta preliminare osservare che la Corte di appello ha ravvisato la non contestazione esclusivamente in merito alla avvenuta produzione documentale consistita nel supporto CD, riportante la registrazione di alcune conversazioni tra il D.R. e la moglie (produzione rispetto alla quale -alla stregua dello stesso motivo di ricorso – non emerge una specifica opposizione del ricorrente) e non in merito al contenuto delle registrazioni, per cui la censura non coglie nel segno. Di contro, l’accertamento della ricorrenza dei presupposti per la pronuncia di addebito a carico della moglie non è avvenuto in applicazione del principio di non contestazione ex art. 115 c.p.c., ma è stato frutto di specifica disamina ed approfondita valutazione da parte della Corte di appello sia del contenuto delle anzidette conversazioni registrate, sia del complessivo materiale probatorio acquisito, di guisa che si palesa l’erronea prospettazione del ricorrente circa il valore “quasi di prova legale” che sarebbe stata attribuita alle registrazioni. Invero la Corte di appello, dopo avere ripercorso il complessivo materiale probatorio acquisito ed essersi soffermata approfonditamente sul contenuto delle registrazioni, in parte trascritte in sentenza, ha concluso affermando “I contenuti delle due tracce audio, dimostrativi di un elevato grado di aggressività verbale del sig. D.R. nei confronti della moglie, valutati congiuntamente a tutta la residua produzione documentale richiamata nell’appello incidentale, fondano un giudizio di addebito della separazione al marito” (fol. 11 della sent. imp.).

I primi due punti della censura, focalizzati sulla produzione del CD, appaiono pertanto fuori centro; va aggiunto, altresì, che nessuna critica è stata svolta in merito alla ulteriore produzione documentale, ugualmente e congiuntamente valorizzata dalla Corte di appello per giungere alla pronuncia di addebito.

1.4. Anche il terzo punto è inammissibile perchè il ricorrente non coglie la ratio decidendi ed erroneamente assimila la domanda di addebito, da lui stesso proposta nei confronti della moglie per abbandono del tetto coniugale (e respinta), ed i connessi oneri probatori con la prova liberatoria alla quale la Corte di appello ha inteso riferirsi, riferita alla domanda di addebito proposta dalla moglie.

La pronuncia in esame risulta, invero conforme al principio secondo il quale “Il volontario abbandono del domicilio familiare da parte di uno dei coniugi, costituendo violazione del dovere di convivenza, è di per sè sufficiente a giustificare l’addebito della separazione personale, a meno che non risulti provato che esso è stato determinato dal comportamento dell’altro coniuge o sia intervenuto in un momento in cui la prosecuzione della convivenza era già divenuta intollerabile ed in conseguenza di tale fatto.” (Cass. n. 648 del 15/01/2020). La pronuncia di addebito a carico del D.R. è conseguita all’accertamento della violazione di norme di condotta imperative ed inderogabili, consistita nella ripetuta aggressione ai beni e diritti fondamentali della persona in danno della moglie ad opera dello stesso, violazione posta in essere in epoca anteriore all’abbandono del tetto coniugale da parte della M. e determinativa di quest’ultimo evento, tanto da far escludere che sullo stesso potesse fondarsi una pronuncia di addebito a carico della moglie, ratio che – come già detto – non è stata inficiata dalle pregresse doglianze e che concerne l’accertamento di una grave circostanza di fatto, sintomatica della irreversibile degenerazione dei rapporti per colpa del marito, posta anche a fondamento dell’autorizzazione a trasferirsi all’estero riconosciuta alla M..

La considerazione svolta dalla Corte di appello circa il mancato assolvimento da parte del D.R. dell’onere della prova in ordine alla preesistenza di una crisi matrimoniale rispetto alle condotte a lui imputate concerne, pertanto, esclusivamente la prova liberatoria su di lui gravante, potenzialmente idonea a paralizzare la pronuncia di addebito richiesta dalla moglie, nel rispetto dei principi in tema di onere della prova, e non la domanda di addebito da lui avanzata e respinta.

Ne consegue la complessiva inammissibilità della censura.

2.1. Il secondo motivo è articolato su due punti:

– con il primo si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 337 ter c.c. e art. 2697 c.c. In relazione al capo di sentenza concernente il regime del diritto di visita e frequentazione fra padre e figlia minore, il ricorrente sostiene che questi diritti sono fortemente compromessi dalla collocazione della figlia presso la madre e dal trasferimento di questa negli (OMISSIS); situazione che escluderebbe, di fatto, ogni bigenitorialità, realizzando, sostanzialmente, un regime di affidamento esclusivo alla madre. Lamenta, infine, che questa non aveva provato che l’ambiente straniero in cui la figlia minore sarebbe stata inserita fosse idoneo a soddisfare le sue esigenze educative, affettive e di maturazione;

– con il secondo si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 337 ter c.c., comma 4, n. 4 criticando la decisione della Corte di appello di porre, paritariamente, a carico di entrambi i genitori le spese di trasferimento della minore dagli (OMISSIS) all’Italia, e viceversa.

2.2. Il motivo è complessivamente infondato.

2.3. Giova rammentare che, nel caso di specie, è stato disposto l’affidamento condiviso con collocazione privilegiata della minore presso la madre, autorizzata a condurla con sè negli (OMISSIS), disciplinando il diritto di visita paterno e la ripartizione delle spese di viaggio.

2.4. Osserva la Corte che, nella materia dell’affidamento di figli minori, il granitico principio secondo il quale “Il regime legale dell’affidamento condiviso, tutto orientato alla tutela dell’interesse morale e materiale della prole, deve tendenzialmente comportare, in mancanza di gravi ragioni ostative, una frequentazione dei genitori paritaria con il figlio, tuttavia nell’interesse di quest’ultimo il giudice può individuare un assetto che si discosti da questo principio tendenziale, al fine di assicurare al minore la situazione più confacente al suo benessere e alla sua crescita armoniosa e serena.” (Cass. n. 19323 del 17/09/2020Cass. n. 3652 del 13/02/2020) è tale per cui la circostanza che uno dei genitori risieda all’estero non impedisce l’affidamento condiviso, ove ne ricorrano i presupposti, e questo non può ragionevolmente ritenersi precluso dalla oggettiva distanza esistente tra i luoghi di residenza dei genitori, potendo detta distanza incidere soltanto sulla disciplina dei tempi e delle modalità della presenza del minore presso ciascun genitore (Cass. n. 24526 del 02/12/2010Cass. n. 6535 del 06/03/2019), disciplina che compete al giudice del merito dettare, attenendosi al criterio fondamentale dell’interesse della prole, da valutare, in tal caso, attraverso una più complessa e delicata indagine, stante l’inevitabile compressione dei rapporti che il genitore non collocatario dovrà subire e le difficoltà che al medesimo deriveranno nell’espletamento del suo diritto – dovere di concorrere all’istruzione ed all’educazione del figlio (Cass. n. 6312 del 22/06/1999).

2.5. Nel caso di specie, la Corte di appello ha ritenuto che il diritto di autodeterminazione della madre (art. 16 Cost., commi 1 e 2; artt. 18, 39, comma 1, e 43, Trattato istitutivo della Comunità Europea) non potesse essere compresso od escluso dalla presenza di una figlia minore, perchè era ispirato a ragioni lavorative e di realizzazione non certo futili o voluttuarie, tanto più che – come è stato rimarcato nella sentenza impugnata – la M. non aveva significativi legami affettivi o sociali in Italia e le infelici vicende matrimoniali connotate dai ripetuti comportamenti violenti ed aggressivi del marito, la avevano indotta ad opera una scelta di vita in netta discontinuità con il pregresso, destinata a sollevare anche il marito da ulteriori oneri economici. Ha, quindi, valutato l’interesse della minore a conservare la collocazione privilegiata presso la madre ed a seguirla negli (OMISSIS), considerando che la tenera età della bambina non ne aveva consentito ancora il radicamento in Italia e che i rapporti con il padre potevano essere coltivati di persona secondo un calendario articolato in ragione della peculiarità della vicenda ed incrementati, via etere, avvalendosi della più moderna tecnologia.

Ha, quindi, assolto al delicato compito di trovare un regime equilibrato di frequentazione fra genitore non collocatario e figlia, compatibile con la distanza geografica che li separa e tale da permettere loro di coltivare comunque un rapporto affettivo, prevedendo frequentazioni più ridotte nel numero ma più estese nel tempo.

2.6. In proposito, va rimarcato che il diniego di autorizzazione al trasferimento all’estero trova una sua giustificazione qualora questo comporti un concreto pregiudizio per lo sviluppo psichico e la maturazione del minore. Circostanza che, nel caso di specie, la Corte territoriale non ha ravvisato, con valutazione di merito qui non sindacabile. L’arresto di legittimità invocato dal ricorrente (Cass. n. 19694 del 18/9/2014) concerneva, per l’appunto, un caso in cui il giudice del merito aveva, invece, accertato che l’allontanamento del figlio minore dall’Italia a seguito del trasferimento della madre in Gran Bretagna, avrebbe apportato il suddetto pregiudizio.

Anche la decisione, frutto di una valutazione discrezionale della Corte territoriale circa la distribuzione degli oneri economici necessari all’equilibrato sviluppo e alla maturazione della minore, è corretta, tenendo conto che tali oneri sono affrontati non nell’interesse dell’uno o dell’altro genitore, ma nell’interesse della minore, del quale si è detto, e che vanno ripartiti tra i genitori in misura analoga a quella prevista per ogni altra spesa straordinaria.

  1. In conclusione, il ricorso va rigettato.

Le spese seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo.

Va disposto che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003art. 52.

Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis (Cass. Sez. U. n. 23535 del 20/9/2019).

P.Q.M.

– Rigetta il ricorso;

– Condanna il ricorrente alla rifusione delle spese processuali, che liquida in Euro 4.000,00=, oltre Euro 200,00 per esborsi, spese generali liquidate forfettariamente nella misura del 15% ed accessori di legge;

– Dispone che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003art. 52;

– Dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Conclusione

Così deciso in Roma, il 21 settembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 12 ottobre 2021

Cass. civ., Sez. I, Ord., (data ud. 13/04/2021) 06/09/2021, n. 24050

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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 24896/2017 proposto da:

C.S., elettivamente domiciliato in Roma, Via Germanico n. 196, presso lo studio dell’avvocato Tilli Letizia, rappresentato e difeso dall’avvocato Teti Laura, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ch.Ri., domiciliata in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’avvocato Di Benedetto Federica, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 829/2017 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, pubblicata il 13/05/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13/04/2021 dal cons. Dott. FALABELLA MASSIMO.

Svolgimento del processo

  1. – Il Tribunale di Pescara pronunciava, in data (OMISSIS), la separazione tra i coniugi C.S. e Ch.Ri., addebitando al primo la detta separazione e condannando il medesimo a versare alla moglie, a titolo di assegno di mantenimento, la somma mensile di Euro 2.000,00; lo stesso Tribunale rigettava, poi, la domanda di addebito proposta da C., sul presupposto che l’istruttoria non avesse dato la prova dell’esistenza di una relazione extraconiugale che assurgesse a causa della crisi matrimoniale; rilevava come, piuttosto, fosse risultato accertato che il detto C. avesse abbandonato nel (OMISSIS) il domicilio domestico.
  2. – C. interponeva appello; Ch.Ri. resisteva al gravame proponendo impugnazione incidentale con riguardo alla misura dell’assegno di mantenimento, che chiedeva fosse determinato in Euro 3.000,00 mensili: e ciò in considerazione della disparità reddituale dei coniugi e del rilevante contributo dato dalla stessa alla vita familiare, essendosi occupata in via esclusiva delle figlie, siccome abbandonate in tenera età dal padre.

La Corte di appello di L’Aquila, con sentenza pubblicata il 13 maggio 2017, respingeva l’appello principale e accoglieva quello incidentale, rideterminando l’assegno di mantenimento nella misura indicata da Ch.Ri..

In sintesi, il giudice distrettuale conferiva rilievo al fatto storico dell’allontanamento del marito dalla casa coniugale in data (OMISSIS); rilevava che gravava su C. l’onere della prova circa il fatto che l’abbandono del tetto coniugale fosse stato determinato dalla condotta della moglie; dalla testimonianza della figlia dei contendenti – osservava la Corte di appello – era emerso che la crisi matrimoniale avesse subito una “svolta decisiva” a causa di una relazione extraconiugale di C., il cui allontanamento doveva, pertanto, essere “considerato come volontario e consequenziale”. La Corte di appello aggiungeva che non erano state acquisite prove convincenti circa l’inosservanza degli obblighi di fedeltà matrimoniale da parte di Ch.Ri. in epoca anteriore alla separazione di fatto e che non risultavano ammissibili le censure dell’appellante principale quanto alla limitazione del numero dei testimoni da escutere e quanto alla mancata ammissione di alcuni capitoli di prova: rilevava, in proposito, che le doglianze sollevate sul punto risultavano essere generiche; negava, poi, che assumesse rilievo probatorio una conversazione registrata su supporto meccanico, il cui contenuto e la cui riferibilità alle persone indicate dall’appellante principale erano state tempestivamente contestate. Da ultimo, riteneva fondato l’appello incidentale, attribuendo rilievo aula circostanza per cui C., al momento della separazione di fatto, godeva di un reddito annuo di circa 50 milioni di Lire, poi incrementatosi negli anni successivi; osservava, al riguardo, che neghi anni della convivenza matrimoniale, durata quindici anni, in cui Ch.Ri. non aveva lavorato, e si era dedicata all’accudimento delle figlie, C. aveva potuto dedicare ogni sforzo allo sviluppo della propria attività professionale e al conseguimento di entrate economiche significative.

  1. – La sentenza è impugnata per cassazione da C.S.. Resiste con controricorso Ch.Ri.. Sono state depositate memorie.

Motivi della decisione

  1. – Il primo motivo oppone la nullità della sentenza per violazione del giudicato interno e violazione degli artt. 112329346c.p.c., nonchè dell’art. 2909 c.c.. Ricorda il ricorrente che, prendendo le mosse dalle dichiarazioni rese dalla figlia E. circa i rapporti tra i coniugi nel periodo immediatamente antecedente alla separazione, la Corte di merito aveva concluso nel senso che la motivazione del primo giudice potesse integrarsi nel senso che la relazione extraconiugale intrattenuta da esso istante fosse preesistente alla separazione e costituisse il motivo della crisi matrimoniale. Viene dedotto, in proposito, che la controricorrente odierna non aveva impugnato la sentenza di primo grado nella parte in cui era stata “rigettata la specifica domanda di addebito per via della dedotta relazione extraconiugale”: ad avviso del ricorrente, poichè la domanda di addebito basata sulla infedeltà era stata respinta in modo espresso attraverso una precisa enunciazione del Tribunale, la riforma della sentenza di prime cure non sarebbe stata possibile in assenza di un gravame incidentale.

Il motivo è infondato.

La Corte di appello ha osservato (pagg. 4 s. della sentenza) come l’odierna controricorrente, vittoriosa in primo grado sul tema dell’addebito della separazione, avesse l’onere, da lei assolto, di riproporre le argomentazioni, le domande e le eccezioni che inerivano alle questioni concernenti le relazioni extraconiugali del marito: infatti – ha spiegato – l’addebito era stato riconosciuto dal Tribunale in relazione alla circostanza dell’abbandono della casa coniugale, mentre esso era stato richiesto dalla stessa Ch. anche in relazione all’esistenza delle suddette relazioni.

Il fatto che l’attuale controricorrente fosse vittoriosa in primo grado con riguardo alla domanda di addebito della separazione esclude, all’evidenza, che la medesima fosse tenuta a proporre appello incidentale per far accertare che la ragione dell’addebito al marito fosse diversa rispetto a quella individuata dal giudice di prime cure. In termini generali, la parte vittoriosa in primo grado non ha l’onere di proporre appello incidentale per far valere le domande e le eccezioni non accolte e, per sottrarsi alla presunzione di rinuncia ex art. 346 c.p.c., può limitarsi a riproporle, mentre è la parte rimasta parzialmente soccombente in relazione ad una domanda od eccezione, di cui intende ottenere l’accoglimento, che ha l’onere di proporre appello incidentale, pena il formarsi del giudicato sul rigetto della stessa (Cass. Sez. U. 24 maggio 2007, n. 12067Cass. 13 maggio 2016, n. 9889Cass. 14 marzo 2013, n. 6550). In conseguenza, la parte vittoriosa in primo grado, che abbia però visto respingere taluna delle sue tesi od eccezioni, ovvero taluni dei suoi sistemi difensivi, ha l’onere di manifestare in maniera esplicita e precisa la propria volontà di riproporre la domanda o le eccezioni rigettate, onde superare la presunzione di rinuncia, e quindi la decadenza, di cui all’art. 346 c.p.c. (Cass. 29 gennaio 2018, n. 2091Cass. 17 dicembre 1999, n. 14267, la quale richiama pure il principio affermato da Cass. 16 novembre 1985 n. 5626, secondo cui ove la parte vittoriosa in primo grado intenda che la sentenza a lei favorevole sia confermata con ulteriore motivazione, essa ha l’onere non di spiegare appello incidentale, bensì di riproporre la motivazione non accolta). E infatti, chi, vittorioso nel merito, chieda la conferma della decisione impugnata, eventualmente anche in base ad una diversa soluzione delle questioni proposte nel precedente grado di giudizio, manca dell’interesse alla proposizione dell’impugnazione incidentale (per tutte: Cass. Sez. U. 27 gennaio 1993, n. 1005).

  1. – Il secondo mezzo denuncia la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112c.p.c. e art. 132c.p.c., n. 4, e per violazione o falsa applicazione dell’art. 143 c.c., comma 2, art. 146 c.c., artt. 151 e 2697 c.c. e art. 115 c.p.c., oltre che per l’omesso esame di un fatto decisivo. La censura investe l’affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, per cui la causa della rottura matrimoniale era da addebitare al marito per via della relazione extraconiugale dello stesso. Viene dedotto che, come correttamente accertato dal giudice di prima istanza, il punto non era suffragato da riscontri probatori; si aggiunge che non era comunque emerso che la relazione extraconiugale avesse impresso una “svolta decisiva” alla crisi matrimoniale. Il ricorrente critica la pronuncia impugnata per aver essa valorizzato, a tale riguardo, la deposizione testimoniale resa da C.E.: deposizione definita “incerta e confusa”. La Corte di appello, inoltre, secondo l’istante, non avrebbe considerato ulteriori elementi, come le dichiarazioni rese in sede di interrogatorio formale da Ch.Ri. (la quale avrebbe affermato che già nel (OMISSIS) aveva depositato un primo ricorso per separazione) e le ulteriori risultanze desumibili dalle deposizioni di alcuni testimoni. Sostiene, inoltre, che la pronuncia della Corte di L’Aquila risulterebbe affetta da un’anomalia motivazionale tradottasi in violazione di legge costituzionalmente rilevante e che lo stesso giudice del gravame avrebbe omesso l’esame di fatti decisivi, mancando di soffermarsi “sulla anteriorità della crisi alla pretesa relazione extraconiugale e sull’idoneità causale della stessa”, quale causa efficiente della cessazione della convivenza tra i coniugi.

Il motivo è inammissibile.

La censura ex art. 360 c.p.c., n. 3 non può avere ingresso: l’onere di specificità dei motivi, sancito dall’art. 366 c.p.c., n. 4), impone al ricorrente che denunci il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3), a pena d’inammissibilità della censura, di indicare le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare – con una ricerca esplorativa ufficiosa, che trascende le sue funzioni – la norma violata o i punti della sentenza che si pongono in contrasto con essa (Cass. Sez. U. 28 ottobre 2020, n. 23745). Il motivo di ricorso in esame non contiene indicazioni nel senso indicato.

Il ricorrente non può, poi, denunciare l’anomalia motivazionale della sentenza facendo riferimento alle risultanze istruttorie. Infatti, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè: e il vizio deve risultare dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8053Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8054). Non vale quindi opporre che la figlia dell’istante avrebbe reso una deposizione inattendibile o sottoporre alla Corte interi brani delle testimonianze assunte nel corso del giudizio di merito. E’ noto, del resto, che la prospettazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta mediante le risultanze di causa inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito (Cass. 13 ottobre 2017, n. 24155Cass. 11 gennaio 2016, n. 195). In termini generali, infatti, la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involge apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (Cass. 4 luglio 2017, n. 16467) e dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass. 31 luglio 2017, n. 19011Cass. 2 agosto 2016, n. 16056). Col ricorso per cassazione, dunque, la parte non può rimettere in discussione, proponendo una propria diversa interpretazione, la valutazione delle risultanze processuali e la ricostruzione della fattispecie operate dai giudici del merito (Cass. 7 dicembre 2017, n. 29404Cass. 7 aprile 2017, n. 9097).

Pure inammissibile è la censura di omesso esame di fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., n. 5. La deduzione di tale vizio impone a chi ricorre per cassazione di indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, nn. 8053 e 8054 citt.). Ora, l’istante ha richiamato le deposizioni rese da alcuni testimoni (pagg. 15-18 del ricorso) senza chiarire quale sarebbe il fatto storico, nel senso sopra indicato, che la Corte avrebbe mancato di considerare (fatto che, come appena detto, non potrebbe comunque consistere nell’una o nell’altra delle risultanze istruttorie). Nè tale fatto può identificarsi nella “anteriorità della crisi alla pretesa relazione extraconiugale” e nell'”identità causale della stessa, nel senso che sia stata la causa efficiente della cessazione della tollerabilità della convivenza” (pag. 19 del ricorso): gli elementi indicati, infatti, non sono accadimenti ma dati di giudizio (peraltro sconfessati dalla Corte di merito, la quale ha ritenuto che fu proprio la detta relazione a determinare l’irreversibile deterioramento della comunione familiare).

  1. – Col terzo motivo viene lamentata la nullità della sentenza per violazione degli artt. 112132, n. 4 c.p.c. e dell’art. 111Cost.. Il ricorrente si duole di ciò: la Corte di appello avrebbe mancato di ammettere i mezzi istruttori circa l’addebito della crisi coniugale alla moglie ritenendo inammissibili le censure articolate contro la decisione del Tribunale quanto alla limitazione dei testi e alla mancata ammissione di tutti i capitoli di prova per assenza di specificità. Viene affermato che il giudice distrettuale, nel giudicare “assertive” le deduzioni svolte nell’atto di impugnazione, avrebbe reso una motivazione meramente apparente. E’ rilevato, inoltre, che i capitoli ammessi erano undici, sicchè la limitazione dei testi a cinque avrebbe concretato, ad avviso dell’istante, un vulnus al diritto di difesa. Deduce il ricorrente che il Tribunale avrebbe mancato di motivare circa la superfluità dell’ulteriore assunzione della prova e che il giudice di secondo grado avrebbe totalmente omesso di esaminare i capitoli di prova e la lista dei testimoni nonostante gli uni e gli altri fossero stati ritualmente indicati.

Il motivo è inammissibile.

La Corte di merito ha nella sostanza dato atto della genericità del motivo di appello che investiva la riduzione dei capitoli di prova e della lista testimoniale.

Parte ricorrente avrebbe dovuto quindi censurare a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 4 l’error in procedendo in cui fosse incorso il giudice di appello nel ritenere non specifico il motivo di gravame in questione. Quando infatti, col ricorso per cassazione venga denunciato un vizio che comporti la nullità del procedimento o della sentenza impugnata, sostanziandosi nel compimento di un’attività deviante rispetto ad un modello legale rigorosamente prescritto dal legislatore, il giudice di legittimità non deve limitare la propria cognizione all’esame della sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione, ma è investito del potere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda (Cass. Sez. U. 22 maggio 2012, n. 8077; per una puntuale applicazione del principio alla violazione dell’art. 342 c.p.c., in ordine alla specificità dei motivi di appello: Cass. 19 agosto 2020, n. 17268Cass. 28 novembre 2014, n. 25308).

Non è per la verità, preclusivo di un’indagine vertente su tale vizio processuale il fatto che il ricorrente abbia fatto valere il vizio motivazionale: la censura investe, pur sempre, la statuizione di inammissibilità, per genericità, del motivo di gravame che qui interessa ed, per questo, da ricondurre alla fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4.

L’istante non fornisce, tuttavia, precise indicazioni quanto al motivo di gravame che aveva ad oggetto le richiamate istanze istruttorie.

Ebbene, ove il ricorrente censuri la statuizione di inammissibilità, per difetto di specificità, di un motivo di appello, ha l’onere di indicare, nel ricorso, le ragioni per cui ritiene erronea tale statuizione del giudice di appello e sufficientemente specifico, invece, il motivo di gravame sottoposto a quel giudice, e non può limitarsi a rinviare all’atto di appello, ma deve riportarne il contenuto nella misura necessaria ad evidenziarne la pretesa specificità (Cass. 29 settembre 2017, n. 22880Cass. 20 settembre 2006, n. 20405).

  1. – Il quarto motivo prospetta la violazione dell’art. 132c.c., n. 4, nonchè la violazione o falsa applicazione degli artt. 156, 115 e 116 c.p.c.; denuncia altresì la violazione dell’art. 2697c.c.. Il mezzo di censura concerne le statuizioni adottate con riguardo alla misura dell’assegno di mantenimento. Il motivo investe diverse questioni: la consistenza del reddito di esso ricorrente avendo riguardo ai valori monetari del (OMISSIS), ritenuta dal giudice distrettuale elevata; la possibilità di qualificare come hotel di lusso l’albergo in cui C. aveva soggiornato, subito dopo l’allontanamento dalla casa coniugale; il rilievo attribuito dalla Corte di appello alle regalie effettuate dall’istante alla moglie dopo la separazione di fatto; l’entità dei redditi dello stesso ricorrente nel periodo successivo all’introduzione del giudizio di separazione. Assume, poi, chi impugna, che, al fine di stabilire l’an e il quantum dell’assegno di mantenimento debba aversi riguardo alla situazione reddituale al momento della cessazione della convivenza. Viene inoltre osservato che la controricorrente, nel periodo successivo alla separazione di fatto, aveva svolto l’attività di insegnamento percependo un reddito mensile di Euro 1.400,00 e che la medesima Ch. risultava proprietaria di rilevanti proprietà immobiliari; è spiegato che la detta moglie non aveva contribuito in alcun modo all’affermazione professionale ed economica del marito, avendo inoltre beneficiato, nel periodo successivo alla cessazione della convivenza, del contributo versato dal coniuge per il mantenimento delle figlie e per la locazione dell’immobile da essa occupato.

Il motivo è nel complesso infondato.

La separazione personale, a differenza dello scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, presuppone la permanenza del vincolo coniugale, sicchè i “redditi adeguati” cui va rapportato, ai sensi dell’art. 156 c.c., l’assegno di mantenimento a favore del coniuge, in assenza della condizione ostativa dell’addebito, sono quelli necessari a mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, essendo ancora attuale il dovere di assistenza materiale, che non presenta alcuna incompatibilità con tale situazione temporanea, dalla quale deriva solo la sospensione degli obblighi di natura personale di fedeltà, convivenza e collaborazione, e che ha una consistenza ben diversa dalla solidarietà post-coniugale, presupposto dell’assegno di divorzio (Cass. 24 giugno 2019, n. 16809Cass. 16 maggio 2017, n. 12196). Sotto tale profilo si rivelano non conferenti le diffuse considerazioni svolte dal ricorrente, nella memoria ex art. 380 bis.1, con riguardo all’assegno divorzile.

Come in precedenza ricordato, la Corte di appello ha valorizzato l’incremento delle entrate patrimoniali di C., nel periodo della convivenza, che si era potuto determinare anche grazie all’impegno domestico della moglie Ri., la quale si era dedicata, in quel periodo, alla cura delle figlie. La Corte di merito ha quindi conferito rilievo alla consistenza del reddito di cui godeva C. al momento della separazione di fatto: reddito che, per quanto inferiore a quello conseguito dal ricorrente allorquando fu proposta la domanda giudiziale, era da considerarsi “certamente elevato se rapportato al periodo in considerazione ((OMISSIS))” (sentenza impugnata, pag. 9). Il dato della ragguardevole consistenza del reddito del ricorrente risulta poi confermato, secondo il giudice del gravarne, da ulteriori elementi (le plurime elargizioni dell’istante alla moglie, cui erano state donate pellicce e gioielli e pagati viaggi; il fatto che lo stesso C., dopo la separazione, si fosse fatto carico spontaneamente del canone dell’immobile preso in locazione da Ch.Ri. e avesse corrisposto alla stessa un assegno mensile; la circostanza per cui, subito dopo l’allontanamento dalla casa coniugale, il ricorrente avesse potuto alloggiare per diciannove giorni in un albergo di lusso).

Deve in conclusione ritenersi che la sentenza, nell’affrontare il tema relativo alla quantificazione dell’assegno di mantenimento, si sia conformata al principio sopra richiamato, valorizzando il tenore di vita goduto dalla controricorrente in costanza del matrimonio, per come desumibile dal reddito di cui poteva disporre il marito.

Ma non è privo di rilievo il dato, pure rimarcato dalla Corte di appello, della disparità reddituale dei coniugi negli anni successivi all’allontanamento di C. (pagg. 9 e 10 della sentenza, ove è parola del fatto che Ch.Ri. percepiva uno stipendio di Euro 1.400,00 mensili, mentre il marito, al momento della domanda di separazione, nel 2008, dichiarava fiscalmente un reddito annuo di Euro 615.159,00: reddito che, sebbene ridottosi negli anni successivi, è rimasto elevato). Infatti, poichè nella determinazione dell’assegno di mantenimento, il tenore di vita al quale va rapportato il giudizio di adeguatezza dei mezzi a disposizione del coniuge richiedente è quello offerto dalle potenzialità economiche dei coniugi durante il matrimonio, quale elemento condizionante la qualità delle esigenze e l’entità delle aspettative del richiedente, rilevano anche gli incrementi reddituali del coniuge obbligato che si siano determinati nel periodo successivo a quello in cui è cessata la convivenza (sul rilievo che assume l’incremento dei redditi di uno dei coniugi verificatosi nelle more del giudizio di separazione, ai fini dell’imposizione dell’assegno di mantenimento: Cass. 19 settembre 2006, n. 20256Cass. 7 febbraio 2006, n. 2626Cass. 24 dicembre 2002, n. 18327Cass. 28 settembre 2001, n. 12136).

Sfuggono, del resto, al sindacato di legittimità, i profili che investono apprezzamenti di fatto, quanto all’attendibilità delle risultanze poste a fondamento della decisione e alle inferenze che da esse potessero trarsi. Ciò vale anche per i temi relativi allo stipendio percepito da Ch.Ri. (a partire dal (OMISSIS)) e alle spontanee contribuzioni mensili effettuate dal C. in favore della medesima nel periodo successivo alla separazione: temi che – contrariamente a quanto parrebbe supporre il ricorrente sono stati presi in considerazione dalla Corte di appello (il primo per sottolineare la sproporzione reddituale tra i due contendenti, il secondo per dar ragione, come si è visto, delle disponibilità economiche dello stesso istante). Nè possono avere ingresso, in questa sede, profili di doglianza – come quello relativo alle proprietà immobiliari della controricorrente – di cui la sentenza non si occupa e che l’istante non chiarisce se e come vennero fatti valere nella precorsa fase del giudizio (Cass. 9 agosto 2018, n. 20694Cass. 13 giugno 2018, n. 15430Cass. 18 ottobre 2013, n. 23675).

  1. – Il ricorso è dunque rigettato.
  2. – Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 10.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quel stabilito per il ricorso, ove dovuto. Oscuramento dei dati personali in caso di utilizzazione del presente provvedimento.

Conclusione

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione prima Civile, il 13 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 6 settembre 2021

 

Originally posted 2021-11-13 11:51:53.

Bologna, mio marito mi ha lasciato per un’altra quali diritti?

Separazione consensuale: La separazione è consensuale quando sono i coniugi a ad accordarsi, per iscritto, su ogni questione relativa alla sospensione del loro vincolo matrimoniale (questioni patrimoniali, mantenimento coniuge debole, diritti di visita e mantenimento della prole, assegnazione della casa coniugale).

Separazione giudiziale: Quando non vi è accordo tra i coniugi sulle questioni relative alla sospensione del loro vincolo matrimoniale, può essere richiesta, anche da uno solo dei coniugi la separazione giudiziale. In tale ipotesi, è il giudice che disciplina e regolamenta ogni aspetto inerente la gestione dei rapporti patrimoniali e personali tra coniugi (anche con riferimento ai figli) e che, in presenza di determinati presupposti, pronuncia l’addebito.

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  • 5 errori che commetti quando  affrontiamo la separazione

  • NON SI VALUTA BENE LA SITUAZIONE

  • NON SI VALUTA A SUFFICENZ ALA POSSIBILITA’ DI UNA SEPARAZIONE CONSENSUALE

  • NON SI CHIEDE NEL MDO GIUSTO

  • SI VUOLE TUTTO E SUBITO

  • SI SMETTE DI PENSARE ALLA FAMIGLIA

 

Capita assai di frequente che un coniuge lasci l’altro coniuge per una terza persona.

Esaminiamo il caso:

  • Il coniuge tradito ha diritto di chieder e l’addebito della separazione
  • Chiedere l’addebito della separazione vuol dire pero’ procedere con una separazione giudiziale
  • Non esiste la separazione consensuale con addebito
  • Se il coniuge ti lascia per un’altra persona hai comunque diritto a assegno di mantenimento se i redditi lo consentono
  • Se hai i figli minori puoi chiedere assegno anche per loro, come se hai figli maggiorenni mano autosufficenti

Ma il tradimento è sempre causa di addebito della separazione?

ai fini della pronuncia di addebito, non è sufficiente la sola violazione dei doveri previsti a carico dei coniugi dall’art. 143 c.c., ma occorre verificare se tale violazione abbia assunto efficacia causale nella determinazione della crisi coniugale ovvero se essa sia intervenuta quando era già maturata una situazione di intollerabilità della convivenza” (Cass. sez. I, 27.01.2014 N. 1596).

Bologna, mio marito mi ha lasciato per un’altra quali diritti? Capita assai di frequente che un coniuge lasci l’altro coniuge per una terza persona.

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Bologna, mio marito mi ha lasciato per un’altra quali diritti? Capita assai di frequente che un coniuge lasci l’altro coniuge per una terza persona.

Se il  suo comportamento sia intervenuto quando era già maturata una situazione di intollerabilità della convivenza, dovuta anche ad episodi di violenza posti in essere dal marito e documentati da certificati medici.

Secondo la Suprema Corte l’addebito ha come presupposto: “è rappresentato dal nesso causale che deve intercorrere tra la violazione dei doveri coniugali e la crisi dell’unione familiare” che va accertato verificando se la relazione extraconiugale sia stata causa dell’intollerabilità della convivenza, oppure, pur rappresentando una violazione particolarmente grave, sia intervenuta “in un menage già compromesso, ovvero, perché, nonostante tutto, la coppia ne abbia superato le conseguenze recuperando un rapporto armonico”.

 

Bologna ,mio marito mi ha lasciato per un’altra quali diritti?

Occorre quindi valutare  come era il rapporto, perché se oramai era deteriorato il tradimento puo’ non essere sufficiente per l’addebito.

 

Originally posted 2018-03-31 10:35:28.

TRUFFA IMMOBILIARE BOLOGNA CONTRATTO ACQUISTO CASA AVVOCATO PENALISTA IMMOBILIARE BOLOGNA CONTRATTO ACQUISTO CASA AVVOCATO PENALISTA

  • Molte persone restano vittima di truffe contrattuali nel momento in cui vendono o comprano casa ,purtroppo la truffa contrattuale non è episodio isolato
  • INGIUSTO PROFITTO: in tema di truffa contrattuale, l’ingiusto profitto, con correlativo danno del soggetto passivo, consiste essenzialmente nel fatto costituito dalla stipulazione del contratto:
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    TRUFFA IMMOBILIARE BOLOGNA CONTRATTO ACQUISTO CASA AVVOCATO PENALISTATRUFFA IMMOBILIARE BOLOGNA CONTRATTO ACQUISTO CASA AVVOCATO PENALISTA

I PRESUPPOSTI GIURIDICI. NOZIONE: si ha truffa contrattuale allorchè l’agente pone in essere artifici e raggiri al momento della conclusione del negozio giuridico, traendo in inganno il soggetto passivo che viene indotto a prestare un consenso che altrimenti non sarebbe stato dato: ex plurimis Cass. 3538/1980 Rv. 148455 – Cass. 47623/2008 Rv. 242296;

ELEMENTO PSICOLOGICO: nella truffa contrattuale l’elemento che imprime al fatto della inadempienza il carattere di reato è costituito dal dolo iniziale, quello cioè che, influendo sulla volontà negoziale di uno dei contraenti (falsandone, quindi, il processo volitivo avendolo determinato alla stipulazione del negozio in virtù dell’errore in lui generato mediante artifici o raggiri) rivela nel contratto la sua intima natura di finalità ingannatoria:

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quale acconto, dapprima un assegno andato a buon fine e poi altri due assegni, la cui provvista, esistente al momento dell’emissione, venga ritirata prima del pagamento: Cass. 532/1981 Rv. 151705;

INGIUSTO PROFITTO: in tema di truffa contrattuale, l’ingiusto profitto, con correlativo danno del soggetto passivo, consiste essenzialmente nel fatto costituito dalla stipulazione del contratto:

di conseguenza, ai fini della sussistenza del suddetto elemento materiale diventa del tutto irrilevante che le prestazioni siano state equilibrate ossia che si sia pagato il giusto corrispettivo della controprestazione effettivamente fornita; Cass. 7193/2006 Rv.

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233633 -Cass. 47623/2008 Rv. 242296;

DANNO PATRIMONIALE: nella truffa contrattuale il danno patrimoniale non è necessario che sia costituito dalla perdita economica di un bene subita dal soggetto passivo, ma può consistere anche nel mancato acquisto di una utilità economica, che lo stesso si riprometteva di conseguire in conformità alle false prospettazioni dell’agente, da cui sia stato tratto in errore: Cass. 3094 /1978 Rv.

141597;

MOMENTO CONSUMATIVO: il delitto di truffa, nella forma cosiddetta contrattuale, si consuma non al momento in cui il soggetto passivo, per effetto degli artifici o raggiri, assume l’obbligazione della dazione di un bene economico, ma al momento in cui si realizza il conseguimento del bene da parte dell’agente con la conseguente perdita dello stesso da parte della persona offesa. In particolare, ove il pagamento del bene deve avvenire, per pattuizione, in più ratei, il reato si consuma con l’ultimo atto di erogazione: S.U. 18/2000, rv 216429; Cass. 31044/2008 Rv. 240659; Cass. 49932/2012 rv.

254110; Cass. 18859/2012 rv. 252821.

1.2. I RAGGIRI NELLA FASE SUCCESSIVA ALLA STIPULA DEL CONTRATTO. Le suddette regole, come si può notare, si riferiscono alle ipotesi in cui i raggiri o gli artifizi vengano posti in essere nella fase precontrattuale al fine di convincere la vittima a stipulare un contratto che, senza quegli artifizi, non avrebbe stipulato.

Gli artifizi e raggiri, però, possono essere posti in essere da uno dei contraenti a danno dell’altro anche in una fase successiva alla stipula del contratto: in tale ipotesi, occorre porsi il problema del se e in che termini sia configurabile il reato di truffa.

Questa Corte ha affermato il principio secondo il quale “in materia di truffa contrattuale il mancato rispetto da parte di uno dei contraenti delle modalità di esecuzione del contratto, rispetto a quelle inizialmente concordate con l’altra parte, con condotte artificiose idonee a generare un danno con correlativo ingiusto profitto, integra l’elemento degli artifici e raggiri richiesti per la sussistenza del reato di cui all’art. 640 cod. pen.”: Cass. 41073/2004 Rv. 230689.

  • Nella suddetta sentenza, questa Corte affermò la sussistenza del reato di truffa nel comportamento di un laboratorio di analisi che nell’eseguire gli esami oggetto della convenzione stipulata con la A.S.L. utilizzava reagenti e calibratori scaduti di validità, in quanto tale condotta concretizzava violazioni di specifiche prescrizioni e, comunque, non garantiva la certa rispondenza dei dati di laboratorio alla esatta rappresentazione di quanto lo specifico procedimento di analisi deve al contrario fedelmente evidenziare.
  • In motivazione, la Corte ebbe cura di precisare quanto segue: “… la dinamica negoziale vive anche della sua esecuzione; sicchè è difficile postulare per essa una sorta di insensibilità a qualsiasi condotta artificiosa che generi danno con correlativo ingiusto profitto, anche nella prospettiva di frustrazione della azioni di risoluzione o annullamento che potrebbero, in ipotesi, altrimenti essere fatte valere – è assorbente il rilievo che tali approdi ermeneutici non possono certo valere nei casi – come nella specie –
  • di contratti di durata di prestazione di servizi in regime di convenzione, rispetto ai quali l’elemento decettivo ben può insorgere con riferimento ad ogni singola prestazione, a fronte della quale insorge l’obbligo di pagamento da parte della azienda conferente il sevizio, senza che occorra presupporre una induzione in errore ex ante, vale a dire sin dalla genesi del rapporto di convenzionamento”.
  • Il principio enunciato nella citata sentenza non costituisce affatto un novum nella giurisprudenza di questa Corte rinvenendosi precedenti specifici ad es. in Cass. 5579/1998 rv. 210613; Cass. 9323/1988 rv.

179203.

Al fine, però, di evitare equivoci è opportuno focalizzare bene la problematica ed il campo di applicazione del suddetto principio.

Il primo problema che occorre porsi è quello di stabilire cosa si debba intendere per “esecuzione del contratto”.

Com’è ben noto, lo stesso codice civile non disciplina in modo sistematico l’esecuzione del contratto dedicando ad essa alcune norme sparse (art. 1328, comma 1 – art. 1444, comma 2 – art. 1360, comma 2 – art. 1373, comma 2 – art. 1458, comma 1 – art. 1467, comma 1) di cui, sicuramente, la più importante, ai fini che qui interessano, è l’art. 1375 a norme del quale “il contratto dev’essere eseguito in buona fede”.

In via generale, può affermarsi che si ha esecuzione del contratto in tutti quei casi in cui l’attività di una o di entrambe le parti è necessaria perchè il contratto esplichi tutti i suoi effetti.

L’importanza di tale momento nella dinamica del contratto (già giuridicamente concluso), diventa evidente laddove si rifletta sul fatto che vi è tutta una tipologia di contratti in cui la prestazione di una delle parti non è contestuale alla conclusione del contratto.

  • 1.2.1. I CONTRATTI AD ESECUZIONE ISTANTANEA. Vi sono, infatti, contratti ad esecuzione istantanea in cui l’esecuzione avviene, per ciascuno dei contraenti, in un’unica operazione: ad es. vendita di un bene con immediato effetto traslativo, con contestuale consegna della merce da parte del venditore e pagamento del prezzo da parte dell’acquirente. In tali ipotesi, il contratto non solo è concluso ma è anche stato eseguito da entrambe le parti. Il che comporta che l’eventuale inadempimento di una delle parti al contratto, sebbene, in ipotesi, mascherata con artifizi e raggiri, non è idoneo a far configurare l’ipotesi della truffa proprio perchè si tratta di artifizi e raggiri che vengono posti in essere in un momento successivo alla stipula del contratto.
  • Ad es. se le parti pattuiscono che il pagamento dev’essere eseguito a mezzo di titoli di credito e, poi, questi non vanno a buon fine, anche se il debitore ponga in essere artifizi e raggiri per cercare di tranquillizzare il venditore sulla propria solvibilità e sul fatto che pagherà, tale comportamento non integra gli estremi della truffa perchè è posto in essere in un momento successivo alla stipula del contratto (ormai definitivamente concluso) e, quindi, è del tutto irrilevante trattandosi di una mera inadempienza contrattuale.
  • In altri termini, in questa tipologia di contratti, il reato di truffa è configurabile solo nel caso in cui gli artifizi e raggiri siano posti in essere nel momento della trattativa essendo finalizzati a trarre in inganno l’altra parte e a convincerla a stipulare un contratto che, senza quella attività decettiva, non avrebbe mai concluso.
  • L’eventuale attività decettiva successiva alla stipula del contratto (concluso senza alcun artifizio o raggiro), va ritenuta irrilevante in quanto serve solo a “nascondere” l’inadempimento.
  • Su quest’ultimo punto, è, però, opportuno precisare quanto segue.
  • Nella pratica, succede, spesso, che l’attività decettiva succitata (artifizi e raggiri successiva alla conclusione del contratto) non si limita solo a “tranquillizzare” il creditore che preme per essere pagato, ma si concretizza anche in ulteriori attività giuridiche come ad es. il ritiro dei titoli di credito non andati a buon fine con altri, o la completa rinegoziazione del pagamento.
  • Ora, è evidente che, tale ulteriore attività giuridica, ove sia indotta dall’agente con artifizi e raggiri, configura il reato di truffa proprio perchè l’agente induce la vittima a compiere un’attività giuridica che non avrebbe compiuto senza quella condotta decettiva.
  • In tali casi, quindi, per questa ulteriore e differente condotta, è ipotizzabile senz’altro il reato di truffa, essendo del tutto irrilevante, ai fini penalistici, la controversa problematica civilistica se, in quell’attività, sia o meno ravvisabile un contratto novativo oggettivo.
  • 1.2.2. CONTRATTI AD ESECUZIONE DIFFERITA O CONTINUATA. A conclusione differente deve pervenirsi per quei contratti la cui esecuzione non si esaurisce con la stipula del contratto e cioè:
  1. a) contratti istantanei ad esecuzione differita: si tratta di contratti in cui una delle prestazioni è differita ad un momento successivo alla conclusione del contratto: ad es. vendita (con effetto traslativo immediato) in cui il pagamento del prezzo è frazionato in più rate;
  2. b) contratti di durata in cui le prestazioni stabilite nel contratto non si esauriscono in un’unica operazione: ad es., la locazione, è un contratto ad esecuzione continuata perchè, da una parte, l’obbligo della locazione grava sul locatore per tutta la durata del contratto, e, dall’altra, il conduttore, con cadenza periodica, è tenuto a pagare il canone locatizio; stessa cosa, dicasi, ad es., per il contratto di somministrazione;
  3. c) contratti in pendenza di condizione (sospensiva o risolutiva) in cui è la stessa legge (art. 1358 cod. civ.) che prescrive a colui che si è obbligato o ha alienato un diritto sotto condizione sospensiva, ovvero ha acquistato sotto condizione risolutiva, che, in pendenza della condizione, deve comportarsi secondo buona fede per conservare integre le ragioni dell’altra parte.
  • In tutti questa diversa tipologia di contratti, a differenza di quelli ad esecuzione istantanea, il reato di truffa, invece, è ipotizzabile anche in tutti i casi in cui l’attività decettiva sia posta in essere anche dopo la stipula del contratto, perchè l’agente, ponendo in essere artifizi e raggiri, non tende a “nascondere” solo il proprio inadempimento, ma, al contrario, tende ad ottenere dall’altra parte contrattuale, prestazioni che questa non avrebbe effettuato se non fosse rimasta vittima di quell’attività fraudolenta.

In altri termini, in queste particolari fattispecie, la truffa è ipotizzabile proprio perchè, sebbene il contratto sia stato giuridicamente concluso, tuttavia le prestazioni da esso derivanti, non si sono esaurite al momento della conclusione del contratto, restando ancora da eseguire; ben si comprende, quindi, il motivo per cui, anche durante la fase dell’esecuzione, è ipotizzabile un’attività decettiva per effetto della quale la vittima effettua prestazioni che, senza quell’attività, era legittimata a non eseguire con conseguente proprio danno e correlativo ingiusto profitto dell’agente relativamente a quella singola prestazione.

Ad es. proprio sulla base di tali principi, è stata ritenuta configurabile una truffa contrattuale – relativamente ad un contratto di locazione – in una fattispecie in cui l’imputato, locatario di un alloggio dell’Istituto Autonomo per le Case Popolari, aveva omesso di comunicare al detto Istituto di essersi procurato l’abitazione altrove e che l’immobile veniva utilizzato da un parente. Questa Corte, infatti, ritenne correttamente configurato il reato di truffa, precisando altresì, che il reato in esame è configurabile, non soltanto nella fase di conclusione del contratto, ma anche in quella della esecuzione allorquando una delle parti, nel contesto di un rapporto lecito, induca in errore l’altra parte con artifizi e raggiri, conseguendo un ingiusto profitto con altrui danno: Cass. 5579/1998, riv 210613.

Ed ancora, la costante giurisprudenza che ritiene che, ove il pagamento del bene deve avvenire, per pattuizione, in più ratei, il reato si consuma con l’ultimo atto di erogazione (S.U. 18/2000, rv 216429; Cass. 31044/2008 Rv. 240659; Cass. 49932/2012 rv. 254110;

Cass. 18859/2012 rv. 252821) si giustifica proprio sulla base della peculiare struttura dei contratti ad esecuzione differita o continuata.

Stessa situazione, infine, è ipotizzabile, anche nel caso di contratto in pendenza di condizione, quando, ad es. la parte interessata, pone in essere, nei confronti dall’altra parte, artifizi e raggiri finalizzati a far apparire verificata la condizione.

1.3. Alla stregua di quanto testè illustrato, la nozione della truffa contrattuale può essere, quindi, precisata nei seguenti termini: “nei contratti ad esecuzione istantanea si ha truffa contrattuale allorchè l’agente ponga in essere artifici e raggiri al momento della conclusione del negozio giuridico, traendo in inganno il soggetto passivo che viene indotto a prestare un consenso che altrimenti non sarebbe stato dato. Di conseguenza, ove tale tipologia di contratti sia stipulata senza alcun artifizio o raggiro, l’eventuale successiva attività decettiva finalizzata a nascondere l’inadempienza costituisce solo illecito civile.

Al contrario, nei contratti sottoposti a condizione o in cui l’esecuzione sia differita, o non si esaurisca in un’unica prestazione, è configurabile il reato di truffa anche nei casi in cui l’attività decettiva sia posta in essere durante la fase di esecuzione del contratto al fine di conseguire una prestazione altrimenti non dovuta o al fine di far apparire verificata la condizione”.

 

Originally posted 2018-01-31 18:09:22.

RISARCIMENTO DEL DANNO – Morte di congiunti (parenti della vittima) – Perdita del rapporto parentale 

Cass. civ., Sez. III, Sentenza, 21/04/2021, n. 10579 (rv. 661075-01)

RISARCIMENTO DEL DANNO - Morte di congiunti (parenti della vittima) - Perdita del rapporto parentale 

RISARCIMENTO DEL DANNO – Morte di congiunti (parenti della vittima) – Perdita del rapporto parentale

RISARCIMENTO DEL DANNO – Morte di congiunti (parenti della vittima) – Perdita del rapporto parentale – Criteri di liquidazione equitativa – Tabelle basate sul sistema a punti variabili – Necessità – Deroga per l’eccezionalità del caso – Ammissibilità – Condizioni – Fattispecie – RISARCIMENTO DEL DANNO – Valutazione e liquidazione – Criteri equitativi – In genere

In tema di liquidazione equitativa del danno non patrimoniale, al fine di garantire non solo un’adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l’uniformità di giudizio in casi analoghi, il danno da perdita del rapporto parentale deve essere liquidato seguendo una tabella basata sul “sistema a punti”, che preveda, oltre all’adozione del criterio a punto, l’estrazione del valore medio del punto dai precedenti, la modularità e l’elencazione delle circostanze di fatto rilevanti, tra le quali, indefettibilmente, l’età della vittima, l’età del superstite, il grado di parentela e la convivenza, nonché l’indicazione dei relativi punteggi, con la possibilità di applicare sull’importo finale dei correttivi in ragione della particolarità della situazione, salvo che l’eccezionalità del caso non imponga, fornendone adeguata motivazione, una liquidazione del danno senza fare ricorso a tale tabella. (Nella fattispecie, la S.C. ha cassato la decisione del giudice d’appello che, per liquidare il danno da perdita del rapporto parentale patito dal fratello e dal coniuge della vittima, aveva fatto applicazione delle tabelle milanesi, non fondate sulla tecnica del punto, bensì sull’individuazione di un importo minimo e di un “tetto” massimo, con un intervallo molto ampio tra l’uno e l’altro). (Cassa con rinvio, CORTE D’APPELLO CATANIA, 20/03/2018)

RISARCIMENTO DEL DANNO - Morte di congiunti (parenti della vittima) - Perdita del rapporto parentale 

RISARCIMENTO DEL DANNO – Morte di congiunti (parenti della vittima) – Perdita del rapporto parentale

Cass. civ., Sez. III, Ordinanza, 25/06/2021, n. 18285 (rv. 661704-01)

IMPUGNAZIONI CIVILI – Cassazione (ricorso per) – Motivi del ricorso – Vizi di motivazione – Prova testimoniale – Mancata ammissione – Vizio della sentenza – Configurabilità – Condizioni – Fattispecie in tema di personalizzazione del danno da perdita del rapporto parentale – PROVA CIVILE – Poteri (o obblighi) del giudice – Ammissione della prova – In genere – In genere

La mancata ammissione di un mezzo istruttorio (nella specie, prova testimoniale) si traduce in un vizio della sentenza se il giudice pone a fondamento della propria decisione l’inosservanza dell’onere probatorio ex art. 2697 c.c., benché la parte abbia offerto di adempierlo. (Nella fattispecie, la S.C. ha cassato la decisione di merito che aveva respinto la domanda di personalizzazione del danno non patrimoniale subito dalla madre della neonata deceduta, sebbene la parte avesse formulato capitoli di prova – poi non ammessi – volti a dimostrare le sofferenze patite in conseguenza del lutto). (Cassa con rinvio, CORTE D’APPELLO TRIESTE, 28/06/2018)

RISARCIMENTO DEL DANNO – Morte di congiunti (parenti della vittima) – Perdita del rapporto parentale 

 

In caso di morte causata da un illecito, il danno morale terminale deve essere tenuto distinto da quello biologico terminale, in quanto il primo (danno da lucida agonia o danno catastrofale o catastrofico) consiste nel pregiudizio subito dalla vittima in ragione della sofferenza provata nel consapevolmente avvertire l’ineluttabile approssimarsi della propria fine ed è risarcibile a prescindere dall’apprezzabilità dell’intervallo di tempo intercorso tra le lesioni e il decesso, rilevando soltanto l’integrità della sofferenza medesima; mentre il secondo, quale pregiudizio alla salute che, anche se temporaneo, è massimo nella sua entità e intensità, sussiste, per il tempo della permanenza in vita, a prescindere dalla percezione cosciente della gravissima lesione dell’integrità personale della vittima nella fase terminale della stessa, ma richiede, ai fini della risarcibilità, che tra le lesioni colpose e la morte intercorra un apprezzabile lasso di tempo. Cass. civ., Sez. III, 18/03/2021, n. 7770

Nella liquidazione equitativa del danno da perdita del rapporto parentale, diversamente da quanto statuito per il pregiudizio arrecato all’integrità psico-fisica, le tabelle predisposte dal Tribunale di Milano non costituiscono concretizzazione paritaria dell’equità su tutto il territorio nazionale; tuttavia, qualora il giudice scelga di applicare i predetti parametri tabellari, la personalizzazione del risarcimento non può discostarsi dalla misura minima ivi prevista, senza dar conto nella motivazione di una specifica situazione, diversa da quelle già considerate come fattori determinanti la divergenza tra il minimo e il massimo, che giustifichi la decurtazione.

In materia di responsabilità per attività medico-chirurgica, l’accertamento del nesso causale in caso di diagnosi tardiva – da compiersi secondo la regola del “più probabile che non” ovvero della “evidenza del probabile”, come pure delineata dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella sentenza del 21 giugno 2017 in causa C-621/15 in tema di responsabilità da prodotto difettoso, in coerenza con il principio eurounitario della effettività della tutela giurisdizionale – si sostanzia nella verifica dell’eziologia dell’omissione, per cui occorre stabilire se il comportamento doveroso che l’agente avrebbe dovuto tenere sarebbe stato in grado di impedire o meno, l’evento lesivo, tenuto conto di tutte le risultanze del caso concreto nella loro irripetibile singolarità, giudizio da ancorarsi non esclusivamente alla determinazione quantitativo-statistica delle frequenze di classe di eventi (cd. probabilità quantitativa), ma anche all’ambito degli elementi di conferma disponibili nel caso concreto (cd. probabilità logica). (Nella specie, la S.C. ha ritenuto immune da vizi la decisione di merito che, facendo corretta applicazione dell’enunciato principio, aveva fondato la responsabilità di una struttura sanitaria, per colpa dei medici ivi operanti, in relazione al decesso di una paziente derivato dal ritardo di un solo giorno con cui le era stata diagnosticata la cd. “sindrome di Lyell”, non soltanto sul dato statistico delle percentuali di sopravvivenza dei pazienti affetti da detta sindrome, oltre che sul giudizio controfattuale a fronte di una condotta omissiva, ma anche sulla scorta degli elementi concreti risultanti dalle espletate c.t.u. e dalle prove acquisite riguardo alla superficialità dell’anamnesi effettuata sin dal ricovero, da cui era derivata l’errata diagnosi e le conseguenti dimissioni della paziente, nonostante l’elevata temperatura corporea, per di più, previa somministrazione di un farmaco tale da abbatterne del 70% le probabilità di sopravvivenza). (Rigetta, CORTE D’APPELLO CAGLIARI, 07/02/2018)

 

 

 

Cass. civ., Sez. III, Ordinanza, 05/05/2021, n. 11719

In caso di morte causata da un illecito, il danno morale terminale deve essere tenuto distinto da quello biologico terminale, in quanto il primo (danno da lucida agonia o danno catastrofale o catastrofico) consiste nel pregiudizio subito dalla vittima in ragione della sofferenza provata nel consapevolmente avvertire l’ineluttabile approssimarsi della propria fine ed è risarcibile a prescindere dall’apprezzabilità dell’intervallo di tempo intercorso tra le lesioni e il decesso, rilevando soltanto l’integrità della sofferenza medesima; mentre il secondo, quale pregiudizio alla salute che, anche se temporaneo, è massimo nella sua entità e intensità, sussiste, per il tempo della permanenza in vita, a prescindere dalla percezione cosciente della gravissima lesione dell’integrità personale della vittima nella fase terminale della stessa, ma richiede, ai fini della risarcibilità, che tra le lesioni colpose e la morte intercorra un apprezzabile lasso di tempo.

 

 

Causalita’ (nesso di) responsabilità del medico di guardia – Condotta inadempiente 

Cass. civ., Sez. III, Sentenza, 07/07/2021, n. 19372 (rv. 661838-01)

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RESPONSABILITA’ CIVILE – Causalita’ (nesso di) responsabilità del medico di guardia – Condotta inadempiente – Modalità – Fattispecie – RESPONSABILITA’ CIVILE – Professionisti – Attivita’ medico-chirurgica – In genere

ll medico di guardia è responsabile per la morte del paziente visitato e dimesso, con apposita prescrizione farmacologica, se sia configurabile il suo inadempimento nella forma di una condotta omissiva o di una diagnosi errata o di una misura di cautela non presa, ove l’evento di danno si ricolleghi deterministicamente, o in termini di probabilità, alla condotta del sanitario. (Nella specie la S.C., ha confermato la sentenza impugnata, che aveva ritenuto sussistente la responsabilità del sanitario operante in guardia medica per non aver avviato il paziente, in seguito deceduto per disseccazione aortica, presso qualsiasi struttura sanitaria in grado di effettuare i necessari approfondimenti clinico-strumentale a fronte di una sintomatologia dolorosa toracica persistente). (Rigetta, CORTE D’APPELLO CALTANISSETTA, 20/03/2019)

Cass. civ., Sez. III, Ordinanza, 25/06/2021, n. 18284

In tema di danno da perdita del rapporto parentale, lo stato di invalidità pregresso del danneggiato non può rilevare ove si tratti di danni risarcibili iure proprio ai congiunti, potendo condurre ad una riduzione del quantum dei pregiudizi risarcibili iure successionis, sempre che il danneggiante fornisca la prova che la conseguenza dannosa dell’evento (nella specie, la morte) sia stata cagionata anche dal pregresso stato di invalidità, sicché ove il danneggiato già in condizioni invalidanti di per sé idonee a condurlo alla morte deceda in conseguenza di eventuali condotte (commissive od omissive) di terzi, la risarcibilità iure proprio del danno (patrimoniale e) non patrimoniale riconosciuto ai congiunti può subire un ridimensionamento solamente in ragione della diversa considerazione del verosimile arco temporale in cui i congiunti avrebbero potuto ancora godere (sia sul piano affettivo che economico) del rapporto con il soggetto anzitempo deceduto.

 

 

Originally posted 2021-11-07 17:56:25.

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